Quello che manca

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Foto © Microzoa/The Image Bank/gettyimages Progetto grafico: Costantino Margiotta/zero91 s.r.l.

Quello che manca

Paolo De Lazzaro

Quello che c’era meno quello che c’è fa quello che manca e quello che manca scava. Scava e brucia.

QUELLO CHE MANCA

Paolo De Lazzaro è nato a Roma il 4 marzo 1969. Ha pubblicato molti racconti sul mondo del calcio con lo pseudonimo Kammamuri. Quello che manca è il suo primo romanzo.

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locali, tra presente e passato, tra investigazione classica ed un giallo sentimentale: un confronto che, in questo caso, rende evidente come la vita spesso non permetta di trattenere le persone che si amano al di là di ogni ragionevole impegno. Paolo De Lazzaro, con questo sorprendente romanzo d’esordio, supera il confine della letteratura di genere e consegna alla nostra memoria i primi passi del maresciallo Riccardo Zanetti, un personaggio un po’ meno bruciato dell’avvocato Guerrieri, un po’ più cittadino del commissario Montalbano ma aggrappato alla verità come un Don Chisciotte in divisa e senza difese contro Quello che manca.

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È possibile trattenere le persone che amiamo? Il maresciallo Riccardo Zanetti non c’è ancora riuscito. Ecco perché la sua storia si apre con una sottrazione emotiva che lascia senza speranza: quello che c’era meno quello che c’è fa Quello che manca. Non si tratta però di un punto di vista malinconico per il quale la vita è un processo di continua perdita a partire da uno stato di completezza innocente. Più semplicemente, Riccardo sa che non c’è alternativa al futuro e che il presente ha sommerso una verità sfuggente. Come la soluzione di un omicidio dentro una concessionaria di automobili. Un caso apparentemente semplice con un colpevole annunciato ma non per Riccardo che, nella sua disperata e inquieta ricerca della verità, ci guida attraverso le pieghe di Roma, una città che sta cambiando senza perdere i suoi tratti distintivi. Su questo scenario, arricchito da una colonna sonora che di tanto in tanto sottolinea le emozioni, si compone il puzzle investigativo sino all’ultimo tassello, il più sorprendente, il più lacerante. Attraverso una scrittura che procede per elaborazione delle cose semplici e scomposizione di quelle complesse, avviene il confronto tra le forze dell’ordine e le tifoserie



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Quello che manca

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© Paolo De Lazzaro, 2009 © zero91 s.r.l., Milano, 2009 Printed in Italy ISBN 978–88–95381–14–5 I Edizione giugno 2009 I Ristampa dicembre 2009

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Quello che c’era meno quello che c’è

Quanto fa quello che c’era meno quello che c’è? La sveglia ha smesso di suonare da pochi secondi e questa domanda mi rimbalza nella testa. È la stessa che mi assillava anche ieri sera, prima di addormentarmi. Si aggirava tra i pensieri mentre nel buio cercavo di rilassare i muscoli delle spalle. Devo averci pensato tutta la notte. Nel sonno. Deve essere per forza così, perché ora ho anche la risposta. Quello che c’era meno quello che c’è fa quello che manca. La stanza è buia e non c’è nessuno nel letto. Eppure non posso fare a meno di sottolineare questo pensiero con la voce. Quello che manca. Ecco quanto fa quello che c’era meno quello che c’è. La sveglia tra poco suonerà un’altra volta e dovrò proprio alzarmi. Per il momento posso godermi ancora qualche istante. Scava e brucia quello che manca, e non è soltanto il risultato di una sottrazione senza numeri. È un velo che colora le giornate. È una lente che distorce ogni sguardo e ti lascia la sensazione che ogni momento della giornata sia virato in una tonalità di grigio. Quello che c’era meno quello che c’è fa quello che manca e quello che manca scava. Scava e brucia. La sveglia ricomincia a suonare e questa volta mi devo alzare, anzi devo alzare nell’ordine me stesso, la serranda e il mio spirito. Esco dalla stanza senza neppure guardare fuori dalla finestra tanto quello che manca è dentro di me e niente da fuori potrà riempire quel vuoto. Prima di entrare in bagno accendo il telefono ma, a questo punto, credo sia il caso di presentarmi. Il mio nome è Riccardo

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Zanetti e sono nato a Roma poco più di trent’anni fa. Vivo da solo da circa sei mesi e di lavoro faccio il carabiniere, ma per ora credo possa bastare, anche perché ho finito di asciugarmi il viso e devo tornare nella stanza da letto. Esco dal bagno e prendo in mano il telefono nella speranza di scoprire che qualcuno mi ha cercato. Lo faccio sempre quando è spento da tante ore. Spero di trovare un messaggio, almeno uno di quelli automatici che ti avvisano di una chiamata ricevuta mentre non eri raggiungibile. Ci sono stati giorni nella mia vita in cui a ogni accensione ne arrivavano anche quattro o cinque, ma ho paura che oggi non sia uno di quei giorni. Vado ad accendere lo stereo. Scelgo con cura un cd e lo inserisco nel cassetto del lettore. Si tratta di Workin’ with the Miles Davis Quintet. Parte il primo pezzo, It never entered my mind. Red Garland arpeggia lentamente sul pianoforte gli accordi di apertura. Chiudo gli occhi e resto immobile finché non arriva la tromba di Miles a lanciare il suo lamento struggente. Ascoltando queste note ho la sensazione di soffrire meno, o almeno di soffrire in compagnia. Una splendida compagnia, che arriva dal lontano 1956 e mi racconta di come certi sentimenti siano universali. I sentieri della sofferenza vanno attraversati da soli ma portano le impronte di un sacco di gente. Un trillo. È il telefono che ha mandato un segno di vita. Qualcuno mi ha scritto o almeno mi ha cercato. Muoio dalla voglia di andare a vedere chi mi ha scritto ma poi decido di resistere. Se non può essere lei chiunque può aspettare. Non se la merita nessuno tanta attenzione. Prima mi preparo un caffè. La macchinetta è pronta da ieri sera. La metto sul fornello e mi riscaldo le mani guardando fuori. Dietro una delle finestre del palazzo di fronte si vede un vecchio che legge il giornale. Sta lì tutte le mattine. Ogni giorno da quando sono venuto ad abitare in questa casa. Torno

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nella stanza da letto e controllo il messaggio arrivato. Mi ha cercato mia madre mentre il telefono era spento. Mamma. Merda. Mamma non conta. È come se non mi avesse cercato nessuno. Lo so fin troppo bene che per lei esisto e che mi vuole bene. Quello di cui avrei bisogno in questi giorni è un calore un po’ diverso da quello che già avevo dopo un minuto di vita. La tromba di Miles riprende a suonare dopo uno stacco di piano. Mi prende per mano e mi accompagna tra le pieghe dell’armonia. Poi all’improvviso si ferma creando una dissonanza che ha l’effetto di una sospensione impossibile da assecondare. Dove vuole arrivare, mi chiedo. Vuole portarmi sempre più in profondità ma io non ce la faccio a scavare oltre. Torno in cucina mentre la macchina del caffè comincia a gorgogliare. Il suo aroma si espande e il vecchio è sempre lì dove l’avevo lasciato. L’aria è talmente chiara che si vede a occhio nudo che fa un freddo cane. Lo sapevo che non poteva essere lei. Sono sei mesi giusto dopodomani ma questo non conta. Questa è solo contabilità. Sei mesi nei quali ogni mattina quando accendo il telefono spero che mi abbia cercato. Non so come potrebbe succedere, ma lo spero come si può sperare ogni desiderio che nasce da solo. Lo spero inevitabilmente. Lo spero ogni giorno. Ecco quello che manca. Non l’ho detto a nessuno quanto mi manca. Non credo sia un’ottima idea dire in giro queste cose. Non lo dico, ma la mattina, quando mi alzo e mi trovo a sperare che mi abbia cercato non posso fare finta di niente con me stesso. Non sono mai stato capace di trattenere le persone che amo. Quelle che mi sono lasciato dietro le spalle ormai neppure le conto, ma questa volta è peggio perché con lei in questa casa ci eravamo entrati insieme. Questa cucina, questo tavolo non sono mai stati la mia stanza, il mio tavolo. Sono sempre stati

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la nostra cucina e il nostro tavolo, e ora è veramente difficile riciclarli al singolare. Ho comprato nuovi mobili, ho cambiato disposizione a quelli che c’erano già, ho spostato quasi tutti i quadri ma alla fine lo spazio è quello. Di lei ormai non c’è più traccia se si esclude la lavagnetta sulla quale scrivevamo la spesa da fare. Sulla cornice c’è scritto “Cosa mi manca in casa”. C’è scritto pane sardo, zucchine, miele di castagno e guanti per i piatti. È la sua calligrafia. Prima di andare in bagno torno allo stereo perché questa mattina ho voglia di ascoltare solo It never entered my mind, e non me ne frega un cazzo degli altri pezzi del cd che sta girando in questo momento. Dopo la versione di Miles Davis carico quella altrettanto dolorosa ma molto più sussurrata di Keith Jarrett. Le sue dita corrono sincopate sul pianoforte mentre basso e batteria gli fanno da contrappunto con delicatezza. Il mondo è pieno di sfumature sembrano dirmi, e allora in quelle ottave c’è posto per tutti. Basta che siano cuori abbandonati. Non rimane che vestirmi. Apro l’armadio e vedo la divisa. Mi fa ancora uno strano effetto vederla appesa alla stampella. Prima la infilavo ogni mattina ma ora non serve più. Anche questo da sei mesi. Da quando sono stato trasferito per punizione dal servizio di polizia giudiziaria all’archivio. Sempre in Tribunale ma questa forse è soltanto un’aggravante. Infilo il primo maglione che mi capita, poi il cappotto. Prendo le chiavi e mi guardo allo specchio per un ultimo controllo. Mi guardo lo sguardo. Basta un attimo. È lo stesso di ieri, lo stesso di sei mesi fa.

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La mattina in cui cominciai a lavorare al caso Martini era il primo giorno in cui capisci che ormai sei dentro l’estate. Appena attraversato il portone mi era arrivata addosso una folata di vento caldo, secco, quasi soffocante. La città sembrava ostaggio del caos e del rumore assordante degli impianti di aria condizionata. La strada era piena di gente. Come il mio bar preferito. Come quello dieci metri più avanti. Come quello dietro l’angolo. Come ogni bar di questa città che sembra poter fare a meno di tutto tranne che del cappuccino la mattina. Il marciapiede sembrava un fiume in piena. Un fiume di gente che puntando dritto verso l’entrata della metropolitana faceva lo slalom tra i banchetti di cartone degli ambulanti abusivi. – Non li sopporto io – mi disse il barista sottovoce mentre appoggiava sul bancone il mio cappuccino. Non gli risposi ma sorrisi. Non mi piace discutere quando sono certo di non poter convincere il mio interlocutore. Non lo faccio neppure per difendere posizioni di principio. Ognuno può pensare quello che vuole. Anche che io sia d’accordo con lui solo perché ho risposto con un sorriso di cortesia. Cominciai a bere pensando che quei poveri disgraziati dovevano avere proprio un buon motivo per venire a vendere orologi taroccati e anelli di plastica a mille e mille chilometri da casa loro. Non è soltanto il mio barista di fiducia che non li sopporta. Qualche tempo prima, quando la nazionale del Senegal vinse ai mondiali una partita contro la Francia, i venditori di cd e dvd masterizzati improvvisarono una festa al centro della piazza. Suonavano e ballavano avvolti in vesti coloratissime lunghe fino

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ai piedi. Bastarono venti minuti perché qualcuno chiamasse una pattuglia di colleghi per farli allontanare. Ma come fai ad allontanarli? Questi, come li sposti da una parte, sbucano dall’altra. Hanno fatto diecimila chilometri per venire a stendere quattro cose su un banchetto di cartone. Figurati se non fanno cento metri per girare un angolo e aspettare che tu te ne sia andato. Pagai in silenzio il mio cappuccino e mi avviai verso la macchina, sperando come ogni mattina di non trovare nessuno in doppia fila. Dalle parti di casa mia la domenica sembra un deserto, ma nei giorni feriali, specie la mattina, le macchine in movimento occupano tutta la strada e quelle parcheggiate tutti gli spazi. È inutile pure incazzarsi. Non c’è niente da fare. La verità è che stiamo diventando troppi. Il parcheggio del Tribunale Penale di Roma sembrava un forno. L’asfalto bruciava i piedi e le macchine, nel grande piazzale sembravano squagliarsi. Mi avviai veloce verso l’entrata e appena dentro guardai l’orologio. Mezzogiorno meno dieci. Ero in leggero anticipo ma non rallentai il passo. Davanti alla porta della mia stanza incontrai Cristina che aveva cominciato il turno prima di me. – Ciao Cri. – Ciao Riccardo – mi risponde Cristina a mezza voce – Corri da Catalano che ti sta aspettando. – Ma mancano ancora dieci minuti all’inizio del turno – le dissi. – E tu corri lo stesso. Il tenente l’ho visto nervosetto stamattina. –Che è successo? – Non lo so, ma tu corri. Cominciava proprio bene la giornata. Se il carabiniere scelto Cristina Orlandini mi diceva che Catalano era nervosetto senza dirmi il motivo, doveva essere qualcosa di veramente grosso.

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Minimo una rapina. Che poi Cristina non era la collega con la quale dividevo la stanza al secondo piano di quell’enorme palazzo di cemento e vetro. Era molto di più. Era una ragazza alta, mora, con i ricci fitti fitti e la carnagione scura. Non troppo però. Quel tanto che bastava per non sembrare pallida d’inverno e per non diventare troppo nera d’estate. Aveva solo ventidue anni e questa in procura era la sua prima destinazione. Voleva entrare in marina ma era stata scartata un paio di volte. Così aveva scelto i Carabinieri. Era nata a Santa Maria di Leuca, in provincia di Lecce, ma vivere a Roma era sempre stato il suo sogno di bambina. – Dai corri – mi ripetè – guarda che è nervoso davvero. – Ok – le risposi – Vado a prendere un caffè e torno. – Zanetti! Tu non vai da nessuna parte. Era la voce del tenente Catalano che evidentemente mi aveva sentito da dietro la porta. Sembrava davvero incazzato. Doveva esserci qualcosa di veramente grosso sotto. Forse qualcosa di ancora più grosso di una rapina. – Scherzavo tenente, scherzavo – gli risposi per tamponare. – Zanetti! Dove cazzarola credi di essere? All’università? In quella frase credo ci fosse quasi tutto il mondo del tenente Saverio Catalano, il mio capo di allora. Quarantanove anni, carabiniere da trentuno, da quando a diciotto anni venne a Roma dalla Calabria. Lamezia Terme si chiama il suo paese e in tanti anni passati con lui non l’avevo mai visto ritornarci. Era diventato vicebrigadiere a trent’anni, a quaranta aveva vinto il concorso interno per diventare maresciallo e infine a 46 anni era passato a ufficiale. Io gli volevo bene quasi come a un padre e lui ne voleva a me quasi come a un figlio anche se spesso sembrava il contrario. Per esempio quando attaccava con questa storia dell’università. Ho sempre creduto che avesse il complesso di non essersi laureato, ma che non lo avrebbe ammesso mai.

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Io invece ero laureato perché la mia passione per il crimine, ammesso poi che questa possa essere una passione, era molto recente e avevo fatto in tempo a fare sociologia prima di entrare nell’arma dei Carabinieri. Purtroppo quella laurea non era tra quelle che permettevano di fare il concorso per ufficiali del ruolo tecnico e avevo dovuto ripiegare sul concorso per ispettori. Il tenente Catalano mi diceva sempre che per fare carriera non c’era bisogno che sprecassi tutto quel tempo sui libri. In quella facoltà poi. Ogni volta che si parlava di laureati diceva sempre la stessa frase. – Bella gente eh? Tutti disoccupati saranno! Un tempo mi faceva incazzare quando diceva queste cose, ma ora che non lavoro più gomito a gomito con lui mi viene quasi da piangere a ripensare ai momenti in cui mi spiegava che tutto quello che bisogna sapere viene dall’esperienza e dalla vicinanza di persone in grado di essere dei maestri, non dai libri di scuola. In parte è anche vero, ma io resto comunque convinto di quello che ho fatto e mi tengo l’idea che anche lui avrebbe voluto fare l’università. Però non glielo avevo mai detto e credo che mai lo farò. Quella mattina doveva andare sul luogo in cui era stato ammazzato Carlo Martini, il proprietario di una concessionaria di auto, ma per aspettarmi aveva tardato fino a mezzogiorno. Ecco perché era così nervoso. Di omicidio si trattava. Di omicidio e di ritardo. – Zanetti, sbrigati! Prendi la tua roba e andiamo. – Eccomi – gli dissi mentre lo seguivo – Che è successo? – Corri! In macchina ti spiego tutto. – Dove si va? – gli chiesi mentre spariva dietro la porta. Tornai nella mia stanza per riprendere la giacca e quando arrivai alla macchina trovai il tenente che mi aspettava appoggiato allo sportello. Mi aspettava e mi fissava cercando di parlarmi con gli occhi.

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– Lo so tenente. Lo so che dobbiamo correre, ma mica potevo venire in camicia! – E sbrigati però. Dobbiamo andare sulla Tiburtina. Pren​diamo la tangenziale e poi facciamo la Roma-L’Aquila. Dobbiamo arrivare quasi all’altezza del raccordo. Ce l’hai presente il raccordo? – Certo che ho presente, tenente. – E meno male che almeno il raccordo ce l’hai presente. Metti la sirena e andiamo. – La dobbiamo mettere per forza la sirena? Non possiamo andare senza? – Perché che hai contro la sirena? È roba… come dicevate all’università da stato di polizia? Avevate paura delle sirene quando facevate le occupazioni, eh? Allora mi dovevi venire sotto, maresciallo Zanetti. Sai come ci saremmo divertiti! – Se il sostituto procuratore aveva tutta questa fretta poteva andare con qualche altro collega invece di aspettarmi – gli dissi facendo finta di essermi offeso. – Zanetti. Fatti un po’ i cazzi tuoi – mi rispose senza preoccuparsi neppure un istante – Questa è l’università che t’ha rovinato. Ma che vi insegnavano? Le occupazioni? Ora basta, cazzarola. Metti la sirena e andiamo. Io odio andare a sirena spiegata. Non mi piace sembrare un coatto che corre solo per abusare del suo potere. Quando poi c’è un morto di mezzo lo capisco ancora di meno. Che bisogno c’è di scapicollarsi quando ormai tutto è fatto? Il tenente però non era dello stesso avviso e continuava a guardarmi storto. Il problema era che ad aspettarci c’era il sostituto procuratore Sergio Baratto, un bravo magistrato, piuttosto capace però molto sbrigativo e soprattutto assolutamente privo di pazienza. Io odio anche correre con la macchina. Sognavo di entrare nel R.I.S. per coltivare le mie passioni, la psicologia e la criminologia, ma mi era toccato il servizio

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presso la sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica di Roma. Decisamente meglio di passare le ore a fermare pischelli senza casco sul motorino nei posti di blocco sparsi per l’Italia, come molti colleghi di concorso, ma certo non quello che sognavo. Decisamente meglio anche di stare qui in archivio a raccogliere schedoni di richiesta per poi sparire nei sotterranei alla ricerca di un faldone, con l’unica speranza concessa che non sia così pesante da richiedere l’intervento dei facchini. Io odio particolarmente correre con la sirena ma quella mattina, col tenente Saverio Catalano in macchina e il sostituto procuratore Sergio Baratto in attesa, chissà dove, non c’era molta scelta e così partii sgommando e con la sirena ululante come se non fossimo nel parcheggio del Tribunale ma nel bel mezzo di una sparatoria. – Finalmente ti sei imparato a sgommare – mi disse Catalano ridendo – Senti, ora ti spiego cosa è successo. Quella mattina la signora delle pulizie della concessionaria “Martini Auto” era arrivata al lavoro molto presto. Lo faceva tutti i giorni da chissà quanti anni. Il marito l’aveva accompagnata che ancora era notte fino a pochi metri dal cancello. Lei era scesa e si era avviata senza pensare a niente, neppure al freddo che a quell’ora doveva essere davvero tremendo. Quando si ripetono gli stessi gesti per tanto tempo si finisce per non pensare più a niente mentre li si compie. Quando ci si abitua a vederli sempre avvicendarsi nello stesso modo per troppe volte non pensi più a cosa devi fare. Aspetti solo che le cose succedano come da sole. Una volta entrata, la signora era salita al primo piano e si era diretta verso lo stanzino dove da anni si cambiava e dove la sera prima aveva lasciato i secchi, gli stracci e gli altri suoi strumenti di lavoro. Era sicura di trovarlo esattamente come lo aveva lasciato il giorno prima e invece… – E invece? – gli chiesi facendo finta di niente.

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Ero appena passato a non più di cinque centimetri da una macchina. Sul lato del tenente che per questo aveva smesso di parlare e mi fissava con un’espressione a metà strada tra la paura e il compiacimento. – E finalmente ti sei imparato pure a guidare! – mi disse accarezzandomi il collo. – Pensava di non trovarci nessuno, e invece? – gli chiesi ancora. E invece c’era Carlo Martini, cinquantuno anni, coniugato, separato, socio con il cinquantuno per cento della società proprietaria della concessionaria, morto. Secco. L’indagine era coordinata dal sostituto procuratore Sergio Baratto, bolognese, quarantacinque anni, bell’uomo, non proprio appariscente ma molto sicuro di sé e del suo fascino. Qualcuno in Tribunale diceva che stesse sulla buona strada per manifestare una bella sindrome di onnipotenza. – Cazzarola, proprio lui doveva capitare di turno. Corri che sta già la! Corri! – ripeté Catalano. – Tenente, io corro. Però qui è tutto bloccato. – Zanetti, non ti ho chiesto le condizioni del traffico. Ti ho chiesto di correre. Svicola cazzarola, sennò che ce l’abbiamo a fare la sirena? – E dove svicolo tenente qua il raccordo è tutto bloccato? Il raccordo anulare stringe Roma come una ciambella enorme. La stringe fino quasi a soffocarla. Un tempo era solo una sottile striscia di asfalto in mezzo alla campagna. Ogni tanto incrociava le vie consolari che la attraversavano come i raggi di un’immensa ruota di bicicletta. Oggi il raccordo anulare rimane una striscia di asfalto che incrocia le vie consolari ma intorno non ha più campagna. Ci sono solo costruzioni, alcune finite e altre ancora in cantiere ma di campagna ne è rimasta pochissima. Ci sono case e capannoni e le uscite si stanno moltiplicando perché tra una consolare e l’altra stanno nascendo

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delle piccole città che però non sono città ma solo quartieri. È successo tutto in questi ultimi anni, quando la grande città ha deciso di diventare una metropoli inghiottendo questa striscia di asfalto che ora non ha più l’aspetto del raccordo stradale di una grande città ma quello della tangenziale di una metropoli. – Lo sai cosa ci stava qui quando sono arrivato a Roma nel settantacinque? – mi chiese il tenente Catalano guardando quasi schifato un blocco di cemento alto trenta metri e lungo ottanta. Io lo sapevo che non voleva una risposta e mi limitai a girare la testa verso di lui per un attimo, giusto il tempo di fargli capire che lo seguivo e che poteva continuare a parlare. – Niente. Non c’era niente. Incredibile! Finito di parlare tornò a posare lo sguardo sulla strada. Eravamo arrivati all’altezza della via Tiburtina, in un punto in cui è talmente vecchia e stretta da sembrare una strada di campagna, una di quelle delimitate da rovi enormi e impenetrabili o da alberi pieni di fronde. Se Roma fosse rimasta una grande città senza farsi sedurre dal sogno di diventare metropoli, la via Tiburtina in quel punto sarebbe proprio una strada di campagna ma ora, alla sua destra e alla sua sinistra, non ci sono alberi e neppure rovi. Solo mura di palazzetti abusivi e capannoni semiabbandonati. Non c’è neppure la corsia di emergenza e se succede qualcosa chissà cosa bisogna inventarsi per arrivarci. Di tanto in tanto si scorge una sciarpa giallorossa o biancoazzurra appesa a un palo o a una grata. Sventola mezza rotta circondata da mazzi di fiori secchi, fotografie e disegni ormai semidistrutti dalla pioggia. Sembra un cimitero diffuso questa strada piena di lapidi improvvisate che urlano il dolore di qualche giovane madre. La via Tiburtina poco prima di incrociare il raccordo anulare descrive paesaggi così brutti da farti venire il dubbio che sia davvero Roma. Ogni città ha un suo centro e una periferia

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che lo rinnega, ma nel caso di Roma la differenza fa ancora più male, perché questa città, nell’inseguire il sogno di diventare metropoli, sembra voler tradire tutti i suoi valori, tutti i suoi elementi distintivi. – Guarda che schifo. Quella secondo me non tiene neppure diciotto anni. Il tenente Catalano parlava di una delle tante puttane senegalesi e slave pronte a vendere dieci minuti di calore in un posto squallido come quello in cui la via Tiburtina incrocia il raccordo anulare. Alcune mangiavano distratte un panino, ammassate intorno a un camioncino parcheggiato in uno slargo che, a occhio e croce, avrebbe dovuto essere adibito a sosta di emergenza. Altre parlottavano con i clienti fermi sulla destra. Ci sono zone di Roma in cui le puttane non lavorano solo di notte. Le puoi trovare con comodo in pieno giorno. Anche poco prima di pranzo perché tanto questa non sembra neppure Roma, anzi non sembra più neppure una città, ma solo il prezzo da pagare a un sogno trasformatosi all’improvviso in un incubo. Quello di trasformarsi da città in metropoli. – Un tempo quando passavamo noi, queste almeno facevano finta di levarsi dai coglioni – tuonò il tenente con la voce neppure incazzata. Solo schifata dal gesto di scherno con cui una di quelle ragazze si aggiustava le tette in modo plateale e ci sorrideva come se stesse sfidando i nostri pensieri. – Che vuole farci tenente? Loro lo sanno cosa temere e cosa no. Non ci temono. – Lo so io perché non ci temono. Che poi almeno quella tiene la fica! – mi disse dandomi una specie di schiaffo sulla coscia destra. – E lei che ne sa? – risposi accennando un sorriso beffardo. – Zanetti! Cazzarola! La differenza tra una donna e una checca ancora la tengo presente! E poi i froci da queste parti non ci sono mai stati.

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Il tenente Catalano, da vecchio uomo del sud, su certe cose non ammetteva discussioni. Io avevo forti dubbi sul vero sesso di quella ragazza ma lasciai che il silenzio inghiottisse per sempre quello scambio di opinioni prima che potesse diventare troppo complicato. Tanto più che in lontananza si vedeva già l’insegna della concessionaria “Martini Auto”.

* * * Le concessionarie di automobili intorno al raccordo sono tutte uguali. Vetrate enormi, insegne enormi, parcheggi enormi. Non come quella che stava in piazzale delle Province e che ora è stata sostituita da un negozio di cellulari. C’entravano si e no due macchine e facevano impressione così vicine a vetrine di scarpe o ferramenta. La “Martini Auto” era una perfetta concessionaria di quelle intorno al raccordo. Ci fermammo nel parcheggio enorme e ci dirigemmo a piedi verso la vetrata di ingresso davanti alla quale c’era una ragazza molto bella che camminava avanti e dietro come se non sapesse dove andare. Aveva i capelli neri, lisci, lunghi poco sotto le spalle e la frangetta perfettamente dritta sulla fronte. Camminava con un’eleganza naturale, muovendo con garbo le gambe lunghe e affusolate appoggiate con stabilità e insieme leggerezza su scarpe dal tacco altissimo. Aveva una gonna cortissima e stretta, un po’ fuorimoda anche se credo non fosse corretto usare quel termine per una ragazza del genere. Meglio dire che aveva una gonna dal gusto un po’ vintage sotto una giacchetta molto stretta in vita. Il trucco non era pesante ma neppure leggero, un trucco perfetto, o forse lei era una di quelle donne capaci di trasmettere a tutto la propria perfezione. – Cazzarola che topa! – disse il tenente. Pensavo la stessa cosa, ma ho sempre avuto un certo pudore

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a dare giudizi del genere. Perciò non risposi mentre seguivo Catalano che entrava nella concessionaria per andare incontro al sostituto procuratore Sergio Baratto, il titolare dell’inchiesta che stava prendendo l’avvio. – Finalmente è arrivato, Tenente – disse con l’aria visibilmente seccata. – Mi scusi Dottore. Non mi sono potuto muovere prima, mi creda. Ora sono ai suoi ordini. – Va bene, va bene. Non si preoccupi, ma ora venga con me. Per Baratto avrei potuto anche non esserci. Forse sarebbe stato meglio che non ci fossi stato, così almeno il tenente Catalano non sarebbe arrivato in ritardo. Era sempre stato uno stronzo il sostituto procuratore, in ogni inchiesta in cui avevamo collaborato non aveva mai perso l’occasione di essere sgradevole. Mi chiedevo spesso in quel periodo se fosse proprio lui a essere stronzo o se fossi anche io ad avere problemi con il ruolo di capo. Me lo chiedevo spesso ma ogni volta che lo vedevo comportarsi in quel modo odioso arrivavo alla conclusione che no, non ero io ad avere un problema. Era proprio lui a essere uno stronzo. Rimasto solo cominciai a girare cercando di osservare quanti più particolari possibili. Quasi tutto lo spazio della “Martini Auto” era occupato da un enorme salone pieno di macchine di vari modelli e colori. La cosa che mi fece più impressione era vedere le ruote nuove, nerissime, appoggiate sul parquet che copriva il pavimento. Il locale era pieno di luce perché in tre dei quattro lati era delimitato da vetrate che davano sull’esterno e solo da una parte c’erano un paio di stanze con le porte socchiuse. Ogni tanto buttavo un’occhiata fuori e potevo vedere la ragazza coi capelli neri lisci e con la gonna vintage che continuava a camminare nervosamente. Ripensai alle parole del tenente. Quella frase stonava già solo a pensarla nel silenzio della mia

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testa. Possibile che non ci sia il modo di resistere all’attrazione di una bella ragazza? Neppure per persone sposate da dieci, venti, anche trent’anni? Non trovai una risposta ma mi limitai a prendere atto che non c’era troppo tempo da perdere e andai alla ricerca del cadavere. Per trovarlo non ci volle molto. La scala che portava al piano superiore era chiusa da un nastro bianco e rosso e piantonata da un collega. Bastò uno sguardo perché alzasse il nastro e mi facesse passare. Sopra c’era un trambusto che stonava con la presenza di un morto. Molti parlavano tra loro a voce alta e si vedevano continuamente i flash dei fotografi. Si pensa sempre che certe situazioni mantengano un’aura sacra ma non è così. Le persone che lavorano si comportano con una certa disinvoltura e in quella scena c’era un sacco di gente che stava lavorando. Carlo Martini era ancora nel punto in cui era stato trovato, circondato dai colleghi della scientifica che stavano facendo gli accertamenti del caso. Il suo corpo era disteso con la schiena a terra, le braccia erano alzate, la giacca e la camicia erano fuori dai pantaloni. Sembravano come ammassati sotto le spalle. Al polso aveva ancora il Rolex d’oro. Un Rolex originale. Non gli avevano tolto nulla. Nella tasca interna della giacca c’era perfino il portafoglio con dentro la carta di credito e quasi trecento euro. Non si trattava di una rapina. Questo era chiaro. Il corpo si trovava in una stanza piuttosto piccola, piena di materiale da lavoro. Scope, secchi, detersivi. Le braccia erano rivolte verso la porta mentre i piedi verso il muro opposto a quello dell’entrata. C’era una grossa macchia di sangue per terra che si allargava da sotto le spalle e un’altra meno densa, a strisce dalla testa fino quasi alla porta della stanza. Non era la prima volta che vedevo una persona morta e non provavo nessun disagio oppure fastidio. Osservavo quella scena come fa uno scienziato con un vetrino messo sotto la lente di un microscopio. Cercavo di raccogliere informazioni, guardavo

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ogni particolare ma non vedevo un uomo. Ripensandoci oggi mi rendo conto di come fino ad allora avessi visto molti cadaveri ma mai persone morte. Il tenente Catalano mi raggiunse mentre un collega della scientifica mi faceva notare dei segni di sangue lungo il corridoio. Era salito per chiamarmi e la scena del crimine non sembrava interessarlo più di tanto. – Zanetti, vieni con me – mi disse prendendomi per un braccio – Dobbiamo interrogare la donna delle pulizie. Quella che ha trovato il morto. – Agli ordini! – risposi rapido e preciso come uno scolaretto il primo giorno dell’anno. Ci avviammo verso l’ascensore per raggiungere il piano superiore. – Hai guardato bene il cadavere? – mi chiese. – Certo tenente. – E dimmi qualcosa intanto, va! Gli dissi in breve quello che avevo notato. Non doveva essere stato ucciso nello stanzino in cui era stato trovato. C’era una striscia di sangue che sembrava far pensare a un trascinamento da un altro posto. Probabilmente era stato preso per i piedi e tirato perché la giacca e la camicia erano usciti dai pantaloni finendo sotto le spalle. La striscia di sangue si interrompeva dove c’era la porta. Probabilmente dopo lo spostamento l’assassino aveva chiuso la porta e pulito i segni lasciati in modo che tutto fosse scoperto il più tardi possibile. Gli dissi poi che non mi pareva di aver visto in giro stracci o simili con cui poteva essere stato pulito il sangue. Sembrava un lavoro fatto con una certa accortezza e secondo me sarebbe stato difficile che quelli della scientifica potessero trovare delle impronte in grado di indirizzare subito le indagini. – Come cazzarola fai a notare tutte queste cose in pochi istanti lo sa solo Dio. – Tenente, se fosse per me… – gli risposi senza finire.

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– Se fosse per te cosa? Non ti trovi bene a lavorare con me? – mi disse sapendo bene di cosa stavo parlando. – No, che c’entra. Però se un giorno potessi coronare il mio sogno di lavorare al R.I.S… – Ancora con questi R.I.S. Ma è possibile, dico io, che ormai volete andare tutti nei R.I.S.? Tutti la stessa capa tenete! Ma guarda che non è come in televisione. Lasciamo perdere che è meglio. La signora delle pulizie si chiama Rosalba. Facciamo così. Le domande le fai tu, e se sei bravo ti mando ai R.I.S. La signora Rosalba ci stava aspettando in una piccola stanza nella parte opposta rispetto allo stanzino in cui era stato trovato il corpo di Carlo Martini. Era in piedi e guardava fuori dalla finestra. Anche a guardarla da dietro si capiva quanto fosse sconvolta. Aveva i capelli arruffati e la gonna per traverso. Quando la salutai si girò senza rispondere. Si avvicinò a una sedia al centro della stanza e si sedette sfinita. Il viso, senza un filo di trucco, era profondamente segnato. A occhio e croce aveva gli stessi anni della donna che avevo visto nel parcheggio della concessionaria. Aveva gli stessi anni ma c’era tra loro un abisso di femminilità. Non che la signora Rosalba non ne avesse proprio o non ne avesse mai avuto. Solo che la vita lascia a poche donne il privilegio e la forza di coltivare il proprio dono di sentirsi donna. Catalano si posizionò davanti alla finestra, proprio nel punto in cui fino a qualche istante prima si trovava la signora, mentre io mi misi a sedere di fronte a lei. – Buongiorno signora. Che ci dice di questa mattina? – le chiesi. – Un’altra volta? Ma ho già detto tutto agli altri. Aveva l’aria di chi desidera solo che tutto finisca prima possibile. Appena finito di parlare non perse neppure un istante e cominciò a mordersi una pellicina vicina all’unghia del pollice. L’aveva appena sollevata muovendo nervosamente quella del dito medio. La donna di fuori non lo avrebbe fatto mai. Lei non

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avrebbe mai rovinato in questo modo le sue unghie. Neppure per una stupida emozione. – Signora, mi dispiace ma è la procedura – le dissi. – Ho capito, ma è la terza volta che devo raccontà ‘sta storia. – Mi rendo conto che non deve essere facile per lei, ma è molto importante che ripeta anche a noi quello che ha già detto ai nostri colleghi. Potrebbe ricordare qualche particolare che le era sfuggito e poi noi preferiamo farci un’idea diretta piuttosto che essere condizionati da loro. – Va be’ – rispose con l’aria stanca, poi fece un sospiro lungo come una resa incondizionata e ci raccontò quello che le era successo. Era arrivata alla concessionaria alle sei e un quarto e aveva aperto con il suo mazzo di chiavi visto che era la prima ad arrivare. Si era cambiata nel bagno di servizio e poi era andata nello stanzino accanto, quello in cui il sabato prima aveva lasciato strumenti e detergenti per la pulizia. Appena aperta la porta aveva fatto un passo avanti ma il suo piede destro aveva sbattuto contro qualcosa. Qualcosa di morbido. Accesa la luce aveva guardato cosa fosse e si era subito resa conto che era il corpo di Carlo Martini. –So’ quasi caduta dallo spavento. Era così a modo, il signor Martini. Mai una parola fori posto, e co’ sto lavoro mica capita tanto spesso. La reazione immediata era stata quella di correre via e di urlare. Anche se non c’era nessuno da cui scappare e nessuno che potesse accorrere. Era addirittura scesa per le scale prima di calmarsi. Poi aveva cominciato a chiedersi cosa fare. Nell’edificio era tutto assolutamente normale e questo non faceva che aumentare la sua angoscia. Ancora una volta aveva reagito alle emozioni che la assalivano e aveva telefonato al marito urlandogli di correre lì per aiutarla. A lui che le chiedeva spiegazioni non era stata in grado di dire nulla. Solo urlare di

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correre e di fare presto perché c’era un uomo morto. Poi però era arrivata una volante dei Carabinieri, prima ancora che il marito facesse in tempo a raggiungerla. – Se ho ben capito lei non aveva ancora cominciato a pulire? – le chiesi. – No. Come facevo? La roba stava nello stanzino. – Quindi nessuno ha toccato niente? – No. Il corpo del povero signor Martini sta come l’ho trovato. La signora Rosalba sembrava davvero stremata e in fondo erano passate sei ore dal macabro ritrovamento. Sei ore in cui aveva dovuto rispondere a chissà quante domande. Sei ore senza neppure avere troppe risposte da dare. Le dissi che poteva andare e lei si alzò con fare intimidito. Si avviò verso la scrivania dove chissà quanto tempo prima aveva appoggiato la giacca. Camminava molto lentamente, come se dovesse portare un peso sulle spalle. Ci salutò almeno tre volte prima di sparire dietro la porta. Ognuno perde qualcosa nella vita. Anche la signora Rosalba. Se fosse stata più bella o forse soltanto meno stanca sarebbe stata una ragazza e non una signora, ma c’è un momento nella vita delle persone in cui si perde uno status e se ne conquista un altro, anche se conquista forse non è proprio il termine più adatto. Non è chiaro il momento in cui succede. Nessuno può dire in quale giorno si smette di essere un ragazzo e si diventa un uomo, però succede. Si perde lo status un pezzo alla volta fino al momento in cui è sparito del tutto. Fino al momento in cui l’averlo perso diventa evidente come la pioggia che intanto aveva cominciato a cadere. Il tenente Catalano la stava guardando dalla finestra. Fermo immobile guardava la pioggia fuori stagione ma anche le macchine che sfrecciavano sul raccordo anulare. Una dietro l’altra in ogni corsia. Vicinissime tra di loro. Una accanto

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all’altra tra le varie corsie. Ancora più vicine in quel caso. – Se frena il primo fanno una frittata – disse. Poi si girò e venendo verso di me disse che non bisognava perdere tempo e che era assolutamente necessario cominciare a elaborare qualche ipotesi. – Non le sembra un po’ presto? – gli chiesi. – No Zanetti. Non mi sembra troppo presto. E sai perché? – Perché? – Perché non è mai troppo presto per fare ipotesi di indagine. Questo non te l’hanno fatto studiare? E allora te lo dico io. Il tenente Saverio Catalano è noto in tutti gli uffici di polizia giudiziaria del Tribunale per le sue teorie, anche se, per quante volte le ripete, sembrano piuttosto delle ossessioni. Una di queste riguarda il fatto che nelle prime fasi di un’indagine l’importante non è tanto capire cosa è successo quanto cercare di fare quante più ipotesi possibili senza precludersi percorsi investigativi. In quel momento però io non vedevo assolutamente nessuna ipotesi. Vedevo al massimo una persona morta, colpita da un’arma da fuoco e trascinata in uno sgabuzzino. Per il resto mi sembra troppo presto per qualsiasi affermazione. Qui non si trattava di capire chi era stato a ucciderlo. Qui si trattava di capire cose molto più semplici. Cosa era successo? Quando era successo? Come al solito di fronte a un cadavere appena scoperto avevo la sensazione di muovermi al buio. Come quando, da piccolo, giocavo a mosca cieca. Tirata giù la serranda e chiusa bene la porta con la benda sugli occhi cominciavo a muovermi a caso menando fendenti con le mani alla ricerca di un corpo da intercettare. Per questo avrei voluto essere al posto dei miei colleghi della scientifica. Quelli sanno benissimo cosa fare. Fotografie, rilievi, ricerca di impronte digitali, osservazione

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minuziosa della scena del crimine. Per quanto difficile, come lavoro ha un suo confine molto ben delimitato. Se non sei superficiale difficilmente puoi sbagliare. Poi ci possono essere quelli più bravi e quelli meno bravi ma in nessun caso ti puoi sentire addosso questa sensazione di impotenza. – Sei giovane, Zanetti – mi disse Catalano vedendo che non rispondevo alla sua richiesta – e come tutti i giovani tendi a scoraggiarti di fronte alle sfide difficili che poi sono quelle che danno sapore alla vita. – Se lo dice lei, tenente – gli risposi poco convinto. Il tenente Saverio Catalano non è il tipo di investigatore che si spaventa quando tutto sembra inspiegabile. A me invece capita ogni volta e non so se, come dice lui, dipende dall’età e dalla mancanza di esperienza. Forse il tenente è un investigatore mentre io sono solo uno che fa questo mestiere. Lui non si spaventa di fronte a tante piste magari in contraddizione tra loro, anzi, per lui l’errore più grande è quello di concentrarsi subito su una sola. Mi diceva sempre che un buon investigatore non si deve innamorare di un’idea e deve sempre ragionare con la sua testa. Ogni volta che cominciava un’indagine, mi raccontava il caso Egidi o, come diceva lui, il caso di “quel povero disgraziato di Egidi”. Lo raccontava ogni volta e ogni volta mi chiedeva se me l’aveva già raccontato. Io ogni volta gli rispondevo di sì ma lui a quel punto aveva già cominciato con la storia di questo disgraziato che cominciò a fare dentro e fuori dalla galera finendo per fare il capro espiatorio di ogni caso irrisolto. Coi veri colpevoli a ridersela fuori e noi, dopo decenni, ancora a chiederci se fosse stato davvero il mostro che era stato dipinto. – E lo sai di chi è la colpa? – mi chiedeva a questo punto senza aspettare la risposta – È dei giornali, la colpa. Coi titoli aizzano la gente. Coi titoli le ammazzano le persone. Io cercavo di obiettare che l’attenzione dei mass media per i

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casi di cronaca serve proprio a garantire contro eventuali errori. Che è molto più facile che succeda qualcosa di scorretto nel silenzio e nel buio, mentre nei casi seguiti dai giornali questo rischio è minimo, ma lui non era tipo da farsi convincere. Non perché fosse grossolano come persona, no. Semplicemente per essere troppo legato a un periodo storico in cui il rapporto tra investigatori e giornali era improntato a tutt’altro equilibrio. Per lui, le mie erano le idee che mettono in testa all’università per giustificare tutti i giornali che screditano il lavoro degli onesti servitori dello Stato. Per lui, queste erano le idee marce con cui ormai si giustificano tutti. Perfino quelli che si alzano una mattina, escono e ammazzano senza motivo dieci persone, tanto c’è sempre qualche sociologo che, dalle colonne di un giornale, spiega che la colpa non è loro, che la colpa è della società, dei palazzoni degradati in cui viveva, del lavoro precario. – Tutte cazzate, Zanetti. A quei tempi c’era più ordine. Per questo certe cose non le leggevi sui giornali. Ora basta però. Tu sei una persona in gamba e di certe cose con te non ci voglio parlare. Anche quella volta, come tutte le altre volte, era finita così, con un piccolo muro di silenzio a evitare che la discussione diventasse troppo accesa. Succede spesso quando si discute con qualcuno che la pensa in modo diverso, ma cui si vuole troppo bene per permettere che quello diventi un motivo di frattura. Anche quella volta era finita così, e come le altre volte quel silenzio protettore non era durato troppo a lungo. Giusto il tempo di rispondere a una telefonata, anzi neppure quello, visto che mentre ancora parlava già mi faceva cenno con la mano di seguirlo. – Vedi Zanetti, voglio solo che tu in questa indagine ti ci butti dentro. Certe volte non capisco se ti va di lavorare o se non ti va. Ma a te ti va di lavorare o no? – Certo, tenente – gli risposi senza esserne troppo convinto.

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– E allora perché ti comporti come se non ti va? Oggi per esempio. Invece di essere contento che ti avevo aspettato mi hai detto che potevo venire con qualcun altro. – Dicevo per dire, tenente – mi giustificai. – E cazzarola, non le dire le cose per dire, allora. Parlava e si guardava intorno in modo vistoso. Cercava il sostituto procuratore Sergio Baratto che prima gli aveva telefonato dandogli ordine di raggiungerlo. Lo trovammo nel parcheggio, poco fuori dall’ingresso del salone espositivo, mentre parlava con la ragazza dai capelli neri che avevo notato non appena arrivato alla concessionaria. Sicuramente era entrata dentro quando aveva cominciato a piovere per non rovinare l’acconciatura. Lui gesticolava con un braccio solo perché l’altro lo teneva appoggiato a una Clio blu. Lei sembrava ascoltarlo con attenzione. Appena arrivammo ce la presentò con gentilezza. – Ecco Federica Furini, la compagna di Carlo Martini, con la quale stavo scambiando due battute. Guarda un po’ con chi stava il morto, pensai. Quello però non mi pareva il momento per abbandonarmi a riflessioni di quel tipo. Mi limitai a rispondere al saluto e ad aspettare ordini dal tenente e ad ascoltare Baratto che intanto aveva ripreso a parlare con il suo simpatico dialetto bolognese. Parlava e ammiccava cercando di mettere in mostra al meglio il suo fascino di quarantenne ben tenuto. Lo stesso fascino che, insieme alla sua posizione di magistrato, lo portava in televisione almeno un paio di volte al mese. – Avevo pensato di fare qualche domanda a Federica, ma vorrei evitare di farlo ora e soprattutto qui perché lei mi diceva di essere sconvolta, e questo è assolutamente comprensibile. Così ci vediamo a casa sua domani. Per voi va bene? – Va benissimo dottore – rispose Catalano rapidissimo accarezzandosi il pizzetto grigio e curatissimo.

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– Allora ora andiamo – gli rispose Baratto – Federica viene in macchina con me. Il sostituto procuratore ci salutò e mentre ci avviavamo verso la nostra macchina lo vedemmo allontanarsi tenendo sotto braccio Federica Furini. Camminava e parlava, si appoggiava e gesticolava come se non fosse il titolare dell’inchiesta per la morte di suo marito ma una star sulla buvette di una grande kermesse di cinema. Il sostituto procuratore Sergio Baratto. Non era la prima volta che lavoravo con lui ma ogni volta che succedeva speravo sempre che fosse stata l’ultima.

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Le dita sono la punta più avanzata dell’anima

Il giorno del primo appuntamento non è un giorno come un altro. Si sa che i giorni non sono tutti uguali ma di solito per capirlo è necessario che passi un po’ di tempo per rendersi conto che un qualche momento comincia a prendere possesso della memoria. Il giorno del primo appuntamento no. Lo capisci da subito che c’è qualcosa di particolare nell’aria e in te che ti prepari per uscire. Le emozioni del primo appuntamento sono una delle poche cose che non ha bisogno di consumarsi per far capire il suo peso. Il giorno del primo appuntamento era estate e faceva caldo. Proprio il contrario di oggi. Avevo passato tutto il pomeriggio a pensare cosa fare, a dove andare, se cenare prima o dopo, se scegliere qualcosa di molto particolare oppure non esagerare. A Roma ci sono un sacco di cose, specie d’estate, ma la prima volta che esci con una ragazza hai sempre paura di sbagliare e soprattutto hai paura che un eventuale sbaglio possa compromettere i tuoi piani. Poi col tempo cominci a renderti conto dei suoi gusti o della sua disponibilità, ma questa è una fase che viene dopo, molto dopo aver passato i cinque esami. Si perché le ragazze ti fanno cinque esami successivi. Non ne bastano uno o due. Non gliene bastano neppure quattro. Si riservano il diritto di recesso fino al momento in cui non hai passato il quinto esame. Ogni esame è diverso dall’altro e nasconde le sue insidie. Dopo è tutto diverso ma fino ad allora ogni desiderio è appeso a un filo e ogni gesto non è mai impegnativo. Se anche gli uomini fossero fatti così, la specie si sarebbe estinta da un pezzo perché ci vorrebbe un

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matematico di professione per calcolare un doppio incastro da cinque esami. Io, quella sera avevo già passato un esame, altrimenti non sarei mai arrivato a ottenere un appuntamento. A occhio e croce, però, dovevo essere al secondo che forse è il più insidioso in assoluto. Nel primo esame vieni valutato per quello che sei al momento del contatto, che spesso è anche casuale e quindi c’è poco da preoccuparsi, se il mistero scatta bene altrimenti si passa avanti. Nel secondo, invece, sei valutato per quello che riesci a rappresentare come animale sociale. Perciò devi disperatamente trovare qualcosa di interessante da fare, ma anche intelligente, magari non troppo serioso, insomma un vero e proprio incubo che appunto mi aveva tenuto occupato per tutto il pomeriggio. Alla fine avevo proposto di andare in un cinema all’aperto, su un terrazzamento di via dei Fori Imperiali, dove proiettavano La decima vittima, un film di Elio Petri con Marcello Mastroianni. In un colpo solo sintetizzavo la sicurezza del cinema che garantisce contro le paure di troppi silenzi, la piacevolezza dell’aria dell’estate romana in cui l’ultima cosa che vuoi fare è rinchiuderti da qualche parte, l’interesse per un film di un regista impegnato, il romanticismo della vista sul colosseo illuminato e il fascino di Marcello Mastroianni. Dopo il film, appoggiati al bancone del bar, lei parlava mentre io la ascoltavo fissando il suo viso. Il film le era piaciuto e soprattutto era rimasta colpita da come nel 1960 si fossero immaginati la Roma che, in quel momento, noi stavamo vivendo. Davanti a lei c’era una candela che faceva tremolare la luce dei suoi occhi. La guardava fissa mentre parlava. Smetteva solo per ascoltarmi, poi quando toccava a lei riprendeva a fissarla cercando di costruire strane forme di cera con la cannuccia del suo cocktail. Da lontano si sentiva il suono di un pianoforte e lei mi raccontava di quando, da piccola, aveva cominciato a suonarlo,

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quello strumento. Il suo insegnante le diceva che, quando si suona, le dita sono la punta più avanzata dell’anima. Io la ascoltavo e guardando i suoi occhi pensavo che in quel momento erano loro le punte più avanzate della sua anima. Lei parlava e io guardavo i suoi occhi fissi che continuavano a tremolare mentre fissavano quella luce morbida. Ascoltavo mentre mi raccontava del suo paese, l’ultimo che trovi prima che la terra si tuffi nel mare e intanto pensavo a quanto era bella. La guardavo parlare e avevo la sensazione di avere di fronte la ragazza più bella del mondo. Non soltanto quella più bella che avevo avuto modo di vedere. No. Quella più bella del mondo. Senza possibilità di vederne di più belle per il resto dei miei giorni. Ancora oggi se mi si chiede di chiudere gli occhi e pensare alla bellezza io penso a lei. È qualcosa di incontrollabile. Qualcosa in cui c’entra la ragione perché c’entrano i pensieri, i sogni, i giudizi, ma qualcosa in cui c’entra anche l’istinto. Era bella, bellissima ma non finiva lì. Quello che mi aveva catturato era anche il modo di camminare, il modo di girare la testa, il modo di toccarsi i capelli, il modo di guardare la strada prima di attraversare e di scomparire dietro un angolo. Era bella, bellissima e ora proprio non riesco a fare a meno di pensare a lei. Posso cercare di contrastare i pensieri, di interromperli ogni volta che affiorano ma non posso evitare che vengano fuori come il magma incandescente di un’eruzione inevitabile. Dopo sono successe un sacco di cose. Dopo abbiamo fatto un sacco di cose. Alcune insieme e altre no, ma quello è successo dopo. Quel giorno era solo il primo appuntamento e io mentre tornavo a casa, dopo averla riaccompagnata, non riuscivo a camminare. Mi misi a correre così, in modo quasi assurdo. Di notte. Da solo. Senza essere inseguito da nessuno. Senza avere fretta di andare da nessuna parte. Solo perché le mie gambe non potevano farne a meno. Solo perché, in qualche modo, sentivo di essere felice.

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Foto © Microzoa/The Image Bank/gettyimages Progetto grafico: Costantino Margiotta/zero91 s.r.l.

Quello che manca

Paolo De Lazzaro

Quello che c’era meno quello che c’è fa quello che manca e quello che manca scava. Scava e brucia.

QUELLO CHE MANCA

Paolo De Lazzaro è nato a Roma il 4 marzo 1969. Ha pubblicato molti racconti sul mondo del calcio con lo pseudonimo Kammamuri. Quello che manca è il suo primo romanzo.

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locali, tra presente e passato, tra investigazione classica ed un giallo sentimentale: un confronto che, in questo caso, rende evidente come la vita spesso non permetta di trattenere le persone che si amano al di là di ogni ragionevole impegno. Paolo De Lazzaro, con questo sorprendente romanzo d’esordio, supera il confine della letteratura di genere e consegna alla nostra memoria i primi passi del maresciallo Riccardo Zanetti, un personaggio un po’ meno bruciato dell’avvocato Guerrieri, un po’ più cittadino del commissario Montalbano ma aggrappato alla verità come un Don Chisciotte in divisa e senza difese contro Quello che manca.

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È possibile trattenere le persone che amiamo? Il maresciallo Riccardo Zanetti non c’è ancora riuscito. Ecco perché la sua storia si apre con una sottrazione emotiva che lascia senza speranza: quello che c’era meno quello che c’è fa Quello che manca. Non si tratta però di un punto di vista malinconico per il quale la vita è un processo di continua perdita a partire da uno stato di completezza innocente. Più semplicemente, Riccardo sa che non c’è alternativa al futuro e che il presente ha sommerso una verità sfuggente. Come la soluzione di un omicidio dentro una concessionaria di automobili. Un caso apparentemente semplice con un colpevole annunciato ma non per Riccardo che, nella sua disperata e inquieta ricerca della verità, ci guida attraverso le pieghe di Roma, una città che sta cambiando senza perdere i suoi tratti distintivi. Su questo scenario, arricchito da una colonna sonora che di tanto in tanto sottolinea le emozioni, si compone il puzzle investigativo sino all’ultimo tassello, il più sorprendente, il più lacerante. Attraverso una scrittura che procede per elaborazione delle cose semplici e scomposizione di quelle complesse, avviene il confronto tra le forze dell’ordine e le tifoserie


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