Roberto Fanari: Nella mia foresta (sono soli)

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Leuchtturm

Roberto Fanari : Nella mia foresta (sono soli)

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Roberto Fanari : Nella mia foresta (sono soli) Lucca, Villa Bottini 11 maggio | 7 giugno 2013 Lu.C.C.A. Museum 11 maggio | 9 giugno 2013 a cura di Alessandro Romanini Maurizio Vanni Coordinamento organizzativo Ufficio Cultura Comune di Lucca Realizzazioni Ceramiche Gatti, Faenza Fonderia Cubro, Novate Milanese Fonderia Mariani, Pietrasanta Fotorent srl, Milano Forme in argilla Antonio Mendola Allestimento Giovanni Gherarducci Fabiola Manfredi Ufficio stampa Lu.C.C.A. Museum Catalogo Leuchtturm Progetto grafico Marco Baudinelli Fotografie Francesco Mattuzzi Traduzioni Studio Argentieri-Bottari Stampa Menegazzo, Lucca

Roberto Fanari : Nella mia foresta (sono soli)

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In copertina Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-024) 2012, ceramica smaltata cm 200x140 Nel frontespizio Nella mia foresta series Paesaggio al buio (PB-002) 2013, C Print

Contenuti

Contenuti

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Patrizia Favati Assessore alla Cultura del Comune di Lucca

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Il segno della materia Alessandro Romanini

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Conversazioni La mancanza di un’immagine primigenia Sulla riferibilità diretta all’autore

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Incanto e disincanto Maurizio Vanni

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Conversazioni Nella mia foresta | In my forest series I fogli di bronzo | Bronze folio

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Conversazioni Ceramiche frantumate | Shattered ceramic

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Conversazioni Paesaggi invisibili | Hidden landscapes

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Conversazioni Tree-dimensional project

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Conversazioni Sono soli | They are alone series


Un artista visivo è sempre testimone del proprio tempo e artefice del proprio destino, un sismografo in grado di registrare, attraverso il mezzo tecnico scelto, le piccole e grandi scosse della società in cui vive, completandole con pensieri, stati d’animo e dimensioni emotive. Non è facile parlare di cultura visiva in un momento nel quale la tecnologia e la globalizzazione hanno acuito una crisi d’identità che sta omologando piuttosto che stimolare al paragone e alla creatività. Solo le persone più intraprendenti, coraggiose, appassionate ed emotivamente solide possono iniziare un percorso di crescita – tecnica e interiore – utilizzando il confronto internazionale come stimolo per rileggere il passato in chiave contemporanea. I lavori di Fanari ci riportano a un segno tradizionale, all’utilizzo di espedienti tecnici classici, ma non per questo inefficaci nell’hic et nunc, nel qui e ora. Le sue foreste ci fanno riflettere, meditare, sognare, ci incuriosiscono e ci fanno mettere in discussione parametri di fruizione che ritenevamo consolidati. Una riscoperta nella scoperta che dimostra come, troppo spesso, i pregiudizi e le indagini visive superficiali condizionino il nostro sistema percettivo. Le foreste di Fanari ci spingono ad andare oltre, ci mettono in contatto con quell’istinto non mediato dalla conoscenza che guida l’individuo nelle sue scelte più importanti, ci inducono ad assecondare l’irrazionalità per compiere un percorso introspettivo, per affrontare il panico della solitudine e la paura dell’ignoto. Molte volte le risposte che cerchiamo sono già dentro di noi, basta osservare tutto da angolature diverse. 6

Patrizia Favati

Assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Lucca | Councillor to Culture and Tourism Town of Lucca

A visual artist is always a witness of his own time and a craftsman of his own destiny, a seismograph able to record, thanks to the technical means, the small and great shocks of the society where he lives, filling them with thoughts, state of mind and emotional dimensions. It is not easy to talk about visual culture in a moment where technology and globalization have exacerbated an identity crisis that is going to homologate rather than stimulate to comparison and creativity. Only the most clever, courageous, passionate and solid people can start a run of technical and inner growth, using the international comparison as a stimulus to read again the past in a contemporary way. Fanari’s works take us back to a traditional mark, with the use of technical and classical effective devices, equally efficacious in the ”hic and nunc”, here and now. His forests make us reflect, meditate, dream. They intrigue us and thanks to them we raise the question about the parameters of enjoyment that we considered consolidated. A rediscovery in the discovery that shows how, too often, the prejudices and superficial visual inquiries, affect our perceptive system. Fanari forests encourage us to go further, they put us in touch with that instinct, not mediated by knowledge, that leads the individual in his most important choices, they persuade us to comply with the irrationality to complete an introspective run, to face the panic of loneliness and the fear of the unknow. So many times the answers we are looking for are already inside of us, the secret is to observe everything from different points of views.

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Carl Wilhelm Kolbe, (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione (assemblage) a fianco Roberto Fanari, Paesaggio al buio (PB001) 2013, c print cm. 39x29

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Il segno della materia | Alessandro Romanini

Nel panorama artistico odierno ci sono artisti che sviluppano l’intera loro opera in relazione con il dibattito contemporaneo sull’arte e con la critica, alimentandolo e lasciandosene influenzare, altri che invece portano avanti il loro lavoro espressivo in maniera appartata, indipendente dal sistema di pensiero e dal circuito promozione-divulgazione di stili e tendenze. Allo stesso modo si trovano i paladini dell’arte concettuale, tutta pensiero e progetto, processo scisso dal prodotto e in contrapposizione schierati in trincea a protezione i difensori dell’artigianato e del saper fare manuale, dalle contaminazioni delle elucubrazioni espressive. Esiste però una terza via, un approccio alternativo al lavoro creativo, un’attitudine che non contrappone ma ibrida i processi e le modalità suddette. Non aliena il saper fare artigianale della tradizione ma lo integra – spesso delegandolo – con i processi concettuali. Procede secondo parametri programmatici che lasciano spazio all’intervento coautoriale del caso e soprattutto prevede una sinergia fra l’istanza progettuale e le procedure realizzative., fra teoria e prassi, fra concepimento ed esecuzione fra intelegibile e sensibile. Una sinergia che coinvolge processo e prodotto, concezione e realizzazione in delega o autoprodotta, elaborazione concettuale e le varie tecniche produttive tradizionali e quelle innovative ad alto tasso tecnologico. In questo contesto va inserita l’opera articolata di Roberto Fanari. Come un nucleo ristretto di artisti, Fanari struttura una complessa articolazione progettuale e procedurale per orchestrare un percorso espressivo inscindibile da una connessa analisi metalinguistica. Pensiero che precede l’azione creativa nella fase progettuale e la accompagna durante il processo realizzativo per

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Carl Wilhelm Kolbe (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione (assemblage) Roberto Fanari Nella mia foresta series Paesaggio al buio (PB-001) 2013, c print cm. 39x29

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sostanziarlo ed effettuare una riflessione sui modi e sul ”perché” della produzione stessa dal punto di vista linguistico e delle soluzioni tecnico-formali. Percorso che nelle sue molteplici declinazioni struttura un dispositivo finalizzato a favorire i processi percettivi, creando dinamiche induttive che ”forzano” lo spettatore a un atteggiamento attivo rispetto all’opera. La percezione è il soggetto principale e la finalità primaria che si traduce nella soddisfazione dell’innata pulsione scopica. Per assecondare queste finalità, Fanari produce, o facilita una serie di ”scarti”, di processi indotti nelle varie fasi della traduzione materica dell’opera come vedremo di seguito. Motore dell’intera operazione, lo ”sguardo”, duplice, dell’artista e dello spettatore, che trova un suo spazio ”genetico” all’interno di ciascuna opera. Da quanto brevemente descritto è quindi facile desumere come processo e prodotto assumono significati dello steso rilievo. È necessario analizzare il processo creativo di Fanari nella sua integralità, per comprendere a fondo la complessa articolazione progettuale e realizzativa. Ma soprattutto per comprenderne l’andamento circolare che nel suo sviluppo ci conduce da uno stadio iniziale di progettazione e pre-visualizzazione degli esiti intermedi e di quello finale, alla selezione dei materiali, alle tecniche e alle indotte alterazioni finalizzate al perseguimento principale di carattere eminentemente percettivo. A connotare questo percorso anche una duplice volontà che investe direttamente il concetto di autorialità. Una volontà di recuperare alla dimensione estetica e semantica quei passaggi processuali produttivi e quei materiali puramente di valore strumentale, funzionale come vedremo a breve (ottimo esempio sono le forme in terracotta utilizzate per la produzione delle ceramiche frantumate), sottoponendoli a ”modellazione” secondo vari tipologie di intervento. La seconda modalità volontariamente scelta è quella di prevedere nel processo creativo l’intervento del ”caso”, finalizzato in una dimensione coautoriale, alla produzione di ”scarti”, alterazioni percettive nella materia dell’opera. Alterazioni nell’unità materica, nella texture superficiale, che rompono l’univocità del percorso percettivo, forzando una partecipazione attiva nello spettatore, per conferire senso alle infrazioni e generare una mappa fruitiva esaustiva e soggettiva. La partecipazione attiva dello spettatore, è una delle principali finalità dell’operato di Fanari, parte integrante della meta finale individuata nella produzione di istanze percettive e delle contestuali riflessioni su di essa. Il processo creativo dell’artista come si può già evincere è di natura eminentemente concettuale, tutto mentale, un processo che parte dal pensiero e ne fa ritorno con un andamento circolare omogeneo, senza abbandonare mai nelle varie fasi evolutive questa matrice idealistica basata sull’astrazione. Questa natura tutta mentale dell’opera è rintracciabile palesemente analizzando la metodologia dell’artista nelle sue varie fasi. Per questo principio di astrazione e visualizzazione Fanari opera su immagini preesistenti. L’artista, come detto all’inizio del testo, è attento agli sviluppi del dibattito artistico contemporaneo,

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alle sperimentazioni linguistiche e tecniche, ma soprattutto alle istanze provenienti dalla realtà, dal contesto socio-culturale che lo circonda e in modo particolare agli esiti iconici provenienti da questi contesti. Una civiltà caratterizzata da una pervasiva pioggia d’immagini, depauperate di una reale pertinenza semantica e percettiva, ha portato un gran numero di artisti, a partire dagli anni Ottanta a creare opere sulla base di altre opere già esistenti. Un fenomeno che ha condotto gli artisti a non creare più sulla base di un materiale grezzo, ma a rielaborare elementi iconici e oggetti già esistenti nel panorama storico-artistico e comunicativo. La pioggia di immagini provenienti da televisione, cinema, storia dell’arte, web, pubblicità, editoria, costituiscono un repertorio virtualmente inesauribile di soluzioni formali ed espressive. Un processo che è stato lucidamente descritto da Nicholas Bourriaud con il termine ”postproduzione”, preso a prestito dall’universo audiovisivo, che vede in figure come quella del dj e del programmatore le figure chiave, in grado di selezionare elementi culturali e visivi e includerli in nuovi contesti. Un’operazione condotta in modo cosciente dagli artisti, che inventano nuovi usi e nuovi significati per immagini e oggetti preesistenti attraverso il consolidamento di un diritto di appropriazione che legittima l’operazione di editing che armonizza, per giustapposizione, narrative storiche, ideologiche, simboliche e iconografie differenti. Fanari innesta su questo contesto una serie di elementi specifici che danno vita a un procedimento del tutto peculiare. Innanzitutto contamina questo fenomeno postproduttivo con un’istanza che possiamo definire pedagogica, legata alla finalità di strutturazione percettiva e alla riflessione metalinguistica connessa. La genesi dell’opera prende avvio con un processo congiunto di selezione e ricombinazione di immagini. Fanari è interessato a immagini sottoposte a un duplice processo di mediazione e rappresentazione. Un’immagine già esistente, quindi sottoposta a un processo di selezione visiva e mediazione da un’artista rispetto ai referenti reali e soprattutto affrancata da qualsiasi forma di mimetismo realistico. Fanari sceglie una serie di immagini, di incisioni, da cui preleva segmenti iconici strumentali alla realizzazione dell’immagine complessiva e li riassembla per generare un’immagine nuova. Come afferma l’artista stesso, in questo processo si è legato a partire dal 2010 al lavoro incisorio di Carl Wilhelm Kolbe – artista protoromantico del ‘700 – scoperto mentre stava portando avanti una ricerca approfondita sugli arditi scorci con figure di Hendrik Goltzius. Quelle di Kolbe sono rappresentazioni idealizzate del paesaggio, scene di natura verosimili nel loro complesso e persino dal punto di vista dei dettagli botanici, ma assolutamente idealizzate, una sorta di arcadia naturalistica, liberata da qualsiasi contatto con il referente reale. Kolbe crea un’immagine di una natura ideale, humus fertile per generare una sensazione di sublime nel riguardante, seleziona elementi del reale per riassemblarli in una rappresentazione ”concettuale” del genere paesaggistico o della

Hendrik Goltzius (1558-1617) Icaro 1588, incisione

Hendrik Goltzius (1558-1617) Fetonte 1588, incisione

natura morta. Una visione ideale dell’uomo e del contesto naturalistico che lo circonda, la scelta del soggetto come pretesto per trasmettere una scelta interiore, una visione personale. Su questo processo messo in atto da Kolbe, decantato dal tempo, Fanari interviene con la suddetta procedura di selezione e ricombinazione, generando così un processo di doppia mediazione, che ha come risultante un ulteriore depauperamento delle connotazioni naturalistiche a favore di una fruizione tutta cerebrale e sensoriale. Questo genera anche quel famoso ”scarto”, distorsione rispetto a una fruizione lineare e una lettura in chiave di verosimiglianza che l’artista ainduce con persistenza ad ogni stadio di elaborazione. Parte da qui l’impostazione dell’articolato dispositivo percettivo, strutturato su una visione frontale, su supporto bidimensionale. La scelta del monocromo è giustificata dalla pervicace volontà di affrancamento dal referente realistico e di accentuata riduzione degli effetti percettivi dell’artificio prospettico, favorendo ancora una volta una visione tutta interiore. L’immagine deve essere percepita nella sua bidimensionalità, nella sua essenza epistemologica. Da qui prende avvio il processo che l’artista chiama ”volumetrico”, una traduzione del lavoro elaborativo effettuato sul foglio nella dimensione plastica. Un conferimento di spessore fisico, materico all’immagine, pur preservando sostanzialmente una visione di carattere frontale. Questo passaggio chiama in causa anche una concezione netta del disegno, inteso nella sua doppia accezione grafica e progettuale, nella sua duplice valenza di concepimento ed esecuzione, che racchiude l’opera nella sua integralità nelle linee che su carta ne cristallizzano la previsualizzazione volumetrica. Disegno inteso nella sua pienezza, studio preliminare e circoscrizione del soggetto, una valenza intenzionale e grafica allo stesso tempo, dissimulando coscientemente la cesura fra linea e progetto, struttura e intenzione, idea e perizia. La traduzione dell’elemento disegnativo in una dimensione plastica viene dettata dalla necessità di evitare ”distrazioni” (come le chiama l’artista) visive sempre possibili nella contemplazione di opere a tutto tondo, che offrono molteplici punti di vista e letture naturalistiche, ma soprattutto distolgono da una percezione meditata e attiva. Nei cosiddetti ”fogli di bronzo” risultato dell’assemblaggio di immagini diverse, dissonanti e talvolta tra loro incongruenti Fanari imposta una visione frontale e attua un processo di ”annichilimento” dell’immagine originaria (il paesaggio, la natura morta…) attraverso una serie di procedure tecniche come l’uso monocromatico della patina o l’uso del colore naturale del metallo utilizzato. Questo processo di azzeramento è funzionale alla creazione di quel dispositivo percettivo a cui accennavamo, generando un effetto di induzione alla contemplazione attiva. Il materiale pesante, spogliato dalle sue istanze mimetiche e dal suo portato storico-artistico di ”materia nobile”, viene utilizzato e indotto a essere percepito come un foglio da disegno, generando un ”disorientamento” fruitivo fertile per una visione soggettiva partecipata. Queste opere in metal-

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Roberto Fanari, Nella mia foresta series dettaglio della fusione Carl Wilhelm Kolbe (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione (assemblage)

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lo, subiscono spesso ulteriori interventi, infrazioni all’integrità della superficie, della texture sempre finalizzati al perfezionamento del dispositivo. Attraverso operazioni di ”intaglio” del foglio di bronzo, la creazione di passaggi di luce, squarci che introducono a una dimensione spazio-temporale altra rispetto a quella del resto dell’opera, lo spettatore si trova obbligato ad acuire lo sforzo percettivo, volto a creare una mappa sensoriale omogenea. L’occhio riconferisce integrità all’immagine, ricomponendo l’articolazione di pieni e di vuoti, acuendo la percezione attiva affrancata da una contemplazione passiva. Le ”ceramiche frantumate”, (shattered ceramic) rappresentano l’epitome della poetica e della sperimentazione di Fanari. Testimoniano palesemente la volontà dell’artista di rendere espressive e quindi parti integranti del processo costruttivo del dispositivo percettivo quei materiali e quelle procedure tecniche che risultano di solito meramente funzionali e quindi ”a perdere”. Le ceramiche vengono realizzate utilizzando le forme in terracotta che sono servite come modello per le fusioni in bronzo, per i cosiddetti ”fogli in bronzo”. Per la realizzazione di questi ultimi, l’artista utilizza l’argilla per creare il modello per la fusione, invece di ricorrere come al solito alla forma in cera. L’argilla materiale grezzo e vivo allo stesso tempo, connotata geneticamente da un’aura di modellabilità ”povera” e ancestrale, permette all’artista di recuperare al processo creativo il passaggio della modellazione, che altrimenti sarebbe andato perduto nelle procedure produttive. Nella progettualità dell’artista, sia livello teorico che della prassi, questo avrebbe generato una mancanza, un gap espressivo, in questo modo egli ovvia a questa potenziale perdita, attraverso un utilizzo ”nobile” (come afferma) del modello stesso che assume un’autonomia di significato, divenendo un lavoro assestante. Questa ferma convinzione dell’autore si traduce anche in un principio espressivo, che si allinea con alcuni parametri caratterizzanti la sperimentazione espressiva contemporanea e soprattutto ai principi che contribuiscono a definire il poliforme universo linguistico dell’arte contemporanea. Un universo che va considerato alla luce di quel fenomeno che ha prodotto a partire dalle avanguardie storiche di inizio XX secolo un processo di smaterializzazione dell’opera d’arte nello spazio e nel tempo e nella componente tecnologica che ha percorso tutto il Novecento giungendo fino ai giorni nostri. Questo processo ha messo in discussione la pertinenza stessa della definizione ”arte visiva”, figurazione e rappresentazione testimoniano sempre meno la finalità dell’operato artistico a beneficio di altri elementi più complessi. Questa deflagrazione dell’opera classica, del dipinto e della scultura ‘strictu sensù, maturata nel corso del XX secolo è avvenuta in parallelo all’entrata in crisi di una concezione per cui l’oggetto artistico dovrebbe porsi come qualcosa di superiore e diverso rispetto alla vita comune. Questo fenomeno viene definito da Yves-Alain Bois sulla scorta dell’esempio di Walter Benjamin e soprattutto di Bataille, ”conquista dell’orizzontalità”. In questo contesto arti

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maggiori e arti minori, opera d’arte e oggetto d’artigianato assumono valenze omogenee. Allo stesso modo il progetto può già essere considerato opera. La fase della modellazione, propedeutica alla realizzazione dell’intero progetto, ha un’architettura complessa e dinamiche articolate. Richiede una capacità di previsualizzazione e di progettazione rigida e a elevata capacità di gestione della complessità. Nel caso delle ceramiche, la frantumazione delle opere in terracotta trae origine da un evento fortuito (una rottura provocata dagli spostamenti) che è stato inglobato nella sintassi espressiva dell’artista. L’operazione assume anche i contorni dell’atto performativo, in quanto Fanari interviene con calibrate martellate per orchestrare l’articolazione di pieni e di vuoti, di luce, oscurità e gioco di ombre, creando una sintassi armonica, che salda la fase costruens con quella destruens. L’uso della smaltatura ceramica cristallizza i contenuti formali e la scelta del monocromatismo si allinea alla stessa volontà manifestata nei fogli di bronzo, di creare un’istanza antinaturalistica e di affrancamento da qualsiasi elemento decorativo e qualsiasi residuo di ”artisticità” a beneficio di una concentrazione percettiva. Il gioco di pieni e di vuoti, le infrazioni alla texture, gli squarci - omologhi ai ri-tagli dei fogli di bronzo - creano una modulazione luministica e una dialettica spazio-temporale, che costringe lo spettatore ad un atteggiamento attivo per la creazione di un percorso percettivo, di una mappatura sensoriale verosimile. Un ruolo di saldatura nell’universo espressivo di Fanari è rappresentato dai dipinti della serie ”Paesaggi Invisibili” (Hidden Landscapes), lavori su tela, modulazioni del nero, che traducono la visione interiore attraverso una distillazione del pensiero e della prassi, una ponderazione progettuale superiore a quella delle traduzioni plastiche. Completata la fase di selezione e assemblaggio delle immagini incisorie, l’immagine risultante viene trasportata meccanicamente su tela, in-vece (come sottolinea l’artista) del disegno. I successivi interventi diretti dell’artista sono stati previsti e previsualizzati, in una sorta di dettagliato story board mentale. Un proccesso programmato ed eseguito in funzione del progetto complessivo e degli esiti finali e soprattutto nel rispetto dell’economia complessiva della costituzione di un dispositivo estetico-percettivo, un isotopo che produca una reazione partecipativa nel riguardante. In questo processo, l’artista è strumento alla strega delle deleghe produttive normalmente utilizzate, non vi è coinvolgimento in senso autoriale. Fanari si è imposto una ferrea autodisciplina che prevede un’inevitabile ”mediazione” (utilizzo di un intermediario fisico nella realizzazione o immanente come nel caso delle incisioni) tra il concepito e il realizzato, tra processo e prodotto, che costringe l’artista in una posizione di regista che coordina il lavoro nel suo complesso per far si che mantenga la sua unitarietà e la fedeltà al progetto originario. La disciplina prevede una parametrizzazione rigida che si estende alla modulazione dell’esecuzione. Il lavoro pittorico viene compiuto in varie giornate separate da un adeguato tempo (non consecuti-

Hendrik Goltzius (1558-1617) Tantalo 1588, incisione

Hendrik Goltzius (1558-1617) Ixion 1588, incisione

ve) da concedere alla riflessione funzionale al mantenimento della fedeltà della dialettica progetto-realizzazione. La disciplina impone anche una sorta di auto-castigazione tecnica, che impedisce alla manualità, alla perizia tecnica di avere il sopravvento, prevaricando così gli esiti mentali e le modulazione percettive previste. Il procedere esecutivo sincopato, scandito da fasi esecutivi e arresti che costringevano ogni volta a ri-cominciare, azzerava le ansie virtuosistiche, i desideri decorativi e l’ansia di perfezionamento degli esiti estetici generati dalla reiterazione del lavoro. Il risultato è un’immagine evanescente, ottenuta con una sapiente modulazione di velature e distribuzione materica, che mantengono una ”vibrazione” continua all’opera, una ponderata regia esecutiva che conferisce alla luce la valenza di medium. Questa modulazione genera una superficie in cui la rappresentazione scaturisce nella sua integrità solo attraverso la partecipazione co-autoriale dello spettatore. Nella sua progettazione l’opera prevede uno spazio spettatoriale, a cui viene affidato il ruolo fondamentale di completare il senso e il valore espressivo del dipinto. Solo attraverso il movimento, gli aggiustamenti di posizione rispetto alla tela, lo spettatore riesce a definire la propria impostazione percettiva e a far ”comparire” gli elementi espressivi. Un processo nel quale la definizione semantica è affidata ai principi proprio cinetici. Il dipinto rappresenta un vero e proprio congegno motore di percezione e allo stesso tempo strumento di analisi metalinguistica dei processi percettivi e espressivi. Nel contesto del progetto generale dell’opera di Fanari, questi dipinti rappresentano un esercizio riuscito di produzione evocativa. Una sottile e modulata forma di percezione che impone allo spettatore l’attivazione di processi percettivi induttivi, simili a quelli della fruizione letteraria, quindi altamente soggettivi e scarsamente utilizzati nel ritmo circadiano dell’esistenza. Il ciclo di opere definito ”Tree-Dimensional Project nasce con la vocazione di chiudere l’ideale circolarità del progetto espressivo. Circolarità costituita nella sua fase iniziale dalle incisioni su carta che attraverso il loro assemblaggio e modificazione generano una nuova forma visiva, che viene in seguito tradotta in una dimensione plastica, volumetrica (ceramiche, bronzi e alluminii) pervenendo così a una conquista materica. I dipinti, strumenti evocativi fungono da segno di interpunzione nel processo di costruzione percettiva. La chiusura avviene con un ideale ritorno all’inizio, all’orizzontalità del foglio di stampa, alla visione totale dell’opera, a una percezione aumentata della stessa, ottenuta attraverso l’ausilio della tecnologia. Lo scarto percettivo in queste opere (il corrispettivo degli squarci nei fogli di bronzo e delle fratture nelle ceramiche) è ottenuto grazie al disturbo percettivo, generato dalla visione stereoscopica (stampe in 3D). La partecipazione attiva dello spettatore in questo caso è connaturata all’opera, genetica. Il fruitore deve accettare il contratto partecipativo indossando gli strumenti visivi (gli occhiali per la lettura 3D), attivando un’adesione volontaria e cosciente al processo. Determinante

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Carl Wilhelm Kolbe (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione (assemblage)

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nell’economia della comprensione dell’economia generale del progetto espressivo di Fanari, analizzare anche le componenti tecniche e realizzative di questi lavori. L’artista ha recuperato le radici ancestrali del processo stereoscopico, affrancandosi dalla dimensione spettacolare (a cui ci siamo abituati oggi con la fruizione cinematografica), cimentandosi volontariamente in un processo di realizzazione modificazione successiva complesso. Un’operazione che richiede anche in questo caso un preciso e articolato progetto e pre-visione. Un primo livello di problemi si è generato dalla volontà di Fanari di realizzare un’opera fotografica a lettura tridimensionale che fosse fruibile in maniera integrale anche senza l’ausilio di strumenti visivi, occhiali 3D, che non producesse quel fastidioso effetto disorientante di scomposizione per piani geometrici. Attraverso una sperimentazione empirica sui processi di ripresa e postproduzione si è ottenuto un’immagine ”oggettiva” nella sua artificialità. Un’immagine multisensoriale, che mantiene la soggettività della pittura, l’oggettività della fotografia e la dimensione processuale del cinema integrate in un flusso visivo armonico. Per ottenere questi risultati è stato necessario un lungo processo di sperimentazione che ha portato in premio all’artista un concreto ampliamento del repertorio tecnico-formale e soprattutto una consapevolezza delle potenzialità espressive delle varie declinazioni della visione, pronte per essere applicate ai vari aspetti della propria opera. Questo è l’ulteriore aspetto del lavoro di Fanari; l’aspetto metalinguistico della sua processualità, il riflettere sulle azioni in compimento nel momento in cui vengono compiute, non scindere la teoria dalla prassi, il domandarsi incessantemente ”come” fare e ”perché” dell’agire e soprattutto l’intendere la processualità espressiva come procedura pedagogica, nella quale si apprende mentre si fa. Per queste peculiarità del suo procedere, l’artista ha voluto depurare la visione stereoscopica da quel quid di iperrealismo deviandolo in una direzione di intensificazione percettiva rispetto all’oggetto-congegno rappresentato. Eliminare quell’innato artificio connesso alla formulazione matematica della prospettiva che produce una falsa rappresentazione della reale profondità visiva. La scelta è stata quella non di occultare i piani visuali intrinsecamente connessi alla natura genetica della visione stereoscopica ma di accentuarli in modo da renderli fittizi in modo da rendere l’immagine ”primigenia” e dotata di una propria autonomia espressiva e soprattutto un attivazione percettiva intensa. L’esito finale è quello di ottenere una realtà percettiva aumentata, che permette allo steso tempo una fruizione più accurata e intensa dell’esecuzione primigenia dell’immagine e allo steso tempo una percentuale di attivazione e coinvolgimento percettivo esponenzialmente più intenso. Soprattutto un’esperienza percettiva coinvolgente e affrancata da distrazione di ordine estetico-decorativo.

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Roberto Fanari Nella mia foresta series Terra cruda 2011, dettaglio

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The sign of the material | Alessandro Romanini

In the midst of today’s art scene, there are artists who develop their entire artistic portfolio in relation to the contemporary debate on art and on art critique, allowing themselves to be influenced, while others approach their expressive work through more sequestered means, independent of the mainstream system of thought and publicity – a dissemination of styles and propensities. Likewise, we have to so-called ”champions” of conceptual art, with its focus on thought and design, a process detached from the actual artistic production, standing ready in the trenches to protect the true defenders of craftsmanship and ”handiwork”, from the contamination of expressive contemplations. However, there is a third technique to take note of, an alternative approach to the creative arts, an attitude that does not oppose but rather integrates the methodologies and attitudes described above. This technique does not alienate the traditional ”artisanal know-how” approach but rather assimilates its characteristics – often incorporating them – into the conceptual processes. It advances according to programmatic parameters that allow room for any co-authorial interventions that may be necessary, in particular providing a synergy between the design and implementation aspects of the creative process – between theory and practice, between conception and execution, between intelligible and perceptible. This synergy implicates process and product; design and production (commissioned or self-realised); conceptual development and various traditional production techniques – as well as those requiring a high technological competency. Within this frame of reference, we bring into consideration Roberto Fanari’s expressive

Roberto Fanari Nella mia foresta series Foglio di Bronzo (FB-008) 2011, dettaglio

work. As the focal nucleus of artistic creation, Fanari has structured a complex and articulate design, execution and implementation mechanism, in order to orchestrate an expressive course, in itself inseparable from a connected metalinguistic analysis. Thought that precedes creative action during the design phase and accompanies the artist throughout the execution and implementation process. The objective is therefore a desire to substantiate the approach and to capacitate a reflection on the process and on the ”why” of the artistic production, from the point of view of linguistic and technical solutions of a formal nature. A course of action that in its various manifestations contributes to the creation of a ”device” intended to facilitate a perceptive process, bringing into focus inductive dynamics that ”force” the observer to assume an active attitude towards the artistic work. Perception is the key theme and the primary purpose, a purpose that translates into the satisfaction associated with the innate scopic drive of the process. To achieve this ambition, Fanari produces, or facilitates a series of ”wasted” (or discarded) visual facets, induced processes integrated into the various phases of physical and material realisation of the work, as we shall see below. The nucleus of the entire operation, the visual ”gaze”, substantiates as an element with a dual nature – that of the artist and that of the observer, who finds his or her own ”genetic” space within the essence of each work. From what has been briefly described, it is therefore easy to infer and comprehend the ways in which the process and the artistic product assume the same significance. In order to fully understand the complex articulation of design and artistic realisation, it becomes necessary to analyse Fanari’s creative approach in its entirety. And, above all, to comprehend that this circular propensity, which during its development takes us from an early stage of planning (or design) and pre-visualisation of the intermediate and final objectives, to the eventual selection of materials, techniques and subsequent modifications, elements whòs ultimate objective becomes the pursuit of an eminently perceptive essence of the work. To characterise this process, a dual desire that directly incorporates authorial conceptions, is also at play. A desire to recover, in relation to the so-called aesthetic and semantic dimensions of the work, those developmental steps and those materials that hold an entirely instrumental value. These elements function, as we will see shortly (the terracotta moulds used for the production of the shattered or crushed pottery present perfect examples), as a means of subjecting the work to various ”modelling” procedures and techniques. The second aspect, voluntarily chosen, and one which predicts during the creative process an implication of ”chance”, eventually culminates into a co-authorial dimension of the work, those ”wasted” visual elements and the perceptual modifications involved in the ultimate execution of the work. These modifications relate to the singularity of the materials and to their

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texture, which ”fracture” the uniqueness of the perceptive aspects of the work, forcing an element of active participation on the part of the observer. This, in turn, gives meaning to the so-called ”infractions”, while generating an exhaustive and subjective actualisation of the work. The active participation of the observer represents one of Fanari’s main objectives, an integral part of the artist’s ultimate goal, incorporated into the production of perceptual demands and contextual reflections of the work. The artist’s creative process, as it can already be inferred, is highly conceptual in nature and fully focused on mental aspects of artistic realisation, a process that begins with thought and makes its back by means of a circular homogenised approach, without ever abandoning during its various development stages, this idealistic matrix based primarily on abstraction. This entirely mental aspect of the work is clearly perceivable when analysing the artist’s methodology through its various stages. With this principle of abstraction and visualisation in mind, Fanari develops his work with existing images or artistic creations in mind. The artist, as mentioned at the beginning of the reading, is attentive and familiar with current contemporary artistic issues, with linguistic experimentations and techniques and, above all, to the demands of reality – the sociocultural environment that surrounds him and specifically to the iconic inferences that become apparent within this context. A civilisation characterised by a pervasive inundation of images, depleted of a genuine semantic and perceptive relevance, and one that has influenced a large number of artists, beginning from the eighties, to produce artistic creations based on other existing works. A phenomenon that has persuaded artists to stop creating on the foundation of the actual materials but, rather, to rework the iconic elements and objects that are already part of the existing historical, artistic and communicative landscape. This barrage of images from television, movies, art history, web, advertising and publishing mediums, present a virtually inexhaustible repertoire of formal and expressive artistic ”solutions” – a process that has been eloquently articulated by Nicholas Bourriaud by means of the term ”post-production”. A term borrowed from audiovisual realm, which entertains key players such as DJs and computer programmers, individuals who are able to select visual and cultural elements that are then applied to the work in question with an added context. A conscious approach undertaken by the artists, who invent new uses and provide new meanings for existing images and objects. This is mostly achieved through the use of consolidation and appropriation measures that legitimise the editing of the existing content, while at the same time harmonising, by juxtaposition, historical, ideological and symbolic narratives – as well as diverse iconography. Fanari adds further scope to this context, through a number of specific elements that give life to a relatively peculiar course of action. First of all, the artist contaminates this

Roberto Fanari Nella mia foresta series Foglio di bronzo (FB- 014) 2012, dettaglio

post-productive phenomenon with what we can define as a strictly pedagogical approach, with the drive and desire to develop a perceptive element and a correlated meta-linguistic reflection. The evolution of the work begins with a collaborative process involving the selection and recombination of images. Fanari is primarily interested in images exposed to a dual process of mediation and representation. An image that already exists, thus subjected to an active process of visual selection and mediation by an artist, concerning primarily real elements and above all exhibiting some form of realistic mimicry. Fanari chooses a series of images or engravings, from which he extracts minute details instrumental to the realisation of the overall design and reassembles them, giving rise to a new artistic vision. As the artist himself clarifies, this creative process began in 2010 with etchings from the repertoire of Carl Wilhelm Kolbe (a proto-romantic artist from the 1700’s), work that Fanari discovered while pursuing a thorough research of so-called ”bold views”, in the creations of Hendrik Goltzius. Kolbe’s images are idealised representations of landscapes, natural scenery of a boldly realistic nature (both when the work is considered in its entirety or relating to specific scientific and botanical aspects), but absolutely idealised, a kind of Arcadian depiction of nature, freed from any contact with reality. Kolbe creates an ideal image of nature, a fertile display that bestows upon the observer a feeling of sublime wonder, while at the same time combining elements of reality to achieve a ”conceptual” representation (a ”landscape” or still life portrayal). This is a representation of an ideal vision of man and the natural environment that surrounds him, the subject chosen as a means of conveying an inner choice or a personal vision. With Kolbe’s portrayal in place, one most certainly valued over time, Fanari intervenes with the added ”layer” of selection and recombination of images (the creative process detailed above), thus activating a sort of ”double mediation” process, which results in a supplemental depletion of natural connotations, in favour of an acutely sensory creation. This also brings into focus the famous ”waste”, a visual element of distortion contrasted to a linear fruition of the work, and an ostentatious interpretation that the artist induces with persistence at every stage of development. At this point the perceptual device comes into focus, structured around a frontal perspective of the work and a two-dimensional support. The use of monochrome tones is justified by the artist’s acute desire to liberate the portrayal from realistic implications and to accentuate the reduction of the perceptual effects of the work, once again a focus on an entirely inner vision. The image must be perceived in its two-dimensional perspective, in its epistemological essence. From here takes shape the process that the artist defines as ”volumetric”, a translation of elaborate work carried out on paper, into voluminous dimensions. An element of physical or material thickness is given to the image, while impe-

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Roberto Fanari Nella mia foresta series, Divertissement (alberi CF-025) 2013, ceramica smaltata cm 40x50x67 (circa)

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ratively preserving the frontal vision of the work. This course of action also calls into question a clear conception of the drawing, as seen in relation to its double significance (the graphic and design elements) and relative to it dual role of conception and execution, enclosing the work inside the lines which, on paper, crystallise its volumetric pre-visualisation. A drawing understood in its fullness, the preliminary study and ”fragmentation” of the subject, an intentional and graphical proposition, consciously concealing the gap between line and project, structure and intention, vision and expertise. The translation of the drawing elements into an entity with voluminous dimensions is dictated by the desire to avoid ”distractions” (as the artist describes them), which are always a possibility when the work is viewed in a 360-degree perspective. These distractions offer multiple points of view and naturalistic interpretations, but most significantly distract from a thoughtful and active perception of the work. In the so-called ”bronze folio” resulting from the amalgamation of different images, dissonant and sometimes inconsistent with each other, Fanari imposes a frontal view and establishes a process of ”obliteration” of the original elements (landscape, still life...) through a series technical procedures such as the use of monochrome patina and of natural colours matching those of the metal used. This neutralising process is dependent upon the creation of the previously described perceptive element, enabling and generating a basis for active contemplation. The heavy material, stripped of its camouflage appearance and of its historical and artistic significance (a context in which it is no doubt perceived as a ”noble material”), is used and influenced to be perceived as a so-called ”drawing pad”, giving life to a fertile ”disorientation” of the subjective vision. These metal creations are often exposed to additional alterations, modifications to the integrity of the material’s surface and textures intended to supplement the conceptual perfection of the work.Through a process that entails the ”carving” of the bronze sheets, enabling the passages of light and introducing a spatial-temporal dimension distinct from the rest of the work, the observer is forced to make a ”perceptive effort” towards the work and influenced to create a homogenous sensory map of its appearance. The eye reconfirms the integrity of the image, reassembling the articulation of solids and gaps, intensifying the active perception, which in turn is under the influence of a passive contemplation. The ”shattered ceramics” personify the epitome of Fanari’s poetic inclination and experimentation. This work represent a true testimony of the artist’s desire for expressive production and therefore serve an integral aspect in the realisation of the perceptual device, of the materials and of the technical procedures, which typically only fulfil a purely functional purpose and therefore something ”discarded”. The ceramics are created using terracotta moulds, which server as models for bronze ”fusion”, for the so-called ”bronze folio”. For the

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realisation of the latter, the artist uses clay to create the model for the fusion, instead of resorting to wax, as is typically the case. The clay, a medium seemingly unrefined yet equally full of ”life” and characterised by an aura of ”poor” and ancestral ”malleability”, allows the artist to compensate on behalf of the creative process, that modelling effect, a process which would have otherwise been lost during the production of the work. During the planning of the work, concerning both theory and practice, an expressive gap or potential loss comes into focus, which the artist is able to resolve through the ”noble” use (as previously explained) of the same model, at the same time rendering possible a meaningful autonomy of the work. This strong conviction on the part of the author also translates into an expressive principle, which aligns itself with a number of the parameters used to characterise aspects of expressive contemporary experimentation and, above all, with the principles that help define the multifaceted linguistic universe of contemporary art. A universe that must be considered under the influence of that phenomenon which produced, starting from the historical avant-garde of the early 20th century, a process of dematerialisation of the art in relation to time and technology, spanning this century and arriving at the present day. This process has called for the redefinition of the term ”visual art”, as depictions and representations testify less and less to artistic purpose of the work for the benefit of other more complex elements. This ”explosion” of the classic repertoire (strictly speaking about painting and sculpture), which reached its pinnacle through the course of the 20th century, came into focus while an equally influential crisis materialised – a crisis which entailed that an artistic creation should pursue and entail something more substantial and diverse than ”common life”. This phenomenon was originally defined by Yves-Alain Bois under the influence of Walter Benjamin, and above all Georges Bataille – the so called ”conquest of horizontality”. In this context, major and minor arts, works of art and handicrafts, assume a homogeneous existence. Likewise, the project can already be considered an opera. The modelling phase, a preparatory requirement in relation to the implementation of the entire project, contains within it a complex architecture and articulated dynamics. It requires a rigid capacity for design and pre-visualisation and it displays an elevated ability to manage complexity. In the case of the ceramics, the crushing or fragmentation of the terracotta originates in a fortunate event (an accident that occurred during transport) that was eventually incorporated into the artist’s expressive approach. The operation also embraces the contours of the performing medium, as Fanari purposefully intervenes with calibrated hammer strokes in order to orchestrate the articulation of solids and gaps, of light, darkness and shadow play, creating a harmonic syntax, fluctuating from the costruens to the destruens. The use of ceramic glazing crystallises the formal

Roberto Fanari Sono soli series, Ceramica (CS-002) 2011, dettaglio

content of the work, while the use of monochrome shades aligns itself with the same ambition expressed by the bronze leaves, a desire to create an anti-naturalistic representation, a detachment from any decorative elements and any residual ”artistry” for the benefit of a concentration perceptive. The interplay of solids and gaps, the infringements of texture, the glimpses of light – homologous to the re-cut sheets of bronze – create a luminous modulation and a dialectic space-time relation, which force the observer to assume an active attitude towards the creation of a perceptive pathway, a plausible sensory roadmap. A passage in Fanari’s expressive universe is personified by paintings from the series ”Hidden Landscapes”, works on canvas, a focus on modulations of black, which translate perception through a distillation of thought and approaches, a superior contemplative design as compared to multi-dimensional translations. Once the selection and assembly phases of the engraved images is complete, the resulting design is mechanically imprinted onto the canvas, instead (as pointed out by the artist) of the drawing. The next steps of the process, directly realised by the artist, were planned and anticipated, by means of a so to speak mental storyboard. A planned process, executed according to the goals of the overall project and in line with its ultimate vision, especially in respect to the inclusion of an aesthetically perceptive device, an isotope that induces a participatory reaction from the observer. During this process, the artist himself becomes an instrument alongside the typical execution elements of the creative process – however, the involvement is not meant be interpreted in an authorial sense. Fanari imposes upon himself a strict self-discipline which provides an inevitable ”mediation” aspect to the process (the use of a physical intermediary during the production process, or immanent as in the case of the incisions) between the design and the completed work, between the process and the product, elements which force the artist to assume a position of artistic director who coordinates the work as a whole to ensure that it retains its unity and stays true to the original vision. The discipline calls for a rigid configuration that extends to the modular nature of the execution. The pictorial work is executed in different days, separated by a suitable passage of time (not consecutive), a reflective process which allows the artist to remain committed to the dialectic project – realisation. The discipline also imposes a sort of self-castigation technique, which obstructs the technical expertise from attaining an upper hand, therefore disallowing the deterioration of the intended mental outcomes and perceptual modulation. The syncopated approach of the execution, articulated by the need and drive to stop and restart the work, nullifies the artist’s virtuosic anxieties, neutralising the drive towards decorative refinements and aesthetic perfectionism in the realisation of the work. The result is an indistinct image, obtained by means of a skilful modulation in the application

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and distribution of the material, which maintain a continuous ”vibration” in respect to the work, a deliberate approach that brings into focus the virtue of the medium. This modulation produces an effect that intrinsically implies that the artistic representation in question can only achieve its full integrity by means of a co-authorial participation on the part of the observer. Due to the very nature of its design, the work leaves ample ”space” for the observer, who is entrusted with a fundamental role, one that calls for the completion of the expressive value of the painting. Only through movement and adjustments of position relative to the canvas, is the observer able to define his or her perceptual setting and to bring into view the expressive elements of the work – a process in which the semantic definition is entrusted to its kinetic principles. The painting represents a true and genuine perceptual device and, at the same time, an indispensible tool in the metalinguistic analysis of perceptive and expressive processes. In the context of the overall design of Fanari’s work, these paintings represent a successful undertaking of evocative production. A subtle and modulated form of perception that requires that the observer actively engages the use of his or her perception processes, analogous to a so-called literary fruition, thus highly subjective and sparsely utilised in the context of a circadian rhythm of existence. The series of works titled the ”Tree-Dimensional Project” was founded in a desire to close or resolve the ideal circularity of the expressive project. This so-called circularity, in its initial phase, consist of engravings on paper, which through their artistic implementation bring into focus a new visual form, one that is further translated into a multi-dimensional, volumetric creation (ceramics, bronze and aluminium), arriving thus at a material conquest of the work. The paintings, evocative instruments, serve as elements that are intended to be clearly emphasised in the process of perceptive construction. The closure comes side by side with an ideal return to the beginning, to the horizontality of the printed sheet, the allencompassing vision of the work, to an intensified perception of self, obtained through the use of technology. The perceptive variance in these works (equivalent to the incisions in the sheets of bronze and the fractures in the ceramics) is obtained thanks to a perceptual disturbance of stereoscopic vision (3D prints). The active participation of the observer, in this case, is inherent in the nature of the work, genetics. The observer must be a willing participant in the use of the required visual aids (3D glasses), thus allowing for voluntary and conscious adherence to the process. In understanding the decisive factors that substantiate the scope and rationale of Fanari’s expressive project, one must also analyse the technical and operational components of these works. The artist has recovered the ”ancestral roots” of the stereoscopic process, thus freeing this process from its sensationalised characteristics (to which we are so accustomed today thanks to the

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-006) 2011, bronzo cm. 132x102

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-025) 2012, bronzo cm. 46x63

overload of 3D cinematography), experimenting voluntarily with a complex process of artistic execution. A process that also requires, in this case, a precise and articulated design as well as an originally defined vision. A first level of problems came into focus based on Fanari’s drive and desire to realise a three-dimensional photographic work, one that could be enjoyed in its entirety without the help of visual tools such as 3D glasses and which did not produce an irritating disorienting effect in relation to the geometric planes of the work. Through an empirical experimentation of postproduction processes, the artist eventually attained an ”objective” image relative to its artificiality. An image of a multisensory nature, which retains the subjectivity of the painting, the objectivity of the photography and the processual dimensions of cinema, all integrated into a harmonious visual flow. The achievement of these results is the product of a long process of experimentation that eventually awarded the artist with a concrete advancement of the formal technical repertoire and, above all, solidified an increased awareness of the expressive potential of diverse artistic forms of vision, ready to be applied to various aspects of their work. This represents a further dimension in Fanari’s work, the metalinguistic aspect of his processuality, the contemplation of actions still ongoing upon completion, without separating theory from practice, the continuous propensity for asking ”how” to achieve and ”why” to undertake the action and most significantly, the understanding of the expressive processual medium as a pedagogical tool, during which one learns while doing. With these processual peculiarities in mind, the artist strived to purify the stereoscopic vision from that hyperrealism quid, leading it towards a direction characterised by perceptual intensification in relation to the object or device represented. We thus arrive at the elimination of the innate artifice connected with the mathematical formulation of the perspective that produces a false representation of true visual depth. The intent was not to conceal the visual planes intrinsically linked to the genetic nature of the stereoscopic vision, but rather to accentuate, rendering them fictitious and thus imbuing the ”primitive” image with its own expressive autonomy and, above all, with an intense perceptual sense. The final outcome is to obtain an intensified perceptual reality, which at the same time allows for a more accurate and intense realisation in the primitive execution of the image and, at the same, time an amplified activation and a more intense perceptual involvement. Above all, we are presented with an engaging perceptual experience, freed from decorative and aesthetic distractions.

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Conversazioni con Alessandro Romanini

La mancanza di un’immagine primigenia ”Guardando il tuo lavoro sembra percepirsi una mancanza di interesse da parte tua alla creazione di un immagine primigenia, quasi che la tua ricerca non si indirizzi alla creazione di un’immagine che possa definirsi originale e si risolva nella combinazione di immagini preesistenti secondo formule percettive nuove” La tua affermazione merita un approfondimento da parte mia. A questo proposito penso che si possa affermare che la creazione di un’immagine sia un passaggio ineluttabile in chiunque pensi di proporre un lavoro artistico, o almeno ritengo che sia ineluttabile nel mio approccio al lavoro.

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Se così non fosse mi ritroverei a riproporre una sorta di ready-made ”elaborato”, in cui mi limiterei ad ingurgitare immagini per poi unicamente rielaborarle e vomitarle in un altro luogo in modo da qualificarne l’innovativo (?) contenuto artistico. Mi sembrerebbe, in questo caso, di proporre un approccio ”manierista” al mio lavoro, e questo non corrisponde alle mie intenzioni. E, dunque, per cercare di rispondere alla tua riflessione, non penso di poter avanzare l’idea di un mio disinteresse alla nascita di un’immagine originale. Piuttosto, direi, che ho preferito pervenire alla sua creazione ex-novo attraverso l’azzeramento del disegno, intendendo tuttavia questo passaggio nell’accezione più classica e tradizionale del termine. Non c’è in questa mia scelta alcuna valenza critica nei confronti del ”disegnare”, banalmente è un’azione che non riesce ad appartenermi (per ora). Io dunque rinuncio al disegno ma non rinuncio alla VISIONE di una immagine personale, sicchè si può affermare che ”io disegno” con immagini preesistenti . Del resto credo che sia un approccio formale alla creazione non del tutto ignoto. Basti pensare agli ”assemblages” fotografici fatti con le immagini Polaroid di Hockney, da lui stesso definiti disegni effettuati con il mezzo meccanico. Ora, è evidente che l’esito estetico tra quel lavoro ed il mio progetto è difforme e distante, ma sono i contenuti più profondi sulla ragione recondita del fare artistico che appaiono condivisibili: l’Arte come capacità di GUARDARE, quindi e di IMMAGINARE per poi consegnare ad altri la possibilità di PERCEPIRE. Sono più interessato al ”senso” come possibilità di lettura dell’opera d’arte, che non alla ”speculazione dell’intelletto” che per i cuoi contenuti (letterari, sociologici, psico-pedagogici) mi sembra destinato a supportare l’apprensione di altre discipline.

David Hockney Walking in the zen garden, Ryoanji Temple, Kioto 1983 photografic collage

Sulla riferibilità diretta all’autore Pur condividendo in toto il tuo approccio teorico al mio lavoro, vorrei soffermarmi su un tuo passaggio: ”l’opera non esprime necessariamente la personalità dell’autore”. L’enunciato, che è certamente condivisibile, mi sembra meritevole, (soprattutto per il lettore non ”addetto” che demanda all’autore un aura virtuosistica forse più degna di un fenomeno sportivo che non di un’esperienza artistica; ma tant’è), di un approccio meno tranchante in relazione alla da te invocata attuale e contemporanea mancanza di referenzialità dell’opera al suo autore. L’estremizzazione del giusto assunto teorico potrebbe essere mitigata affermando che è ”l’esecuzione dell’opera a non esprimere necessariamente la personalità dell’autore” così conservando all’oggetto/opera d’arte una sua, come ami chiamarla, autorialità quale specchio della volontà dell’artista. Vorrai perdonare la digressione, ma quale valore autoriale vi può mai essere - ad esempio - in un opera di Mondrian la cui elementare e in sé banale tecnica pittorica non attribuisce all’opera stessa alcun valore aggiunto. ”Brodway boogie woogie”, e volutamente ricordo l’opera ”pittoricamente” più complessa ed evoluta di Mondrian, credo che non possieda in sé alcun ”fascino” esecutivo e realizzativo e ben avrebbe potuto essere compiuta da un qualsivoglia ”aiuto” neppure tanto virtuoso. Eppure sembra si tratti di un capolavoro di questo artista: soffermarsi, dunque, sull’autorialità di questa opera, certamente non può voler significare riflettere sulla sua esecuzione ma deve rimandare unicamente al pensiero che è sotteso alla sua realizzazione ed alla ”visione” dell’autore che ha reso possibile la materializzazione dell’idea. Ma torniamo, più modestamente, al mio lavoro. Credo si possa affermare che il palese e volontario demandare ad altri soggetti (pur sempre controllati dall’autore) la parziale od integrale esecuzione della materiale realizzazione di un lavoro, non mini in alcun modo la riferibilità all’autore (rectius. Ideatore) dell’opera stessa. Le persone che si sono avvicendate nell’aiuto alla esecuzione e realizzazione del mio progetto sono state tante, diverse e tutte con differenti competenze. La modellazione della terra, la correzione delle cere nella fase della fusione, la frantumazione della ceramica, i fori del cesellatore, l’applicazione della patina sui bronzi, la fotografia stereoscopica, la pittura delle tele, sono fasi del progetto che sono state realizzate da soggetti diversi: ognuno di loro con le proprie conoscenze tecniche ma anche con le proprie, talvolta recondite, ”ansie” creative. E, tuttavia, tutte queste personalità (compresa la

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mia, sulla quale torneremo allorchè esamineremo le opere prettamente pittoriche) hanno operato come organismi che rispondevano ad un ”unico” intento: sicchè diventa irrilevante in che modo e quanto io sia intervenuto materialmente (e ciò e avvenuto in modi via via diversi per le differenti opere) nella esecuzione delle singole declinazioni del mio progetto. Del resto, nello stesso modo ho approcciato il problema realizzativo nella esecuzione dei ”Paesaggi invisibili”, gli unici lavori prettamente pittorici dell’intero progetto e i soli ad essere interamente, come dire, realizzati dall’autore. Si tratta di lavori eseguiti interamente da me (anche se il disegno risulta essere un assemblage di incisioni preesistenti) che però, proprio per questo, hanno richiesto un ”supplemento” di visione prima della loro realizzazione, quasi a volere tracciare prima dell’esecuzione pittorica una strada tecnicamente definita e chiusa: quando ho dovuto affrontarne l’esecuzione in realtà avevo già previsto, o meglio immaginato, l’esito finale.

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In questo caso, l’aspetto progettuale è stato ancora più schematico e ferreo alla ricerca di quell’effetto percettivo (la visione dell’opera che muta in relazione alla direzione della fonte di luce fino al totale annichilimento dell’immagine stessa che perviene, perciò ad un indifferente monocromatismo) che poi risulta l’essenza di questo e, per altri versi, anche degli altri lavori. Certo, come negare l’iniziale compiacimento alla vista dell’opera conclusa, la gioia pura nell’aver superato la mia naturale indolenza ed aver ottenuto un esito per certi versi, passami ti prego il termine, magico. Ma passata la - come dire? - frenesia creativa, ora riguardo questo lavoro e non vedo, ti assicuro, alcuna differenza con tutte le altre opere in cui percepisco la medesima ansia ”autorale” e che mi provocano l’identico - putroppo umano - compiacimento per averle pensato e realizzate. Ho usato me stesso, le mie mani, i miei occhi, la mia sensibilità nello stesso identico modo in cui ho utilizzate le altre personalità per la realizzazione di altre parti del progetto, quasi che tutti questi organismi, compreso ”io”, fossero asserviti ad una un’unica visione che è quella che traspare dall’intero progetto. Milano, 16 Marzo 2013

Piet Mondrian Broadway Boogie Woogie 1942-43 Olio su tela

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Roses 2012, c print

Conversing with Alessandro Romanini

The absence of a ”primeval image” ”Examining your work, there appears to be a lack of interest on your part in the creation of a ”primeval image”, as if your artistic pursuit is not concerned with exploring a notion that can be defined as original and is thus resolved through the combination and culmination of existing images presented in seemingly new ways” Your statement deserves some attention on my part. In this regard, I believe it is reasonable to assume that the creation of an image (or initial ”design”) represents an inevitable step during the artist’s creative process - or at least I affirm that it is inevitable in my personal approach towards my work. If this were not true, I would find myself immersed in the creation of some sort of ”ready-made production”, a process through which I would limit myself to ”swallowing” existing images for the sole purpose of reworking and ”regurgitating” them, while qualifying the result as artistic and innovative (?) production. This scenario intimates a ”manneristic” approach to my work, something that was not intended. And, therefore, to try and address your thoughts and reflections. I do not think that a case can be made to substantiate a ​​ lack of interest on my part in the conception of an original image. Rather, I would say that I purposely chose to pursue what I would qualify as an ”ex-novo” approach, through the elimination of the initial ”design” or image (referring to the most classical and traditional definition of the term). There is no intended criticism to the value of an original ”design” in the approach, it is rather a step that creatively escapes me (for now). That said, while I may renounce the ”design”, I do not relinquish the value of a personal image that substantiates the VISION. It can thus be said that ”I draw” with pre-existing images. Moreover, I believe this to be a formal approach in the production of things that is not totally unknown. Think, for example, about the ”assemblage” of Polaroid photos created by Hockney, which he himself defined as drawings expressed through mechanical means. Now, it is certainly clear that there is a difference and a divergence in both the composing elements and the aesthetic outcome of the two works. However, it is the underlying content, on the deepest artistic level, which presents a common ground: art as the ability to LOOK, and then to IMAGINE, while inspiring and directing others to PERCEIVE. I am more interested in ”feelings” as an approach to reading and interpreting a work of art, rather than an ”intel-

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lectually speculative” focus – whose content (literary, sociological, psycho-pedagogical), in my view, is destined to endure the misnomers of the other disciplines.

On the ”traceability” of the author

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Even though I’m in complete agreement with your theoretical approach towards my work, I would like to take a moment and further explore one of your passages: ”the work does not necessarily convey the personality of the author or artist”. The statement, which is certainly justifiable, strikes me to have merit to invoke (especially for the non ”expert” reader who has a tendency to imbue the author with a virtuoso aura perhaps more fitting of a sports personality than an artistic experience; in any case) a less ”sharp” approach concerning the current and contemporary lack of ”traceability” of a work of art in relation to its author, as you stated. The extremes of the correct theoretical assumption could be mitigated by affirming that it is ”the execution and the interpretation of the work that does not necessarily express the personality of the author” thus instilling the object/work of art with its own, as you love to call it, authorship that is a reflection of the artist’s will. Please forgive the digression, but what authorial value can there ever be, for example, in a work by Mondrian, whose elementary and rather trivial painting technique does not provide any added value to the work itself. ”Broadway Boogie Woogie”, no doubt remembered as Mondrain’s most ”pictorially” complex and evolved work, does not – upon an initial impression – seem to uphold any ”appeal” in terms of content or execution and could well have been accomplished by any ”apprentice”, and not even an overly skilled one. Yet it no doubt represents a masterpiece in the artist’s repertoire: dwelling therefore on the authorship of this work, does not imply a simple desire to reflect on its implementation, but also brings into focus the underlying thoughts which mark its realization and the artist’s vision, a vision that made possible the materialization of an actual idea. But let’s return, more modestly, to my own work. I believe it can be affirmed that a clear and voluntary request upon other individuals (still controlled by the author) to contribute towards the partial or complete execution of a work, does not undermine in any way the traceability of the author (rectius. Creator) relative to the work. The individuals who helped with the execution and the realization of my project have been many, with a range of skills and nuances. The modelling of the earth, the correction work required during the casting and processing of the wax, the ceramics crushing, the chisel work, the glazing of the bronze, the stereo-

Carl Wilhelm Kolbe (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione dettaglio

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Roses 2012, c print

scopic photography, the painting of the canvases, are all phases of the project that were carried out by different individuals: each and everyone of them with their technical expertise, and also with their own, sometimes hidden, creative ”anxieties”. And yet, all these personalities (including my own, which we will return to while examining the purely pictorial works) all worked in unison as on organism driven by a ”unique” goal. The ways and the amount of my personal influence and physical interventions thus become irrelevant in relation to the creative process (the influencing factors where certainly different for different works) during the execution of the various individual facets of the project. Moreover, the problem was addressed using the same approach during the realization of the ”Invisible landscapes”, the only purely pictorial work of the entire project, as it were, under the creative control of the author. We are talking about work executed by me (even if the design is actually an assemblage of pre-existing engravings) but which, for this exact reason, called for a ”supplementary” vision prior to the realization of the work, as if to substantiate before the execution of the painting, a road technically defined and closed. Thus, when I had been forced to deal with the execution phase, in actuality, I had already expected, or rather imagined, the final outcome. In this case, the design aspects of the work were more strict and systematic with a focus on a perceptual effect (the vision of the work that changes relative to the direction of its light source, until the complete destruction of the same image that emerges, therefore, at an indifferent monochromatism) which then becomes the essence of this and, in separate respects, of other work. Of course, how can one deny the initial delight at the sight of a completed work, the pure joy in having overcome one’s natural laziness and achieving a sort of desirable outcome otherwise described as, please excuse the term, magical. But once the (how shall we put it?) creative frenzy has passed, now I look again upon this work and, I assure you, I am not able to detect any difference in relation to all the other works, in which I perceive the same ”authorial” anxiety and which provoke the same – unfortunately human – satisfaction for having been imagined and realized. I used my own self, my hands, my eyes, my sensitivity, in exactly the same way I integrated the many distinct personalities involved in the realization of other aspects of the project, and almost all of these organisms, including ”myself”, were subservient to a single vision, a vision that shines and defines the entire project. Milan, March 16, 2013

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Carl Wilhelm Kolbe (1759-1835) Auch ich war in Arkadien 1801, incisione a fianco Roberto Fanari, Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-014) 2012, Bronzo cm. 76x101

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Incanto e disincanto | Maurizio Vanni

Sensibilità, creatività, fantasia, predisposizione alle sollecitazioni esterne, generosità emotiva, desiderio espressivo, bisogno comunicativo, conoscenze tecniche, eredità culturale, crescita sociale, equilibrio psicologico, piacere estetico, sublimazioni estatiche o semplice prove di esistenza: è imprevedibile solo immaginare ciò che conduce una persona nel misterioso percorso delle arti, nell’impertinente dimensione della produzione della cultura, nel contesto di una condizione che sovrintende l’essere attraverso il fare arte. Oggi molti si sentono artisti, ancor di più vivono con il denaro ricavato dalla vendita delle loro opere, ma le caratteristiche del vero creativo che decide di scoprire se stesso attraverso l’arte sono differenti da quelle di rispettabili professionisti. Roberto Fanari non si è mai posto il dubbio del proprio essere o della propria missione; infatti ha preferito mettersi in discussione con ogni mezzo per cercare e cercarsi, per conoscere, ri-conoscere e riconoscersi, per osservare e, all’occorrenza interpretare, ciò che si nasconde dietro la quotidianità o nel lavoro di artisti del passato che hanno sedotto la sua mente. Il suo lavoro non cerca l’essenza dell’astrazione o la concettualità di forme e di composizioni inedite, bensì è basato sulla ricomposizione e sulla re-interpretazione di dati visivi provenienti dall’esterno elaborati attraverso strategie legate alla fruizione. Ne scaturiscono composizioni immediatamente familiari, ma al tempo stesso inconsuete e inaspettate in quanto ricche di parti che turbano una visione lineare e presumibile: forme morfologicamente riconoscibili sono completate da una serie di ossimori materici, da luci artificiose che esaltano una patina monocroma che toglie alla forma ogni riferimento alla passiva mimesi della natura. Potremmo definire il lavoro di Fanari come un leale inganno visivo: lo spettatore viene incuriosito da un’immagine che immediatamente riconosce, quindi si avvicina senza timore cercando conferme nei particolari, ma proprio quando entra nel cuore della composizione si accorge che quello che aveva creduto di vedere con l’utilizzo del solo senso della vista viene, almeno in parte, confutato e messo in dubbio. In questo modo il fruitore è obbligato a decontestualizzare la struttura visiva ricorrendo, in modo automatico, ad una fruizione più mediata e personale basata sui cinque sensi e sulle emozioni percepite attraverso l’emisfero destro del cervello. La Foresta di Fanari è un bosco come potrebbero essercene tanti in ogni parte del mondo, ma potrebbe anche non essere la foresta che crediamo o addirittura non essere una foresta. ”Non sono interessato ad un’immagine primigenia – scrive Fanari –, la mia ricerca non si indirizza alla creazione di un’immagine che possa definirsi originale, mai vista prima”. La cosa incredibile è che un atteggiamento del genere spiazza e disarma proprio perché dietro icone rassicuranti si nascondono mondi e dimensioni che ammiccano alle storie dell’uomo, alle sue esperienze, alle sue vulnerabilità, alle sue certezze e al suo amore

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per la vita. Fin dall’antichità, la foresta era considerata una specie di Santuario, un luogo spontaneamente sacro in cui si percepiva completamente la forza della natura, potente elemento di comunicazione tra terra e cielo. Per il suo aspetto intricato e tenebroso, la foresta potrebbe rappresentare le forze naturali e inconsce della psiche, quelle legate alla sopravvivenza e all’istintività. Per l’analista moderno, infatti, la foresta è simbolo dell’inconscio. Essere in mezzo a una foresta – Dante ne parla come selva oscura –, significa dover affrontare situazioni complicate, ma una volta attraversato il pericolo l’individuo avrà preso coscienza della sua forza, di un’energia che non sapeva di possedere dentro di sé. Quasi tutti i lavori di Fanari si presentano con una visione frontale e diretta, senza troppe mediazioni, nella quale alberi e fitte vegetazioni si aprono a un esame sorprendentemente tattile, a un’indagine fisica, cerebrale e spirituale che obbliga il fruitore ad un atteggiamento di partecipazione e condivisione. Ciò che sembrava a prima vista scontato, si trasforma in qualcos’altro, che allude alla natura con un’immagine personale e auto-referenziale. I vari assemblaggi, accostamenti, pertugi, forme curvilinee perpetuate e scansionate in piani anche distanti tra di loro, contribuiscono a rendere quasi astratta la scena. Alberi centenari e intricate boscaglie si trasformano in labirinti da superare, in prove iniziatiche da sostenere, per arrivare a percepire il Tutto da ottiche differenti. Nella letteratura indiana medievale, l’ordine, la precisione e la fioritura di un giardino erano simbolo dell’ascesi spirituale dell’uomo. La foresta rigogliosa e selvaggia che precedeva l’ingresso al giardino, nella quale abitava ogni tipo di creatura, invece, rappresentava una prova di conferma e purificazione, un luogo dove ritrovarsi interiormente per vivere in modo più profondo e completo il presente della propria esistenza. In molti lavori di Fanari, c’è la sensazione di dover superare una prova: lo spettatore è chiamato a mettersi in gioco, a interagire con il lavoro, a coinvolgere simultaneamente tutti i sensi per arrivare a una percezione ideale che, comunque, risulterà sempre differente e unica. La raccolta di Yukio Mishima ”La foresta in fiore” propone l’abbandono della mente a uno stato fluttuante, a un lucido stato di grazia in grado di far percepire la natura delle cose da prospettive differenti. Racconti che trattano il tema della tradizione, del soprannaturale e dell’analisi introspettiva. Anche Fanari ha a che fare con un mondo diversamente onirico e certamente psicologico, che ha una partenza certa nel dato fenomenico, ma che ben presto se ne distacca a vantaggio di qualcosa che può essere suggerito, ma mai del tutto rappresentato: ”Il mio interesse si rivolge alla ricerca e alla combinazione di immagini preesistenti secondo formule percettive nuove”. Ne consegue un racconto visivo nel quale tradizione e passato convivono perfettamente con interiorità, istinto e contemporaneità in un’atmosfera magica dove respiriamo la consapevolezza che basta dare il nome a una cosa per farla esistere nell’incanto della meraviglia e nel disincanto della verità.

Hiroshige Ando (1797-1858) 100 famous views of Edo incisione su legno

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-011) 2012, ceramica smaltata dettaglio

Enchantment and disenchantment | Maurizio Vanni

Sensitiveness, creativeness, imagination, natural bent for external solicitations, emotional generosity, expressive desire, communicative necessity, technical knowledge, cultural inheritance, social growth, psychological balance, esthetical pleasure, ecstatic sublimations or mere evidences of existence: it is unforeseeable to imagine what can lead a person in the mysterious path of the arts, in the insolent dimension of the artistic production, in the context of a condition which supervises the human being / individual through art making. Nowadays a lot of people consider themselves artists, they live with money gained from the sale of their works, but the characteristics of the real creative, who decides to discover himself through art, are different from the ones belonging to respectable professional people. Roberto Fanari has never raised the question about his own being or about his own mission; he has preferred to put himself in argument with every means in the attempt to look for and to look for himself, to know, to recognize and to recognize himself, with the aim to observe and, in case of necessity, to explain what is hidden behind everyday life or behind the work of artists of the past who have seduced his mind. His work doesn’t seek the essence of abstraction or the conceptual meaning of forms or unpublished compositions but, on the contrary, it is based on the rewriting and on the reinterpretation of visual data coming from the outside and elaborated through strategies linked to fruition. What results from this procedure are familiar compositions, at the same time unusual and unexpected, full of parts which upset a linear and presumable vision: morphologically recognizable shapes are completed by a series of artistic oxymorons, by artificial lights which exalt a monochrome patina that removes from the form all the references to the passive mimesis of nature. Fanari’s work can be considered as a faithful visual illusion: the spectator’s curiosity is attracted by an image, the spectator immediately recognizes this image and therefore he draws near without fear, looking for confirmations and paying attention to details, but as soon as he enters in the heart of composition he realizes that what he had believed to see, only using the sense of sight is, at least partly, confuted and questioned. In this way the spectator is forced to de-contextualize the visual structure using, in an automatic way, a mediate and personal fruition based on the five senses and on the emotion perceived thanks to the right cerebral hemisphere. Fanari ”Forest” is a wood such as we can find in every part of the world, but it might not be the forest we believe or it might not be a forest at all. ”I’m not interested in a primitive image” Fanari says, ”my search is not addressed towards the creation of an image we can define original or never seen before”. The unbelievable thing is that such an attitude amazes and disarms precisely because behind reassuring icons we can find worlds and dimensions that wink at man histories, at his experiences, at his vulnerabilities, at

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Roberto Fanari Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-024) 2013, ceramica smaltata cm. 200x140

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his certainties and at his love for life. Since ancient times the forest was considered a sort of Sanctuary, a sacred place where the strength of nature, powerful element of communication between earth and sky, was entirely perceived. The forest could represent, for its tangled and dark aspect, the natural and unconscious forces of psyche, tied up to survival and instinct. As a matter of fact, the forest is, for the modern analyst, the symbol of the unconscious. To be in the middle of a forest – Dante described it as a dark wood - means having to face complicated situations, but once crossed the danger the individual will have taken full consciousness of his strength and of the energy he didn’t know to have inside. Almost all Fanari’s works have a frontal and direct vision, without too many intermediations, in which luxuriant vegetation opens to a surprisingly tactile examination, to a physical, cerebral and spiritual research where the spectator is forced to show an attitude of participation. What seemed taken for granted at first sight, it turns into something else, in something which alludes to nature with a personal image. The several approaches, holes, curvilinear forms tested out in plans even far from each other, give their contribution in reproducing the scene almost abstract. Centenary trees and tangled brushwood turn into labyrinths to overcome, into initiatory tests to stand, with the aim to perceive everything from different points of view. In Medieval Indian Literature order, precision and gardens in full bloom were the symbols of spiritual ascesis. On the contrary, wild and lush forest outside the entrance of a garden, where many different creatures lived, represented a place of purification where we could live deeply and fully the present of our own existence. In Fanari’s works the spectator has to bring himself into action, he has to interact with works, he has to involve simultaneously all senses to reach to an ideal perception which, however, will turn to be always different and unique. Yukio Mishima collection ”La foresta in fiore” suggests the abandon of the mind in the direction of a floating state, towards a shiny state of grace able to make the nature perceived from different points of view. Short stories that deal with the theme of tradition, of supernatural, of introspective analysis. Fanari has to do with a different oneiric and psychological world; a world which starts in the information experienced through senses, but a world that soon detaches in favour of something that can be suggested but never fully represented. ”My interest is addressed to the research and to the combination of pre-existent images according to new perceptive formulas”. The result is a visual story where tradition and past perfectly coexist with instinct and contemporaneity in a magic atmosphere where we breathe the consciousness that it’s enough to name one thing to make it exists in the enchantment of wonder and in the disenchantment of truth.

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I fogli di bronzo : Bronze folio

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Conversazioni con Alessandro Romanini

La serie: Nella mia foresta I fogli di bronzo I primi lavori che sono stati estrapolati dal progetto generale sono stati quelli che mi piace chiamare ”fogli di bronzo”. Come ricorderai il progetto trae origine da un ”incontro” casuale (come spesso mi accade, e forse sul problema della casualità varrebbe la pena soffermarsi) con il lavoro incisorio di Carl Wilhelm Kolbe, artista protoromantico del ‘700, nel quale sono letteralmente incappato nell’estate del 2010 mentre affrontavo una ricerca sui lavori delle figure ”volanti” di Hendrick Goltius in relazione ai miei lavori sulla figura umana (le ceramiche ”sono soli” di cui in seguito vedremo).

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Come sai le immagini arcadiche di Kolbe sono servite da base e fondamento, dopo il loro assemblaggio e rimaneggiamento da me abbondantemente operato, per la serie ”Nella mia foresta”. Partendo dal lavoro bidimensionale delle incisioni, così come poi da me assemblate (se ti piace, direi il ”disegno” delle opere che ne sono scaturite), sono pervenuto allo sviluppo ”volumetrico” del lavoro (con il desiderio vero e proprio di conferire ”spessore fisico” all’immagine) pur conservandone la visione sostanzialmente frontale. La volontà di offrire una percezione ”voluminosa” di un punto di vista ”frontale” è stata principalmente dettata dalla necessità di evitare distrazioni visive sempre possibili nelle visione di opere a tutto tondo la cui percezione per così dire naturalistica ed i cui molteplici punti di vista mi sembrava che potessero distogliere da una visione meditata del lavoro. La scelta di partire da una incisione e non da una immagine ”reale” credo che, almeno in questo caso, possa intendersi come dettata dalla volontà di proporre un’immagine già mediata dalla lettura interiore che era già stata fatta di una visione naturalistica. La descrizione, solo apparentemente paesaggistica, che si trae dal lavoro incisorio dovrebbe, nel caso, essere letta come la idealizzazione di una visione tutta interiore e concettuale. Credo si possa cioè affermare che quei lavori incisori non siano altro che l’esito ultimo di una visione ”ideale” dell’uomo e del mondo che lo circonda e che la la scelta del ”soggetto” altro non è che occasione e pretesto per trasmettere una scelta interiore, una visione appunto. Questa mediazione preventiva già operata dalle incisioni origina-

Max Ernst (1891-1976) Gioia di vivere 1936, olio su tela

Henry Rousseau (1844-1910) Giungla all’equatore 1906, olio su tela

rie, si è ulteriormente accentuata dall’assemblaggio e modificazione che ne ho effettuate, ciò che ha contribuito alla creazione di una immagine ex novo che è risultata, così, come una ulteriore ”distorsione” e che non è in alcun modo riconducibile ad una qualsivoglia descrizione del reale. La ricerca di una visione frontale, l’assemblaggio di immagini diverse, dissonanti e talvolta tra loro incongruenti, l’uso monocromatico della patina o l’uso del ”colore” stesso del metallo utilizzato, hanno in qualche modo teso al totale annichilimento dell’immagine originaria (il bosco, la natura) così ricreando, o almeno sperando di ricreare, una esigenza contemplativa tutta interiore che prescindesse dal racconto visivo. La volontà di ”disorientamento” si è in qualche misura ottenuta usando un materiale solido e per sua natura pesante, come fosse un foglio da disegno in modo da offrirne così una percezione non consueta. Molte di queste opere hanno poi subito un ulteriore intervento con la creazione di passaggi di luce ottenuti perforando il bronzo. Attraverso una operazione quasi di ”intaglio” del foglio di bronzo si è volutamente acuito lo sforzo percettivo obbligando lo spettatore ad una contemplazione attiva derivante dalla spontanea capacità dell’occhio di ”ricostruire” una visione dell’immagine all’apparenza non del tutto definita: la ricomposizione dei vuoti, l’inevitabile ”ricostruzione” visiva del folio ad opera di chi guarda, non fanno altro che acuire (anche inconsapevolmente) la possibilità di un’apprensione dell’immagine non distratta e non superficiale. Milano, 18 marzo 2013

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Conversing with Alessandro Romanini

In my forest series The bronze folio The first works that were extrapolated from the overall project, were the ones I like to refer to as the ”bronze folio”. As you may recall, the project originated with a random ”encounter” (as it often happens to me, and perhaps it may be worthwhile to reflect on the problem of randomness) with the work of the etcher/engraver Carl Wilhelm Kolbe, proto-romantic artist of the 1700s, whòs work I stumbled upon during the summer of 2010, while in the process of researching the creations of Hendrick Goltius, in particular his ”flying” figures, in relation to my work on the human form (the ceramics belonging to the ”they are alone” series, which will be discussed later).

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As you may well know, Kolbe’s Arcadian images served as the basis and foundation, following the artistic construction and remodelling efforts I undertook, for the series of works titled ”In my forest”. Starting from the two-dimensional work of the engravings, as I chose to assemble them, I eventually arrived at the ”voluminous” aspect (with the true and genuine desire to instil ”physical thickness” upon the image) while preserving the frontal perspective of the work. The willingness and desire to offer a ”voluminous” perception from a ”frontal” point of view, was primarily driven by the need to avoid visual distractions that are always possible when viewing works of art from all perspectives. This (so to speak) naturalistic perception and multiple points of view always stuck me as a distraction from a thoughtful and reflective survey of the work in question. The decision to start with an engraving and not with a ”real” image I think, at least in this case, can be considered as being motivated by a desire to recapture an image that has already been explored during its original creation and brought to life with a naturalistic vision. The portrayal, only seemingly a landscape, which draws upon the work of the engraver should be, in this case, interpreted as the idealisation of an entirely conceptual inner vision. I suppose it could be asserted that those engravings are nothing but the final outcome of an ”ideal” vision of a man and of the world that surrounds him. Thus the choice of ”subject” represents nothing more than an opportunity and a pretext to express an inner choice, or rather a vision.

Roberto Fanari Nella mia foresta series Terra cruda 2011, dettaglio

Roberto Fanari Nella mia foresta series Cera 2012, dettaglio

This mediation, already established by the original engravings, was further accentuated by the artistic construction and remodelling work that I implemented, something that has ultimately contributed to the creation of an ex-novo (or new) image. This therefore resulted, into an additional and more pronounced ”distortion” that cannot, in any way, be attributed to a description of reality. The quest for a frontal perspective, the incorporation of different images, dissonant and sometimes incongruent among themselves, the use of monochrome patina or the use of the ”colour” matching that of the metal used, have somehow contributed to the total and complete obliteration of the original image (the forest, nature) thus recreating, or at least attempting to recreate a fully contemplative inner need that is completely disconnected from the visual narrative. The desire to create ”confusion” is to some extent attained through the use a solid material and by the heavy nature of the medium, used as a drawing pad in order to thus supply and make possible a rather unusual perception. Many of these works have since sustained further refinements, specifically the creation of ”light passages” obtained by piercing the bronze. Together with a process that in a way entailed the ”carving” of the bronze folio, the perceptual aspect of the work was deliberately intensified, forcing the observer into an active examination of the subject which arises from the spontaneous ability of the eye to ”reconstruct” the vision of an image that is not fully defined: the re-composition of the empty space, the inevitable visual ”reconstruction” of the folio by the eyes of the observer, do nothing but intensify (even unconsciously) the possible interpretation of an image lacking confusion and superficiality. Milan, march 18, 2013

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Foglio di bronzo (FB-007) 2011, bronzo cm 96x71 (circa)

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Foglio di bronzo (FB-008) 2011, bronzo cm.94x63

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-009) 2012, bronzo cm 76x96

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-013) 2012, bronzo cm 82x101

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-006) 2011, bronzo cm 132x102

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-017) 2012, bronzo cm 167x118

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-010) 2012, bronzo cm 76x103

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-019) 2012, bronzo cm 133x102

Pagina seguente Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-021) 2012, bronzo cm. 174x122

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-022) 2012, bronzo cm 104x80

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-004) 2011, bronzo cm 89x63

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-015) 2012, bronzo cm 82x103


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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-024) 2012, bronzo cm 46x63


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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-031) 2012, bronzo cm 94x63


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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-025) 2012, bronzo cm 46x63

Pagina seguente Nella mia foresta series, Trittico Foglio di bronzo (FB-034) cm 50X47 Foglio di bronzo (FB-035) cm 50X47 Ceramica bianca (CF-016) cm 51x48

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Paesaggi invisibili, 2011 olio su tela, 100 x 140 cm

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-019) 2012, bronzo cm 133x102

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-018) 2012, bronzo cm 186x143

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Nella mia foresta series, Foglio di bronzo (FB-037) 2013, bronzo cm 220x165

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Ceramiche frantumate : Shattered ceramic

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Conversazioni con Alessandro Romanini

Ceramiche frantumate (shattered ceramic) Questi lavori sono stati realizzati utilizzando le forme in terra cotta che sono servite come modello per i fogli di bronzo. Per questi ultimi, infatti, in luogo di produrre, come consuetudine, un modello in plastilina ovvero una forma direttamente di cera, ho preferito che venisse utilizzata l’argilla, una materia viva che ha consentito una modellazione di effetto immediato scevra, almeno così ho cercato di operare, da inutili virtuosismi. Con questi lavori, peraltro, è stato preservato un passaggio, quello della modellazione, che altrimenti viene perso nel processo produttivo e causa, almeno per quanto mi riguarda, una sensazione di ”mancanza” alla quale ho ovviato attraverso l’utilizzo ”nobile” del modello stesso che ha assunto, appunto, le caratteristiche di un lavoro a sé.

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La fase della modellazione, propedeutica alla realizzazione dell’intero progetto, è quella che, come intuibile, ha presentato le dinamiche più complesse. Anzitutto, era necessario prevedere gli effetti della trasformazione della visione del progetto in un lavoro concreto. Si è partiti da un assemblage di incisioni per addivenire ad un ”disegno voluminoso” su di un foglio di bronzo: da un segno si doveva pervenire ad una forma attraverso una sorta di insufflazione estetica il cui esito finale era di difficile previsione. La performance, dunque, si è risolta tutta nel controllo dell’operazione a cui ha contribuito l’intuito più che la ragione. E il lavoro finito, come in tutti gli altri casi, è stato sorprendentemente corrispondente alla visione preventiva (preveggente, posso dirlo?) che ne avevo.

Salvador Dalì (1904-1989) Testa raffaellesca frantumata 1951, olio su tela

Vittoria Fanari Milano 2013, c print

è spesso così?) che ha indirizzato la scelta definitiva. Pur senza scendere nell’aneddotica (dalla quale credo si debba sempre rifuggire) vale la pena ricordare come la scelta di proporre un’opera frantumata sia giunta dopo un incidente, avvenuto nel corso del trasporto di una terra cotta, che aveva provocato la sua rottura in più pezzi. L’ansia di preservare comunque quell’opera ha favorito la riflessione sulla veste finale di questi lavori che nella loro frantumazione hanno trovato, io credo, la loro primaria ragione di essere. Ciò è tanto vero che molte delle altre opere ceramiche di grande misura sono state da me stesso sgretolate, con l’unico o quantomeno con il principale intervento personale e diretto da me apportato a questo lavoro: forti e calibrate martellate (e lo dico con un pò di compiaciuta ironia) alla ricerca dell’equilibrio tra i vuoti e la forma così definitiva di questi lavori. Al di là dell’intervento diretto dell’autore, ciò che interessa maggiormente rilevare è che anche in questa occasione gli spazi creati tra una parte e l’altra delle opere hanno avuto la medesima funzione delle aperture e dei ri-tagli operati sui fogli di metallo, vale a dire quella di destabilizzare l’altrimenti pacifico e indifferente sguardo dell’opera finita. L’inevitabile ed automatica necessità di ricomporre l’immagine così come risulta dalla sua frammentazione, richiede un quid pluris di attività nello spettatore che, essendo distolto da una altrimenti indisturbata percezione dell’opera, in realtà riesce così ad avere una visione più meditata e consapevole del lavoro d’arte. Milano, 18 marzo 2013

L’uso della smaltatura ceramica del modello, quindi, è stato il naturale epilogo di questo lavoro e ne ha, appunto, cristallizzato (e poteva essere altrimenti con questo materiale) i contenuti formali. Anche qui il monocromatismo (con rare eccezioni) è stata una strada consapevolmente inevitabile per le stesse ragioni che l’hanno imposta come scelta estetica nei fogli di bronzo. Tuttavia, la semplice smaltatura della terra, così come era originariamente modellata, non risultava esteticamente appagante e perciò ero alla ricerca di una soluzione che fosse coerente con le altre parti del progetto. Così è accaduto che lo scarto percettivo, ricercato in tutti i lavori di questo progetto, lo si è recuperato attraverso l’operazione di frantumazione dell’opera in terra cotta. Peraltro, la visione dell’opera così come ora la vediamo, è stata in parte il frutto del caso (ma non

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Conversing with Alessandro Romanini

Shattered ceramic These works were realised with the help of terracotta moulds, which served as a model for the bronze sheets. For the latter, instead of relying on Plasticine or on models crafted directly from wax, I decided instead on the use of modelling clay, a ”living” material that made possible a real-time modelling effect on my apart, thus allowing me to work without unnecessary virtuosity. Through these works, however, a sort of passage was preserved. I am referring to the modelling aspect, which is otherwise lost during the production process because, at least for me, a feeling of ”absence” is at play, which I was able to resolve through the ”noble” use of the model itself which in turn assimilated the characteristics of the actual work.

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The modelling phase, a preparatory step relative to the implementation of the entire project, is one that, as can be imagined, presented the most complex dynamics. First, it was necessary to anticipate the metamorphosis of the project’s vision into a concrete work. We traversed from an assemblage of incisions, finally arriving at a ”voluminous design” of the bronze sheets: from a stroke we needed to arrive at a form, by way of a sort of ”aesthetic expansion” whose final outcome was difficult to predict. The performance, therefore, was completely resolved by means of controlling the operation which, in turn, was influenced by intuition, more so than by reason. And the finished work, as in all other cases, remained true, surprisingly, to the original anticipated vision (or shall I call it predictive vision) that I had. The use of ceramic glazing applied to the model, therefore, became the natural culmination of this work, in fact, crystallising (and it could not have been otherwise with the use of this material) the formal content. Here too, the monochromatism (with rare exceptions) became a road knowingly inevitable for the same reasons that influenced the aesthetic selection of the bronze sheets. However, simple glazing of the clay, as it was originally modelled, was not aesthetically pleasing and therefore I searched for a solution that was consistent with the other aspects of the project. Thus it transpired that the perception gap, sought throughout the work associated with this project, was mitigated by way of shattering (or crushing) the terracotta compositions. Moreover, the vision as it can be seen now, was in part the result of chance (something that often happens?) that influenced the final outcome.

Nella mia foresta series Divertissement (alberi) 2013, ceramica smaltata dettaglio

Nella mia foresta series Ceramica frantumata (CF-023) 2013, ceramica smaltata dettaglio

Even without taking an anecdotic approach (from which I believe we should always abstain) it is worth remembering that the occurrence that influenced the shattered aspect of the work, came about by chance, taking place during the transport of terracotta, when the material happened to break into pieces. The anxiety and desire to preserve the affected work, however, influenced its final outcome. Thus through the unintended shattering, the work found, I believe, its primary reason for being. It is also quite true that many other large ceramic works, have met the same fate with my help, the only time I personally intervened in such a way: strong and calculated hammer strokes (and I mention this with a little bit of smug irony) carried out with the intent of attaining a balance of space and shape. Beyond the direct intervention of the author, the aspect that is most interesting to note is that even on this occasion, the ”spaces” created between one side and the other of the works, have served the same function and purpose as that of the perforations and re-incisions performed on the metal sheets, namely that of destabilising the otherwise peaceful and indifferent sight of the finished work. The inevitable and automatic necessity to recompose the image as it now appears due to the shattering process, requires a quid pluris (increased) commitment from the observer, who is challenged and distracted by an otherwise undisturbed perception of the work. In reality, the observer is thus capable of a decisively more thoughtful and informed vision of the artwork. Milan, march 18, 2013

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Pagina seguente Nella mia foresta series Ceramica frantumata (CF-023) 2013, ceramica smaltata dettaglio


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Nella mia foresta series, Divertissement (alberi CF-026) 2013, ceramica smaltata cm 40x50x67 (circa)

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Nella mia foresta series, Divertissement (alberi CF-025) 2013, ceramica smaltata cm 40x50x67 (circa)

Nella mia foresta series, Divertissement (alberi CF-026) 2013, ceramica smaltata cm 40x50x67 (circa)


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Nella mia foresta series, Divertissement (alberi CF-027) 2013, ceramica smaltata cm 40x50x67 (circa)

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Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-020) 2012, ceramica smaltata cm. 141x108


Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-024) 2012, ceramica smaltata cm 200x140

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Nella mia foresta series, Ceramica frantumata (CF-024) 2012, ceramica smaltata cm 200x140


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Paesaggi invisibili : Hidden landscapes

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Conversazioni con Alessandro Romanini

Paesaggi invisibili I lavori su tela, vuoi per il mezzo usato, vuoi per il modo in cui si è espressa la visione interiore, rappresentano probabilmente il momento estetico che richiede la visione più ponderata dell’intero progetto. Questo non deriva dal fatto che questo lavoro sia stato eseguito interamente da me: come sai non ho volutamente attribuito al fatto dell’intervento personale un valore aggiuntivo.

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Anzi, al proposito, vorrei rammentare quanto ebbi a riferirti a proposito dell’esecuzione di questo tipo di lavoro. Una volta esaurita la fase di assemblaggio e modificazione dell’immagine incisoria, questa e’ stata meccanicamente trasportata sulla tela in-vece del disegno (come consueto). I passaggi successivi del lavoro manuale da me realizzato sono stati tutti, o quasi tutti, previsti e voluti nel senso che il lavoro finale è stato ”programmato ed eseguito” in conformità con quanto in precedenza stabilito in funzione della visione complessiva e delle sue ragioni estetiche da me preventivamente ricercate. Credo si possa dire che ho ”usato” me stesso nella realizzazione di una parte del progetto così come ho utilizzato altri soggetti nell’ausilio per la realizzazione di altri lavori. L’asservimento totale ad una pre-esistente visione e ad una pre-definita ricerca estetica nasceva dalla necessità di mantenere il controllo sul lavoro in modo tale che virtuosismi tecnici o visioni del momento non incidessero sull’esito finale così come originariamente ricercato. L’obbligo inevitabile di mediazione (cioè l’uso concreto di un intermediario fisico) tra il ”pensato” ed il ”realizzato” ha comportato, come detto, la necessità di dirigere il lavoro nel suo complesso in modo tale che lo stesso potesse essere poi letto nella sua unitarietà. Nel caso di questi lavori il controllo su me stesso si è ,quindi, attuato attraverso una disciplina esecutiva ancor più definita alla quale mi sono rigorosamente attenuto: compiere il lavoro in varie giornate di applicazione, mantenere tra una giornata e l’altra uno spazio temporale adeguato e mantenere un continuo riferimento tra il progetto e la sua realizzazione.

Roberto Fanari Nella mia foresta series, Paesaggio al buio (PB-008) 2013, c print cm 39x29

Renè Magritte (1898-1967) Le seize Septembre 1956, olio su tela

di annullare le ansie virtuosistiche e la perfettibilità del segno in cui, purtroppo, si incorre nella reiterazione del lavoro. Il cercare di rimanere non-professionista ha in realtà consentito di preservare quell’esito scopico tutto solo immaginato e così in tal modo, almeno spero, raggiunto. La volontà di rappresentare un’ immagine evanescente (la ricerca materica di questo lavoro) insieme alla necessità di creare un opera dotata di potere di evocazione (lo scopo ultimo dello stesso lavoro) sono state ricercate e, si confida, ottenute attraverso un procedimento tutto sommato non complesso nell’utilizzo della materia stessa. L’impercettibile modulazione dei diversi neri utilizzati -di volta in volta più opachi o piu brillanti, o via via puri o miscelati- ha consentito di mantenere una vibrazione scopica continua nell’opera. Allo stesso modo, le modalità di stesura del colore -attuata attraverso ripetute velature o con l’applicazione di una pellicola materica più consistente - ha consentito alla luce (qui usata come protagonista tecnologico al pari di pennelli, tela e colori) di giocare ancora di più con l’opera ed anzi di diventarne ”strumento” fattuale al pari degli altri media - ovvii - utilizzati. Una volta ultimata, l’opera ha fatto insorgere, oltre al già rammentato ma transitorio compiacimento produttivo, la reale sorpresa nel vedere come l’esito finale corrispondesse alla pre-visione che ne avevo fatta prima della sua realizzazione. La volontà che aveva spinto in fondo alla creazione di questi lavori era la possibilità di indurre una pulsione evocativa nella loro fruizione. Si tratta di immagini cangianti che mutano con il cambiare della luce ed anche solo con il minimo e semplice spostamento dell’angolo della loro visuale da parte dello spettatore. Dal nero assoluto in cui appaiono talvolta, si passa all’intuizione visuale fino a giungere alla totale visione di una immagine nota. Anche qui, anzi qui ancora di più che altrove, lo scarto percettivo nell’apprensione dell’immagine così ottenuta ha raggiunto il suo scopo: passare attraverso la sollecitazione sensoriale per pervenire ad un appagamento emozionale. Milano, 20 marzo 2013

Lo sforzo è stato quello di rimanere il più aderente possibilie alle istanze originarie evitando che la ”manualità” (e l’abilità) cui inevitabilemente si perviene con l’insistere prolungato di un’attività prevalicasse gli intendimenti estetici interiori. Ho cercato, cioè, attraverso le continue interruzioni ed il ”riprendere da capo” il lavoro,

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Conversing with Alessandro Romanini

Hidden landscapes The works on canvas, whether by way of the medium used, or by the manner through which the inner vision was expressed, no doubt represent the aesthetic device that necessitated the most substantial amount of vision from the entire project. This is not due to the fact that this work was executed entirely by me – as you may know, I do not intentionally attribute added value when this comes into play.

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Indeed, in this regard, I would like to recall what I previously told you in relation to the execution of this type of work. Once the implementation of the engraved images was achieved, these were mechanically imprinted onto the canvas – as opposed to the ”normal” process, where a image is directly applied to the canvas. The next steps of the process (signifying manual labour undertaken by me) were all, or almost all, anticipated and ”aspired to”, in the sense that the final work was ”planned and implemented” in accordance with a previously established overall vision and in relation to pre-defined aesthetic qualities which I originally envisioned. I guess you could say that I ”used” myself in the realisation of a part of the project, as I employed the assistance of many distinct individuals throughout the execution of other work. The total subservience to a pre-existing vision and a pre-defined aesthetic quality, stemmed from the need to maintain control over the work, in order to ensure that the end result as originally foreseen, was not affected by the ”technical virtuosity” or the ”momentary vision”. The inevitable requirement for mediation (that is, the defined use of a physical intermediary mechanism) between that which was ”thought” and that which was ”realised” involved, as mentioned, the need to direct (or organise) the work as a whole, in such a way that it retained the same qualities and vision in its actualised unity. In the case of this work, the control over myself was, therefore, implemented through an even more defined and articulate executive discipline, to which I strictly adhered: complete the work within a few days, maintain an appropriate interval of time between ”working days”, and maintain a constant correlation between the project and its implementation. The challenge was to remain as close and as committed as possible to the original demands of the work, ensuring that the ”manual

Nella mia foresta series, Paesaggio invisibile (PI -010) 2012, tecnica mista su tela (dettaglio)

skill” (or ability), which inevitably comes into play during a prolonged activity, does not surpass the inner aesthetic aspirations of the work. I attempted, therefore, through a process of constant interruptions (while starting and restarting the work all over again) to neutralise the virtuosic apprehensions and the perfection of the artistic strokes to which, unfortunately, repetitive work is susceptible. The process of attempting to remain ”non-professional”, in reality, allowed me to preserve that intended ”vision”, which was – at least I hope – successfully attained. The willingness to achieve an evanescent production (the material objective of this work), alongside the desire to create a work with evocative power (the ultimate goal of the same work) represent elements that were pursued, and hopefully attained by means of a process in large characterised by the use of the actual medium. The imperceptible modulation of the different shades of blacks used – sometimes more opaque and other times more brilliant, or rather a contrast of ”pure” and blended shades – made it possible to sustain a continuous ”scopic variance” of to the work. Similarly, the approach contended with during the application of the colour - achieved through layered applications or by way of a more a substantial medium - has allowed the light (used here as a principal technique on par with the brushes, paint and canvas) to impress added scope and latitude upon the work, thus becoming a tangible ”tool” (side by side the other mediums employed). Once completed, the work brought to life – in addition to the already mentioned, yet transient, creative satisfaction – a true element of surprise, in the ability to contrast the final result to the ”prevision” that had been made prior to the realisation of the work. The creative compulsion that underlined the realisation of these works is accentuated by the possibility to drive or induce an evocative ”impulse” in their materialisation. We are referring to ”transient” images that change with variations in light, or even with minute adjustments of their visual angle on the part of the observer. From a pure black, the observer passes to a sort of ”visual intuition”, until a holistic vision of the image is attained. Even here, or better said, especially here, the perceptual gap manifested by the apprehension of the image thus realised, has attained its ultimate goal: to conquer the so called sensory ”fatigue” and attain emotional fulfilment. Milan, march 18, 2013

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Nella mia foresta series, Paesaggio invisibile (PI -010) 2012, tecnica mista su tela cm. 184x132

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Nella mia foresta series, Paesaggio invisibile (PI -010) 2012, tecnica mista su tela cm. 184x132


Nella mia foresta series, Paesaggio invisibile (PI -010) 2012, tecnica mista su tela cm. 184x132

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Tree-dimensional project

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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -004) 2013, light box dettaglio

Conversazioni con Alessandro Romanini

Tree-dimensional project Questo lavoro nasce con l’intenzione, al di là del gioco di parole usato per definirlo, di ”chiudere” il progetto con una sorta di distorto e modificato ritorno alle sue ragioni originarie.

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Con un’operazione, per così dire, circolare, si è partiti dalle incisioni su carta, che attraverso il loro assemblaggio e modificazione hanno dato luogo ad una visione nuova; si è quindi giunti al dar corpo alla visione attraverso materiali ”voluminosi” (la ceramiche, i bronzi, gli alluminii) così pervenendo al mondo reale (concreto); ci si è soffermati sull’approccio intimistico del lavoro attraverso le opere più evocative (i paesaggi invisibili); per poi ritornare al principio e cioè, con questi ultimi lavori, al foglio di stampa, alla visione all’apparenza piana dell’opera rispetto alla quale la distorsione visiva, sempre presente nel mio lavoro, è stata ottenuta attraverso il disturbo percettivo ottenuto con la visione stereoscopica del lavoro (le stampe in 3D). L’ingombro che si è voluto ricreare con questi ultimi lavori, tuttavia, è tutto e solo mentale e la loro lettura richiede l’indispensabile partecipazione dello spettatore che non può osservare l’opera in maniera del tutto passiva. Intanto, l’azione di dover indossare uno strumento visivo (l’occhialino 3D) comporta una volontà partecipe ed attiva. Quindi l’esito percettivo dell’opera necessariamente sarà più complesso e, come già detto per altri lavori, più meditato. L’escamotage utilizzato in questo caso, pur non discendendo da una novità tecnica (l’immagine stereoscopica è nota da tempo anche se se ne è fatto scarso uso), ha comportato una serie di problematiche, anche esecutive, conseguenti alle esigenze estetiche proprie di questo lavoro e che ne hanno, in taluni casi anche sorprendentemente, travalicato la pre-visione. Uno dei problemi che si è posto ha riguardato l’esigenza di produrre una immagine che, anche senza l’ausilio del supporto visivo (occhialino 3D), fosse pienamente godibile o quantomeno non producesse eccessivo disorientamento al primo sguardo. Attraverso una sperimentazione tecnica nella ripresa fotografica e nella sua post produzione che qui non appare necessario ripercorre, si è giunti ad un livello di immagine che credo riesca a mantenere una sua intima ragion d’essere anche senza trucchi visivi o supporti esterni. Ulteriore problema, ben più ampio, riguardava invece la ricerca sulla percezione dell’immagine che -nel caso dell’ordinaria visione

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stereoscopica- risulta di norma eccessivamente e, dunque, impropriamente realistica. Infatti, è noto come nella visione sterescopica vengono a crearsi dei veri e propri piani sovrapposti, che inducono la falsa rappresentazione della reale profondità visiva (del resto questa è la funzione della visione binoculare). Tuttavia questi piani visuali sovrapposti risultano spesso essere così tanto fittizi che, se da un lato rendono l’immagine stessa eclatante, allo stesso tempo comportano in realtà una perdità di corpo dei suoi contenuti. Il risultato è spesso avvilente: si avverte il realismo dell’ambito spaziale ma i suoi protagonisti risultano appiattiti e priva di sostanza, quasi fossero delle maquettes alloggiate in una quinta teatrale.

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In ogni caso, anche una volta superato l’effetto spesso inconcludente delle immagini stereoscopiche, il puro e semplice ottenimento di un astratto buon esito delle stesse, non si poneva come l’obbiettivo, o quantomeno come l’obiettivo principale di questo progetto In questo senso, l’esito spettacolare della visione stereoscopica ottimale, così eventualmente ottenuta, in realtà non potrebbe che risultare, nel caso rimanesse un esercizio fine a se stesso, antitetico rispetto alle esigenze -tra le altre- di meditazione, intima riflessione e partecipazione emozionale che, almeno credo, un’opera dovrebbe comportare e che in ogni caso è lo scopo del lavoro qui proposto. A questo proposito (guarda il caso) è stata la natura stessa dei lavori dai quali si è pervenuti alla realizzazione delle tavole in 3D, che ha favorito una percezione più pacata del lavoro stereoscopico ed a consentito la possibilità di una visione che non si limitasse ad essere un mero e forse inutile gioco visivo. Con ogni probabilità è stata la molteplicità e la ricchezza dei piani prospettici delle matrici originarie (i bronzi e le ceramiche con gli innumerevoli sotto-squadra) che -di fatto- ha del tutto annullato quel senso di eclatante ma falsa percezione del reale che spesso, come detto, si avverte nei lavori stereoscopici, ed ha consegnato, invece, una visione calma e riflessiva del lavoro. Se indosso gli occhialini e mi soffermo così a guardare il lavoro non avverto disturbi nella visione dell’opera. I piani sovrapposti non si distaccano l’uno dall’altro ma tendono a formare un flusso di informazioni visive ininterrotto, quasi un unicum percettivo che rende l’immagine duttile, morbida e la sua visione pacata e naturale.

Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -006) 2013, light box dettaglio

Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -001) 2013, light box dettaglio

L’iniziale stupore, che pure non manca nella visione di questi lavori, non rimane fine a se stesso ma mi sembra che lasci, quasi immediatamente, il posto al godimento dell’immagine tanto che nell’esercizio della visione così modulata, si ritrovano e si scoprono parti ed elementi che spesso sfuggono allo spettatore nella visione della matrice (il bronzo o la ceramica originarii). Sorprendetemente la distorsione percettiva così come è stata ottenuta ha indotto una visione ancora più profonda e radicale dell’immagine che, come mi è venuto da dire alla vista della prima esecuzione del lavoro, è risultata ancora più ”vera” del reale. Milano, 18 marzo 2013

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Conversing with Alessandro Romanini

The tree-dimensional project This work was born out of the desire, beyond the play on words used to define it, to ”close” (or resolve) the project with a sort of distortion and modified re-emergence corresponding to its original purpose and vision.

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By means of a, so to speak, circular process, the work started from the engravings on paper, which through their implementation brought to life a new vision. It was thus possible to embody the vision through the use of so-called ”voluminous” materials (ceramics, bronze, aluminium) in order to portray a real world (or concrete) perception. The focus was on a rather intimate approach to the work, through more evocative creations (the hidden landscapes) – and then a return to the originating principle, that is, the concluding work of the printed sheets. We thus arrived at a revival of the ”flat” appearance, with respect to which the visual distortion, always present in my work, was achieved through a perceptual disturbance originating in the stereoscopic aspect of the work (3D prints). The physical ”encumbrance” that I strived to recreate through these last works, however, relies almost completely on the mental nuances of observation. The interpretation of the work requires the indispensable participation of the observer, who cannot approach it with a passive outlook. Meanwhile, the effect of having to wear a visual tool (the 3D glasses) renders an entirely active aspect to the interpretation of the work. Thus, the perceptive demand of the work will most likely be more complex, and as already mentioned in the context of other work, more reflective. The visual trick used in this case, while not fully attributed to a new or original technique (stereoscopic images have been around for a while, even if not overly used), posed a series of problems, including some that affected the implementation of the work. The latter resulted from the aesthetic demands of the work and, in some cases – and surprisingly – exceeded the original vision. One of the problems that came into play, focused on the need to produce an image that, even without the help of the visual aids (the 3D glasses), was enjoyable, or at the very least did not, at first glance, produce a negative or disorienting effect. Through experimentation with the photographic techniques employed, and by means of post-production techniques applied to the work, the images attained a level or quality that I think allows the work to maintain its intimate raison d’être, even without the use of visual

Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -005) 2013, light box dettaglio

Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -008) 2013, light box dettaglio

tricks or external manipulation. Another problem, and a far more involved one, focused on the question of perception as relating to the image that, in the case of the normal stereoscopic vision, results in an excessive, and therefore improperly realistic conclusion. It is, in fact, well known that stereoscopic images are composed of overlapping planes of vision, which induce a false representation of the true depth perception (after all, this is the function of binocular vision). However, these overlapping visual levels often render a distinctly superficial result – on the one hand presenting the observer with a rather striking image, while at the same time rendering a pronounced ”corporeal” loss of its contents. The result is often discouraging: the observer can clearly perceive the realism induced by the spatial aspect of the work. However, the contents are rendered flat and devoid of substance, as if they were maquettes (scale models) contained within a theatrical backdrop. In any case, even after the often inconclusive effect of the stereoscopic images was mitigated, the pure and simple attainment of an abstract and successful outcome did not culminate into the actual objective, or at least into the primary objective of the project. In this sense, the spectacular effect of the optimal stereoscopic vision, thus eventually achieved, in truth (and when it remains an end onto itself) could only be contradictory, in respect to the needs – among others – of meditation, inner reflection and emotional involvement, which I believe, pose an essential aspect of any work and which, in any case, signify the purpose of the work in question. In this respect (almost surprisingly) it was the very nature of the work from which the 3D plates were eventually realised, that favoured and rendered a calmer and more placid perception as relating to its stereoscopic nature, while giving way to the possibility of a vision that was not in actuality limited to a mere useless, visual game. In all likelihood, it was the profusion and the richness of the perspective layers associated with the original moulds (bronze and ceramic work with countless ”undercuts”) which, in fact, completely neutralised the striking yet false perception of reality that is often, as mentioned, exhibited by stereoscopic work, and instead delivered, a calm and reflective vision of the work. If I wear the 3D glasses and I take the time to inspect my work, I do not perceive any disturbances in its manifestation. The overlapping planes do not stand apart from one another, but rather tend

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to provide a continuous stream of visual information, an almost unified perception that renders the image soft and malleable, and its vision tranquil and natural. The initial quality of amazement, which in truth is not missing from the work, does not represent an end onto itself. Rather, it makes room, almost immediately, for the enjoyment of the image. The task of perceiving the work thus ”layered”, renders possible aspects and elements that often escape the observer while scrutinising the ”layers” (the original bronze or ceramics). Surprisingly, the perceptual distortion as it has been obtained, allowed for an even more profound and radical image that, as I commented upon the initial viewing of the completed work, appeared even more ”real” than reality itself. Milan, march 18, 2013

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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -009) 2013, light box cm 120x80

Pagina seguente Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -001) 2013, light box cm 153x110


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Nella mia foresta series, “Tree-dimensional project (TDP -001)” 2013, light box cm 153x110

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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -010) 2013, light box cm. 54x72

Pagina seguente Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -002) 2013, light box cm. 158x110


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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -002) 2013, light box cm. 158x110

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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -011) 2013, light box cm 240x174


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Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -003) 2013, light box cm 90x60 (dettaglio)

Pagina seguente Nella mia foresta series, Tree-dimensional project (TDP -003) 2013, light box cm 90x60

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Sono soli : They are alone series

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Conversazioni con Alessandro Romanini

La serie ”sono soli” Questi lavori rappresentano una sorta di riconciliazione con un’azione interrotta ormai da dieci anni e che da allora richiedeva una sua definizione. Un periodo di tempo in cui la riflessione non è mai cessata ma che allo stesso tempo non ha trovato sfogo e ragione in un’espressione tangibile. Niente di dipinto, nessun disegno, nulla di scritto, nessuna immagine, nessuna forma: niente di niente. Riprendere l’esercizio, rianimare l’azione era un’esigenza impellente che ha trovato modo di riemergere in seguito, durante, a causa o in ragione di una perdita di un affetto importante.

Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-003) 2011, ceramica smaltata cm. 96x67

te per essere trasformate in qualcosa di altro. Si sono così prodotti i ”di-segni” che, appunto, sarebbero serviti alla manipolazione da cui sarebbe poi conseguita l’opera finale. La parte esecutiva ulteriore è molto simile, nella sua materiale estrinsecazione, a quella utilizzata per la realizzazione di altri lavori. Attraverso il consueto lavoro ”inverso” si è passati dal segno al suo nuovo dimensionamento nella ricerca di volumi , di luci e di ombre che rendessero l’accumulazione corporea significativa e degna di una percezione emozionalmente elevata.

Milano, 20 marzo 2013

Lo studio della figura umana, già affrontato in passato, è stata così l’occasione per riproporre in modo manifesto l’ansia della meditazione.

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Il processo realizzativo è stato per molti versi simile a molti altri lavori che hanno preceduto e seguito questo. Anche in questo caso si è fatto a meno del disegno, inteso nella sua accezione più comune, come modalità epressiva degna di successiva manipolazione. La creazione dell’immagine posta a fondamento di questa serie di lavori è perciò avvenuta con il mezzo della fotografia. Si è formato un set fotografico e su di un piano rialzato si sono fatte muovere delle persone secondo le indicazioni che si sono rese via via necessarie per creare un’immagine rispondente alle intenzioni e alla visione originaria del lavoro. Si è così pervenuti ad una accumulazione di corpi privi di movimento espressivo, una sorta di avvicendarsi di linee e di curve in cui il dato più banalmente umano, l’espressione, è stato annientato e zittito, in favore del privilegio concesso alla massa corporea indistinta. Durante lo shooting si è volutamente soppresso l’esito immancabile del momentum descrittivo che inevitabilmente l’espressione del corpo in movimento o quella dello sguardo portano con sé. Così le persone sono state invitate a non guardare verso la camera e in genere a non guardare in alcuna direzione, così contribuendo ancor più alla sensazione di straniamento che si voleva ricreare. L’uso della nudità, poi, ha contribuito alla rarefazione del momento e la ripresa dall’alto ha favorito un ricercato appiattimento dell’immagine che ne ha annientato il significato comune. Alla conclusione della giornata in cui abbiamo ”disegnato” con i corpi, sono state prodotte un gran numero di tavole fotografiche (così mi piace chiamarle) che in gran parte corrispondevano alle esigenze iniziali: creare un insieme di linee (di segni, dunque) pron-

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Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-003) 2011, ceramica smaltata cm 96x67

Conversing with Alessandro Romanini

They are alone series These works represent a sort of reconciliation with an effort interrupted for almost ten years, which has recently called for a new definition. During the period in question, the reflection was by no means suspended, yet at the same time, it never really materialised with the drive and effort required to render a tangible vision. Nothing painted, no design, nothing in writing, no images and no form: nothing. In resuming the efforts associated with this work, the revival of the action signified an urgent need that somehow found the drive to re-emerge, influenced by the loss of a loved one. The study of the human figure, a subject already confronted in the past, presented an opportunity to cope with the anxiety of meditation. The overall creative process was, in many ways, similar to various other works that preceded and followed this particular one. Even in this case, the work was completed without an initial drawing – this drawing in its simplest form, an expressive medium worthy of subsequent manipulation. The creation of an image that was used as the foundation for this work therefore materialised through photography. A photo shoot was organised, while the subjects moved on a raised ”platform” and were arranged according to indications that gradually emerged, developing an image responsive to the aspirations and vision of the original work. It was thus arrived at a collection of ”bodies” devoid of expressive movement, a sort of alternation of lines and curves in which the most trivially human trait, expression, was purposefully destroyed and silenced, in favour of the attention bestowed upon an indistinct voluminous expression of the body. During the photo shoot, the inevitable momentum that exemplifies the descriptive assertion of the body in motion and its corresponding expressive qualities, were deliberately suppressed. The subjects were thus directed to not look at the room and generally, to avoid looking in any direction, thus further contributing to the feeling of alienation that I was trying to attain. The use of nudity also contributed to the ”emptiness” of the moment, while the top perspective favoured a much-desired flattening effect of the image, which destroyed its ordinary significance. At the end of the day during which I found myself ”drawing” using bodies as a creative medium, a large number of photographic ”pa-

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nels” (as I like to refer to them) were created. These panels largely corresponded to the initial needs of the work: the necessity to create a set of lines (signs or figures, therefore) ready to be transformed into something else.

Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-003) 2011, ceramica smaltata cm 96x67

It was thus that ”images” came to life, images that would serve as the manipulation medium from which the final work would evolve. The various aspects of the execution process were very similar, in their material manifestation, to those employed during the creation of other works. Through the usual ”reverse” process, the work was transformed from a simple ”sign or figure” to something with added scope and dimension. The search for volume, light and shadows ultimately rendered the accumulated corporeal significance of the work, together with a resulting elevated emotional perception.

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Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-005) 2012, ceramica smaltata cm. 80x91

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Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-001) 2011, ceramica smaltata cm 120x83

Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-009) 2013, ceramica smaltata cm 184x129


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Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-006) 2012, ceramica smaltata cm 98x63

Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-009) Foglio di ceramica (FC-010) 2013, ceramica smaltata


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Sono soli series, Foglio di ceramica (FC-010) 2013, ceramica smaltata cm 149x106

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