Agenda Coscioni anno VIII n.01: Luglio 2013

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In Italia, la tortura non è reato Nel 1989, l’Italia ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura, ma da allora il reato di tortura non è mai stato tradotto in legge penale italiana. L’assenza di una legge italiana contro la tortura determina il paradosso per cui, in Italia, non soltanto il reato in questione non può essere riconosciuto giuridicamente, ma non può neanche essere concepito, né ipotizzato, anche quando è stato manifestamente commesso. Nel caso Saba contro Italia, in cui il detenuto Valentino Saba nel carcere di Cagliari lamenta i trattamenti ai quali è stato sottomesso dagli agenti penitenziari, che a suo avviso potrebbero essere qualificati come tortura, il Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, Non C’è Pace Senza Giustizia e Radicali Italiani hanno presentato disgiuntamente delle osservazioni scritte alla Corte Edu (avvocati Paoletti e Gallo), per evidenziare, tra l’altro, che “la Costituzione italiana all’art. 13 stabilisce il principio secondo cui «È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Si attende al momento la decisione da parte della Corte Europea.

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GLI ESPERTI

Gli avvocati Rossodivita e Marzo

Eutanasia SENTENZA CEDU CHIEDE ALLA SVIZZERA DI RISPETTARE L'AUTODETERMINAZIONE

La Corte europea chiede leggi chiare Il Governo aveva impedito alla Gross di ricevere la morte assistita in quanto non affetta da una malattia terminale. Ma la libera scelta esige tutela legale on poteva che essere rispettosa dei principi di laicità, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il caso che ha coinvolto la Sig.ra Gross contro il Governo Svizzero. Una sentenza, come molte altre, poco “pubblicizzata” dallo Stato Italiano, ma che segna un passo avanti nel traguardo verso i principi di libertà ed autodeterminazione nelle scelte di fine vita, secondo l’antico brocardo latino Habeas Corpus. Ed è proprio da questo principio che si è sviluppata la sentenza numero 67810/10 che ha garantito l’applicazione dell’art. 8 della CEDU, ossia il diritto di ogni cittadino al rispetto della propria vita privata. Ogni persona, ogni singolo individuo, difatti, deve vedersi garantite le proprie scelte, ivi comprese quelle di porre fine alla propria esistenza, qualora ritenga insindacabilmente che la stessa non sia più degna di essere vissuta. Nel caso della Sig.ra Gross, il Governo Svizzero aveva ritenuto non doverle concedere una dose letale di sodio pentobarbital, una sostanza che permette di avere una morta certa ed indolore, poiché la ricorrente non presentava quei presupposti necessari

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per ricevere “la morte assistita”, ossia una malattia in stato avanzato, tale da presupporre un decesso certo e a breve termine. Pertanto, sebbene sussistesse la cosciente e ponderata volontà della paziente di porre fine alla propria vita, la scelta non poteva trovare accoglimento, in quanto il Governo Svizzero non prevede tale trattamento di fine vita per cittadini in perfetto stato di salute fisico e/o psichico. Eppure, per la Corte Europea, la Svizzera viola l’art. 8 della CEDU in quanto non stabilisce Linee Guida sufficientemente precise in merito a particolari casi di suicidio medicalmente assistito. Già in passato, la Corte, in celebri sentenze, quali ad esempio il caso Haas o Pretty vs UK, aveva ampiamente chiarito il concetto secondo cui ad ogni individuo spetta il diritto di decidere il modo nel quale - ed il momento in cui - porre fine alla propria vita, presupponendo che la persona non debba trovare vincoli nelle proprie scelte esistenziali, massima espressione di libertà della vita privata. Proprio con riferimento al suicidio medicalmente assistito, si deve considerare determinante il fatto che l’azione di fornire materialmente il medicinale letale, a differenza che nell’atto eutanasico “puro”, non avrebbe alcun ef-

FRANCESCO MARZO

Chi è

Francesco Marzo

avvocato, ha condotto studi di Etica Applicata presso il CIRSFID di Bologna e all’estero presso il Karolinska Institute di Stoccolma ed il BIG –Bioethics Institute Ghent in Belgio, con approfondim enti legislativi in merito alla sedazione terminale del paziente e alle differenti pratiche eutanasiche

fetto senza un ultimo intervento compiuto dal paziente stesso. La responsabilità del medico, quindi, è inevitabilmente meno “diretta” ed “invasiva” e l’idea dell’uccisione di una persona si trova in maniera assai più sfumata di quanto non possa risultare dal termine eutanasia. Non di minore rilevanza, nei casi di suicidio medicalmente assistito, è capire perché al medico dovrebbe essere permesso di ignorare la scelta di un paziente, considerando il caso in cui il consenso informato o la volontà di autodeterminarsi – come nel caso della Sig.ra Gross, è stato validamente espresso. Difatti, il prestare assistenza medica al suicidio può, dunque, ricevere una giustificazione fondata sulle conseguenze dell’atto stesso, ossia la morte del paziente, solo in quanto subordinato alla soddisfazione delle preferenze della persona in causa, perché, il malato, lo fa spinto da preferenze soggettive. Dunque, come anche lascia intendere la Corte di Strasburgo, le preferenze del paziente, in quanto tali, circa il benessere e la qualità della propria vita non possono esser viste che come rispetto alla sua stessa persona; pertanto, la moralità dell’atto del suicidio medicalmente assistito deve essere garantita, con il sol fine di soddisfare le preferenze del paziente, sia esso malato terminale o non. Questo, naturalmente, esclude un ruolo puramente strumentale dell’atto medico; infatti da un punto di vista giuridico si parla di una così detta cooperazione formale. Sebbene dunque, il compimento di atti da parte del medico non deve ridursi ad una mera funzione strumentale-materiale, occorre tuttavia tener presente che, a prescindere dal proprio giudizio e-

tico e morale che può anche essere negativo riguardo all’argomento trattato, il medico deve volgere la propria attenzione esclusivamente alla volontà del paziente, che si suppone essere sempre giusta, poiché piena espressione del diritto di autodeterminazione. Sotto il profilo giuridico - penale, pertanto, il suicidio medicalmente assistito può certamente essere equiparato ad un rifiuto del trattamento sanitario e la richiesta di sospensione della terapia medica, da parte di un paziente capace di autodeterminarsi, non sarebbe che una ritrattazione del consenso stesso al trattamento farmacologico, ritirando il quale, il malato farebbe cessare la cooperazione con il medico e con essa, ogni responsabilità morale e giuridica di quest’ultimo. In conclusione, quindi, per il caso in esame, la Corte ha reiterato che la nozione di “vita privata” così come concepita dall’art. 8 della Convenzione ha un significato ampio, diffuso e generalizzato, che comprende, inter alia, il diritto all’autonomia e allo sviluppo delle scelte personali. Pertanto, questa sentenza mette in luce un’importantissima disposizione di legge, secondo la quale, nel momento in cui il paziente è in grado di autodeterminarsi, il medico sarà tenuto ad assolvere la volontà di quest’ultimo. In particolare, ogni Stato laico dovrà garantire la centralità della volontà del diretto interessato per ogni decisione che riguardi il proprio corpo e la propria mente, sulla quale, come sosteneva J. S. Mill, l’uomo è sovrano. La riaffermazione di tale centralità vige anche per gli individui che si trovino in stato d’irreversibile perdita di coscienza e per i quali sono da considerarsi, come criterio orientativo, le direttive anticipate di volontà, più comunemente conosciute come testamento biologico.


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