NOI Magazine - Febbraio 2013

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TERRITORIO

Vent’anni fa la fine di Zu’Totò. A Borgomanero. 15 Gennaio 1993: dopo oltre due decenni di latitanza, a Palermo, viene arrestato Totò Riina, il capo dei capi della mafia, la primula rossa, il numero uno di Cosa Nostra. Si è detto, scritto e trasmesso tantissimo sull’argomento, soprattutto sulla mattanza che il clan dei Corleonesi, giunto al vertice della cupola mafiosa, mise in atto durante la sua feroce e folle guerra allo Stato. Di tutto questo, oramai, sappiamo che Salvatore Riina ne fu l’artefice e il boss indiscusso. Ma ancora oggi, dietro il clamore che accompagnò la sua cattura ad opera del “Capitano Ultimo”, si cela un grave alone di mistero: fu tradito? Si fece catturare? Perché il covo palermitano della Belva (così fu denominata l’operazione dei carabinieri) non venne perquisito dagli inquirenti, ma ripulito e sigillato dai suoi amici corleonesi, capeggiati da Bernardo Provenzano? Domande che attendono ancora una risposta, così come il grave ed inquietante interrogativo sulla trattativa che intercorse tra lo Stato e la mafia, di cui (forse) proprio la cattura di Riina 18

rappresentava una delle merci di scambio. Quel che è certo è che l’imput che portò all’arresto del boss dei boss, partì molto lontano dalla Sicilia, proprio dalla provincia di Novara, da Borgomanero. Era il 2 Gennaio 1993, quando uomini della Digos che controllavano una delle palazzine a ridosso di Viale Marazza, fermarono un giovane siciliano, all’anagrafe Baldassarre Di Maggio, detto Balduccio, per detenzione abusiva di una pistola. Una tipologia di reato all’apparenza non particolarmente grave, nonostante la perquisizione dell’appartamento avesse portato al rinvenimento di numerose munizioni e di un grande quantitativo di denaro. Ma nulla lasciava presagire ciò che si sarebbe scoperto da lì a poco: Balduccio non era un ladro o un furfantello qualunque, bensì l’efferato autore di una ventina di omicidi, appartenente alla famiglia di San Giuseppe Jato, un soldato di Totò Riina, il suo ex autista. Di Maggio, fuggito dalla Sicilia in Canada, al rientro in Italia, riparò a

Borgomanero, in attesa di espatriare di nuovo. Era spaventato Balduccio, sentiva puzza di bruciato intorno a lui, aveva capito che l’avrebbero fatto fuori, che si trovava nell’elenco di ex uomini d’onore da eliminare. Fu probabilmente questa paura, in seguito all’arresto, a spingerlo come si suol dire in gergo “a cantare”. Poiché nessuno, all’inizio, sospettò la sua vera identità, venne trattato come un delinquente comune e rinchiuso nel carcere di Novara insieme ad altri detenuti. Il suo nome però non sfuggì all’attenzione del comandante della Legione dei Carabinieri del Piemonte, il generale Francesco Delfino, che aveva precedentemente guidato un’operazione di ricerca di Riina in una villa in località della Ginestra, nei pressi di San Giuseppe Jato, vicino a Palermo. Quella villa apparteneva proprio a Baldassare Di Maggio, e fu così che questo nome significò qualcosa alla mente del generale: che ci faceva Balduccio a Borgomanero? Perché si trovava così lontano dalla SiciNOI - FEBBRAIO 2013


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