LUCA MARIA GAMBARDELLA
SEI VITE
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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata SEI VITE
Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-631-8 Copertina: Luca Maria Gambardella - “Riflessi” (olio su tela, 70x90, 2012)
Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
a Daria, Matteo e Marta.
SEI VITE
7
Così imperfette da sole, così perfette nel loro muoversi in un unico percorso. Talvolta largo, spesso stretto fino al punto di diventare cruna d’ago e vicolo di città. Un rin‐ corrersi tra mura di pietre. Aguzze. Si sgomita. Ci si urta. Il muro è vecchio. La pietra viva. Ferita. Il sangue rimasto si nota appena, il rosso più intenso si nota appena, la feri‐ ta nel cuore si nota appena, l’amicizia rimasta si nota ap‐ pena. La ferita si rimargina, le cicatrici restano. Da sole. Faticano a sparire. Si intrecciano, come edere d’autunno sul muro di casa. Tuttavia il tempo non è mai abbastanza, solo i ricordi sono terra per le radici. Terra scura, umida, le radici cercano acqua, solo così ritrovano la forza. Il de‐ serto è arido, la cattiveria lo aiuta, le mogli prosciugano le oasi, i figli non le innaffiano. Fatica. Lotta. Ritrovarsi una sera a una cena tutti assieme. Evento raro, sempre più raro.
8 Estate in montagna. Uno sballo. Tutto il gruppo, saremo una quindicina. Una baita a duemila metri. Zaini. Scarpo‐ ni. Maglioni. Il fanatico con la piccozza. Sigarette. Una stecca di fumo. Giacche a vento. Voglia di ridere. Voglia di divertirsi, dopo un mese di lavoro nella serra. Agosto pieno, tra la quarta e la quinta liceo. Sole. Sole. Sole. Pelli scottate. Burro di cacao. Vette da scalare anche se non impegnative. Qualcuno è pigro e sta sempre alle baite. C’è qualche secchiona che si piazza al sole a leggere romanzi rosa. Di cosa parla? Poi te lo racconto. Ma che vuoi che me ne freghi. Sei sempre il solito stronzo. Dai dammi un bacio. Ma tu sei scemo. Dai vieni qui. Smettila di fare la preziosa. Tutti sempre allegri. Due stanze. Letti a castello. Il prete ci ha dato le chiavi per poche lire in cambio della promessa di rimettere le cose a posto. Pasta negli zaini. Scatolette. Un po’ di carne. Formaggio nella cantina. An‐ che salumi e vino. Stanze separate. Maschi. Femmine. Vo‐ lere del prete. Ma va bene lo stesso. C’è sempre tempo. Il pomeriggio, come da ragazzini, andiamo nei prati. Ci vo‐ gliono i fili lunghi, quelli verdi, d’erba, con in cima queste piccole pannocchie. No, le pannocchie si tolgono, non de‐ vi lasciarle così. No. No. Non devi piegarlo così, ma non capisci, non ti ricordi? Devi togliere la pannocchietta, il ciuffo in fondo al filo. Adesso ti faccio vedere. Ecco così. Contropelo, chiaro? Adesso sì, è tutto a posto, ti faccio vedere come si fa. Ecco così va bene, ma adesso giralo in‐
9 dietro, occhio, senza spezzare il filo. Adesso devi fare il cappio. Sì, lì in fondo, intorno al filo. Guarda come faccio io. Ecco, fai un bel nodo. Perfetto. Non lo piegare. Adesso avvicinati. Attento a non far rumore. Ma no, tanto non sente. Hai visto che è scappata, te l’avevo detto. Giornata serena con un po’ di afa. Tempo di vacanze. Nei prati pro‐ fumo di fieno appena tagliato e ancora da raccogliere. Guarda là, ne vedo un’altra. Adesso silenzio, attento, sen‐ za muovere i sassi. Ancora. Ma allora sei deficiente. Defi‐ ciente sarai tu. Io non ho fatto niente. Dai smettila, hai mosso tutto. Ora, guarda lì a sinistra. Su quel sasso vicino al muretto. Faccio ssssh, sssh sottovoce e muovo la mano per farli venire avanti. Allungo la mano con il filo prote‐ so. Il cappio d’erba è alla fine del filo. Mi muovo piano, piano, piano. Metto il cappio intorno alla testa. Testa verde scura, quasi grigia, triangolare. Proprio una bella lucertola distesa a prendere il sole. I raggi battono sul corpo. Il sasso è caldo, lei sta attenta e si guarda in giro. Tuttavia non ci ha visti, siamo arrivati da dietro. Le piaz‐ zo il cappio intorno alla testa, sul collo. Basta tirare un po’, adesso. Sente l’erba e non si accorge di niente. Tutto naturale. Tutto normale. Tutto naturale. Solo un po’ d’erba. Ma è mortale. Beccata, rimane così a penzoloni, appesa, senza fiatare, boh forse fiata e chi lo capisce. Che goduria. Apriamo il barattolo. La mettiamo dentro. Al vo‐ lo. E’ la prima del pomeriggio. Sono avido, ho voglia di
10 catturare, voglia di imprigionare, voglia di morte. Anche gli altri iniziano la caccia. Poco dopo siamo alla decima. Un gioco da ragazzi. Troppo facile. Ridiamo a crepapelle. Le lucertole si agitano nella scatola e si mordono fra di loro. Guarda che dentini. Però, mica stanno pregando. Se le danno, guarda quella. Guarda Gianni. Si è girata di scat‐ to. Mica si fa mettere le zampine sulla coda. Guarda, è as‐ satanata. Quella lì, guarda è la più grossa. Marco stai at‐ tento. Eccone un’altra. Fermi, fermi, guardate là. Ma no lì per terra, sul prato verde dietro ai pini. Zitti. Non faccia‐ moci vedere. Avviciniamoci. Mamma che sballo. Occhio alle spine. Cazzo, state fermi. Le vediamo tra le fronde, meglio le sentiamo tra le fronde. Risa, chiacchierare. Ma sono loro? Ci mettiamo a spiarle di nascosto. Da lontano. Ci ridono anche le mani. Che bello. Ci avviciniamo. Tra foglie verdi e profumi d’erba secca, profumi d’estate. In‐ tensi. Tronchi fitti. Spine. Occhio a farci male, dico sotto‐ voce. Ci muoviamo goffamente, ridendo e urtandoci co‐ me dei bambini. Facciamo rumore. Marco schiaccia un ramo. Rumore. Ci vedono. Lei ride. Fa un cenno di intesa. Ricambiato. Venite qui. Si coprono e si rimettono le ma‐ gliette ma non bene bene. Si intravede qualche cosa. Ar‐ riviamo tutti e tre affiancati. Pantaloncini corti. Scarpe da ginnastica. Maglietta. Buongiorno. Un piccolo inchino. Buongiorno. Un leggero sorriso. Lei batte la mano sull’erba e io mi siedo tra lei e le sue amiche. Le avevo
11 giurato amore eterno. Alta, carina, due tette da urlo. Con le sue amiche nascosta nei prati. Di pomeriggio. Usava già il topless. Mamma mia che spettacolo. Noi tre a caccia di lucertole. Come da ragazzini. Chiacchiere da vacanza. Risate. Noi tre galletti pronti all’attacco, ho ancora qual‐ che brufolo ma un gran fisico. Allenato. Tattiche studiate a tavolino. Sbavo, mi struscio a lei, sto sempre attaccato, mai un metro di aria. Ho bisogno del contatto, anche solo visivo. La cerco. Le sto vicino. Tutti sanno che mi piace. Lei mi dà speranza qualche volta. Altre volte mi ferisce. Dolce come il miele. Iniziamo a parlare. Anche Marco. Ci sdraiamo al sole con loro. Cosa avete nel barattolo? Niente. Fa vedere. Niente. Ma sono lucertole. Voi siete matti. Liberatele. Dopo, do‐ po. Adesso dobbiamo fare il record di catture. Ma sono creature di Dio. Questo mi interessa. Ma non hanno ani‐ ma. E chi lo sa. Su questo punto non sono molto prepara‐ ta. Laura ma gli animali hanno un’anima? Secondo me no. Quando muoiono non vanno da nessuna parte. Non ho mai sentito nominare il paradiso degli animali. Ma cosa vuoi aver sentito? Guarda che io credo a queste cose. Ci penso spesso. Secondo te quanto dura la vita? Cento anni. Massimo centodieci. Forse centoventi. Vedi che non le capisci queste cose. La vita è eterna. Silenzio. Perché l’anima non muore mai. Ti viene data quando vieni al mondo. È un soffio, un soffio leggero, un soffio solo. Poi
12 quella è la tua, per sempre. Ma dai come fai a credere in queste cose? No. È tutto vero, la vita è eterna e non si scherza. Sulla terra vieni messo alla prova. Diciamo per cento anni. Qui ti giochi le tue carte, fai vedere quello che sei, fai le tue scelte, fai i tuoi errori, fai il bene, fai il male. La prova dura cento anni. Poi basta. Poi si fanno i conti. Se ti sei giocato bene la partita, hai il Paradiso per l’eternità, alla grande. Se te la sei giocata male, all’Inferno e peggio per te. Se sei così così c’è sempre il Purgatorio. Dura quanto dura, devi espiare, devi pagare, devi rime‐ diare. Ma poi è per sempre, questa è l’eternità. Ti giochi tutto in cento anni. Questo dovete mettervelo in testa bene. Questo è essenziale. Tu mi fai paura. Io non credo a queste cose. La vita bisogna godersela. E basta. Dopo non c’è niente. Solo polvere. Ognuno fa quello che vuole. Ma ricordati che qui stai solo giocandoti il futuro. Quindi oc‐ chio. Stiamo con loro per quasi un’ora. Poi salutiamo le ragazze. Ci vediamo dopo. Non scottatevi, adesso abbia‐ mo da fare. Ma dai, lasciatele andare. Dopo. Dopo. Ci al‐ ziamo tutti e tre. Torniamo verso le baite. Continuiamo a chiacchierare. Io inciampo. Occhio che le fai cadere. Dalle a me che è meglio. Ecco. Tienile un po’ tu. Va bene, ma tu cosa fai? Aspettami qui che torno subito. Marco si allon‐ tana entra nelle baite. Torna con un flacone. Alcool. Io lo apro. Amo il profumo. Annuso. Che libidine. Dai apri il barattolo. Attento che non scappino. Bravo. Sì, metti la
13 mano così. Perfetto, a imbuto, sopra, così non scappano. Perfetto. Va che verso. Adesso. Spruzzo. Occhio alla ma‐ no, ma stai attento. E non ho mica fatto apposta, che pal‐ le. Dai, dai, guarda dove lo spruzzi. Ecco, va bene. Ma non muoiono mica. Aspetta. Va quella che ha perso la coda. Ma no, non ci voleva, prendila. Toglila. Ma no il barattolo è pieno di alcool. Ah, allora ti fa schifo? Perché non torni a giocare con le femmine? Ma no, guarda. Presa. Buttala via. Questa non merita, fa cagare. Dai schiacciala. Sì. Pronti? Uno, due, tre. Le butto un sasso sulla testa. Pemh. Esce poco sangue. La testa si spacca. Esce poco sangue, le do un bel calcio e la butto nel fosso. Dai continuiamo con le altre. Riempi tutto. Perfetto. Adesso chiudi. Non l’alcol. Chiudi il barattolo. Ma chiudo anche l’alcol. Ok, chiudi anche l’alcol. Guarda, si agitano ancora un po’. Secondo me queste non muoiono. Secondo me non muoiono mai. Dai, vai a prendere una cassetta, di legno, quelle della frutta. Tu intanto, prendi dell’erba. Mettila bene, sì anco‐ ra un po’. Anche un po’ di sassi, dai facciamo il terrario. Proprio come al museo. Anche lì sul lato. Bravo, bene. Ci metto anche un fiore? Vaffanculo. Ma sì mettilo, dai. Hai preso tutto. Sì, li ho qui in tasca. Allora prendi quel legno lì. No, non quello, quello più vicino. Mettilo lì nel mezzo, perfetto. Ma non sono ancora morte. E chi se ne frega. Aspettiamo ancora un po’. Ma chi se ne frega. Apri, dai prendine una. Quella va bene. Passamela. Tocca a me, dai
14 Gianni passamela. L’appoggio al legno. Si muove ancora, poco, ma si muove ancora, poco ma si muove. Guarda, si muove ancora. Te l’avevo detto. E va beh. Tienimela tu. Così. Bravo. Prendo gli spilli, in tasca, nella scatola rossa, ovale. Ecco. Tienimela ferma. Le appoggio lo spillo sulla testa. Lo appoggio e inizio a spingere. Tuttavia non suc‐ cede niente. La testa si piega un po’, rientra proprio dove c’è la punta dello spillo. Ma fa resistenza. Devi spingere di più. Cazzo. Spingo, ma niente. Dai ancora. Spingo più for‐ te. La capocchia mi fa male sul dito. Poi tac, di colpo. Un attimo. Un lampo. Un brivido. L’infinito. La testa cede. Lo spillo entra. Affonda. Sprofonda. Sento la materia cele‐ brale. Molle, viva, proprio sullo spillo. Sulla punta. Solo per un attimo. Per un attimo. Per un attimo. Lo spillo dall’altra parte esce subito, lì è tutta pelle. Dai bloccala sul legno. Spingi ancora un po’, bloccala bene. Ma non muoiono mai. E se avessero veramente l’anima? Ridiamo. Guarda come si agita, che forza. Più piano, adesso, si muove un po’ più piano, non ti sembra? Hai ragione, sì, sì. Più piano. Anche la coda. Tutto si muove, ma lentamente. Mettilo bene sto spillo. L’ho messo bene. Adesso tocca a me. Aspetta. Dopo lo fai tu. Passamene un’altra. La met‐ tiamo qui. Nell’angolo. Vicino alla pietra. Bello, sì, sembra che stia lì a prendere il sole. Bello, bello, bello.
15 La strada corre, non c’è nessuno. Nebbiolina ancora sui prati, leggera, ne sento il profumo. Cellulare. Sì mamma, devi andare dal parrucchiere? Io non ce la faccio a passa‐ re a prenderti. No, te lo avevo detto, sono in viaggio. Da solo. Sto andando a cercarla, te l’avevo detto. Le devo parlare a tutti i costi. Sì, sì ritorno fra qualche giorno. Sì sto attento mamma, non mi stanco dai. Dai, ho solo qua‐ rantanove anni, riesco ancora a fare un viaggio di poche ore. Mamma, hai già chiamato Chiara? Prova. Chiedi a lei di passare a prenderti. La strada corre, non c’è nessuno. Alberi con i primi germogli, i primi fiori. Ancora un po’ di brina. Campagne di terra scura. È metà aprile, è appena iniziata la primavera, si sente quello strano odore di vita che riprende. Forte, intenso, anche tra le prime nuvole della mattina. Strada di ricordi, Strada di pensieri. Viag‐ gio di dubbi. Rimorsi. Speranze. La mente vaga. Musica bassa. Sorrido. È primavera. Musica bassa. Strada lunga. Da solo. Una famiglia all’antica. Lavoro, lavoro, lavoro. Lui. Casa, lavoro, casa, lavoro. Lei. Giornale, pantofole, poltrona, non si parla con papà che è stanco, lasciatelo stare che sta riposando, non vedete che ha lavorato fino a tardi in giro a vendere terreni. Mettete a posto la vostra camera, mettete le cose sporche nella cesta, avete lavato le mani, e la messa, e la tavola da sparecchiare. Non rispondete al‐
16 la mamma, lascia stare tua sorella, se ti prendo ti tiro due sberle. Un bel voto a scuola, ma guarda che il tuo compa‐ gno è andato meglio, devi fare di più, un secondo posto al saggio, beh potete immaginare. Non si è mai perfetti così, non si è mai arrivati. Una sensazione continua di non es‐ sere adeguati, di aver sbagliato, di dover cambiare, di non essere accettati per quello che si è, pregi e difetti compresi. E le carezze? E le coccole? E dirti qualche volta, bravo va bene così, non ti preoccupare può solo andare meglio, la prof. è una stronza non è colpa tua, non fa niente se hai rotto la maglietta, oggi puoi dormire fino a tardi. Questo mai, siamo sempre in difetto, per sempre, non siamo cresciuti nemmeno oggi, non cresceremo mai. Tutto regolare, tutto regolare, tutto regolare. Troppo re‐ golare. Anche dietro le quinte? Anche nei camerini? Sul palco sì, tutto regolare. Puliti, educati, rispettosi, lei ele‐ gante, bei vestiti, calze di seta, lui baffi, abito grigio, cap‐ pello, a messa tutti assieme, bambini silenziosi, a parte mia sorella. Io identico a lui, stessi occhi, stesse espres‐ sioni, stessa attaccatura di capelli. Mia sorella con le trec‐ ce, la gonna scozzese, le scarpe non me le ricordo, boh, forse di vernice, dettagli. Io introverso. Timido. Medita‐ bondo. Anche un po’ menone. Lei allegra. Spensierata. Con il sorriso. Andavamo d’accordo per questo. Diversi. Punto. Punto e basta. Per andare d’accordo si deve essere diversi molto o uguali molto. Noi diversi molto. Poi papà
17 ha iniziato a picchiare la mamma, le rimproverava di spendere male i soldi, di non risparmiare mai, di buttare via tutto, di avere altre relazioni. Adesso non te ne do più. Urlava. Ti mando a fare la cameriera, e la picchiava. Noi dovevamo sentire? Noi potevamo sentire? Era giusto sentire? Eravamo solo dei ragazzi. Lei sopportava tutto, ma noi non l’abbiamo mai capita. Ne abbiamo parlato so‐ lo una volta quattro anni fa. Lei stava male, il cuore, ave‐ va dei problemi. Le ho solo chiesto. Ma perché sei rima‐ sta con lui lo stesso? Per la famiglia. Ma dai, sensi di colpa ne avevo già, grazie. Lo hai fatto per noi? Sì l’ho fatto per voi. E chi te lo ha chiesto? Nessuno. Ho pregato il Signore perché le cose cambiassero. Io l’ho trovato anche con la cameriera. In cantina. Ero andato a cercare le palline da ping‐pong, dietro la porta, dove c’era il vino. Poi li ho vi‐ sti, erano lì, uno piegato sull’altra. Papà dietro, la came‐ riera con le mani contro le bottiglie. Io non capivo, ero ancora un cucciolo, avevo iniziato la prima elementare, forse nemmeno. Lei gemeva, la veste tirata su, lui la prendeva, dopo l’ho capito, da dietro, come piaceva a lui. Ho fatto rumore ma non ho detto niente, ho fatto finta di niente, ma si sono staccati, non ho detto niente, a nessu‐ no, nessuno, nessuno. La mamma lo temeva, lo odiava, lo amava. Tutto, in una volta sola. Si può provare tutto que‐ sto per un uomo? Lei ci è riuscita. Questo me lo ha con‐ fessato. Ma tu dovevi lasciarlo, non dovevi accettare una
18 cosa così. L’ho fatto per voi. Ma così hai fatto male anche a noi, lei non lo ha capito, non poteva capire, non voleva capire? Secondo me ha capito, ma oramai eravamo cre‐ sciuti e la solitudine l’ha spaventata. L’hanno tirata su in un famiglia di contadini. Rispetta tuo marito, obbedisci, sottomettiti, fatti una famiglia, non essere la rovina di tutto. Non lo ha mai lasciato, nemmeno dopo, quando so‐ no rimasti soli, e adesso nella vecchiaia era sola. Lei. Un fiore che non si stacca dall’albero, un fiore che non ap‐ passisce, un fiore che vive senza linfa, un fiore solo. Noi l’abbiamo amata, e la amiamo, ma non l’abbiamo capita. O non vogliamo capire. Con mia sorella mai una parola, adesso. Da piccoli sì, piangevamo nella nostra camera. Due letti vicini, poi Chiara ha cambiato camera, quando le cameriere se ne sono andate. C’era la crisi erano vera‐ mente finiti i soldi. Max, mi diceva Chiara, pensi che l’ammazzerà? No, dicevo io, tutto si sistema, da domani torneranno a volersi bene. Ho iniziato lì a non prendere posizione sulle cose, ad aspettare che tutto si mettesse a posto da solo. Sono rimasto un indeciso. Ma sono dolce. A modo mio. In certi casi mi scatta la molla dell’aggressività. Per difendermi. Per paura. Sul palco‐ scenico tutto liscio. In privato, mai una carezza, mai una coccola da lui. Forse ci odiava, avevamo rotto le scatole, fosse stato per me non li avrei voluti questi rompicoglio‐ ni, rinfacciava sempre alla mamma. Ti convinci delle cose
19 negli anni, ma l’età non sempre serve a soffrire di meno. Anche avere figli tuoi non ti aiuta sempre a capire i geni‐ tori, non sempre, non in questo caso. Voleva bene solo a Chiara. Era la più piccola, lei del 1962, io del 1961. Gli sgusciava sempre tra le mani e lo prendeva in giro, bona‐ riamente, papà non mi prendi, papà non mi prendi, papà non mi prendi e gli tirava i baffi. Quelle volte lo vedevi ri‐ dere. Vieni qui, strega, vieni qui monella e rideva. Faceva finta di essere arrabbiato e di rincorrerla, ma la lasciava sempre scappare. Una volta Chiara è caduta da sola con‐ tro la vetrata della porta. Lui era dietro e rideva. Di colpo si è fermato. Si sono sentiti i vetri in frantumi. Suono di ghiaccio, il ghiaccio che si rompe nello stagno la mattina quando buttiamo le pietre. Pietre grosse. Una volta con Marco ne abbiamo sollevata una in due, forse di trenta chili. Forse quaranta. Quanta forza possono avere due ragazzi di dieci anni? Non ricordo, non ne ho nessuna i‐ dea. Pronto soccorso. In macchina. Con lo straccio sul braccio e sul viso. Schizzi, una vena aperta, le urla della mamma. Il pronto soccorso. Emergenza. Subito a cucire le ferite, punti, punti, punti. Pronto soccorso, i dottori in camice bianco, il panico sulle facce. Io non c’ero, l’ha rac‐ contato lei quando è tornata. Si sentiva una eroina, cazzo stava per morire. Per un gioco stupido di prendimi e scappami. Il caso, il fato, non ci credo, si muore in tanti
20 modi, lui che la curava dopo, più della mamma. A me po‐ che attenzioni, solo rimproveri. Anche a lei, talvolta. La strada corre, tutta dritta, dritta, dritta. Spengo la mu‐ sica. In macchina da solo spengo spesso la radio. Mi piace parlare con me stesso, l’ho sempre fatto, anche con la penna, anche con la chitarra, anche con le scarpe, anche in soffitta, anche nei boschi, anche nel sole, sì l’ho sempre fatto quando sento profumi forti lo faccio più volentieri, anche se c’è la luna, il bianco non mi fa paura, il bianco della luna mi dà sicurezza. D’estate da ragazzo io lavoravo, avevo bisogno di soldi e di fumare. Di giorno nella serra a pulire, a fare i mucchi di terra, poi a sistemare le aiuole, i giardini dei ricchi. Una vecchia moto comprata con i primi guadagni. Non sono mai riuscito a impennarla. Un barcone, direbbe mio figlio più piccolo. I miei figli oggi non hanno voglia di fa‐ re, così dice la loro madre. Sono degli smidollati, non si fanno nemmeno il letto, sempre sul divano a guardare la tele. I tempi sono cambiati. No, questi discorsi io non li ho mai fatti. Per me non è cambiato niente. Figli che sgomitano, genitori che rompono, genitori che sgomita‐ no, figli che rompono, colleghi che sgomitano, amici che rompono. In una cosa credo ciecamente. Nel tempo. Il tempo fa crescere tutti. Non si resta adolescenti tutta la
21 vita. Almeno io credo nel tempo. Il tempo ha sempre ra‐ gione. Non puoi smettere di crescere, non puoi dare un giudizio definitivo su una ragazza di quindici anni. Non ha voglia. Dobbiamo capire come mai. Non dobbiamo so‐ lo mortificarla. Bisogna bagnare le radici, bisogna conti‐ nuare a bagnarle. Le radici si bagnano con l’amore. Indi‐ scriminato, continuo, senza riscontri, come si dice, in‐ condizionato e unidirezionale. Lei non lo vuole, me ne frego. Lei ti odia, me ne frego. Lei non ti dà soddisfazioni. Me ne frego. L’amore è l’unica cosa che innaffia le radici. La fiducia nel proprio futuro è linfa. I consigli non servo‐ no, di qui entrano e di là escono, servono solo buoni e‐ sempi. Innaffia e vedrai, non dubitare, la pianta cresce, anche se ora è storta. Si va sempre verso il sole, alla fine, non posso credere che ci si fermi. Non qui, non se c’è l’amore, non se si innaffia. Diamogli fiducia, diamogli co‐ raggio, non sono qui per dare soddisfazioni a noi. Noi dobbiamo farlo per amore. Punto. Senza rimpianti. Pun‐ to. Senza esitazioni. Punto. Anche se piove. Punto. Senza gratitudine. Punto. Sempre. Punto. Punto. Punto. Mi rive‐ do. Mi confronto. Mi studio. Mi specchio. Mi guardo e ri‐ cordo. Non posso rispondere con sincerità, non sono ca‐ pace. Ma tu ti sei mai fatto una canna? No mai, Monica. Ma mai mai mai? Mai, forse un giorno glielo dirò. Non og‐ gi che ha quindici anni. Quando sarà grande, sempre se ci sarò, anche a Federico che oggi ne ha tredici. Ne ho parla‐
22 to anche con Marco. Tu cosa gli hai detto ai tuoi? Niente, negato tutto dalla a alla z. Santi. Puri. Perfetti. Senza un difetto. Sempre i migliori, un esempio negli anni, mai una cazzata. Ma che esempio è, così, nascondere le debolezze. Non sarebbe meglio ammettere qualche errore? Fai ve‐ dere che poi si rimedia. Non sarebbe più logico. Tuttavia si nega, si nega sempre, a volte in maniera ridicola. Da‐ vanti agli amici che sanno. E chi se ne frega, io su di loro ne so anche di più di storie, su di loro, sì proprio su di lo‐ ro. E poi la nonna, lei sa sempre tutto, almeno dice. Ma non sa proprio un bel niente. Si sono sempre fatti gli affa‐ ri loro i nostri genitori. Noi, allora, a crescere nel nostro mondo con i nostri errori. Loro in silenzio a lavorare. A badare alla casa. Meglio così? E chi lo sa. Ora è diverso, noi sempre addosso ai figli, sempre a voler sapere, cosa hai fatto, dove sei andata, hai gli occhi rossi, puzzi di fu‐ mo, quella tua amica non mi piace, quel ragazzo non va bene, le vacanze falle con Rossella, la domenica a messa con Giovanna, la gonna è troppo corta. Pressione conti‐ nua, pressione continua, asfissia, asfissia, asfissia. Pren‐ derli per esaurimento di forze, farli crescere per man‐ canza di energia, per sfinimento. La mattina siamo assonnati. Il risveglio è lento, nelle bai‐ te c’è solo un ronzio. C’è chi parte presto per la vetta, con corde e picconi. Io questa volta rimango. Prendo un po’ di
23 latte con i biscotti. Mi faccio anche un caffè. Rimane an‐ che lei. Facciamo un pranzo leggero. Pasta al pomodoro, penne rigate Barilla. Un po’ di formaggio. Un goccio di vi‐ no. Profumato. Rosso. Fresco di cantina. Anna ti sei scot‐ tata ieri al sole? No sono bella abbronzata. Vuoi vedere? Fa finta di alzare la maglietta. Si volta e ride. Dai mi pia‐ cerebbe, fammi vedere, non abbassare adesso. E dai smettila. Guarda che ti stai giocando l’eternità. Non per così poco spero. Questo non lo so. Guarda che giornata. Andiamo a fare una passeggiata? Se ti sentissero i miei fratelli che ci stai provando te le suonerebbero. Ma se quei due giganti non sono nemmeno qui? Lo so, lo so so‐ no al mare. Ma me lo dicono sempre. Basta un segnale e Batman e Robin arrivano a salvarti. Ride. Ma dove vorre‐ sti andare? Nel bosco. Magari troviamo i funghi. Lei stor‐ ce la bocca. Leggera smorfia di disprezzo. Capello estivo. Rossi. Dettagli. Ma amo i dettagli. Abbronzata. Dettagli. Ma amo i dettagli. Lentiggini. Dettagli. Amo i dettagli. Da soli? E dai? Le muoio dietro, si vede. Senza i moschettie‐ ri? E smettila. Va bene. Mette gli scarponcini. Godo den‐ tro, prendo le sigarette e l’accendino. Partiamo. Pren‐ diamo il primo sentiero dietro alle baite. Sentiero in sali‐ ta. Attraversa un bosco di abeti. Vedo un fungo matto. Guarda, una spia. Vado a vedere lì sotto, sotto il sentiero. Passano due o tre minuti e non trovo niente, nemmeno un porcino. Niente. Non c’è niente. Risalgo e mi avvicino.
24 La stradina scorre leggera. Attraversiamo un ponticello sul torrente. Il ponte è stretto. Io passo in acqua e le ten‐ do la mano. La tengo un po’. Leggermente più a lungo del dovuto. Anche dopo la fine del ponticello. Stiamo così mano nella mano. Per qualche secondo, a camminare uno vicino all’altra. Sento un piacere nel cuore. Profondo. Vorrei che si innamorasse. Vorrei davvero. Ma sei pro‐ prio un romantico. Secondo me ci stai provando. Le ri‐ sfioro la mano. Ma intensamente. Lei sorride ma si allon‐ tana. La strada sale. Le si posa una farfalla sulla spalla. Lei ride. Una carezza sulla testa. Ma non sono suo fratello ne ha già due belli e grossi. Ho voglia di dolcezza. Le rac‐ conto della serra. Le ore a sudare. I pochi soldi raccolti. Lei dice che non ha fatto niente, dopo la scuola. A casa con i miei, a riposare. Hai dei bei muscoli con tutto quel lavoro. Forse le piaccio. Ma sono timido. Entriamo nel bosco. Non so perché non ci provo. Ho la camicia scozze‐ se. Capello liscio. Ma sono frenato. Mi piace troppo. Vedo uno scoiattolo. Guarda che bello. Lui salta sul ramo, mi guarda, la guarda. Rimane a guardarci per un po’. Noi siamo immobili. Vicini. Lui è immobile. Esita. Poi scappa. Lei ride con i capelli al vento. Arriviamo a una radura ap‐ pena fuori dal bosco. C’è dell’erba. Qualche fiore, giallo. Ci fermiamo. Sigaretta? Lei non fuma, già lo so. Sediamoci. Dai. Siamo vicini, sento la sua fragranza. Mi gira la testa. Mi stringo. Lei di botto. Mi piace un altro. Io rimango in
25 silenzio, come di pietra. Lei non mi vede, guardiamo en‐ trambi in avanti, non ci guardiamo in faccia. Questo mi distrugge, come una lama che mi taglia il cuore, come uno spillo nel cervello, come la morte per asfissia. Respi‐ ro lentamente ma faccio finta di niente. Non è che non mi piaci, ma ho la testa altrove. Io rimango in silenzio, non la guardo, ma uso un tono dolce. Ma non provi niente per me? Fumo la sigaretta. Lei si alza. Si allontana un po’, io sono confuso, come foglia nel vento, come onda nel mare in tempesta. Mi sembra di non essere lì, di vedere un al‐ tro e di non capire chi sia. Un altro al mio posto. Io lo os‐ servo e non provo più dolore. Per me sei un ottimo ami‐ co. Sto bene con te. Con te mi trovo, mi diverti, mi fai star bene. Ma non basta. Adesso ho la testa lontana. Io riman‐ go in silenzio. Il cuore non soffre più. Adesso è il cuore di un altro. Spengo la sigaretta. Non la guardo mai negli oc‐ chi. Ci avviamo verso casa. Non le chiedo chi è. Non mi in‐ teressa. Non sono io. Passerà. La tratto con dolcezza, lo stesso. Forse un giorno, forse domani. Il cuore sa aspet‐ tare, per l’eternità. Torniamo verso la baita. Marco e Gianni ci salutano. Fanno cenni di intesa. I piccioncini. Stronzi. Magari credono ci sia stato qualcosa. Lasciaglielo credere. Domani ci riprovo. Anche dopodomani. Un gior‐ no cederà. Un giorno. Ciao Laura. La gemella di Gianni. Due gocce d’acqua anche se lui è leggermente più alto. Identici. Da far paura. Stessi occhi, stesso colore di capel‐
26 li. Stesso sorriso. Arrivano le “gocce”, così si dice di loro, quando si presentano assieme. Lei mi sorride. Dolce. Ca‐ pelli ricci, biondi, goccia di suo fratello. Mi sorride. Detta‐ glio. Sei pensieroso? Rifletto. Pomeriggio intenso. Dove sei andato? Nel bosco. Funghi? No, scoiattoli. Mi sorride ancora. Dettaglio. Anna se ne va verso le sue amiche. Un saluto con la mano. Indifferente. Mi volta le spalle. Laura mi sorride per la terza volta. Andiamo a prendere un po’ di legna? Sono stanco. Dai che ti passa. Mi fa tenerezza. Le dico di sì. E ho voglia di svagarmi. Facciamo tre viaggi. Portiamo rametti e tronchi. Dai Laura, accendi tu il fuoco. Va bene, passami i fiammiferi. Attenta che scotta. Metti prima la legna fine. Non così, a piramide. Guarda come prende. Brava. Adesso metti quella più grossa. Così. So‐ pra. Arrivano gli altri. Ma che bel fuoco. L’ha acceso Lau‐ ra. Brava, dovevi fare la scout. Sempre con i pantaloncini corti e il foulard al collo. Dimentichi la chitarra. Dai, a‐ desso porta la carne. Occhio, che gocciola. Eh, arrivo, ma che fretta. Mettila lì sul piatto. Mamma mia che casino. Stai attento. Ecco, così. Adesso, passami quelle salsicce. Chi va a prendere il pane? Passamene una. Anche del vi‐ no. Ancora, dai, un altro bicchiere. Buona ‘sta carne. Dammene una fetta. Attenta che cade. Metto ancora un po’ di legna? Va bene ma lasciamo che si formi la brace. È troppo nera, guarda che brucia. No, no, così va bene, deve essere ben cotta. Ma non una suola. Le salsicce sono miti‐
27 che. Le ho cucinate io. Beh, ma ti ho aiutato anch’io, non far sempre la prima donna. Cala la sera, Anna non me la tolgo dalla testa. Anna ride dall’altra parte del fuoco. Non me la tolgo dalla testa. Laura vicino a me. Mangiamo an‐ cora. Ancora del pane. Togliamo le patate dalla brace. Apro la stagnola. Profumo intenso. Buonissime. La pelle croccante. Ma non ho fame. Avanza la sera. Ancora un po’ di vino. Arriva il buio. La più bella stellata. Senza una lu‐ ce. Nemmeno una. Buio. Buio. Buio. Vento leggero. Pro‐ fumo d’erba. Profumo di sudore. Profumo di docce appe‐ na fatte. Profumo di buio. Pesto. Fresco. Vento leggero. Maglioni. La Via Lattea. Intensa. Come una eruzione. Gira qualche canna. Ma non tutti fumano. Gira negli angoli. Senza farsi vedere. Buio. Senti il cielo vicino. Lo tocchi. Lo ami. Lo senti. Un lampo. Eccola. La stella cadente. L’ho vi‐ sta prima io. A sinistra. Ma se tu non stavi guardando. No, guardavo. Di lì. Anch’io. Balle. Esprimi un desiderio. Ma non sempre il solito. Tutti a ridere. Anche io. Uno solo. Non lo devi dire a nessuno. Va che non si avvera. Occhi che si incrociano. Sguardi che si rincorrono. Mani che si sfiorano. Cuori che pulsano. Un’altra stella. Tu questa non potevi vederla. Due che si baciano. Davanti a tutti.
FINE ANTEPRIMA. Continua...