5 Dicembre 2012
Tirando le somme……………………………………………………………..p. 1 Chi sono i selettori del secondo turno?……………………………...p. 5 Profeti in patria e padroni fuori casa.………………………….…….p. 10 I Selettori renziani alla prova delle politiche 2013……….…….p. 15
I numeri della partecipazione……………….……………………………...p. 3 Esistono i selettori di destra?...……………………………………………..p. 8 Ieri, oggi e domani…..…………………..……………………………………..p. 13 L’effetto vintage (vincente) di Bersani………………………………….p. 18
Tirando le somme Cosa resterà di queste primarie Fulvio Venturino, Università di Cagliari e Coordinatore C&LS Il ballottaggio di domenica 2 dicembre ha chiuso la questione per quello che riguarda il centrosinistra. Pierluigi Bersani ha vinto e sarà il candidato della coalizione per la carica di Presidente del Consiglio. Ha vinto largamente, e come riconosciuto dallo stesso Renzi questo chiude ogni diatriba sul possibile ruolo delle regole. Sul cammino di Bersani verso Palazzo Chigi si frappongono adesso tre ostacoli. Primo, gli avversari del centrodestra, che per la verità si presentano all’appuntamento elettorale in modo a dir poco sgangherato. Secondo, i vari movimenti e movimentini di centro che faute de mieux si sforzano di dare un senso alla loro presenza nella politica nazionale promuovendo la leadership (e a parole anche l’agenda) di Mario Monti. Terzo, il sistema elettorale, che riformato o no sarà comunque congegnato in modo tale da evitare che dalle urne esca un governo, secondo la logica perversa delle elezioni del 2006 che continua incredibilmente a persistere sette anni dopo. E poi? E poi le primarie ci hanno mostrato con estrema chiarezza che nella politica del XXI secolo posizionamento e strategie di un partito dipendono dalle sue collocazioni ideologiche e dal suo programma, ma in grande misura anche dal leader da cui è guidato. Il PD di Bersani è identificabile come un partito erede diretto della sinistra tradizionale, di profilo socialdemocratico e laburista, facilmente coalizzabile con i partiti (post?) comunisti collocati alla sua sinistra, che d’altra parte non disdegna pratiche parlamentari di entente cordiale con il centro post-democristiano. Il PD di Renzi avrebbe probabilmente assunto altre sembianze: il partito di una sinistra nuova e diversa, dai rapporti distaccati con il sindacato, a forte vocazione maggioritaria, orientato a sfondamenti elettorali al centro piuttosto che a patteggiamenti in sede parlamentare. Ognuno scelga il PD che gli piace, già a partire dalla sede più propria, quella del congresso previsto nel 2013. Nel frattempo, però, occorre non considerare più la personalizzazione
come lo sterco del diavolo berlusconiano, ma piuttosto riconoscere che un leader rafforzato da un moderato tasso di personalizzazione è cosa benefica e necessaria per un partito finora inchiodato sotto il 30% del consenso degli elettori.
Si aggiunga che qualche settimana fa la Lega ha celebrato le sue “sondarie”, che tanti esponenti di spicco del centrodestra ritengono le primarie l’unica via di uscita dalla crisi generata dalla fine conclamata della leadership di Berlusconi, che proseguono - per adesso in silenzio - le primarie per i sindaci, in attesa delle primarie bilaterali organizzate dai due schieramenti in vista della elezione del sindaco di Roma. Insomma, le primarie di Renzi (sic!) paiono costituire uno spartiacque come furono a loro tempo le primarie di Prodi
C’è dell’altro? Certamente sì. Mentre scriviamo sono in corso le “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle. Il procedimento elettorale per la verità è abbastanza oscuro, tant’è che critiche e sarcasmi si sprecano. Tecnicamente però si tratta semplicemente di primarie on line riservate agli iscritti, e se il M5S sarà in grado di presentare un rendiconto credibile del suo operato saremo in presenza della prima selezione aperta e democratica dei candidati al parlamento realizzata in Italia. Teniamo presente che forme di consultazione on line degli iscritti sono praticate persino dal Partito
[1] C&LS - candidateandleaderselection.eu
Conservatore inglese, non precisamente una setta di populisti scalmanati. Si aggiunga che qualche settimana fa la Lega ha celebrato le sue “sondarie”, che tanti esponenti di spicco del centrodestra ritengono le primarie l’unica via di uscita dalla crisi generata dalla fine conclamata della leadership di Berlusconi, che proseguono - per adesso in silenzio - le primarie per i sindaci, in attesa delle primarie bilaterali organizzate dai due schieramenti in vista della
elezione del sindaco di Roma. Insomma, le primarie di Renzi (sic!) paiono costituire uno spartiacque come furono a loro tempo le primarie di Prodi. Dopo, il ruolo delle primarie e l’atteggiamento della classe politica nei loro confronti non sarà più lo stesso. Da domani (in Lombardia) e per un futuro prevedibilmente abbastanza lungo, buone primarie a tutti.
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I numeri Un’analisi della partecipazione Stefano Rombi, Università di Pavia Come sempre accade, anche nel caso delle elezioni primarie il primo elemento ad accendere i dibattiti politico-televisivi è l’affluenza. Con una differenza: in occasione delle secondarie (neologismo imposto dal sempre intelligente D’Alema) si chiacchiera di percentuali, davanti alle primarie, invece, tutti parlano del valore assoluto. La ragione è molto semplice: se le primarie sono aperte, non esiste un insieme ufficiale di aventi diritto. Certo, formalmente, tale insieme è costituito da tutti i cittadini maggiorenni ma, di fatto, utilizzare questa base sarebbe soltanto fuorviante. E allora che si fa? La soluzione più ragionevole, anche alla luce della sostanziale ininfluenza degli elettori del centrodestra, consiste nel rapportare il numero di partecipanti alle primarie al numero di coloro che avevano votato centrosinistra alle ultime elezioni politiche, quelle del 2008.
Ma il dato del Sud è importante anche in termini comparati. Se, infatti, mettessimo a confronto queste primarie con l’elezione diretta del 2009 – quando, va ricordato, gli elettori potenziali erano solo quelli del PD – scopriremmo che la partecipazione nelle zone meridionali si è abbassata di 9,9 punti al primo turno e di 12,6 al secondo. Il che, se non rovina la festa, non può certo farci esultare
Prima di procedere, però, è bene anche per noi partire dai dati più noti, tenendo conto del fatto che i dati ufficiali riportano solo i voti validi, mentre quelli sulla partecipazione complessiva non sono ancora disponibili. Ciò ci ha costretto a quella che gli inglesi chiamano intensive internet research. Abbiamo così ottenuto dei dati ufficiosi, i quali, in ogni caso, non includono coloro che hanno votato all’estero. Con tutte le cautele del caso, possiamo quindi affermare che il primo turno ha mobilitato 3.135.885 selettori. Un numero di partecipanti praticamente identico a quello
registrato nel 2009, in occasione dell’elezione diretta del segretario. Con il secondo turno, quando si sono mobilitati 2.797.373 selettori, si è prodotto un calo della partecipazione del 10,8%. Calo, peraltro, assai contenuto se si considera che negli Stati Uniti la partecipazione si abbassa mediamente del 35%. In termini complessivi, la nostra base elettorale è costituita da 14.840.243 potenziali elettori, ovvero da tutti gli italiani – esclusi gli elettori delle circoscrizioni estere – che nel 2008 scelsero la coalizione capitanata da Veltroni (PD e IDV) oppure la coalizione guidata da Bertinotti (La Sinistra – l’Arcobaleno). Se è così, possiamo dire che la partecipazione al primo turno è stata del 21,1%, mentre al secondo turno si è fermata al 18,8%. Osservando la tabella possiamo scendere più nel dettaglio e farci un’idea della quota di partecipanti disaggregata per regione. Innanzitutto, abbastanza prevedibilmente, la zona del paese più partecipativa è il Centro, con un tasso del 29,5% al primo turno e del 27,1% al secondo. Il Nord-Est, invece, è l’area meno attratta dalle primarie, con una quota di partecipanti che, tra i due turni, passa dal 17,8% al 16,1%. Se guardiamo alle singole regioni, scopriamo che la Toscana – che ha premiato il suo favorite son – è quella con i maggiori livelli di partecipazione: il 33,1% il 25 novembre e il 30,7% la settimana successiva. L’ultima posizione è, invece, occupata dal Molise che presenta un percentuale di selettori prima del 12,2%, poi del 10,4%. Se compariamo i due turni, emerge, in un generale scenario di tenuta della partecipazione, un maggiore calo dell’affluenza al Sud (-2,7 punti). E, in particolare, si distinguono la Basilicata e la Puglia: la prima fa registrare una diminuzione di 4,5 punti percentuali; la seconda di 3,5 punti. Per quanto appaia ovvio, con tutta probabilità l’exploit negativo della Puglia è addebitabile all’uscita di scena di Nichi Vendola. Ma il dato del Sud è importante anche in termini comparati. Se, infatti, mettessimo a confronto queste primarie con l’elezione diretta del 2009 – quando, va ricordato, gli elettori potenziali erano solo quelli del PD – scopriremmo che la partecipazione nelle zone meridionali si è abbassata di 9,9 punti al primo turno e di 12,6 al secondo. Il che, se non rovina la festa, non può certo farci esultare.
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Tab. 1: La partecipazione alle primarie Fonte: Nostra elaborazione su dati sedi regionali Partito Democratico
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Chi sono i selettori del secondo turno? Analisi del profilo sociografico dei selettori Natascia Porcellato, Università di Cagliari Due turni, 24 ore di urne aperte, circa 6 milioni di voti scrutinati e finalmente il dilemma della leadership del centrosinistra appare sciolto: sarà Pierluigi Bersani a guidare la coalizione alle elezioni politiche del prossimo anno. Se un problema appare (almeno per ora) risolto, altri si profilano all’orizzonte. Come già rilevato da alcuni commentatori, infatti, l’Italia del centrosinistra che esce da questa consultazione appare divisa lungo diverse linee: nord e sud, periferia e centro, simpatizzanti e iscritti ai partiti, solo per citarne alcune. E, anche se è prevalsa “quella di Bersani”, non è detto che “quella di Renzi” sia facilmente ricomponibile all’interno dell’unità della coalizione. Guardando ai profili socio-demografici, è possibile individuare ulteriori elementi di divisione o prevalgono i tratti che accomunano i selettorati dei due candidati? La divisione tra i due, enfatizzata anche dal sistema del ballottaggio, ha accentuato differenze o le ha rarefatte? Consideriamo gli stessi elementi analizzati la settimana scorsa dopo il primo turno: innanzitutto, l’età. Le divisioni osservate nel corso del primo turno si confermano anche nel ballottaggio. Bersani mostra un selettorato particolarmente adulto o anziano: oltre la metà dei suoi sostenitori (54%) ha più di 55 anni, mentre circa il 17% ha meno di 34 anni. In questo, l’apporto di voti che sembrano essere arrivati da Vendola, che godeva di sostenitori particolarmente giovani, non ha mutato gli equilibri dei selettori del segretario del Partito Democratico. Renzi, al contrario, mostra un profilo più giovane: circa un suo selettore su quattro ha meno di 35 anni e circa il 42% è un over-54, e rispetto al primo turno vede nel suo elettorato diminuire la polarizzazione tra giovani e anziani. Dal punto di vista del genere e del livello di istruzione, invece, vincitore e sconfitto sembrano più vicini: entrambi i selettorati, infatti, ricalcano il profilo generale di quelli che si sono recati a votare il 2 dicembre. Guardando alle professioni, al contrario, possiamo tornare a scorgere differenze già osservate il 25
novembre scorso. I sostenitori di Bersani mostrano una presenza importante di pensionati (circa uno su tre), mentre i selettori di Renzi in pensione sono circa il 23%. Una quota analoga (23%) di simpatizzanti del sindaco di Firenze è costituita da imprenditori, lavoratori autonomi e liberi professionisti: tra i selettori del segretario del Partito Democratico questi settori professionali si fermano al 14%.
Come già rilevato da alcuni commentatori, infatti, l’Italia del centrosinistra che esce da questa consultazione appare divisa lungo diverse linee: nord e sud, periferia e centro, simpatizzanti e iscritti ai partiti, solo per citarne alcune. E, anche se è prevalsa “quella di Bersani”, non è detto che “quella di Renzi” sia facilmente ricomponibile all’interno dell’unità della coalizione
Infine, consideriamo la religiosità: Bersani continua a mostrare un selettorato connotato da una importante presenza laica, in cui il 44% si dichiara non praticante, mentre circa il 32% frequenta i riti religiosi in modo saltuario e poco meno di uno su quattro (24%) va alla messa almeno 2 o 3 volte al mese. Tra i sostenitori di Renzi, invece, coloro che non vanno mai in Chiesa sono il 36%, e una quota analoga vi si reca saltuariamente. Una pratica religiosa più assidua, invece, è presente nel 28% dei selettori del sindaco di Firenze. r
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Fig. 1 L’età dei selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
Fig. 2 Il genere dei selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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Fig. 3 Il titolo di studio dei selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
Tab. 2 La professione dei selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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Esistono i selettori di destra? L’autocollocazione dei selettori sull’asse sinistra-destra Stefano Rombi, Università di Pavia Anacronistici, irrealistici, privi di potere esplicativo. Ecco alcuni dei molti modi utilizzati per qualificare i concetti di sinistra e destra. L’idea stessa di uno spazio politico unidimensionale è diventata, a torto o a ragione, largamente impopolare. Tuttavia, se costretti nelle maglie di un sondaggio a risposta chiusa, gli elettori – nel nostro caso, i selettori – raramente si dimostrano incapaci di posizionarsi all’interno di quello stesso spazio che a parole tendono a mettere in discussione. Perché questa contraddizione? Come ha recentemente spiegato Michele Salvati su Il Mulino, sinistra e destra sono rappresentazioni mentali dinamiche: continuano ad organizzare il conflitto democratico, ma lo fanno adattandosi alle diverse fasi socio-politiche richiamando, ogni volta, elementi delle fasi precedenti. Insomma, sinistra e destra cambiano ma persistono. Ed è per questa ragione, che una larga maggioranza di elettori (e di selettori) continua, nonostante i cambiamenti, a fare affidamento su questa incomprimibile e irrinunciabile polarità. Sia chiaro, sono ben consapevoli che le singole tematiche non sempre sono affrontabili sulla base di un approccio dicotomico. Ma, in ultima istanza, sono pronti a riconoscere a sinistra e destra la qualità di termini in grado di contenere un complesso di valori e punti di vista sul mondo distinti e distinguibili. E, proprio per questo, li utilizzano come una scorciatoia verso la scelta di voto. Ora, stabilito che per chi vota il continuum sinistradestra ha ancora molto da dire, è il caso di chiedersi in che modo i partecipanti al secondo turno delle primarie si posizionano al suo interno. Tanto per cominciare, come dimostra il grafico (Fig. 4), la maggioranza relativa dei selettori – il 45% – si colloca sul centrosinistra dello spazio politico: un dato del tutto conforme a quanto emerso dalla rilevazione effettuata nel 2009 in occasione dell’elezione diretta del segretario del PD. Se a ciò aggiungiamo il 38% di coloro che si dichiarano di sinistra, arriviamo all’83% dell’intero selettorato. Segue un 14% che si dichiara di centro e un 4% collocato sul centrodestra e sulla destra. Insomma: tutto secondo copione.
sinistra e destra sono rappresentazioni mentali dinamiche: continuano ad organizzare il conflitto democratico, ma lo fanno adattandosi alle diverse fasi sociopolitiche richiamando, ogni volta, elementi delle fasi precedenti. Insomma, sinistra e destra cambiano ma persistono
Se dal dato complessivo si passa ai selettorati dei due contendenti, lo scenario, benché prevedibile, si fa più interessante. Innanzitutto, la maggioranza relativa dei sostenitori di Renzi (49%) si posiziona sul centrosinistra, mentre quella dei bersaniani (49%) si dichiara di sinistra. Cambia anche il posizionamento della maggiore minoranza: se nel caso del sindaco fiorentino è rappresentata da un 23% di centristi, nel caso del segretario è formata da un consistente 42% che si colloca sul centrosinistra. Inoltre, il 20% dei selettori dello sconfitto si percepisce di sinistra, mentre soltanto l’8% dei selettori di Bersani si posiziona al centro. Infine, se qualcuno si aspettava un fiume di persone di centrodestra e di destra pronto a votare Renzi potrebbe rimanere deluso (si fa per dire!) dal fatto che il primo cittadino, in realtà, si sia dovuto accontentare di un piccolo torrente in odore di secca: solo il 9% del suo selettorato. In definitiva, almeno rispetto al tema che abbiamo affrontato, queste primarie non sono state poi molto diverse dalle altre. Un’amplissima maggioranza dei partecipanti è costituita dal blocco tradizionale del centrosinistra italiano e solo una sparuta minoranza, in larga parte sostenitrice di Renzi, si è dichiarata distante da questo mondo.
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Fig. 4 La collocazione politica (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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Profeti in patria e padroni fuori casa I successi diversi di Renzi e Bersani Marco Valbruzzi, European University Institute Concluse le elezioni primarie per la selezione del candidato premier (vice-premier dicono i commentatori più smaliziati) del centrosinistra, dopo un ballottaggio che non lasciava troppo spazio a sorprese dell’ultima ora, è bene ragionare a mente fredda sui alcuni dati ricavati dagli exit-poll condotti dal gruppo di ricerca “Candidate & Leader Selection”. Nelle specifico, qui ci concentreremo sulla composizione del selettorato di Bersani e Renzi, analizzando in particolare la provenienza politica dei votanti e la loro iscrizione ai partiti politici.
Dove i consensi al PD languono e latitano, cioè nel centro-sud e nel nordest, gli elettori renziani si fanno sempre più evanescenti. Per chi pensava che Renzi fosse un cavallo di Troia mandato in avanscoperta dai dirigenti di centrodestra per conquistare il fortino del centrosinistra, questi risultati hanno il sapore del paradosso. Tuttavia, se osservati con più attenzione e, soprattutto, con il senno del poi, tali risultati appaiono più comprensibili e meno paradossali
Il miglior punto di partenza per comprendere l’esito delle primarie del centrosinistra è, come molti analisti hanno già ampiamente indagato e segnalato, il risultato di Matteo Renzi in quella che, per comodità, viene definita “zona rossa” dell’Italia (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche), la quale negli ultimi anni è andata lentamente scolorendosi in una zona rosée. È proprio in queste regioni che Renzi, ad eccezione dell’Emilia-Romagna, ha vinto al primo turno nei confronti di Bersani e, pur essendo divenuto minoritario nel corso del ballottaggio (escludendo la Toscana), ha ottenuto i suoi maggiori successi. In media, nella zona rossa Renzi ha raccolto il 44,5% dei consensi al primo turno (mentre Bersani si è fermato al 41,8%) e il 47% al secondo (con Bersani al 53%). Al di là di poche, ma
significative, eccezioni (L’Aquila, alcune province piemontesi e lombarde), il sindaco di Firenze deve il suo exploit alla primarie proprio nelle zone in cui il Partito Democratico è più forte, radicato e votato. Dove i consensi al PD languono e latitano, cioè nel centro-sud e nel nord-est, gli elettori renziani si fanno sempre più evanescenti. Per chi pensava che Renzi fosse un cavallo di Troia mandato in avanscoperta dai dirigenti di centrodestra per conquistare il fortino del centrosinistra, questi risultati hanno il sapore del paradosso. Tuttavia, se osservati con più attenzione e, soprattutto, con il senno del poi, tali risultati appaiono più comprensibili e meno paradossali. Il primo aspetto da sottolineare è che, ad oggi, nel caotico centrodestra italiano non si intravede nessun Ulisse capace di pianificare e coordinare un’operazione di infiltrazione così meticolosa come quella ideata degli antichi Greci. Faticano a coordinarsi al proprio interno, figurarsi all’esterno… Nessun cervellone nazionale, né del PdL né della Lega, sarebbe riuscito a spostare ordinatamente masse di voti verso un candidato a loro simpatico/simpatetico come – così dicono – Matteo Renzi. Scartata questa ipotesi, rimane da vagliare la tesi secondo cui il “giovanotto rottamatore” abbia goduto del consenso di elettori di centrodestra. Come mostra la Fig. 1, poco meno di sei elettori di Renzi su dieci, sia al primo che al secondo turno, avevano votato per il PD nel 2008; invece, un elettore su dieci si era astenuto, all’incirca due elettori sue dieci avevano scelto un partito di centro-destra e il rimanente decimo proveniva o dalla Sinistra Arcobaleno o dall’Italia dei Valori. Quindi, il 70% del selettorato renziano (90% nel caso di Bersani) è composto da partiti di centrosinistra e solo una piccola parte può essere considerata del tutto estranea a quello schieramento. Ma allora chi, soprattutto nella zona rossa, ha votato per Renzi? Per rispondere a questa domanda ci viene opportunamente in aiuto la Fig. 2. Coloro che hanno creduto nel sindaco fiorentino come proprio candidato alla premiership del centrosinistra sono, in gran parte, persone ed elettori “senza tessera”, vale a dire non iscritti né al PD né ad altri partiti minori. All’incirca nove elettori renziani sui dieci erano liberi da vincoli o tessere di partito, mentre questa percentuale si abbassa al 65% per Bersani. In maniera speculare, si può notare come circa un terzo del selettorato bersaniano sia composto da iscritti
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(soprattutto al PD); nel caso di Renzi, invece, la percentuale di “Democratici D.O.C.” si abbassa al 10%. La morale di tutta questa storia, che il PD dovrà, prima o poi, affrontare di petto con un congresso vero, è che Renzi è riuscito a intercettare in particolar modo il voto di coloro che vivono ai margini, ai confini o sul crinale del Partito Democratico. Si tratta, spesso, non di elettori infedeli o “salterini” (da una coalizione all’altra), ma di persone deluse, stanche di essere usate
alle elezioni e trascurate subito dopo. Sono elettori periferici rispetto ai centri decisionali del PD che usano il megafono delle primarie per far sentire la propria voce. Nelle regioni del centro-sud, dove il PD è organizzativamente ed elettoralmente fiacco, questo elettorato marginale e periferico semplicemente non c’è. Nelle regioni del centro, invece, i “periferici” stanno diventando sempre più centrali. Ed è a loro che Renzi, profeta in patria, deve il suo discusso e discutibile successo.
Fig. 5 Il voto del 2008 dei Selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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Fig. 6 L’iscrizione ai partiti dei Selettori (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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Ieri, oggi e domani Fra primo e secondo turno e quello che viene dopo... Antonella Seddone, Università di Torino Finalmente è finita! Le primarie del centrosinistra si sono concluse assegnando la vittoria a Pier Luigi Bersani. Eppure, a dircela tutta, chiusi i seggi e aperte le urne ci siamo accorti che, assegnata la candidatura a premier della coalizione del centrosinistra, la questione vera riguarda adesso capire l’impatto che queste primarie avranno sul Partito Democratico. Renzi ha giocato da outsider. Ha cercato all’esterno del perimetro della coalizione del centrosinistra il sostegno che il partito non gli garantiva. Noi e Loro. Dove il loro era il suo partito. E il noi tutto ciò che stava oltre. Oltre la coalizione, in un’ottica che prescindeva da destra e sinistra, Renzi ha ribadito la necessita di allargare il bacino del consenso elettorale del partito senza accordi extra-coalizionali con l’UDC. Soprattutto, ha tracciato una netta differenza rispetto ai suoi competitors, in termini di proposte programmatiche, di retoriche e strategie di comunicazione, rivendicando la sua diversità rispetto alle proposte messe in campo dagli avversari. La strategia non è nuova, lo stesso Renzi la utilizzò già a Firenze nel 2009. Qualsiasi manuale di scienza politica spiega le logiche dei partiti catch-all e dell’elettore mediano. Il consenso e il successo elettorale si costruisce all’esterno del proprio bacino elettorale, andando alla conquista di nuovi sostenitori. Ma in un contesto come quello del centrosinistra italiano la retorica della rottamazione associata a un superamento degli steccati ideologici non ha funzionato. Non ha funzionato perché dall’altra parte l’offerta elettorale puntava al cuore di iscritti e simpatizzanti, rivendicando un’idea di appartenenza e identità. L’idea dell’ “essere di centrosinistra”, finalmente libera dall’ombra berlusconiana, diventa un valore di cui andare orgogliosi. Ma soprattutto l’appeal delle retoriche renziane valeva in una prospettiva esterna alla coalizione, ma, anche a causa dei vincoli stringenti alla partecipazione al ballottaggio, non poteva che essere del tutto inefficace. La partita del ballottaggio si poteva giocare solo all’interno del perimetro della coalizione e qui Renzi era del tutto svantaggiato. Tutti i contentendenti delle primarie infatti si sono strategicamente posizionati sul segretario PD, mobilitando i loro elettori sul sostegno a Bersani. Così il tema della settimana che ha preceduto il secondo turno è stato certamente uno: da chi prenderà i voti Renzi? La Figura 7 fornisce le risposte.
Questi dati non ci raccontano solo dello spostamento di voti fra primo e secondo turno, ci confermano per l’ennesima volta il leit motiv su cui si è giocata questa elezione primaria: un modello di mobilitazione fedele di sostenitori – iscritti e simpatizzanti – identificati nello spirito di centrosinistra contro un modello di mobilitazione di conquista, giocata all’esterno, meno rassicurante e per certi versi decisamente rischioso.
Come ovvio i due candidati del secondo turno hanno conservato quasi interamente il consenso ottenuto al primo turno. Prevedibilmente i sostenitori di Vendola (85%) hanno dato il loro sostegno a Bersani e solo una quota minima, pari al 15% ha deciso di dissentire dalle indicazioni del leader di SEL per sostenere Renzi. Analogamente anche i sostenitori di Puppato (76%) hanno prevalentemente scelto di sostenere il segretario PD. Poco meno di un quarto (24%) ha invece optato per il sindaco fiorentino. Più interessante è osservare il comportamento degli elettori di Tabacci che invece si dividono sui due candidati al secondo turno: il 52% preferisce Renzi e il 48% Bersani. Qui ha certamente contato l’etichettamento ideologico del sindaco fiorentino evidentemente più affine alla base elettorale di Tabacci. Infine, vediamo che il 59% degli elettori del ballottaggio – quelli con le giuste giustificazioni per intenderci – ha votato per il sindaco fiorentino , ma forse, viste le polemiche ex-ante, in itinere ed ex-post, è ancor più rilevante quel 41% che ha scelto Bersani. Questi dati non ci raccontano solo dello spostamento di voti fra primo e secondo turno, ci confermano per l’ennesima volta il leit motiv su cui si è giocata questa elezione primaria: un modello di mobilitazione fedele di sostenitori – iscritti e simpatizzanti – identificati nello spirito di centrosinistra contro un modello di mobilitazione di conquista, giocata all’esterno, meno rassicurante e per certi versi decisamente rischioso. Oggi il centrosinistra ha il suo candidato. Il centrodestra no. Non abbiamo ancora alcuna certezza sulla legge elettorale, e – se qualcuno non ne fosse già convinto – dopo queste primarie sappiamo che le
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regole contano e anche parecchio. Ma sappiamo per certo che chiunque sarà l’avversario di Bersani (Grillo? Monti? Berlusconi?) la partita non potrà essere giocata in una logica di appartenenza e mobilitazione dei fedelissimi, ma sarà davvero necessario conquistare voti e consenso anche al di là dell’orizzonte sicuro e rassicurante della coalizione.
Ecco perché forse queste primarie insegnano che il partito conta e la fede politica è ancora in grado di mobilitare e motivare i simpatizzanti, ma c’è anche la consapevolezza che questa strategia non vale sempre e comunque, o almeno non alle elezioni generali.
Fig. 7 Scelte di voto fra primo e secondo turno (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
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I selettori renziani alla prova delle politiche 2013 Fedeltà, defezione e incertezza Mariano Cavataio, Università di Milano Luciano M. Fasano, Università di Milano e Coordinatore C&LS Nel corso dell’intensa campagna elettorale delle primarie del centro-sinistra, giornalisti e commentatori hanno alimentato un vivace dibattito sui possibili scenari di condotta da parte dei candidati sconfitti in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. Pochi però sono stati i contributi che hanno cercato di fare luce sulle dinamiche di lealtà e defezione successivo alle primarie dal punto di vista del comportamento degli elettori. L'indagine demoscopica condotta da Candidate and Leader Selection nel corso del ballottaggio conferma sia quelle interpretazioni politologiche in base alle quali i selettori dei candidati primaristi sconfitti tenderebbero prevalentemente a manifestare fedeltà alle successive elezioni verso il vincitore della nomination, sia quelle argomentazioni di un certo filone della letteratura nordamericana secondo cui quote rilevanti dei supporter dei candidati sconfitti tenderebbero a rifugiarsi nell’astensionismo o nella defezione (cioè nel voto per un altro candidato o schieramento) in vista delle elezioni politiche. Nel nostro caso, si rileva che se è vero che quasi la metà dei selettori renziani sosterrà Bersani in occasione delle prossime politiche, è altrettanto vero che gli incerti e i defezionisti rappresentano l’altra metà del selettorato del sindaco di Firenze. E ciò assume un valore particolare se si tiene conto che la somma degli indecisi e dei defezionisti tra i supporter bersaniani copre poco più di un terzo del suo selettorato. Questa considerevole capacità di riuscire con successo a ridefinire in chiave personalizzata, e quindi estranea all'appartenenza partitica, la logica di mobilitazione partecipativa alle primarie e gli orientamenti di voto del selettorato in caso di sconfitta del candidato votato è tipica di Matteo Renzi. Tanto è vero che è stata riscontrata anche in occasione delle elezioni primarie comunali fiorentine (2009). Anche allora, infatti, poco più della metà di coloro che avevano scelto Renzi era rappresentato da indecisi e defezionisti. Tale incremento di incerti e defezionisti (combinato con l’ingresso di importanti percentuali di matricole, come evidenziato nello scorso numero di Questioni Primarie) è frutto di quello che Campbell chiamava deviating election, in cui decisive risultano essere l'immagine e le caratteristiche individuali del candidato per la conquista di un
consenso trasversale alle lealtà partitiche o di schieramento.
E se Bersani vorrà vincere le elezioni con un consenso in grado di intercettare trasversalmente un elettorato non ideologicamente connotato, dovrà necessariamente dare qualche segnale in direzione delle "matricole" che hanno sostenuto Renzi.
Ciò è esattamente quello che è avvenuto con Renzi, nel 2009 così come nel 2012. Il maggiore appeal di Renzi nei confronti di importanti fette di elettorato non tradizionalmente di centro-sinistra è evidente dai risultati dell’analisi qui sotto riportata, in base alla quale tra i defezionisti che hanno scelto Renzi, il 44% (contro il 3% di quelli di Bersani) ha dichiarato di aver votato alle politiche 2008 un partito di centro-destra. A fronte di queste importanti percentuali di defezionisti renziani, riuscirà Bersani a convincere questi selettori di Renzi a continuare a sostenere la coalizione di centro-sinistra anche per le politiche 2013? Certo è che il Segretario del Pd dovrà tenere conto di questo risultato. È infatti evidente che alle porte del Pd preme un elettorato fatto di persone che non avevano mai partecipato alle primarie, che in parte nel 2008 hanno votato partiti di centro o centrodestra e che non dà per scontato il suo voto al leader del centrosinistra alle politiche dell'anno prossimo. E se Bersani vorrà vincere le elezioni con un consenso in grado di intercettare trasversalmente un elettorato non ideologicamente connotato, dovrà necessariamente dare qualche segnale in direzione delle "matricole" che hanno sostenuto Renzi.
[15] C&LS - candidateandleaderselection.eu
Fig. 8 FedeltĂ , defezione e incertezza dei Selettori del 2 Dicembre (n 3200) Fonte: Candidate & Leader Selection
Fig. 9 FedeltĂ , defezione e incertezza dei Selettori fiorentini del Febbraio 2009 (n 1700) Fonte: Candidate & Leader Selection
[16] C&LS - candidateandleaderselection.eu
Fig. 10 FedeltĂ , defezione e incertezza dei Selettori del 2 Dicembre e scelte di voto (n 3200)
[17] C&LS - candidateandleaderselection.eu
L’effetto vintage (vincente) di Bersani Il pregiudizio della comunicazione Matteo Colle, Mario Rodriguez e Associati Communication Se qualcosa ci hanno insegnato queste primarie del centrosinistra, è che i pregiudizi sono duri a morire. In anni di campagne elettorali e di riflessioni fatte in tema di propaganda e marketing politico, poche cose rimangono impresse come il Sindaco di un’importante città che ti dice: “mi raccomando, niente 6×3; ché sono di destra”. I 6×3, secondo questa tesi diffusa, sono di destra, come le campagne troppo “americane”, troppo costruite, in cui s’intravede il consulente, il guru; in cui i linguaggi sono affinati da pubblicitari e manipolatori di segni e di senso. Insomma, per farla breve, seguendo questa vulgata, la campagna di Renzi sarebbe di destra, per non dire berlusconiana (coerentemente al suo protagonista che di atteggiamenti “fascistoidi” venne accusato in un non memorabile fondo de l’Unità).
Tutto molto poco improvvisato, tutto molto studiato, tutto molto preparato. Ma nella fantasia di parte dell’elettorato, anche avveduto, della sinistra italiana resiste il pregiudizio della comunicazione. Bersani lo ha capito (perché lo aveva subito sulla sua pelle con i manifesti 6×3 in maniche di camicia) e lo ha usato coma una clava, costruendo una campagna effetto vintage da contrapporre alla patinatura moderna e accattivante di Renzi
Di sinistra sarebbe, invece, la campagna di Bersani, che parla “pane e salame”, che non ha i guru, che non è patinato, che non è raffinato, e che più che americano, è orgogliosamente emiliano. Quindi per capirci; Renzi sarebbe un corpo estraneo al centrosinistra, e la sua comunicazione è la cifra della sua alterità. Bersani, al contrario, sarebbe profondamente iscritto nella storia della sinistra italiana, e il suo stile comunicativo ne è prova. Va da sé che come questo si coniughi con l’ammirazione sconfinata e unanime per Obama e la sua campagna che, va detto, assomiglia molto di più a quella di Renzi (si parva licet) che a quella di Bersani, è tutto da capire. Così come da capire è che siamo di fronte all’uso a fini propagandistici della propaganda
altrui. Una sorta di meta-marketing elettorale che usa come argomento polemico lo stile comunicativo dell’avversario per screditarlo o iscriverlo nel campo nemico, come in questo caso. Ciò che è mirabile nella comunicazione di Bersani, è che tutto questo ragionamento si basa su un presupposto falso, ma che ciò nonostante ha funzionato benissimo. E’ falso che la campagna di Bersani sia poco costruita, che sia genuina, se per genuino si intende che non prevede la presenza di consulenti, ricerche, e raffinati trattamenti dei segni a fini comunicazionali. Solo la cifra è diversa, perché diverso è l’obiettivo. Le campagne elettorali si fanno, al solito, per vincere le elezioni. Non per affermare principi e valori. Al contrario, la scelta di alcuni principi e alcuni valori (e non altri), viene fatta per provare a vincere. E per vincere basta un solo voto più dell’avversario. Bersani è partito in testa e sapeva di esserlo, ha scelto di parlare ai suoi, allo zoccolo duro che già si riconosceva in lui o che non ne era così lontano. Ha costruito una campagna per molti aspetti corretta: richiamo alla tradizione, al primato del partito rispetto alle persone, alla forza delle radici. Ha insomma evocato un frame in cui la politica è intesa come connessione emotiva, oltre che etica, a un sistema di valori che orientano il fare. E che sono i valori della sinistra. Su questo hanno lavorato, lui e i suoi guru; su un sistema di linguaggi e di segni coerenti e capaci di motivare i suoi elettori: ricostruzione, coraggio, costitituzione, ecc… Renzi ha fatto lo stesso, ma partiva da un’indubbia posizione di svantaggio. Poteva parlare solo ai suoi? Certo. Avrebbe perso. Allora ha scelto di parlare a tutti, a tanti fuori e dentro il PD. Come per altro fa qualunque Sindaco che si sia presentato mai alle amministrative dal 1994 ad oggi. Ha evocato un frame diverso, in cui la politica ha valore nella misura in cui “fa bene”, se non fa bene è un disvalore. E di qui, lui, i suoi guru, hanno lavorato ad un sistema di comunicazione e di segni radicalmente diverso da quello di Bersani: rottamazione, leadership, persone, adesso, meritocrazia… Tutto molto poco improvvisato, tutto molto studiato, tutto molto preparato. Ma nella fantasia di parte dell’elettorato, anche avveduto, della sinistra italiana resiste il pregiudizio della comunicazione. Bersani lo ha capito (perché lo aveva subito sulla sua pelle con i manifesti 6×3 in maniche di camicia) e lo ha usato coma una clava, costruendo una campagna effetto vintage da contrapporre alla patinatura moderna e accattivante di Renzi. E, sotto questo aspetto, ha vinto. Almeno fino a qui. Chapeu!
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Ora che le primarie del centrosinistra si sono chiuse, è tempo di bilanci. Ma anche di guardare alle prossime, se e quando ci saranno. A cominciare dalle primarie per i parlamentari del centrosinistra, su cui in questi giorni molto si discute. Oltre a quelle annunciate, smentite, riannunciate, ormai irrealizzabili, almeno nei tempi previsti, del centrodestra. Si aggiungano poi le “sondarie” celebrate dalla Lega qualche settimana fa, e le parlamentarie che hanno coinvolto gli attivisti del Movimento 5 Stelle. Insomma, per il momento Questioni Primarie chiude, ma dice arrivederci alla prossima puntata… Nel frattempo, qualche ringraziamento. I dati presentati provengono da una rilevazione exit poll organizzata da C&LS in occasione delle primarie del 25 Novembre e del 2 Dicembre. Hanno coordinato le attività di rilevazione sul territorio: Marco Almagisti (Università di Padova); Antonino Anastasi (Università di Messina), Mariano Cavataio (Università di Milano); Luca Cordani (Università di Pavia); Marino De Luca (Università della Calabria); Roberto De Luca (Università della Calabria); Vincenzo Emanuele (SUM), Domenico Fracchiolla (LUISS); Domenico Fruncillo (Università di Salerno); Bianca Gelli (Università del Salento); Selena Grimaldi (Università di Padova); Sara Mengucci (Università di Pavia); Mara Morini (Università di Genova); Carlo Pala (Università di Sassari); Fabio Sozzi (Università di Genova); Domenico Talò (Università del Salento); Giulia Vicentini (Università di Siena). Hanno partecipato a Questioni Primarie: Fulvio Venturino (Università di Cagliari) e Luciano Fasano (Università di Milano) coordinatori nazionali del gruppo di ricerca, Giuliano Bobba (Università di Torino), Natascia Porcellato (Università di Cagliari), Stefano Rombi (Università di Pavia), Antonella Seddone (Università di Torino) e Marco Valbruzzi (European University Institute).
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