Azione 40 del 1 ottobre 2018

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

Un colpo al cuore

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Iran L’attacco ad Ahvaz, nella regione a maggioranza araba della Persia, è uno schiaffo

ai guardiani della rivoluzione e ai leader del Paese - Ignoti i mandanti della strage

Marcella Emiliani Erano le 9 e mezza del mattino, sabato 22 settembre, ad Ahvaz, capoluogo della provincia iraniana del Khuzestan e, come in altre città, si festeggiava la Giornata delle Forze armate. Mentre i vari corpi sfilavano davanti al palco delle autorità quattro uomini in divisa da pasdaran (i guardiani della rivoluzione) hanno cominciato a sparare coi kalashnikov sulla folla per puntare poi verso le autorità ed essere immediatamente freddati. Tre sono morti subito, uno più tardi in ospedale. Erano comunque riusciti ad uccidere 24 persone e provocare una cinquantina di feriti tra civili e militari. Insomma una strage che è costata la vita – oltre che a donne e bambini – a guardiani della rivoluzione, a basiji (miliziani volontari) e a normali soldati. Pasdaran e basiji sono le forze d’elite iraniane incaricate della sicurezza interna dell’Iran e dell’esportazione della sua rivoluzione in Medio Oriente e nel mondo, e il 22 settembre è soprattutto la loro festa perché sono nati e cresciuti «nel fuoco del martirio» – come diceva il defunto Khomeini – durante la guerra Iran-Iraq scatenata da Saddam Hussein proprio quel giorno del 1980. Iniziò così la prima Guerra del Golfo che durò ben otto anni dal 1980 al 1988, causando la morte di almeno un milione di persone.

Nel Khuzestan è concentrato il 90% del petrolio e il 60% del gas iraniano, ma la regione resta la più povera Nel Khuzestan, che allora si chiamava ancora Arabistan, i combattimenti furono particolarmente sanguinosi e le distruzioni devastanti visto che nella regione è concentrata la maggior parte dei campi petroliferi iraniani. Il petrolio, cioè, in Iran si trova nell’unica regione a maggioranza araba, non persiana, e l’arabo Saddam contava sul fatto che gli arabi iraniani insorgessero contro il regime khomeinista per abbatterlo, ma dovette ricredersi. Gli arabi iraniani, infatti, non presero le armi contro i loro connazionali persiani e combatterono al loro fianco contro gli iracheni. Nonostante questo, Teheran li ha sempre considerati cittadini di serie B e li ha discriminati dal punto vista sia politico che economico tant’è che il Khuzestan, pur galleggiando sul 90% del greggio e il 60% del gas iraniano, è tutt’oggi una delle province più sottosviluppate del paese, ha percentuali di disoccupazione superiori alla media nazionale e i suoi abitanti sono discriminati nell’accesso alle cariche pubbliche e all’esercito. Non meraviglia, dunque, che soprattutto dal volgere del millennio ad oggi nella provincia si siano moltiplicate le proteste contro il governo centrale organizzate da movimenti vari che si propongono non solo di ottenere pari opportunità politiche ed economiche per la minoranza araba, ma anche di difendere il suo patrimonio culturale e l’integrità del suo ambiante minacciato dall’inquinamento delle industrie petrolchimiche. Ma il vero turning point per questi movimenti di protesta detti ahvazi (da Ahvaz, il capoluogo della provincia) è stata nel 2003 l’Operazione Iraqi Freedom con cui gli Stati Uniti di George W.Bush hanno abbattuto la dittatura di Saddam Hussein in Iraq. Da allora, attraverso i contatti che avevano con il

Soldati e spettatori della parata militare cercano scampo durante l’attacco costato la vita a 24 persone. (Keystone)

partito Ba’ath iracheno, diversi arabi iraniani avrebbero raggiunto i jihadisti nel vicino Iraq e assieme a loro avrebbero compiuto attentati in Iran. Di tutto questo il regime iraniano non ama parlare ma è seriamente preoccupato di questo legame tra i jihadisti iracheni (al Qaeda prima, Isis dopo) e gli arabi di casa sua, ma non solo gli arabi. Anche senza riandare agli attacchi al Parlamento iraniano e al Mausoleo di Khomeini del 7 giugno 2017 rivendicati dal Califfato, il 20 luglio scorso 10 guardiani della rivoluzione sono stati uccisi nel villaggio di Dari, distretto di Marivan, nel nord-ovest del Kurdistan iraniano. Tutte le «periferie» dell’Iran rappresentano una spina nel fianco di Teheran: dai curdi ai baluchi, dagli arabi ai sunniti in generale (e l’Isis ricordiamolo è sunnita), tutte le volte che il centro – cioè il potere persiano-sciita installato nella capitale – si indebolisce, le minoranze etniche o religiose stanziate sui confini si fanno sentire a suon di bombe o kalashnikov. Ed è anche vero che tutti i nemici dell’Iran hanno sempre provato a strumentalizzarle, ma non è detto che ci siano riusciti. In altre parole al regime e ai pasdaran fa comodo pensare che dietro ai dissidenti di casa propria ci sia «la triade diabolica Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati arabi» perché questo fornisce loro – come a Bashar al-Assad in Siria – la giustificazione per annientare qualsiasi opposizione interna. Ma il dissenso in Iran è ormai generalizzato ed ha un intero rosario di ragioni politico-economiche: la discriminazione sistematica delle suddette minoranze, la totale mancanza di democrazia reale, la povertà dilagante dovuta alle avventure «imperiali» del regime, alla crisi economica e alle sanzioni americane presenti e future («il terrorismo economico» come lo ha definito il presidente Rouhani all’Assemblea generale dell’Onu il 23 settembre); infine l’usura di una rivoluzione che ormai mostra la corda da troppo tempo e spinge la popolazione, specie quella giovanile, a protestare nelle piazze. In quest’ottica, l’attentato del 22 settembre ad Ahvaz va visto innanzitutto come un colpo durissimo al

cuore del sistema, al pilastro su cui si basa oggi la sicurezza dell’Iran, ovvero il corpo dei pasdaran che rispondono direttamente alla Guida della rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, diventati la stampella (i «badanti» armati o addirittura i burattinai) del clero al potere e anche la punta di diamante della creazione del nuovo impero persiano in Medio Oriente come testimonia il loro operato in Iraq, Siria, Libano e Yemen. La sparatoria di Ahvaz ha mostrato tutta la loro vulnerabilità ad azioni di guerriglia suicide e questo li ha resi letteralmente furiosi (e pericolosi). Come il presidente Rouhani e la Guida della Rivoluzione Khamenei, hanno promesso sfracelli contro «i terroristi in azione ad Ahvaz» ed hanno immediatamente puntato il dito contro «il movimento al-Ahwaziya» che è un’organizzazione-ombrello di diversi gruppi separatisti del Khuzestan. Vero, falso? Difficile dirlo. Lo stesso sabato 22 settembre sono arrivate due rivendicazioni, la prima dell’Isis molto generica e imprecisa, e una seconda da parte di un individuo che si è presentato come portavoce della Resistenza nazionale di Ahvaz sul canale satellitare Iran International che trasmette da Londra. L’individuo in questione ci ha tenuto a precisare che «l’attacco aveva come obiettivi legittimi i militari». Altri due movimenti, già noti, si sono invece affrettati ad emettere comunicati in cui negavano completamente ogni responsabilità nell’accaduto: il Fronte popolare e democratico degli arabi d’Ahvaz e il Movimento arabo di lotta per la liberazione di Ahvaz. Già il 24 settembre il Ministero degli Interni rendeva noto di aver individuato «il nascondiglio dei terroristi» e di averne arrestati 22, oltre ad aver sequestrato «esplosivi, materiali militari e strumenti di comunicazione». Sul sito del Ministero venivano poi pubblicati nomi e foto degli attentatori individuati come Ayad Mansouri, Fouad Mansouri, Ahmad Mansouri, Javad Sari e Hassan Darvichi, appartenenti dunque ad un’unica famiglia di fratelli, cugini con un cognato, Darvichi. Ma la cosa interessante è il linguaggio usato per definire gli autori dell’attacco di Ahvaz: takfiristi. Takfir per l’Islam è

l’apostasia, l’impurità assolutamente inaccettabile, ma sia sunniti che sciiti adoperano il termine quando si accusano l’un l’altro di essere settari. In Iran in particolare vengono definiti takfiristi i miliziani dell’Isis ma anche i wahhabiti, cioè i sauditi, e non a caso i terroristi di cui sarebbe stato scoperto il nascondiglio apparterrebbero «a gruppi separatisti takfiristi sostenuti da paesi arabi reazionari». Tradotto, il tutto sta a significare: sunniti apostati sostenuti dall’Arabia Saudita e dagli Emirati. In altre parole Teheran sembra voler accreditare la versione dei fatti che mescola la pista separatista e quella jihadista di marca saudita. Ricordiamo che sia l’Arabia Saudita che gli Emirati hanno ripudiato e condannato sia al-Qaeda che l’Isis, ma questo agli ayatollah poco importa. Per loro dietro il complotto che vorrebbe rovesciare il regime iraniano ci sono per definizione Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati. Per quel che li riguarda comunque il presidente Rouhani, l’ayatollah Khamenei e i generali dei pasdaran non hanno mai nominato espressamente Arabia Saudita ed Emirati, mentre non hanno avuto difficoltà ad accusare apertamente gli Usa e lo Stato ebraico. Tutto questo riflette molto bene la drammatica percezione del proprio isolamento avvertita dall’establishment iraniano dall’8 maggio scorso quando Trump è uscito dall’Accordo sul nucleare dell’Iran. Da quel momento col ritorno delle sanzioni e le manovre del presidente Usa per influenzare le politiche petrolifere dell’Opec a tutto danno del paese degli ayatollah, l’andamento dell’economia è sceso in picchiata, Rouhani è stato messo alla gogna in parlamento dagli ultraconservatori e dopo i disordini in Kurdistan del mese di luglio, il 22 settembre è arrivato anche l’attacco nel Khuzestan. Poco consola la buona volontà dell’impotente Europa a trovare una nuova via per aggirare le sanzioni americane. Che gli Stati Uniti vogliano la rovina degli ayatollah è ormai certo, ma è altrettanto certo che il regime non potrà cavarsela solo gridando al complotto esterno. I suoi errori e i suoi peccati cominciano ad essere davvero troppi.

Franco Cardini, Il Sultano e lo Zar, Salerno editrice, 2018 Dalla fine del XVII secolo il destino del mondo si gioca in una vasta regione orientale. Dal Turkestan occidentale (le cinque repubbliche dell’ex Asia centrale sovietica) al Medio Oriente (Asia occidentale) un trend storico secolare è stato interrotto dagli USA. Vediamo come. Tutto comincia, racconta Franco Cardini, quando l’Impero romanogermanico firma con gli Ottomani la pace di Karlowitz (1699). Nello stesso momento, la Russia comincia la sua marcia verso il Mar Nero, entrando in urto con il Sultano, e non con l’imperatore asburgico, che con la pace di Karlowitz ha rovesciato la tendenza dei secoli precedenti (gli ottomani, dalla caduta di Costantinopoli, 1453, puntavano su Vienna). Ed eccoci al 2011, quando le rivolte arabe raggiungono la Siria, che diventa il campo di battaglia tra gli imperi. La Gran Bretagna è stata rimpiazzata nella grande regione orientale dagli Stati Uniti, che guida una coalizione che include Francia, Regno Unito, Turchia, Israele e sunniti. Dall’altra parte c’è Mosca, che assiste il governo regolare siriano, membro dell’ONU, ma bombardato un po’ da tutti senza mandato ONU. Schierandosi con Damasco, La Russia prosegue la secolare rivalità con l’ex impero ottomano. E alleandosi con gli Stati sciiti (Siria, Iran, Iraq) prosegue la sua amicizia con la Persia, considerata da sempre la naturale avversaria della Turchia. Ereditando il ruolo di Londra, inizialmente anche Washington prosegue un’antica traiettoria storica. Per raggiungere i propri fini, la Gran Bretagna non aveva forse sobillato il sultano del Negev, capo politico della setta radicale sunnita wahhabita? Allo stesso modo, l’ISIS, apparso in Siria nel 2014, è stato sconfitto solo «quando non serviva più». Serviva agli Emirati sunniti e wahhabiti del Golfo, alleati degli USA e di Israele, per «portar avanti la loro offensiva antisciita e antiiraniana». Una vera e propria «archeologia del terrorismo», che spiega un filone storico inaugurato da Londra nel XVIII secolo. Quindi finora le cose sono andate come sempre: la Russia, in marcia vero i mari caldi dal XVII secolo, è «naturalmente» ostile alla Turchia e amica dell’Iran (e quindi degli Stati sciiti: Iraq e Siria); Turchia, anglosassoni e Israele sono (dai tempi di Kemal Atatürk) grandi amici; sunniti e sciiti si odiano; l’estremismo religioso (ieri i wahhabiti, oggi l’ISIS) viene manipolato per ragioni politiche. Poi succede qualcosa di straordinario, che scardina questo trend secolare. Secondo Franco Cardini, «si ha l’impressione che, magari contro tutte le regole della geopolitica, i guai combinati dalla diplomazia statunitense dall’11 settembre in poi siano riusciti a compier miracoli: dall’avvicinamento della Russia alla Cina a quello della Cina all’India, a quello tra Iraq e Iran, a quelli – storicamente paradossali – fra Turchia e Russia e fra Turchia e Iran, fino a svolte per la verità ancora difficili da valutare nella politica tradizionalmente filoamericana di paesi come il Qatar e il Pakistan». In questo quadro manca un attore: quell’impero romano-germanico che avrebbe potuto reincarnarsi nell’Unione Europea, che resta purtroppo, scrive Franco Cardini, «disunita e non autorevole».


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