INTRODUZIONE
«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Così recitava il settimo punto del documento Il fascismo e i problemi della razza, conosciuto anche come Manifesto della razza o Manifesto degli scienziati razzisti che, a metà luglio del 1938, dopo una virulenta campagna di propaganda sulla stampa, ufficializzò la svolta antisemita dell’Italia fascista. Nel breve volgere di qualche settimana, tra settembre e novembre il regime passò dalle parole ai fatti, iniettando il veleno dell’antisemitismo nell’ordinamento giuridico italiano attraverso le cosiddette leggi razziali (meglio sarebbe dire razziste). A partire da quel momento, con una miriade di leggi, decreti, regolamenti e circolari – circa 180 provvedimenti in cinque anni – gli ebrei furono condannati alla morte civile e privati dell’uguaglianza con gli altri cittadini, alla stregua di paria della società italiana1. Questa feroce persecuzione per lungo tempo è stata declassata dalla memoria collettiva e da parte della storiografia a una pagina nera che gli italiani di razza ariana avrebbero subìto passivamente, senza condivisione ideale e senza prendervi parte. È stato anche a causa di questo oscuramento delle responsabilità, accreditato dal dibattito politico del dopoguerra, che le leggi razziali, almeno fino al 1988, cinquantesimo anniversario della loro emanazione2, sono state quasi del tutto cancellate dal ricordo pubblico, trascurate dagli storici (a eccezione di Renzo De Felice e pochi altri) e ignorate dalla manualistica scolastica, sebbene su alcuni punti,
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per un determinato periodo, fossero state ancora più vessatorie di quelle tedesche3. Questa inclinazione all’autoassoluzione dell’Italia e del popolo italiano, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del regime mussoliniano attraverso la sua raffigurazione come dittatura da «operetta»4, ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali, disapprovate dai più, non fossero mai state realmente applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace, così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani non ebrei per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola. La persecuzione razziale è stata cioè considerata quasi una pantomima, al pari di altre trovate più di colore che di sostanza del fascismo, come il Saluto al duce, a noi! l’abolizione del lei e della stretta di mano, l’introduzione del passo dell’oca o la ridicolaggine dei gerarchi panzuti alle prese col salto nel cerchio di fuoco. Mentre l’aperta adesione di molti al razzismo e all’antisemitismo – di cui, come si vedrà, esistono ampie prove – è stata sottostimata o ricondotta alle più innocue e meno compromettenti categorie interpretative del servilismo e del timore di ritorsioni. Ad alimentare questa tendenza alla rimozione ha certamente contribuito l’enormità di ciò che accadde durante la seconda guerra mondiale, con milioni di morti nei campi di sterminio nazisti, di cui circa 8000 ebrei deportati dall’Italia e solo 837 sopravvissuti5. L’immane tragedia della Shoah, infatti, ha per lungo tempo fatto da catalizzatore della memoria, contribuendo a far calare un velo d’oblio su ciò che avvenne negli anni precedenti, anche tra le stesse vittime. Si è verificato, cioè, un feedback della memoria, o peggio ancora potremmo dire un corto circuito. E in questo quadro, l’opera generosa dispiegata da tanti italiani, che valse a salvare numerosi ebrei dalla deportazione ed è attestata dai circa cinquecento riconoscimenti di Giusti fra le Nazioni attribuiti dallo Yad Vashem (su un totale di oltre 23 mila in tutto il mondo), ha fatto dimenticare il diverso atteggiamento di molti
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altri, sia sotto l’occupazione nazista, sia nella fase precedente della persecuzione quando – come ha osservato Anna Foa – l’Italia fu «l’unico Paese europeo, a esclusione naturalmente della Germania nazista, ad avere imposto leggi antiebraiche a carattere biologico prima ancora dello scoppio della guerra»6. Gli stessi ebrei perseguitati si sono chiusi per decenni nel silenzio, spinti a ciò dalla «necessità terapeutica»7 dell’oblio e dall’amara constatazione della volontà delle classi dirigenti di voltar pagina e, in nome della riconciliazione nazionale, di dimenticare quel dramma collettivo (insieme ad altre vicende in qualche modo scomode, come la deportazione politica, l’internamento militare e le prigionie di guerra, il lavoro coatto, le foibe e le vendette politiche del dopoguerra). Il combinato disposto di questi fattori ha contribuito a far sì che agli italiani brava gente fosse attribuito d’ufficio un giudizio generalmente di non adesione e perfino di critica alle leggi razziali. E il risultato – come ha rilevato David Bidussa – è stato «una curiosa discrasia tra una storiografia che tende a stemperare presupposti e circostanze di ciò che furono le leggi razziali e una “microstoria”» che invece «narra un “altro paese”, fatto di delazione, di indifferenza, di egoismo e di cinismo». Una discrasia probabilmente «funzionale» all’obiettivo di «accreditare il “bravo italiano” come regola, e l’“altro paese” come eccezione»8, sulla base – come ha rilevato Robert S. C. Gordon – di «persistenti idee stereotipate», utilizzate come leva per «la creazione e l’imposizione dall’alto di un’identità nazionale “buona”»9. A portare parecchia acqua al mulino di questa lettura dei fatti ha concorso il netto giudizio assolutorio degli italiani formulato nel 1961 da Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, a lungo condiviso da larga parte della storiografia. Per lo storico reatino – che peraltro dedica al tema solo una manciata di pagine su oltre seicento10 – se ai vertici del
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regime fascista e della società italiana molti aderirono alla campagna contro gli ebrei «per viltà o per opportunismo», man mano che si scendeva nella scala sociale il grado di consenso andava scemando e «nonostante la massiccia e osannante preparazione della stampa e l’azione diretta del Pnf, i provvedimenti antisemiti non suscitarono nella maggioranza degli italiani alcuna simpatia». Anzi, «proprio in occasione del lancio della campagna della razza la propaganda fascista fallì per la prima volta la prova e per la prima volta grandi masse di italiani, che sino a quel momento erano state fasciste, o, se si vuole, mussoliniane, ma non certo antifasciste, incominciarono a guardare con occhi diversi il fascismo e lo stesso Mussolini». A titolo di prova, De Felice cita alcuni esempi che ritiene «più che sufficienti a documentare il reale stato d’animo dell’opinione pubblica italiana» e cioè: l’opinione, risalente al dopoguerra, del capo dell’Ovra Guido Leto, secondo il quale «Il problema razziale era […] per la totalità del popolo italiano veramente inesistente»; alcune lettere pubblicate sui giornali dell’epoca su casi di pietismo nei confronti degli ebrei; cinque informative riservate di fiduciari territoriali del Pnf (da Torino, Milano e Trieste). Ma è stato proprio così? Sulle responsabilità autonome del fascismo nella persecuzione degli ebrei e nella formazione di una tematica razziale in Italia e sul suo sviluppo autoctono e la sua originalità rispetto all’antisemitismo redentore di matrice nazista11 si sono espressi negli ultimi anni molti storici, con ricerche di largo respiro. Restava da approfondire nel dettaglio l’aspetto non secondario del consenso o meno della popolazione – cioè degli italiani ariani – alle politiche razziste del regime. Michele Sarfatti, uno dei massimi studiosi del tema della persecuzione, ha sottolineato in svariate occasioni la mancanza nel panorama storiografico di ricerche conclusive sulle reazioni dell’opinione pubblica non ebrea (l’invito a indagare a fondo in questa direzione ci è venuto proprio da lui).
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Nel variegato mosaico degli studi sul fascismo, alcuni lavori hanno avviato un primo esame della questione, ma l’esiguità dei documenti esaminati ha portato a risultati parziali e spesso diametralmente opposti. Ad esempio, Simona Colarizi, in un capitolo di un documentato saggio sull’opinione degli italiani sotto il regime, servendosi di un campione delle note informative dei fiduciari della polizia politica e dell’Ovra, è arrivata alla conclusione di stampo defeliciano che i provvedimenti razziali furono accolti con soddisfazione solo «nei settori del fascismo intransigente» e tra «i tanti intellettuali del regime», mentre «la popolazione, quasi unanime, manifesta una spontanea ripulsa di fronte alla ingiusta discriminazione degli ebrei»12. Alessandro Visani, invece, consultando un fondo diverso, relativo alle note riservate che arrivavano da tutta Italia al ministero della Cultura Popolare (il Minculpop), ha registrato numerose opinioni favorevoli alle leggi razziali tra la gente comune, concludendo che «è difficile parlare in termini perentori di “mancanza di consenso” da parte degli italiani nei confronti dei provvedimenti razziali fascisti»13. E ad analoghe conclusioni è giunta Silvana Casmirri, in uno studio sulle opinioni dei romani durante la guerra, condotto sempre in base alle informative della polizia politica, dal quale emerge che a partire dalla fine del 1939 ci fu una «rinnovata e pesante» ostilità della popolazione nei confronti degli ebrei, che andò crescendo nel corso della guerra, a mano a mano che le condizioni di vita peggioravano14. Altre ricerche, tra cui quelle di Stefano Caviglia e di Ilaria Pavan, hanno fatto luce sulla collaborazione attiva e spesso zelante dell’apparato burocratico ed economico dello Stato alle misure persecutorie15, mentre Mimmo Franzinelli ha evidenziato la complicità di molti italiani alla persecuzione dei connazionali ebrei attraverso l’arma della delazione16. Senza dubbio, all’emanazione delle leggi razziali, tra gli italiani non mancarono mugugni, conversazioni «a bassa voce»17 – come
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riferisce un confidente della polizia politica – e gesti più o meno isolati e più o meno significativi di rifiuto e incomprensione del nuovo corso verso gli ebrei voluto dal fascismo. Come vedremo, nei rapporti degli informatori della polizia, del Minculpop e del Pnf se ne trovano svariate tracce, da tutta Italia. Numerosi altri stralci di questi rapporti, però, vanno nella direzione opposta e testimoniano che vi furono moltissimi italiani che manifestarono pieno consenso alla politica razzista e persecutoria del fascismo. In molte città apparvero scritte, manifesti e cartelli ingiuriosi nei confronti degli ebrei, che subirono anche diversi episodi di violenza verbale e in qualche caso fisica, non solo da parte dei fascisti. Anche il fenomeno del pietismo nel Pnf fu in realtà più circoscritto di quanto si è ritenuto in passato. De Felice ha parlato di oltre mille tessere revocate con questa accusa, citando il fascicolo sui fogli di disposizioni del partito conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, ma Ilaria Pavan ha rilevato che tale fascicolo «non contiene documentazione alcuna riferibile a tale argomento». Dallo spoglio dei fogli di disposizione risultano solo quattro persone accusate ufficialmente in tal senso e tra l’altro non si tratta di «pietisti» che vengono in aiuto degli ebrei, ma di profittatori che cercano di sfruttare le loro difficoltà per tentare qualche affare18. Si sentiva perciò la necessità di un lavoro complessivo di ricerca e di scavo negli archivi, che tenesse conto e incrociasse una pluralità di fonti e di documenti diversi, per mettere meglio a fuoco la reazione degli italiani non ebrei di fronte alla persecuzione dei loro connazionali. Da tale lavoro di scavo è nato questo libro.