Mostra fotografica Cronaca

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CRONACA

CATERINA ORZI


Cronaca In questo 25 novembre 2011 la Provincia di Parma sostiene un’artista donna che racconta, attraverso le sue fotografie, il corpo martoriato e offeso delle donne. E’ un inno alla dignità questa “Cronaca” di Caterina Orzi: l’obiettivo fotografico s’insinua nelle pieghe di corpi femminili e coglie un solo particolare disperante e disperato. Eppure le immagini della Orzi inducono l’occhio che guarda a concentrarsi, ad andare oltre il particolare per allargare lo spettro visivo su tante donne violate, offese, annientate. Nelle molte iniziative che la Provincia di Parma realizza per focalizzare l’attenzione su un tema doloroso, molto spesso sottaciuto, come quello della violenza contro le donne, “Cronaca” spicca per la sua intensità: l’occhio di una donna artista fissa nei fotogrammi attimi di vita, momenti di tensione. Questi flash di grande impatto emotivo (il titolo “Cronaca” richiama alla mente i tanti episodi di violenza contro le donne che hanno interessato e interessano il nostro territorio) suscitano anche pensieri di speranza: per la liberazione della vittima dal carnefice, per nuovi percorsi e progetti di vita, per una rinnovata autostima e autonomia di pensiero. Sono tante le donne che accettano relazioni di coppia violente e distruttive, sono tante le donne che dicono basta. Un inno alla speranza per tutte. Marcella Saccani Assessore alle Pari opportunità Mostra a cura di Stefania Provinciali Con il sostegno dalla Provincia di Parma e con il patrocinio dalla Regione Emilia-Romagna Si ringrazia la signora Franca Rame per aver gentilmente concesso la testimonianza da lei raccolta, scritta e rappresentata in numerose occassioni: “Maria” anni 58 stuprata alle due del mattino sul ciglio della strada da un giovane, cosiddetto “perbene, di buona famiglia” Si ringrazia il Centro Antiviolenza di Parma per la preziosa collaborazione Testi di: Paolo Barbaro (critico) - Silvano Agosti (regista) - Pier Luigi Luisi (prof. di Biochimica a Roma 3) Franco Piavoli (regista) - Stefania Provinciali (critico d’arte) - Franca Rame (attirce e autrice) Maria Francesca Albertini (avvocato) - Gaia Ferretti (studentessa universitaria) Laura Antonini (conduttrice radio Deejey) - Caterina Orzi (artista) © Caterina Orzi Stampato nel mese di novembre da Tecnografica srl - Parma

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Siamo in un interno, in una camera. Vediamo nelle fotografie di Caterina Orzi la pelle di un corpo femminile: di femminilità non urlata ma solo suggerita e per questo più intensa. Sono immagini di pelle al quadrato: superficie sensibile, confine tra la luce riflessa e il buio, tra il visibile e l’ invisibile, tra l’ interno e l’ esterno del sentire e della materia di cui sono fatti i corpi e i desideri. Non saprei come chiamarle, forse autofotografie poiché non è in gioco l’autoscatto (termine evocativo di narcisismi, esibizioni solitarie magari col rettangolo nero sugli occhi, mi pare fosse anche il nome di una rubrica…) in cui ci si mette in posa e a distanza dall’ apparecchio esecutore, qui l’ autrice tiene sempre in mano la camera: alla sensazione tattile che questi minimi allestimenti suggeriscono va connesso, contemporaneamente, il contatto con la camera, forse una declinazione di sex appeal dell’ inorganico (da Bourroughs, via Benjamin) sempre presente, sempre vero in questo gioco di finzioni. Le minime storie allestite ragionano sulla violenza, ma non vediamo alcuna violenza, semmai vi è crudeltà di quella che resta quando la violenza, l’ atto impositivo, la forzatura nel suo (continuamente negoziato) confine con la seduzione, è ormai fuori scena. Non vediamo la distruzione ma l’ infrazione del limite, il perturbante sconfinare dell’ interno del corpo all’ esterno, un po’ illusionistico e un po’ metaforico: il sangue, il vino… Ovviamente le figure vanno ricondotte a una storia, e soccorre una sequenza che si radica nella fotografia dei surrealisti come letta da Rosalind Krauss (Man Ray delle Quattro Stagioni, la Settimana di bontà di Ernst..) fino ad Araki. Poche donne, però. Mi viene in mente la fotografa romana di evidente ispirazione surrealista Elisabetta Catamo, in immagini che ormai hanno più di trent’anni. L’ esplorazione del corpo femminile che si fa corpo a corpo aggressivo fa venire in mente la celebre sequenza di Blow Up, e il fotografo sopra alla bellissima Verushka è assolutamente maschio, e chissà quanti protofotografi hanno pensato di dedicarsi alla foto di moda ripensando a quella sequenza. Tutti maschi, ci scommetto. Poi l’ autrice mi legge alcune sue riflessioni sulla violenza alle donne, sulla necessità di uno specchio (la fotografia?) per vedersi e ritrovare bellezza, liberarsi dal senso di inevitabilità dell’ essere vittime ( e qualcuno, da qualche altra parte, forse si libera dal doppio vincolo del dover difendere qualcuno dalla propria libertà e responsabilità, di ferire per proteggere…) e penso ad altre immagini: Florence Henri, Francesca Woodman, ma anche Lee Friedlander, Giulio Paolini. Certo, i generi, le foto, sono differenti. Ma le donne fotograferanno meglio le faccende intime dei maschi? I corpi femminili li fotografano meglio i maschi o le femmine? Forse in modo diverso. E che differenza c’è tra far le foto dello svettante e poderoso Empire State Building di Margarethe Bourke White e le solide verticalità del Seagram Building ripreso da Ezra Stoller? E Rodchenko, con le sue imponenti ciminiere trasudanti muscoloso leninismo, da che parte sta? Domande oziose? Certo, non c’entrano nulla anche perché, alla fine (e si vede, credo) Caterina Orzi non è più fotografa che pittrice. E comunque, in tempi privi di certezze quanto pieni di presuntuose supponenze, fare e farsi domande è quello che ci resta, è comunque necessario soprattutto se non si sanno già le risposte.

Paolo Barbaro

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Primi passi nel mistero Da quando ho incontrato Caterina Orzi circa trent’anni fa la sua pittura si è occupata dell’interiorità femminile. Ha tentato di sfidare questa selva di immagini della donna che i pubblicitari portano avanti con malinconica e a volte quasi pornografica insistenza. Le sue immagini tentano un’impresa assolutamente originale in quest’epoca sempre più lontana dal mistero della creatività: esprimere visualmente i sentimenti e le emozioni “fondendo” letteralmente la realtà del corpo femminile quasi fosse un acciaio impossibile da liquefare. E invece Caterina ci riesce a trasfigurare la fisicità, anche in queste immagini non direttamente pittoriche ma fotografiche. Per questa impresa impossibile chiede aiuto alla natura e così un soffione capovolto raggiunge con appassionante eleganza l’equivalenza di una forte sensualità. Una foglia in trasparenza si trasfigura in una vagina parallela alla “linea della passione”. Un papavero capovolto è la farfalla sanguigna del desiderio che sfiora volando una nudità ormai sfocata dall’attesa. Una violetta primaverile o anche una sua foglia creano sul nudo un immenso paesaggio spaziale, come navicelle satellitari intente a esplorare il Pianeta Donna. Pochi chicchi d’uva evocano sfioramenti sublimi della sensualità maschile sulle morbide nudità femminili. Insomma un estremo coraggio creativo si sposa così con una sfida al moralismo e alla riservatezza ipocrita delle culture ufficiali, tendenti a soffocare invece che difendere il pudore femminile. Insomma cara Caterina, se Picasso spesso è riuscito a esprimere le proprie emozioni frantumando la veste figurativa del corpo umano in schegge impazzite racchiuse in discordanti geometrie, tu hai forse già nel tuo cuore di donna e di pittrice la chiave per schiudere il mistero dei sentimenti e delle emozioni dando loro visibilità. Lo conferma l’immagine di copertina del tuo catalogo nella quale la vanità del tacco di una scarpa femminile entra come una lama tagliente nel tuo ventre offendendo la dimensione di infinito tanto temuta dagli uomini, che ogni corpo femminile da sempre ospita. Silvano Agosti Ecco che la violenza del sottofondo si coniuga con la delicatezza e la profonda sensibilità dell’occhio dell’artista - che tocca e fotografa dandoti una energia sconcertante e terribilmente veritiera. Pier Luigi Luisi Anch’io una volta sono stato violento, ho voluto imporre la mia volontà con la forza. Poi mi sono pentito e ho capito che la violenza è un istinto primordiale, più radicato nel maschio. Ma ho capito anche che si può controllare e persino educare. Ho capito che la tenerezza può conquistare più della violenza. L’amore vince ogni cosa. ‘Omnia vincit Amor’ (Virgilio, Bucoliche, ecloga X, verso 69) Franco Piavoli 6


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Violenza d’amore Irina guardava Marcello mentre si vestiva. Lo guardava infilarsi la maglia di cotone e poi la camicia, aggiustarsi la cravatta con un nodo perfetto, abbottonarsi la giacca, secondo un rituale che non si stancava mai di osservare. Raggomitolata tra le lenzuola con la testa appoggiata al cuscino Irina cercava di gustare il più a lungo possibile quel momento. “È tardi, devo andare” disse Marcello comparendo sulla porta “in cantiere mi aspettano” Prese la borsa e il casco giallo. “Ti lascio le chiavi. Quando esci chiudi e mettile al solito posto. Ti chiamo stasera”. Marcello uscì e Irina si raggomitolò ancor più tra le lenzuola, chiuse gli occhi e pensò che le sarebbe piaciuto dormire. Ma così, in quel letto che non era il suo, da sola, non ci riusciva. Aprì gli occhi verdi, come quelli di un gatto, contornati da lunghe ciglia nere. Guardò il raggio di sole che filtrava dalle persiane socchiuse. Era primavera inoltrata e la città aveva nuovi colori. A Irina sembrava che tutto risplendesse di più. Ripensò ai palazzi grigi, alle vetrine dei negozi, alle persone che aveva incontrato, alle fermate della metropolitana: tutto le sembrava aver acquistato un altro colore. Ripensò a queste sensazioni che già altre volte in altre primavere aveva assaporato e decise di alzarsi. I lunghi capelli neri le scivolarono sulle spalle mentre scendeva dal letto e la sua immagine si rifletteva nello specchio di fronte a lei. Irina si guardò e come sempre pensò che non era bella ma aveva qualcosa che attirava gli uomini. Si rivestì pian piano e andò in cucina, prese i biscotti che Marcello le aveva lasciato e sempre assorta nei suoi pensieri cominciò a sgranocchiarli. Provava le solite sensazioni contrastanti. Avrebbe voluto restare in quella casa ma non da sola. Tutto le ricordava Marcello e questo le faceva provare una strana sensazione di solitudine, di abbandono perché lui se n’era andato e chissà quando lo avrebbe rivisto. Ancora pochi giorni e Marcello si sarebbe spostato in un altro cantiere, un altro appartamento ed un’altra città o forse questa volta un paese dove era più difficile perdersi tra la folla. Durante il fine settimana Marcello tornava a casa, fra le sue colline, dove viveva con i genitori e la moglie Angelica, in una grande villa col giardino. Qui si consumavano i rituali di una famiglia di grande tradizione. Irina si scosse dai suoi pensieri perché il pendolo di cucina le ricordò che era ora di andare. Di scendere alla metropolitana per essere a casa giusto all’ora d’uscita dall’ufficio. Quel giorno l’antiquario per il quale lavorava se n’era andato per fare nuovi acquisti e Irina ne aveva approfittato per chiedergli un giorno di permesso. Ma a casa, sua sorella e suo cognato, credendola al lavoro, si erano occupati della mamma che non poteva restare sola. Irina guardò se tutto era in ordine, prese le chiavi ed uscì. Come la porta si chiuse alle sue spalle provò una strana sensazione. Il sole entrava dalla finestra del ballatoio e il profumo della primavera inoltrata si faceva sentire più forte che mai. Irina sentiva qualcosa dentro che la faceva profondamente soffrire. Ma il sole di primavera la raggiunse col suo calore. Irina sorrise e strinse nella mano le chiavi di casa di Marcello provando una indescrivibile voglia di libertà, di vivere la primavera in altro modo. Istintivamente gettò le chiavi nella bocchetta dell’acqua che si trovava nel mezzo del cortile che stava attraversando per raggiungere l’uscita del condominio e se ne andò. Non si voltò mai indietro fino a quando non raggiunse la metropolitana. Non era felice ma

qualcosa era cambiato. Il suo gesto istintivo l’aveva turbata. Non sapeva ancora come sarebbe stata il giorno dopo ma certamente sarebbe stata diversa. Quella sera, quando il telefono squillò Irina non rispose. Stefania Provinciali 8


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Di Franca Rame Fin da piccola la mia passione è sempre stata ballare… Mi piace tanto il liscio. Sono separata da mio marito e vivo sola … adesso però mia figlia sta con me e mi aiuta a pagare le spese. Quel sabato lì… sono andata come quasi tutti i sabati a ballare in un locale in piazzale Loreto. Di solito mi accompagna mia figlia, poi lì incontro le amiche. È un posto che frequentiamo da tanto tempo… ci conosciamo quasi tutti. Per tornare a casa, se non trovo un passaggio tra le mie conoscenti, prendo un taxi che mi lascia sotto casa. Quella sera lì, decido di rientrare. Ero già all’ascensore: “Mamma mia che fame che ho! Quasi, quasi vado a farmi fare delle patate fritte … non ho sonno, poi mia figlia rientra tardi.” Nella mia via a duecento metri c’è un pub. Anche se erano le due non avevo paura. “Cosa mi può capitare alla mia età.” Entro, vedo che è pienissimo di ragazze e ragazzi, saluto i camerieri che conosco: spesso ci vado con le mie amiche. Mi dirigo verso la cucina, a destra. Una ragazza mi saluta: “Oh signora, come va?… È andata a ballare anche ‘sta sera?” “Eh sì, però senti, ho una voglia matta di patatine! C’è tanto da aspettare? Come sono pronte le vado a mangiare a casa, qui c’è un sacco di fumo”. Mentre parlo con la ragazza vedo un tipo giovane seduto su uno sgabello, appoggiato al banco che parla con alcuni camerieri e ride. Ho notato che mi guardava con insistenza. Mi sono detta: “Ma guarda che insolente che è ‘sto ragazzo!” Io però non ci ho dato retta … e mi sono seduta. Quello continuava a fissarmi. “Che scemo…” sono rimasta ad aspettare le mie patatine più di dieci minuti, quasi un quarto d’ora… mi ero un po’ agitata, infatti ho chiesto alla cameriera, andandole dietro: “Ma sono pronte ‘ste patatine?” “Tra poco”. Mi sono seduta di nuovo, ho preparato le 5.000 lire e le ho poste sul tavolo ed ho pensato: “Così faccio prima!” Mentre aspettavo queste benedette patate il ragazzo mi fa segno di uscire. Mi sono meravigliata… “Ma cosa vuole da me”, mi chiedo. Esce. Ho preso le patatine, ho salutato: “Buona sera” - “Buona sera”. Vado. Anche fuori, all’esterno del pub, c’era un sacco di gente, di ragazzi… e ho visto lui, girato sulla destra con un cellulare e parlava. “Non mi ha visto”, mi son detta. Ero un po’ preoccupata, agitata. Ho preso le chiavi dalla borsetta e me le sono messe in tasca: “Così faccio prima”. Ho preso gli scalini – come scorciatoia – e ho accelerato il passo. Nella mia via, che è soli duecento metri dal pub, devo guardare a destra e a sinistra se arrivano macchine, prima di attraversare. Mi sono voltata anche indietro. Ho notato, con un gran respiro di sollievo, che ero sola. Nessuno mi seguiva. Come arrivo all’angolo, dove c’è una concessionaria di automobili, un cane abbaia… lo conosco questo cane, abbaia sempre quando passa qualcuno. Come giro l’angolo, sento uno alle spalle… vicinissimo. Il cuore mi si ferma. Mi giro: è lui. “Cosa 10


vuoi? Perché mi vieni dietro?” Non mi ha risposto, mi ha preso per la gola e mi ha tirata sulla siepe. Io dicevo: “No! Lasciami!” Lui non parlava e ha cominciato a farmene di tutti i colori… picchiandomi, un pugno qua, uno là. Me ne ha fatte di tutte: davanti, di dietro… per mezz’ora buona. Ad un certo punto è arrivata una macchina. Ha fatto i fari e ha sentito che gridavo aiuto. Oltretutto il cane era come impazzito, ma nessuno ha aperto una finestra. La macchina fa manovra e se ne va… e lui andava avanti, bello tranquillo come fosse a casa sua, riempiendomi di pugni, in faccia, in testa, dappertutto… lividi ovunque… mi sbatteva contro la siepe, su e giù. Poi si è arrabbiato perché non riusciva nei suoi scopi… mi ha strappato il cappotto, la giacca, la gonna… mi ha rotto tutto, proprio con rabbia perché non riusciva a fare i comodi suoi. Ho pensato: “Per me è la fine!”. Ero convinta di morire e gli ho persino detto: “Dai ti prego, fai il bravo, farò tutto quello che vuoi. Basta che non mi ammazzi.”

E lui mi diceva: “Zitta! Zitta!”. E intanto mi picchiava. Io lì praticamente nuda sulla siepe e lui: “Forza, dài! Fammelo diventare duro!” Io ad un certo punto gli ho detto: “Ma tu ce l’hai una mamma?” Quando gli ho detto “mamma”, mi ha dato un pugno secco in faccia … mi ha spaccato lo zigomo… mi sono sentita svenire. In quel mentre, arriva un furgone e allora io ho pensato “Adesso mi violentano anche loro!” Lui non si è neanche girato: continuava tranquillissimo come se fosse a casa sua. Dal furgone sono scesi due ragazzi. “Ragazzi aiutatemi! Aiutatemi - avevo lui sopra – Mi sta violentando!” Loro hanno guardato proprio bene la scena, poi si sono tirati giù la cerniera e sono andati a fare pipì… tutti e due a un passo da noi. Lui si è rigirato… li ha guardati bene… poi si è alzato con comodo, si è preso la mia borsetta con quei pochi soldi che avevo e se n’è andato. M’ha pure scippata quel bastardo! 11


Sono rimasta lì, massacrata di botte che non riuscivo neanche ad alzarmi, mi trascinavo gattoni… Prendo le chiavi dal cappotto. A questo punto ho chiesto nuovamente aiuto ai ragazzi. “Ma vaffanculo, troia!”. Sono saliti sul furgone, hanno messo della musica a tutto volume… e se ne sono andati. Rintracciati dai Carabineri diranno: “Credevamo fosse un albanese”. Mi sono fatta forza, mi sono tirata su…cadevo. Mi ritiravo su e cadevo … ho raccolto una scarpa qua, una là, il cappotto, l’orologio e la biancheria. Nuda… a piedi sono riuscita ad arrivare al portone. Ho aperto, ho aspettato l’ascensore e sono salita in casa. Stavo morendo, stavo morendo… ho chiamato mia figlia al cellulare: non rispondeva. Ho fatto il 113 e la centralinista che mi dice: “Signora si calmi… non capisco niente… cosa le è successo?” “Mi hanno violentata. Aiutatemi, sto male… sto male! Sto per svenire, sto per morire!” “Si calmi signora… non si capisce niente… parli piano…” . “Ho uno zigomo rotto… faccio fatica…” “Dove si trova? Dove abita, in che via.” Ho dato il mio indirizzo. “Stia tranquilla… adesso arriva la Croce Rossa.” Erano le tre e un quarto… le tre e mezza. Ho bevuto un po’ d’acqua, mi sono messa nel letto: piangevo e aspettavo. Sono arrivati i Carabinieri insieme a quelli della Croce Rossa e mi hanno portata al San Raffaele. Per tutta la notte, a vomitare… sono svenuta… mi hanno trovato uno zigomo rotto, lividi dappertutto, un taglio in testa, mi hanno medicato tutte le ecchimosi che avevo su tutto il corpo… avevo pure un occhio pieno di sangue. Dal San Raffaele mi hanno portata la notte stessa alla Mangiagalli per degli accertamenti ginecologici, tampone vaginale eccetera. Alle sette mi riportano al Pronto Soccorso del San Raffaele… lì da sola in corridoio, sulla barella, senza lavarmi, senza niente. Per molte ore nessun medico mi ha visitato nuovamente, solo un’infermiera mi ha sistemato le medicazioni. Dal San Raffaele all’ospedale San Paolo per fare una radiografia al viso per lo zigomo rotto. Come mi hanno vista, hanno deciso di operami subito. Io ero agitatissima, per fortuna era arrivata mia figlia. Poi i Carabinieri a interrogarmi. Stavo malissimo, piangevo disperata. Mia figlia mi teneva la mano e piangeva con me. Dopo quattro giorni e una notte di ricovero trasferendomi da un ospedale all’altro, sono finalmente tornata a casa. Nel frattempo i Carabinieri di Cologno Monzese cercano lo stupratore. Fanno un’indagine al pub, vanno sul luogo e recuperano un pacchetto di sigarette – Camel Light – e tramite il pacchetto riescono a risalire a questa persona in casa della quale trovano la mia borsetta e le mie cose… e numerosi oggetti, indumenti femminili che non mi appartenevano. I Carabinieri in ospedale mi invitano al riconoscimento tramite delle foto. Io me lo ricordavo benissimo… stava sopra di me, faccia a faccia, e l’ho descritto in maniera dettagliata. Martedì mattina alle dieci i Carabinieri mi dicono: “Deve venire in caserma per il rico12


noscimento.” “Subito?” “Sì,subito. Abbiamo premura di metterlo in galera questo tipo.” Io non stavo bene e non me la sentivo di seguirli “Signora, deve per forza venire con noi se no ci scappa!”. Sono andata in camicia da notte con sopra il paltò a vedere altre foto… mentre guardavo le foto su un libro… loro sono andati a prenderlo. Quando è arrivato ho dovuto fare il riconoscimento all’americana. Una volta arrestato, lui sostiene di non ricordare niente. Questo ragazzo è di una famiglia per bene, di chiesa… agiata. Una famiglia conosciuta qui a Cologno Monzese. Ha detto: ”So di aver fatto del male a qualcuno però non mi ricordo niente.” Te la caverai con poco, come tanti altri, mascalzone, delinquente. Per quanto tu possa ripensare a quell’orribile momento… mai potrai capire quanto male mi hai fatto. Un male che brucia continuamente nel mio cervello… nel mio cuore… un male che nulla potrà mai cancellare. Mi hai bruciato la vita, ragazzo!

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L’artista diventa così lo strumento necessario per riappropriarci di una cronaca troppo spesso anestetizzante e anestetizzata da comunicazioni nelle quali la violenza di genere è proposta come qualcosa di “altro” dall’io, dal noi, dal vivere il proprio essere donna. La cronaca di artista quindi, come mezzo per fissare un racconto intimo, una storia collettiva di violenza verso la donna, nei confini delle date, dei dati, dei numeri e degli elenchi. Nella (utopica) speranza di testimoniare fatti - finiti ed arginabili in una memoria immortale - e non un’aberrante condizione di natura umana. Gaia Ferretti

Violenza è femminile, ma è perpetrata con modalità maschili. La violenza ha un corpo di donna, ma è tenuta in mano d’uomo. E’ una danza scomposta sulle note di una musica lacerante E’ un’arma impropria per garantire ordine nel mondo Violenza è aggressione, sopraffazione, guerra necessaria, obbedienza imposta. Violenza è una goccia di sangue rappreso che si scioglie in un pianto tra sospiri di rugiada Violenza è la trappola del Guastatore che avviluppa la vittima con la seduzione del Pensiero malvagio Violenza è un buco nero Violenza è il vuoto dell’anima Violenza è un futuro senza speranza Violenza è il pianto di un bambino Violenza è un dolore che non si risolve Violenza è un’arma affilata che lacera la carne Violenza è la ferita inferta che non rimargina Violenza è il Perdono mancato Violenza è il Paradiso perduto Violenza è un cuore di ghiaccio che nemmeno il sole può riscaldare. Maria Francesca Albertini

La violenza sulle donne ha molte forme ed è subdola, silenziosa, implacabile. Le donne hanno la pelle dura, vengono gettate al mondo già così, con una corazza, sapendo che dovranno lottare e dimostrare sempre il doppio per restare in piedi. In una cultura misogina come la nostra, dove la donna è sempre più spesso rappresentata come un involucro senza contenuti, si sentono quasi giustificati e protetti i violenti. Tanto nessuno condanna, (a volte) nessuno parla. La forza di queste immagini grida senza bisogno di audio a supportarla. Potranno sembrare cinici, crudeli, ma questi ritratti sono solo la punta di un iceberg, la rivelazione della violenza nella sua rappresentazione artistica. Molto meno patinata e spettacolare quella reale. Quella che nessuno sente o vede nelle quattro mura che dovrebbero proteggere le donne, ma che diventano la loro prigione ammobiliata. Grazie alla potenza di queste immagini giunge la forza di un messaggio sgradevole, stridente, che tutti abbiamo il dovere di ascoltare. L’ignoranza, di cui la violenza è figlia, può scomparire se la si mette in luce, anche attraverso una nobile forma di arte. Laura Antonini

Caterina Orzi ci racconta la donna attraverso un corpo, il suo corpo, il corpo di artista. Inscindibile dall’identità? Per una donna certamente si. Non in quanto pubblica manifestazione di sé, ma per ciò che esso ha attraversato, ciò da cui esso è stato segnato e di cui infine si fa testimone e narratore. Nell’arte di Caterina Orzi la repulsione, l’estraneità, la violenza subita ed esercitata si fondono nella dolcezza, nella sinuosità, nella rassicurazione che solo un corpo di donna può suscitare e sopportare. 14


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Le donne che subiscono violenza hanno davanti uno specchio deformato, non hanno un’immagine chiara di sé: sono indefinite diventano ciò che il carnefice vuole. Quando chiedono aiuto il loro specchio rimanda un’immagine positiva, la diversità le costringe ad uscire dalla propria immagine per ritrovarne un’altra. Le donne che chiedono aiuto hanno fiducia nel futuro, hanno dentro, una forza liberatrice, capace di sovvertire il passato. L’amore che le donne hanno per gli uomini violenti è un velo che filtra la realtà. Le donne che chiedono aiuto squarciano il velo con le mani e vedono la luce. La luce ti porta in un luogo dove la solitudine è necessaria. Se non stai sola esci da te stessa e non sai più chi sei. Nella solitudine i pensieri prendono forma. Solo nel silenzio troviamo la felicità come nel mistero dell’arte e dell’amore. La società non dà libertà né alla mente né al corpo della donna, nell’arte non c’è costrizione, ma creazione la bellezza salva l’anima. Caterina Orzi