Azione 20 del 13 maggio 2019

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 maggio 2019 • N. 20

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Politica e Economia Usa e Cina lontane sui dazi Il vicepresidente cinese Liu He è a Washington per evitare ulteriori rialzi

Giappone: si è aperta l’èra reiwa L’imperatore Akihito, a ottantacinque anni e dopo trent’anni di servizio, ha lasciato il Trono del Crisantemo lo scorso 30 aprile, in una cerimonia che non avveniva da secoli. Gli succede Naruhito, il suo primo figlio maschio

In vista delle Federali Fra cinque mesi si vota per il rinnovo del Consiglio nazionale e il Consiglio agli Stati – alcuni pronostici

Il peso dei Fondi americani Due azioni svizzere su tre sono in mano estera, in particolare ai Fondi d’investimento USA

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pagina 35 Il presidente iraniano Rohani parla il 9 aprile in occasione della giornata nazionale della tecnologia nucleare. (AFP)

L’ultimatum di Teheran

nucleare iraniano Il presidente iraniano Hassan Rohani ha annunciato che il suo Paese ridurrà gli impegni previsti

nell’accordo del 2015 e ha minacciato di riprendere il programma atomico se non si allenteranno le sanzioni Usa Lucio Caracciolo

Il rischio di uno scontro militare diretto fra Stati Uniti e Iran non è più una prospettiva remota dopo la decisione del governo di Teheran di riprendere lo stoccaggio di acqua pesante e uranio arricchito. E soprattutto dopo l’avvertimento del presidente Rohani che se entro 60 giorni gli altri firmatari dell’accordo sul nucleare iraniano (Germania, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti – che però con Trump hanno deciso di ritirarsi dall’intesa) non allenteranno la morsa delle sanzioni contro il suo Paese, non saranno più posti limiti al grado di arricchimento dell’uranio. In linguaggio semplice: l’Iran si riserva il diritto di costruire la Bomba atomica. Come si è arrivati a questa crisi, e come minaccia di svilupparsi? L’avvento di Trump alla Casa Bianca ha segnato la fine del sogno di Obama. Il

quale fin dal primo giorno da presidente aveva espresso la volontà di trovare un’intesa con la Repubblica Islamica, in vista di un nuovo e più solido bilanciamento della potenza nel Grande Medio Oriente. Queste aperture, malgrado il sabotaggio israeliano e saudita, portarono alla firma dell’accordo che ha messo provvisoriamente in soffitta il programma atomico iraniano, sottoponendolo a limiti che ne impediscono l’evoluzione in senso militare. Oggi alla Casa Bianca e dintorni, ma anche al Congresso e nell’opinione pubblica, domina l’idea che l’Iran sia uno Stato pericoloso per gli interessi vitali degli Usa. L’amministrazione Trump ha provveduto perciò non solo a imporre severe sanzioni economiche e finanziarie – che hanno colpito le esportazioni di petrolio iraniane, essenziali per quel paese – ma anche a costruire intorno a Teheran

una cintura di contenimento geopolitico, d’intesa con Gerusalemme, Riyad e i suoi partner nel Golfo arabo. Fino alla recente decisione di inserire i Guardiani della Rivoluzione, più noti come pasdaran, nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ciò anche per effetto dell’avvento nell’amministrazione americani di notori «falchi» anti-persiani, quali il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, il segretario di Stato Mike Pompeo e il ministro della Difesa ad interim Patrick Shanahan. Questo pacchetto di mischia sta definendo una politica sempre più aggressiva verso l’Iran, con lo scopo ultimo di sovvertirne il regime. Stretto nella morsa delle sanzioni, e deluso per la comprensione poco più che verbale dei firmatari europei dell’accordo sul nucleare per la sua politica di resistenza alle pressioni economiche americane, il governo ira-

niano sente intanto anche la crescente pressione della sua piazza. L’Iran soffre le restrizioni economiche al punto da considerare prossima una nuova e ancora più robusta ondata di proteste popolari. Secondo l’intelligence americana, pur di evitare una non troppo lenta morte per soffocamento, la Repubblica Islamica avrebbe deciso di colpire le Forze armate americane in Iraq, o in altri paesi della regione, attraverso suoi clienti strategici, da Hezbollah alla Jihad Islamica e soprattutto alle milizie sciite in Iraq. L’improvvisa visita di Pompeo a Baghdad è figlia di questo allarme. Lo schieramento militare Usa intorno all’Iran è in via di rafforzamento. In modo che in caso di necessità la rappresaglia sia immediata e robusta. Francesi, inglesi e tedeschi si sono al solito divisi sulla posizione da prendere. Londra si è di fatto schierata

con Washington, Berlino rilutta, invocando dialogo e cautela, Parigi è in mezzo. Scontata invece l’immediata solidarietà di Mosca e di Pechino con Teheran. Israele e Arabia Saudita soffiano sul fuoco. L’idea di potersi finalmente sbarazzare di quello che dipingono e in parte considerano (Gerusalemme) o effettivamente sentono (Riyad) quale minaccia mortale, per affermare un condominio sulla regione vegliato dal grande fratello americano, solletica le rispettive classi dirigenti. Ma alla fine la partita è a due: Washington contro Teheran. Una storia cominciata con il golpe americano e inglese contro Mossadeq nel 1953, continuata con la rivoluzione khomeinista del 1979 e con la susseguente presa di ostaggi americani nell’ambasciata di Washington in Iran. Una storia infinita, che solo gli ingenui potevano immaginare composta con il precario accordo 5+1.


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