Azione 43 del 23 ottobre 2017

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 ottobre 2017 • N. 43

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Politica e Economia

Fine del Califfato a Raqqa

Siria Le Forze democratiche siriane, a guida curda, hanno preso il controllo di tutta la «capitale» siriana di Daesh,

lo Stato islamico. Con la prossima caduta di altre roccaforti dell’Isis si consolida Assad e l’interlocutore Putin Marcella Emiliani Il terrorismo islamico che voleva farsi «Stato» ha perso Raqqa, la sua capitale in Siria, dopo aver perso la sua capitale irachena, Mosul, liberata dalle Forze armate di Baghdad il 9 luglio. Lo hanno annunciato il 17 ottobre scorso le Forze democratiche siriane (Fds), un’alleanza di milizie curde e arabe appoggiate dagli Stati Uniti, che hanno finalmente ammainato la bandiera nera dell’Isis dalle sue ultime roccaforti in città: l’ospedale, la piazza al-Naim, dove avvenivano le esecuzioni pubbliche, crocifissioni comprese, ribattezzata dalla popolazione «la rotonda dell’inferno», e lo stadio. «Le operazioni militari vere e proprie sono finite» – ha reso noto il portavoce delle Fds Talal Sello. Stiamo ancora rastrellando alcuni quartieri per eliminare eventuali cellule dormienti del Daesh (l’Isis) e sminare il centro città». È finita così l’Operazione «Collera dell’Eufrate» iniziata nel novembre 2016 e rilanciata in grande stile il 6 giugno 2017 proprio per liberare Raqqa, con un bilancio negli ultimi quattro mesi di 3200 morti, tra i quali oltre 1100 civili.

Dove finiranno adesso i jihadisti e centinaia di foreign fighters che hanno combattuto per un dare vita a uno Stato sunnita e anti-sciita tra l’Iraq e la Siria? La liberazione di Raqqa ha definitivamente consegnato ad un’utopia dell’orrore il sogno di Abu Bakr al-Baghdadi di dar vita a un Califfato del Terzo Millennio. Per inseguire quel sogno erano arrivati prima in Siria poi in Iraq migliaia di foreign fighters da tutto il mondo che a Raqqa hanno imparato a combattere e a pianificare i peggiori attentati poi realizzati in Occidente, come quelli a Parigi e Bruxelles del novembre 2015 e del marzo 2016. Sempre a Raqqa molti di quei foreign fighters negli ultimi mesi ci sono rimasti intrappolati perché non sapevano più come fuggire e dove andare. Hanno preferito morire piuttosto che consegnarsi alle Fds mentre i loro «colleghi» siriani o comunque arabi, grazie alla mediazione dei capi tribali locali, sarebbero stati evacuati verso Deir Ez-Zor, dove l’Isis controlla ancora un 10% del territorio, incalzato dalle Forze armate di Bashar al-Assad e dall’aviazione russa. Omar Alloush, un funzionario del Raqqa Civil Council, ha affermato all’agenzia France Press che tra i 500 jihadisti evacuati ci sarebbero stati anche stranieri, ma la notizia non è stata confermata da altre fonti. Al momento della conquista della città da parte delle Forze democratiche siriane, i militanti dell’Isis rimasti sarebbero stati 300-400, 100 dei quali si sarebbero arresi. Un problema a parte è ancora rappresentato dai famigliari dei jihadisti, specie se mogli o figli di foreign fighters. Nelle ultime settimane erano ammassati nell’ospedale centrale, ma non si sa ancora quale destino li aspetti e chi se ne farà carico. Come non si sa ancora chi verrà incaricato della ricostruzione della città, distrutta per il 90%, e del ritorno a casa dei 270’000 sfollati, fuggiti verso campi profughi nella stessa Siria e in Turchia. Le uniche autorità civili presenti a Raqqa sono due consigli municipali creati uno nell’aprile scorso dalle Forze democratiche siriane, il Raqqa Civilian Council, l’altro nato per volere della Syrian National Coalition (Snc),

Un soldato delle Forze democratiche siriane osserva le macerie della città di Raqqa, roccaforte dell’Isis. (AFP)

la più grossa coalizione di opposizione al regime di Bashar al-Assad, basata in Turchia dal 2011, che ha dato vita al Raqqa Provincial Council. L’esistenza di questi consigli civici, comunque, non rassicura nessuno. Innanzitutto sono espressione di alleanze (le Fds e la Snc) mal assortite e in balìa del loro membro più forte, che in genere è quello meglio armato. Non per essere pessimisti ad oltranza, ma è presto per affermare che la stagione delle armi in Siria è finita. E comunque non finirà prima che l’Isis venga definitivamente sconfitto e sloggiato anche da Dar Ez-Zor, sua ultima roccaforte. Ma anche allora, la lotta non potrà dirsi terminata. Nel Siraq (Siria e Iraq) l’Isis controlla ancora buona parte della valle dell’Eufrate, ma soprattutto era e rimane un’organizzazione terroristica che ha imparato fin troppo bene a pianificare e realizzare attentati in Medio Oriente, in Occidente, in Asia e Africa. Il fatto che il Califfato abbia perso gran parte del territorio che aveva conquistato nel 2013-2014 non vuol dire che la sua ideologia e il suo modus operandi siano stati debellati. Quindi, se è comprensibile la gioia di chi ha salutato la liberazione di Raqqa dalle grinfie del Daesh, bisogna ricordare che è una gioia piena di ombre per il futuro. In quest’ottica è risultata decisamente poco diplomatica la sicumera con cui il 18 ottobre il presidente Trump si è attribuito il merito dell’Operazione Collera dell’Eufrate. «L’Isis – ha affermato ad uso e consumo dei suoi concittadini – non è stato sconfitto prima perché non avevate Trump come vostro presidente. Io ho cambiato le regole di ingaggio. Io ho cambiato i

nostri militari, io ho cambiato completamente l’atteggiamento dei soldati e loro hanno fatto un lavoro fantastico e l’Isis ora sta cedendo, stanno cedendo, stanno sollevando le mani in aria, stanno andando via. Nessuno ha visto nulla di simile prima di me». Anche se è innegabile che la copertura aerea e gli aiuti americani siano stati decisivi per il successo della «Collera dell’Eufrate», resta che sul terreno a vincere sono state in primo luogo le Forze democratiche siriane che raggruppano oltre a curdi e arabi, circassi, turkmeni, assiri, e armeni. E infatti a gioire nelle strade devastate di Raqqa, tra cumuli di macerie e palazzi sventrati, sono state soprattutto loro e i curdi delle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) nonché della sua sezione femminile (Ypj) guidata da una guerrigliera ormai mitica, Rojda Felat. Proprio lei è diventata l’icona della liberazione della città, mentre sventola felice la bandiera giallo oro delle Fds. I curdi in particolare hanno considerato la liberazione di Raqqa come il prodotto dell’unità politica raggiunta con la creazione del Rojava, il Kurdistan siriano ormai autonomo. E sempre la liberazione di Raqqa per loro diventerà una carta importante da giocare per mantenere proprio quella autonomia nei confronti di Damasco, dei suoi alleati russi e sciiti, e soprattutto della Turchia che da anni fa di tutto pur di impedire che il Rojava siriano si renda indipendente e riesca ad unire i suoi tre «cantoni» che oggi non hanno contiguità territoriale: Afrin, Jazira e Kobani (o Kobane). Il tutto per dire che se militarmente Raqqa è stata conquistata, cominciano ora i guai politici per chi e per

come la gestirà e in quale contesto nazionale e regionale (sempre che si voglia credere che la Siria rimarrà unita sotto Bashar al-Assad).

La liberazione di Raqqa per i curdi è una carta importante da giocare per mantenere l’autonomia nei confronti di Damasco, dei suoi alleati russi e sciiti e della Turchia Le Unità di protezione del popolo curdo (sia maschili, Ypg, sia femminili, Ypj), infatti, altro non sono che il braccio armato del Pyd, il Partito democratico curdo, nato come «costola» siriana del Pkk, il Partito dei lavoratori curdi turco, considerato un’organizzazione terroristica tanto dalla Turchia quanto dagli Stati Uniti. Ma se gli Stati Uniti, dopo la creazione nel 2015 di quel fronte arcobaleno che sono le Forze democratiche siriane, hanno «dimenticato» la matrice terroristica del Partito democratico curdo, e hanno appoggiato con la loro aviazione e i loro aiuti militari i curdi del Rojava contro il Califfato, non così la Turchia di Erdoğan, oggi più imbestialita che mai con gli Usa e il Pyd proprio per la liberazione di Raqqa. E in previsione della sconfitta del Califfato nella sua capitale siriana, il presidente turco il 12 ottobre scorso ha ben pensato di spedire i propri carri armati in Siria, nel governatorato di

Idlib, attestando le truppe nell’area di Samaan e sui monti di Sheikh Barakat, a pochi chilometri dalle postazioni delle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) del Rojava che difendono il cantone di Afrin, il vero obiettivo di tutta l’operazione. E come è già successo in passato, quando per colpire i curdi la Turchia supportava l’Isis, oggi pur di impedire l’unità territoriale del Rojava, Ankara non esita a collaborare con Hay’et Tahrir al-Sham (Hts) che altri non è che l’ex Fronte al-Nusra di matrice qaedista, ma anche col Libero esercito siriano, che controllano Idlib, entrambi oppositori della prima ora del regime di Bashar al-Assad di cui Erdoğan in teoria si proclama alleato in funzione anti-Isis. Quanto all’ex Fronte al-Nusra e al Libero esercito siriano non meraviglia che collaborino con Ankara in funzione anti-curda poiché dal 2011 rimproverano ai curdi siriani di non aver partecipato alla primavera contro Bashar al-Assad e di aver in seguito «approfittato» della guerra civile e della lotta al terrorismo dell’Isis per estendere il proprio controllo al Nord in aree a maggioranza araba o miste. Proprio per questo diventa importante chi amministrerà Raqqa liberata. In altre parole i curdi siriani non devono cadere nell’errore commesso dai loro fratelli iracheni che col referendum sull’indipendenza del 25 settembre hanno preteso di annettersi Kirkuk e Sinjar dopo averle liberate dalla morsa del Califfato. Ebbene proprio il 17 ottobre scorso le truppe irachene hanno cacciato i curdi da Kirkuk e dai suoi campi petroliferi. Una «lezione» fin troppo recente per essere scordata.


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