Il calciatore ottobre novembre 2015

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l’intervista

di Pino Lazzaro

Il ritorno di “Giaccherinho” centrocampista del Bologna

Emanuele Giaccherini: “Il talento non Incontro al Centro Sportivo di Casteldebole. Lui infortunato, uno stiramento, ancora lì dunque impegnato nella riabilitazione, a recuperare. Dice che di infortuni un po’ se ne intende, che nei suoi anni da calciatore le cose sono insomma andate così, ma che tutto sommato non si lamenta: come sempre poteva andare anche peggio, no? Emanuele Giaccherini è dunque tornato dalla sua esperienza inglese e quando ci siamo incontrati era lì – come detto – che scalpitava, che come sempre si fa quando si è costretti a stare fermi, ci dava dentro per tornare in campo, ancora e ancora. Come è un po’ tradizione di questo spazio, ecco dunque il suo raccontare e raccontarsi (partendo proprio dalla voce farsi male): dagli inizi su su sino alla Nazionale, tra gli altri obiettivo la sua parte stimolante (di più), visto l’Europeo in Francia del prossimo anno. Buona lettura. “Sì, penso anch’io che gli infortuni facciano parte di questo lavoro e nella mia carriera ne ho avuti parecchi a cominciare da quello – a 16 anni – per cui mi tolsero la milza, per arrivare ad oggi, dopo una stagione travagliata in Inghilterra, con due rotture del perone e una placca

che mi hanno sistemato qui sulla gamba, con sette viti. Ero finalmente rientrato adesso col Bologna e mi sono subito rifermato: stiramento. Di infortuni ne ho avuti più d’uno, ma devo dire che tra i 22 e i 28 ho potuto invece andare sempre al massimo, mai niente, tranne che mi sono rotto “solamente” una spalla, niente cose gravi, tipo alle ginocchia. Insomma, in una carriera c’è chi ne ha giusto uno magari di infortunio, chi invece, che so, una ven-

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tina: diciamo che io sto nella media, una decina e va bene così. Quando mi faccio male, vivo il tutto con grande trepidazione, divento ansioso, penso subito alle partite che perderò, a come farò ad allenarmi, quanto ci metterò. Così devo proprio dire che non riesco a essere né sereno, né troppo lucido. Il fatto è che la prima cosa è il tornare a giocare, il prima possibile e vedo bene adesso, che comincio ad avere la mia età, che su questo sono maturato e capisco più di prima che quel che conta è recuperare, farlo bene”. “Io ho cominciato a giocare, per quelli che sono i miei ricordi, che avevo 5-6 anni; lì al mio paese, a Talla, con tutti gli altri bambini, al parco. Da lì poi, con i miei amici, siamo andati nella squadra di un paese vicino, Rassina, non c’era nulla da noi per la nostra età. Distante 7-8 km, erano i genitori che ci portavano, facevano a turno. Io sono dell’85 e ricordo che giocavo già con gli ‘84 e ‘83 e il mio primo mister è stato Silvano Grifoni, me ne ha fatte capire tante di cose lui, ma credo poi che sia

un po’ di tutti gli allenatori il saperti dare qualcosa. Era, per spiegarmi, un tipo alla Conte, sempre lì, il classico “martello” insomma e mi ricordo di quella volta che lui ha voluto fare comunque allenamento, dai e dai e c’è stata quel giorno l’alluvione, rivedo lì noi sul campo con tutta quell’acqua, quanto mi sono divertito, con i genitori che quasi nemmeno riuscivano ad arrivarci al campo per venirci a prendere. Questo per dire che tipo era Grifoni. Poi, sui dieci anni, sono passato all’Arezzo, il mio allenatore era Mauro Pasqualini, altra bella stagione. Società già importante, mi pare che allora facessero la C2, ma l’anno dopo non c’era la squadra della mia categoria e così sono passato al Bibbiena, società collegata al Cesena e lì era vero settore giovanile, c’era il pulmino che mi portava e riportava, il tutto dagli 11 ai 16 anni”. “Comunque sia, appena tornavo a casa, subito me ne andavo a giocare con gli amici, sempre al parco. Dai, sono cresciuto con le figurine, sentivo le partite alla radio e s’andava poi nella saletta parrocchiale a vedere i posticipi con Telepiù, approfittando anche del tempo tra primo e secondo tempo, per andare fuori, a giocare. Con diversi dei miei amici facevamo il tifo per l’Inter, poi era la Fiorentina quella a cui più si teneva dalle nostre parti. Il mio sogno era quello giusto di giocare e giocare, non quello di diventare professionista e così sono andato avanti sino l’anno del Cesena in serie C, mai immaginavo e pensavo di arrivare, non era quello insomma quel che avevo in testa”.

Taglia small? Una fortuna

“Essere di taglia small tutto sommato per me è stato un vantaggio, sono contento di essere così. Specialmente poi nel calcio, per cui ho dovuto sin da subito affinare le doti tecniche, giocando sin da piccolino con la palla a terra, visto che fisicamente avevo meno”.


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