Vivarte9

Page 1

ANNO VII N. 9 2013

Arte, letteratura, musica e scienza

copia gratuita

PERIODICO SEMESTRALE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARTE IN ARTE” URBINO

Giorgio Bompadre Quando la geometria si fa poesia di Armando Ginesi

Incisione originale del 1964 (4 acqueforti) che si trova all’interno del libro di Francesco Di Pilla-Edipo a Toledo. Editore Brenno Bucciarelli. Stampato nella tipografia Giovagnoli di Ancona il 31 Marzo 1965

Non so quante volte avrò scritto che la matematica e la geometria non sono contrapponibili alla poesia (comunque espressa, ma soprattutto mediante le arti visive), piuttosto possono esserne elementi determinanti. A voler guardare nel passato e nel presente della storia dell’arte sono molteplici gli esempi illustri che dimostrano l’incontrovertibile verità di questa affermazione. Ne citerò uno, tra i tanti: Piero della Francesca, le cui straordinarie opere pittoriche costituiscono il riflesso più esauriente di quel magico periodo della prima metà del Rinascimento (XV secolo) nel quale i valori fondanti delle discipline matematiche (ordine, rigore, equilibrio, razionalità, proporzione) si sono inverati in forme artistiche. In particolare mi riferisco ai dipinti conservati ad Urbino, presso il Palazzo Ducale, o da Urbino provenienti (come la stupenda “Pala di Brera”, già

nel Convento di San Bernardino della capitale montefeltresca), dopo aver vissuto accanto ad altri esempi nutriti anch’essi dallo stesso pensiero visivo, tra cui opere di Luca Pacioli, inventore di straordinari giochi matematici dove calcolo e fantasia si fondono e autore di celebri scritti come “Geometria”, “Proportioni e Proportionalità” e “Divina Proporzione”. Sono tutti lavori che Giorgio Bompadre, nato ad Ancona ma urbinate per scelta e vocazione, avrà mille volte visto, studiato e dei quali avrà goduto. Perché questo artista formidabile della geometria che si traduce in poesia del XX secolo è, in qualche modo, il continuatore di quella filosofia pitagorica che ha saputo trasformare la matematica in poesia, anzi in religione, elaborando addirittura una mistica dei numeri. All’incirca una trentina di anni fa

scrissi un minisaggio sull’opera grafica di Bompadre – del quale, oltre che estimatore, sono stato amico – richiestomi dall’urbinate Gastone Mosci per una traduzione grafica che il grande incisore aveva realizzato del celebre leopardiano “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. In esso analizzavo la qualità dell’opera dell’artista marchigiano evidenziando quella sua inconfondibile cifra che rendeva il suo lessico segnico pregno di umori magici e poetici. Ne riprenderò una gran parte. La lettura corretta della sua opera non è semplice perché può indurre in errori di interpretazione del suo specifico linguaggio espresso attraverso architetture rigorose di segni ordinati, logici, di sapore purista. Gli accostamenti – pur legittimi – alle ascendenze costruttiviste, alle suggestioni teoriche e formali del De Stijl possono indurre facilmente ad una lettura del suo complesso mondo espressivo in chiave quasi strutturalista e ad accostarlo al convenzionalismo linguistico di Fernando De Saussure. In altri termini si può troppo facilmente essere portati a considerare le morfologie essenziali ed esatte di Bompadre come un sistema (una struttura, appunto) organizzato in un tutto, nel quale i singoli elementi perdono di senso se privati di quel connotato indispensabile e fondamentale del loro stare insieme che è la relazione. Il rischio, insomma, è di sviluppare un discorso di pura semiologia che riduce il linguaggio a lingua, quest’ultima a convenzione tecnica e che dunque compie un’operazione esclusivamente astrattiva, la quale finisce per impoverire l’oggetto analizzato, al quale viene sottratta ogni valenza umanistica. Occorre, invece, nel caso dell’artista urbinate, uscire dalla logica ibernante dello strutturalismo freddo per avvicinarsi semmai a quello “caldo” di Noam Chomsky che ha ripensato linguaggio

Arte Le “ali di Dio” per Omar Galliani di Andrea Carnevali pag. 3

Ferite intessute con il filo dell’arte di Gualtiero De Santi pag. 4

Scienze Microbiologia e beni culturali di Luigia Sabatini pag. 6

Studiare oggi gli scritti di Padre Alessandro Serpieri. Perché? E come? di Cesarino Balsamini pag. 8

Letteratura La poesia della resistenza e la nuova incisione Valerio Volpini e Arnaldo Battistoni di Gastone Mosci pag. 11

Il partigiano nel forno di Francesco Colocci pag 12

Il capolavoro del 1953 di Maria Lenti pag. 14


N°9 - 2013 Rivista di arte, letteratura, musica e scienza dell’Associazione Culturale “L’Arte in Arte” Via Pallino, 10 61029 Urbino cell. 347 0335467 cell. 338 6834621

e lingua da un punto di vista più comprensivo, individuato nel concetto di creatività, intesa quest’ultima come capacità del soggetto parlante (e di quello comprendente) di produrre (e di ricevere) un numero infinito di messaggi distinti. Creatività che il Chomsky chiama “competenza linguistica”, vale a dire intuizione particolare che ogni individuo possiede della propria lingua e dei modi di utilizzarla. Sicché la lingua cessa di essere – come voleva il De Saussure – un sistema chiuso e statico per diventare produzione aperta e dinamica e si trasforma in linguaggio (che è enèrgeia, attività) con il risultato di portare in superficie la struttura profonda la quale concorre a rendere la produzione linguistica imprevedibile, in un processo di produzione costante riassumibile nell’espressione “il parlante fa un uso infinito di mezzi finiti”. Nel caso di cui trattiamo, il parlante Giorgio Bompadre, pur utilizzando segni finiti e definiti, varca la soglia della creatività e della poesia mediante l’imprevedibilità che scaturisce dalla combinazione dei suoi segni usuali. E se è vero che egli esprime chiaramente una grande lucidità intellettuale, è altrettanto vero che il suo repertorio segnico risulta filtrato da una logica matematica inverata in una tecnica raffinata e perfetta, sicché la matematicità del suo pensare unita alla geometrizzazione delle forme nate dall’assemblaggio calcolato e preciso dei segni, possono indurre lo spettatore superficiale a ritenere assenti gli umori e le ricchezze tipici dell’esperienza esistenziale. Ma le “geometrie” di Bompadre nulla a che vedere hanno con i concetti e i metodi esclusivamente razionali e di puro calcolo che generalmente si pensano sottesi a quella parte della matematica che ha per oggetto lo studio e la misurazione della struttura e delle proprietà dello spazio. Quelle sue sono “geometrie” più propriamente riconducibili al pensiero della scuola pitagorica la quale, tra l’altro, scoprendo le grandezze incommensurabili, ha collegato il metodo di ragione alla concezione dell’infinito, spostando il numero dalla fredda dimensione meramente razionale verso l’universo caldo della mistica, come già detto, mediante l’intuizione della sua meravigliosa potenza; sicché, per Pitagora e la sua scuola, i valori di quantità non servono ad altro che a far penetrare la conoscenza dentro lo stupendo e misterioso firmamento della

2

qualità. Pertanto Bompadre si può dire che pitagoricamente si serva delle geometrie e delle architetture segniche per collegare lui e noi non tanto all’esplorato e al certo, quanto alla misura infinita del possibile e del potenziale. E sarà bene ricordare come il grande critico Giuseppe Marchiori abbia, in fondo, per primo intuito tutto questo quando ha scritto che se anche l’artista urbinate non può essere considerato uno che abbia seguito in modo diretto l’insegnamento di quel padre del possibile e dell’arcano che fu Paul Klee, tuttavia può dirsi che il suo lavoro si è svolto attorno a dei motivi di riflessione che riconducono fatalmente nell’ambito della cultura kleeiana. Ma questa cultura, lo ripetiamo, fu quella del misterioso filo che lega il finito all’infinito, il certo all’inesplicabile, l’avvenuto al potenziale e che si manifesta attraverso la qualità simbolica dell’arte. Sempre Marchiori ha sottolineato quanto Bompadre si collochi in un suo tempo ideale che ha chiamato il “tempo della meditazione” ed ha definito il suo lavoro ricco di “intrepidi silenzi”. Ma il silenzio – dicono certi filosofi dell’Ermeneutica – è linguaggio non ancora pervenuto alla parola, dal momento che esiste una preminenza del non-detto rispetto al detto e dal momento che il linguaggio ha una ricchezza infinita di senso e non è mai esaustivo. Perciò, con i suoi “silenzi intrepidi” Giorgio Bompadre esplicita fortemente l’infinito mondo delle possibilità espressive (e dunque esistenziali dato che, per dirla con Martin Heiddeger, attraverso il linguaggio è l’essere che si rivela). C’è un periodo, nella produzione di Bompadre, da me particolarmente amato e che non esito a definire di qualità eccelsa: quello in cui la sua purezza linguistica assurge ad una dimensione quasi iperuranica. Intendo riferirmi al periodo in cui ha realizzato le incisioni bianche su fondo bianco. Il bianco, come si sa, contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico ed è un colore acromatico ad alta densità ma privo di tinta. La percezione visiva lo trasmette alla sfera cognitiva come il regno di cui il silenzio e l’ infinito sono i sovrani. Il fascino che promana da queste sublimi costruzioni segniche mi rammenta un brano dell’Apocalisse di Giovanni (7- 13,14): < “Questi che sono avvolti in vesti bianche, chi sono? E da dove son venuti? Io gli risposi:” Signore mio, tu lo sai”. Ed egli mi disse: “Questi sono coloro che vengono dalla gran

tribolazione ed hanno lavato le loro vesti e le hanno fatte bianche nel sangue dell’Agnello. Per questo stanno dinanzi al trono di Dio…..” >. Da un punto di vista religioso, infatti, il bianco è simbolo dell’innocenza (che è passata anche, purificandosi, attraverso la tribolazione e il martirio), priva di turbamenti, propria della condizione dell’Eden o come meta ultima dell’uomo purificato, quando la condizione originaria del Paradiso terrestre verrà ripristinata. Interessante, a questo proposito, è anche l’opinione del noto studioso di simbologia René Guénon secondo il quale il bianco è assimilato all’ermafrodita, all’oro, alla divinità e nella gamma dei sei colori dell’arcobaleno esso è il settimo collocato nel centro della serie per analogia con il centro dello spazio. Infatti le incisioni bianche su bianco di Giorgio Bompadre trasmettono il sentimento dello spazio puro di cui l’ anima si inebria lasciandosi attrarre dalla vertigine che conduce dentro la dimensione incommensurabile dell’infinito.

Registrazione N° 221/07 registro periodico Tribunale di Urbino del 18 maggio 2007 Direttore responsabile Lara Ottaviani Redazione Alberto Calavalle Gualtiero De Santi Oliviero Gessaroli Maria Lenti Collaboratore Fulvio Paci Hanno collaborato a questo numero Cesarino Balsamini Andrea Carnevali Francesco Colocci Gualtiero De Santi Armando Ginesi Maria Lenti Gastone Mosci Luigia Sabatini Progetto grafico Susanna Galeotti Tipografia Industrie grafiche SAT Pesaro Sede legale Via Pallino, 10 61029 Urbino vivarte@larteinarte.it www.larteinarte.it www.urbinovivarte.com Alfabeto, Acqueforti (17471748) Joannes Nini Urbinas Fecit

Armando Ginesi, Professore Emerito di Storia dell’Arte, già Ordinario presso l’Accademia Statale di Belle Arti di Macerata di cui è stato rettore per sei anni. Critico d’arte militante ha collaborato con la Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, con la Bienal Internacional del Deporte en las Bellas Artes di Madrid e Barcellona e con l’Instituto de Cultura Hispanica della capitale spagnola. Autore di circa 180 pubblicazioni scientifiche (183 sono quelle registrate dall’Indice del Servizio Bibliotecario Nazionale presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), ha curato rassegne in Europa, Africa e Asia, è ritenuto un esperto delle Avanguardie Storiche del XX secolo.

La rivista può essere richiesta attraverso e-mail a vivarte@larteinarte.it oppure scrivendo all’Associazione “L’Arte in Arte” Via Pallino, 10 61029 Urbino (PU) ITALIA


Le “ali di Dio” per Omar Galliani di Andrea Carnevali

Per Omar Galliani, l’opera d’arte è una “sospensione del tempo”, ma anche, “una trascrizione del nervo ottico” o meglio dello sguardo. I suoi disegni vibrano forte nell’aria almeno quelli di soggetto sacro: la spiritualità e la natura hanno un fascino seducente. La separatezza dell’uomo viene recuperata da Galliani attraverso un’angelicità concettuale. Le uniche forme celesti, forse a noi concesse di vedere, sono nelle pesanti ali di un angelo (Logo della Festa dell’Artista), nello smarrimento ritratto della Mater dolorosa o, ancora, nel gran finale scenografico in cui i pastelli blu di Oltremare ci restituiscono il profuno di una impossibile donna agelica del XX secolo. Un tempo si sarebbe detto che l’arte di Omar Galliani non poteva raggiungere quel carattere dotto e intransigente della pittura più accreditata. Le grandi dimensioni dei suoi disegni (e non certo i cartoni) invece trovano oggi molti seguaci tra gli artisti di strada. Ciò si riflette inevitabilmente sulle leggende e sul linguaggio visivo urbano, contribuendo alla creazione di immagini mitiche. Le figure non hanno un’identità vera e propria, ma sono rabdomantici e si materializzano attraverso il gesto creativo. Nei disegni si ritrova il desiderio ascetico di Galliani che si manifesta attraverso la luce e l’ombra, ma anche nel rapporto continuo tra il nero della matita e l’illuminazione. “La luce è data proprio dalla sottrazione di spazio della superficie in cui il disegno invade di fatto la composizione” ( intervista a Omar Galliani Marco di Capua e Manuela Annibali, 1999). L’artista ha una straordinaria abilità nel disegno e nella linea pura, che gli permette di trasformare concetti astratti in immagini fino ad arrivare all’oggettivazione dell’idea. Per l’artista emiliano, infatti, il disegno è stato uno dei principali strumenti d’esplorazione, vissuto nel solco della tradizione rinascimentale ed al contempo apertura verso il mondo sensibile. Il disegno appunto in Galliani “è qualcosa che opera in prossimità alla precisione e all’assolutezza, quando raggiunta, della forma: ma da una propria specola e posizione e muovendosi su una propria peculiare materia come carta, carta giapponese e papiro o carta intelata, dove sono fatti intervenire gli inchiostri, la matita, la sanguigna o il pigmento, o anche la china terra di Siena bruciata; e quel-

la stessa matita che è lo strumento essenziale dei disegnatori poi va a incidere su tavole di pioppo, sugli intonaci, sui muri, combinandosi con collages, cristalli e perle e immettendosi persino nelle installazioni (Gualtiero De Santi, 2013). L’artista ha scelto di indagare l’altro versante del vuoto o se si vuole dell’ignoto, la “face cachée de l’ombre”, come ha scritto Janus, ossia quella che interagisce con l’arte pittorica. “Il disegno – ha osservato Galliani – guarda e ripete se stesso, si ri-legge e ri-trascrive, liberandosi della pelle della pittura che lo celava, restituendo così al nostro tatto la vera freddezza del marmo, la trasparenza della seta…”. Un paragone, quest’ultimo con il marmo, che per l’artista emiliano riconduce alla tecnica stessa del disegno, che può in determinati casi trasformarsi in una materia sensibile e tattile. Ad una “tale tipo di rappresentazione artistica non ignora nullameno la bravura e abilità tecniche: cernibili in Galliani nell’uso del tratteggio, dello sfumato, in quelle sfrangiature dove la materia si infittisce divenendo coinvolgente e caliginosa, ma poi anche facendosi impalpabile e volatile, nel dosaggio tra tenebra e luminescenza delle immagini, un riflesso che deve agire quale segnale ed esca” (Gualtiero De Santi). La molteplicità delle apparenze non è tuttavia studiata per sfuggire all’indagine psicologia e alla determinazione formale e contenutistica, ma è tutta volta alla virilizzazione dei corpi in spirito e in materia. Suggerendo possibili varianti di espressione e di atteggiamento, il pittore infatti cerca di dare alle sue immagini uno sviluppo nel tempo. Dall’alto canto nell’opera di Galliani si trova una certa attenzione agli aspetti labili e mutevoli delle forme perché considera il tempo e lo spazio come appartenenti alla sua arte. In questo senso il disegno è essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia, universale e particolare, infinito e finito, pensiero e sensibilità: esso è un prodotto dello spirito con il quale dà vita a una prima forma di “conciliazione tra ciò che è semplicemente esterno, sensibile e transeunte, ed il puro pensiero, tra la natura e la realtà finita e l’infinita libertà del pensiero concettuale” (Hegel), fino ad arrivare alla formalizzazione con il segno grafico. Perciò il sensibile nell’opera di Galliani è elevato a semplice esteriorità. Le opere sono legate tra loro da una

Omar Galliani

profonda visione di ricerca nel labirinto delle metafore culturali. Tra le sue carte, l’artista non riflette la contemporaneità, ma segue una poetica artistica che va dal post-Romanticismo fino ai nostri giorni. Su Galliani pesano le influenze di Alfred Kubin, con quelle dei Simbolisti tedeschi e belgi (Ensor, Von Stuck), nonché si sente partecipe di quell’eredità dell’oscurità che vede in Böcklin e in De Chirico. Tuttavia sono evidenti nelle sue opere anche le suggestioni di Gino de Dominicis e Robert Longo. Galliani usa il disegno come un’immaginaria mappa del mondo e lavora con gli elementi espressivi della cultura extraeuropea, in particolar modo, con quella indiana e orientale, raccolte nel corso degli anni e nelle sue numerose peregrinazioni tra oriente e occidente, dal Messico all’Africa fino alla Cina. Che gli hanno consentito la tecnica del ritratto tanto più che i soggetti sono formati da linee profonde e da grandi spazi di demarcazione. Un certo richiamo alla composizione del passato in cui lo spazio era in promozione all’ampiezza del soggetto da rappresentare è di grande valore per la spiritualità umana. La sua ricerca è davvero moderna. Non si muove da passato, ma entra direttamente in empatia con i suoi soggetti che nascono dal suo presente. Vanno da sé anche le performances dell’artista in questi anni che hanno messo in evidenza la sua grande abilità nella tecnica del disegno. Così aveva fatto anche a Falconara Marittima (“Ancora brevi voli”, carboncino su carta) qualche anno fa, nella mostra omaggio presso il Centro di Documentazione di Ar-

te Contemporanea, dimostrando di essere un grande personaggio. E poi il suo linguaggio espressivo – classico e moderno – è diventato dialogo intenso, suggestivo ed eloquente a Castelbellino nel 2013 dove sono stati esposti più di trenta disegni provenienti anche dalla collezione Staurò di San Gabriele. L’artista emiliano è stato protagonista in prestigiosi spazi pubblici e privati come i musei d’arte contemporanea di Pechino, Tokyo, Buenos Aires, Shanghai, Kyoto, San Paolo, Città del Messico, Miami, Los Angeles, Parigi.

Andrea Carnevali, è giornalista e saggista ed ha pubblicato articoli, recensioni e saggi di arte di letteratura e di cinema.

3


Ferite intessute con il filo dell’arte di Gualtiero De Santi

Non appena ci si avvicini alla sala in cui quest’anno ha trovato accoglienza la collettiva degli artisti legati all’associazione “L’arte in arte” di Urbino (che dà comunque una visibilità a un gruppo umbro), si rimane abbracciati e in parte abbagliati dalla vivezza e intensità dei colori. E questo a malgrado che non tutti i partecipanti abbiano voluto far ricorso a tinte sgargianti (del resto al centro dell’esposizione, nel mezzo della sala, sta nella sua solitudine la piccola rappresentanza delle opere di Giorgio Bompadre), e nonostante che non tutti si siano voluti affidare a opere dipinte e a quadri e che la pluralità delle forme e dei materiali renda impossibile l’irrigidimento in un’unica o in una prevalente dimensione. D’altronde, il militare o lo stare almeno artisticamente in un’associazione implica, tutt’affianco alla pluralità dei linguaggi, una passione per l’espressione artistica che si esplica anche attraverso la risorsa di poterla vivere in una sorta di estensione, o almeno di confronto, condivisi e coscienti. Ancora, traslando un pensiero di Sartre, si potrebbe in più aggiungere che l’arte, nata dal pensiero e dalle diverse rappresentazioni che gli uomini fanno delle proprie esperienze, modifica lo spazio-tempo entro cui essa si determina e produce, e quindi anche gli ambiti in cui viene rappresentata e presentata. Nel nostro caso, l’ampia sala espositiva fa parte di un complesso commerciale che non è per nulla incongruo assegnare al genere degli ecomostri. Così, per il miracolo che l’accompagna, è proprio l’arte ad aver sospeso lo stato di barbarie che tali costruzioni prevedono. Il che non vuol dire che sia sottratta a un rapporto con la realtà, di cui essa non rappresenta un piano isolato o incidentale, ma invece un collegamentoalla sua più intima verità. L’arte è insomma azione creativa che modifica o redime il mondo esterno. Che sa offrire grazia persino alle orribili costruzioni in cemento armato o in calcestruzzo che i deliri di alcuni che ci governano intenderebbero eleggere a nuova misura di sviluppo. Ma tornando alla nostra collettiva, lambita e per così dire impreziosita dalle su citate opere di Bompadre e anche di Mario Logli, qui in qualità di ospite d’onore, vanno intanto rilevati esiti, nel loro carattere e limite, tuttavia singolari: quando attestati sul versante di una tradizione eletta (le ce-

4

Mostra collettiva dell’Associazione Culturale L’Arte in Arte URBINO, Centro commerciale “Consorzio”, dicembre 2013 gennaio 2014

ramiche e le porcellane di Giovanna Ucci Fabi) tanto quanto di una delicata sensibilità (i lirici acquerelli di Anita Aureli), quando dichinanti sia pure con spiccata originalità verso una sorta di omaggio al Novecento. Ecco allora i Moti Perpetui di Gianfranco Raimondi volti a echeggiare le ritmiche scansioni di un Magritte, il Mondrian ricomposto ermeticamente e anche ironicamente da Gianfranco Ceccaroli, o il Klee sidereo e cromato e colorato di Silvestro Castellani. L’onirismo astratto di Martha Belbusti si ritrova a dialogare con gli ectoplasmi di Marco Valdarchi o con i pastellati sfranti di Susanna Galeotti, la vena irridente e citazionista di Stefano Caffarri rinviene un qualche corrispettivo nelle sculture di Alessio Spalluto. Più un generale la scultura rileva un’angolazione europea con Regine Lueg, mostra un proprio utilizzo plastico-formale nei Globi di Antonio Giangolini, e si accende nella

vivacità cromatica e lanosa di Nazzarena Bompadre come altrettanto nelle variegate modulazioni di Guerrino Bonalana, una cui opera pittorica elaborata nel 2013, “Frattura rossa cucita con filo celeste”, potrebbe essere presa a emblema della mostra e in generale degli atteggiamenti espressivi dei molti partecipanti. Infine, sul piano di un ingaggio più sperimentale, si deve ricordare il rosso e violaceo materismo delle due opere esposte da Fulvio Paci; e il senso del limite che si ritrova alluso da nel pezzo unico proposto da Oliviero Gessaroli, “Anime del deserto”, dove metaforicamente giunge a strutturarsi e innalzarsi il varco che si presenta a chiunque voglia collocarsi di fronte all’espressione estetica.


Piccole sinfonie in bianco di Bompadre La temporalità corrompe le cose, rese tutte eguali, specialmente al giorno d’oggi, dall’equivalenza del denaro. Una tale usura e obsolescenza investe con le sue ragnatele anche il mondo e, in esso, le opere d’arte. Le quali già negli anni ’60, allorquando Giorgio Bompadre portava a segno la svolta fondamentale della sua carriera, stagliavano nelle forme e nei propri dispositivi la critica di quel loro alienarsi nel mercato e insomma nell’esteriorità, ma insieme configuravano un recupero e ritorno di un proprio originario sapere. La mano sempre aperta dell’artista – annota Rainer Maria Rilke in Sonetti ad Orfeo – vorrebbe in un tratto chiudersi e appunto sottrarsi al mondo, ma poi subito essa è afferrata dal destino. Rilke sta qui in consonanza con un Ezra Pound; ma non penso che una siffatta persistenza all’espressione e alla verità, anche aperta verso ciò che è trascendente, rimanesse estranea a Bompadre. Per meglio dire, non è da supporre che, azionando nelle proprie opere le “armonie celesti” e le “costellazioni” fantastiche, il nostro artista intendesse scindersi dal mondo: ancora che nuove tracce di uno sguardo dell’immaginario e dell’interiorità vorticassero in quei suoi fogli, abitati da un bianco che polverizzava ogni traccia residuale nella propria incandescenza. Qui, in questa ieratica e intensa personale a lui dedicata, nella quale sono raccolte e impaginate non troppe incisioni, ma tutte essenziali e significative, l’avvio cronologico è un foglio del 1963 in cui si recupera qualcosa del fitto intrico di segni appreso alla scuola di Arnaldo Battistoni. Il contrasto in parte ancora naturalistico e comunque terroso tra chiari e scuri, è l’attributo riconoscibile di una appartenenza. L’opera del resto reca nel titolo “Immagini della terra (Immagini marchigiane, omaggio alle Marche)”. Evidente la diserzione dai cataloghi della mera illustrazione, ma si intuisce e si vede con chiarezza che quel gusto e quel modo di punteggiare e rassodare le forme avevano già allora nel giovane Bompadre una ormai breve durata. Giusto in quei primi anni Sessanta il suo lavoro fece registrare la netta evoluzione da una struttura ancora legata a un telaio figurativo verso una sorta di dimensione mentale e intellettuale. Giacché quelle sue sperimentazioni, che comunque mantenevano il domi-

Inaugurazione mostra, da sinistra a destra: Gualtiero De Santi, Oliviero Gessaroli, Paolo Dottori, Pierpaolo Pagliardini, Maria Clara Muci

nio della scrittura e una forma a proprio modo classica, intendevano compiere un ben programmato appressamento alla più avanzata cultura figurativa del tempo come alle avanguardie d’allora (Santomaso, Pomodoro, persino Manzoni) basandosi sulla purezza delle cromie e su una materia delicata e preziosa. Al centro dell’opere bompadriana, l’abbiamo osservato, c’è una acuta riflessione sul bianco, che lo vede nell’identica schiera dei Malevic e dei Fontana; non già nel senso di alcuna contraffatta imitazione, ma invece di un condiviso spalancarsi del linguaggio sulle scene di una modularità stellare ed argentea. E nondimeno, la carpenteria di questo sistema, formale e diremmo anche figurativo, non si blocca in un’autosufficienza ontologica. Il fatto è che il segno prescrittivo che compete al linguaggio pittorico-grafico di Bompadre, intende pur sempre contrastare l’inadeguatezza delle scritture artistiche di fronte al mondo con quella “persistenza” che si apre alle largure di qualcosa che rimane “sovraumano”. Ma, come lo stesso Giorgio Bompadre ebbe modo di affermare in una sua dichiarazione rilasciata alla rivista urbinate “Ad Libi-

tum” nel 1967, quella interiorità costruttiva che le opere perseguivano doveva pur sempre elaborare una precisa coscienza del mondo. E d’altronde, quelle astrali cosmogonie – che inducono a pensare ad un Leonardo, ma anche a Leopardi e a Dante e insieme ai Klee e ai Mondrian del Novecento artistico – stanno conflitte tra una cadenza che è fisica, nei volumi nel movimento e nelle distanze, ma che è anche propria di una espressione pertinente al destino e al carattere. Sono, quelle di Bompadre, strutture eteree nelle quali entra però a vortice una certa idea e spazialità della natura e dove il tratto rigidamente intellettuale si liricizza nei punti di colore. Questo interviene ad es. nel Trittico del 1985; indi in un foglio del 1988, un paesaggio di “bianchitudine” che ha sotto sé un ventre verde e in alto filtrazioni d’azzurro; così parimenti nel “Canto notturno” del ’90. Tutte opere comunque identiche nell’intento di redimere la natura esiliata nell’imperfetto e minacciata dalla post-modernità.

Gualtiero De Santi, è saggista e studioso di Comparatistica. Tra i suoi interessi figurano infatti la letteratura, il cinema, la musica, la filosofia e ovviamente le arti figurative. Insegna all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

5


Microbiologia e beni culturali di Luigia Sabatini

Le opere d’arte, come tutti i materiali, sono soggette ad alterazioni; diventano cioè un “suolo” esposto all’azione dei fattori ambientali e al potenziale attacco da parte di organismi. Questi ultimi si definiscono “biodeteriogeni” in quanto dannosi ai fini della conservazione dell’opera. Il termine “biodeterioramento” indica “qualsiasi cambiamento indesiderato nelle proprietà di un materiale causato dall’attività vitale degli organismi” (Hueck 1965, 1968). Esempi sono lo sviluppo dei funghi sui libri, i danni da insetti su oggetti lignei nei musei, la crescita di piante su monumenti storici. I biodeteriogeni appartengono ai due gruppi in cui sono classificati gli esseri viventi: eucarioti (dal greco “vero nucleo”), comprendenti animali, piante e microrganismi le cui cellule possiedono un involucro nucleare che separa l’acido nucleico (DNA) dal resto della cellula e procarioti (dal greco “prima del nucleo”), cui appartengono Batteri e Archea, unicellulari con il DNA libero nel citoplasma in una regione definita nucleoide (fig. 1). La colonizzazione biologica implica l’utilizzazione del substrato “opera d’arte” come sorgente nutrizionale o l’uso del materiale quale supporto alla crescita. Un’importante distinzione utile nell’analisi del biodeterioramento è tra organismi autotrofi ed eterotrofi: gli uni sono capaci di produrre da soli le sostanze organiche necessarie alla crescita, gli altri devono assumerle dall’esterno. Gli autotrofi (cianobatteri, alghe, muschi, piante vascolari) colonizzano substrati inorganici, mentre gli eterotrofi (batteri, funghi, animali) possono crescere su tali substrati solo se c’è un apporto di sostanze organiche dall’esterno. Lo sviluppo di forme viventi arrecherà pertanto al manufatto artistico danni di tipo fisico, chimico, meccanico a causa dei prodotti del metabolismo, per effetto della penetrazione degli organismi o per modifiche strutturali dovute all’utilizzo della materia organica costitutiva. Oltre alla natura chimica dei materiali (organica, inorganica) sono da valutare i parametri chimico-fisici (pH, ossigeno, temperatura, umidità) e il clima (luce, vento, pioggia). L’aria veicola particelle di natura biologica, dette bioaerosol, che trasporta anche lontano dal luogo di origine, contribuendo così alla diffusione degli organismi

6

nell’ambiente e alla colonizzazione delle superfici. L’azione dei biodeteriogeni è possibile solo quando si creano le condizioni più adatte alle loro caratteristiche ed esigenze metaboliche e può pertanto essere prevenuta controllando e contrastando tali condizioni. Un esempio è l’ambiente umido che favorisce la crescita dei funghi. I biodeteriogeni sono numerosi, appartenenti a ogni tipo di organismo vivente, perciò nell’analisi delle opere d’arte sono coinvolte le discipline biologiche quali botanica, zoologia, microbiologia. Particolarmente importanti tra i microrganismi (dal greco mikrós “piccolo”) sono batteri e funghi, la cui caratteristica è avere dimensioni cellulari dell’ordine del micron (μm): un essere umano è più grande un milione di volte di un batterio lungo 1,5 μm! Essi svolgono un ruolo determinante nel degrado delle opere d’arte, principalmente di quelle i cui materiali costitutivi sono legno, carta, fibre vegetali (cotone, lino, canapa), materiali di origine animale (cuoio, pergamena). I batteri sono procarioti unicellulari di varia forma (sferica, bastoncellare, ricurva), con diametro di 0,1-1,5 μm e lunghezza 10-15 μm. Le cellule possono rimanere singole o aggregate tra loro in vario modo (a coppie, catena, grappolo ecc.) (fig. 2). La membrana citoplasmatica è circondata da una parete con funzione protettiva e meccanica, responsabile della forma. A causa della diversa composizione della parete si distinguono batteri Gram positivi e Gram negativi, in base al differente comportamento nei confronti della colorazione di Gram (ideata dal medico danese Christian Gram, 1884): i batteri Gram positivi appaiono colorati in blu - violetto mentre i Gram negativi in rosa. I batteri possono essere mobili per la presenza di ciglia o flagelli; alcuni producono spore come forme di resistenza a condizioni ambientali sfavorevoli, termostabili e durevoli nel tempo. La riproduzione avviene per scissione binaria; è molto rapida, generalmente ogni 20–25 minuti. Tra i batteri deterioranti i beni culturali situati all’aperto figurano i cianobatteri (alghe azzurre), fotosintetici, ubiquitari e adattabili a condizioni ambientali avverse. Poiché possiedono pigmenti, sulle superfici producono patine di vario

colore. I cianobatteri insieme alle alghe danno origine a colonizzazioni più o meno estese che, soprattutto in monumenti e manufatti all’aperto o illuminati artificialmente, non solo ne modificano l’aspetto estetico ma concorrono al deterioramento in relazione alle forme di crescita. Se proliferano in superficie gli effetti sono ricoprente e/o corrodente; distacchi e sollevamenti di scaglie del materiale si osservano nella crescita in fessure o cavità a contatto della superficie; l’azione deturpante invece è causata dallo sviluppo all’interno del materiale. Cianobatteri e licheni (simbiosi di funghi e alghe) sono frequenti sui monumenti in pietra esposti all’aperto e causano alterazioni cromatiche sulle superfici. Quando si sviluppano all’interno del substrato possono facilitare le infiltrazioni di acqua e danneggiarlo mediante produzione di acidi, in particolare quello ossalico che lega i metalli costitutivi il materiale dell’opera. Gli Attinomiceti sono batteri filamentosi, considerati simili ai funghi da cui si differenziano per l’organizzazione cellulare procariotica e il ridotto diametro dei filamenti (11,5 μm), non settati; si riproducono mediante spore asessuali o conidi prodotti dagli sporofori. Attecchiscono sugli affreschi e sulle pietre già deteriorate in condizioni di elevata umidità e abbondanza di sostanze organiche; degradano la cellulosa dei tessuti vegetali e le fibre di collagene costituenti il cuoio e la pergamena. La loro presenza si manifesta sotto forma di patine biancastre o bianco - grigiastre a volte confuse con efflorescenze saline (fig. 3). Un importante ruolo nel deterioramento dei beni culturali è svolto dai funghi o miceti che, grazie alla loro grande capacità degradativa, possono svilupparsi su quasi tutti i substrati. Nel mondo si stima esistano 1.500.000 di specie, di cui conosciute solo circa 80.000. Sono organismi eucarioti, produttori di spore, senza attività fotosintetica, con nutrizione per assorbimento, riproduzione sia sessuata che asessuata. I funghi comprendono lieviti (3 - 15 μm), cellule isolate rotondeggianti od ovalari e miceti filamentosi o muffe, multicellulari, costituiti dal micelio, aggregato di strutture filamentose e tubuliformi dette ife (diametro 2-10 μm). A occhio nudo le muffe appaiono come colonie di

Fig. 1 Cellule procariotiche ed eucariotiche

Fig. 2 Bacilli lunghi circa 5-10 µm al microscopio elettronico

Fig. 3 Attinomiceti su pergamena. Attinomiceti al microscopio


aspetto cotonoso, lanoso, vellutato, polveroso, spesso colorate per produzione di pigmenti; l’osservazione microscopica delle strutture riproduttive ne permette l’identificazione (fig. 4). Dei danni alle opere d’arte i funghi sono uno dei principali responsabili, grazie alla produzione di enzimi con cui attaccano i substrati per ricavarne sostanza organica necessaria al metabolismo. Se il materiale è legno esposto a specifici fattori chimici, fisici e biologici, un attacco fungino può causare danni di natura cromatica (funghi cromogeni) o strutturale (funghi della carie). Nel primo caso la colorazione, che va dal grigio all’azzurro al nero, in base alla localizzazione fungina sarà superficiale o profonda (“azzurramento”); nel secondo caso il legno perde massa e consistenza, presenta variazione di colore e delle caratteristiche fisico meccaniche. Nessun fungo può svilupparsi in legni interamente saturati dall’acqua che, non contenendo ossigeno, impediscono lo sviluppo degli organismi aerobi. Un esempio di biodeterioramento fungino sono le sculture in legno conservate in ambienti umidi, anche museali. Dai campioni delle opere di un noto scultore italiano prelevati per l’analisi microbiologica effettuata nel laboratorio dell’Università di Urbino sono stati isolati i miceti responsabili delle macchie colorate individuate sulle opere (fig. 5). Il restauro pertanto deve prevedere un trattamento biocida con prodotti specifici per gli organismi isolati, nonché un controllo dell’ambiente nel quale l’opera è collocata. I dipinti su tela sono anch’essi facilmente aggredibili dai funghi essendo costituiti da materiali di origine sia animale che vegetale, ottimi substrati di crescita per i microrganismi (fig. 6). La loro suscettibilità al degrado biologico dipende da vari fattori, quali composizione chimica delle fibre, caratteristiche strutturali del manufatto, temperatura e umidità ambientali. Gli stessi interventi di restauro possono aumentare la suscettibilità al degrado biologico, per esempio con l’uso di colle, utilizzate dai microrganismi come nutrienti, o con la conservazione sotto vetro delle opere, che causa la formazione di condensa. I microrganismi sono ubiquitari, pro-

ducono benefici per tutta la biosfera e “convivono” con gli altri esseri viventi. Tuttavia in diverse situazioni, riproducendosi, determinano danni alle piante, agli animali, all’uomo e ai suoi manufatti. È quanto accade nel bioderioramento del patrimonio artistico in cui, basandosi sulla conoscenza delle specie, dei processi metabolici e dei fattori ambientali, è possibile attuare misure capaci di limitare o eliminare i microrganismi.

Fig. 4 Lievito. Micete filamentoso

Luigia Sabatini, biologa area tecnico-scientifica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, si occupa di microbiologia diagnostica e sperimentale; svolge esercitazioni e seminari di Igiene e Microbiologia per gli studenti dei corsi di laurea in cui è prevista tale materia. Offre la propria collaborazione scientifica al corso di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali effettuando analisi microbiologiche sulle opere d’arte.

Fig. 5 Attacco fungino a sculture lignee

Fig. 6 Ritratto alterato da colorazione fungina

7


Studiare oggi gli scritti di Padre Alessandro Serpieri. Perché? E come? di Cesarino Balsamini

La storia urbinate del secolo XIX è oggi sostanzialmente sottovalutata e le fonti storiografiche documentali ad essa relative sono disperse in archivi e biblioteche, dove in qualche caso vi sono difficoltà di consultazione e rischi per la loro conservazione. In effetti i ricercatori hanno ancora molto da indagare su materiali storiografici relativi ai secoli aurei della città e promuovono ricerche in tale direzione. Nuove pubblicazioni sul Rinascimento urbinate, al quale è giustamente legata la fama della città, vengono frequentemente divulgate. Se non la celebrità e neppure i principali monumenti che la illustrano nel mondo, la condizione sociale, culturale, economica dell’Urbino di oggi deriva in gran parte da vicende molto più recenti, che hanno radici in avvenimenti conseguenti all’unificazione dello Stato Italiano. Importanti istituzioni cittadine: la Galleria Nazionale, l’Accademia di Belle Arti, le Scuole Tecniche, l’Accademia Raffaello, la Fondazione del Legato Albani, per ricordarne alcune, risalgono tutte ad iniziative che seguono il 1860. In questo periodo inizia ad ampliarsi la maggiore istituzione rivolta all’alta educazione ed alla cultura, la Libera Università Provinciale di Urbino, con la fondazione della Facoltà di Farmacia proprio nel 1860. Nei campi delle scienze esatte la città di Urbino, dopo l’inprinting di Piero della Francesca e di Luca Pacioli sulla corte montefeltresca e le attività della famiglia dei Barocci, pittori urbinati tra i quali lo straordinario Federico, attivi anche come scienziati e costruttori di strumenti scientifici, ha espresso nei secoli XVI e XVII personalità eminenti, quali i matematici Federico Comandino (1509-1575) ed il suo allievo Guidobaldo dal Monte, legato quest’ultimo alla scuola padovana di Galileo. Bernardino Baldi (Urbino 1553- Urbino 1617), più noto come umanista e biografo di Federico da Montefeltro, continuerà la tradizione degli studi matematici, che troverà importante finalizzazione nel 1636 nella fondazione di una cattedra di Matematica presso l’Università di Urbino da parte di Muzio Oddi (1569-1639). Un nuovo impulso alla cultura scientifica della città, che non avrà grandi rappresentanti tra la seconda metà del 1600 ed il 1700, verrà dagli studi di Fisica dello scolopio Cavallero nell’ambito delle Scuole Pie alla fine del ‘700. Nella tradizione dell’Ordine, ancora uno scolopio, padre Magherini, dà

8

lustro agli studi della Fisica in Urbino tra il 1832 ed il 1846. Altri interessanti scienziati, il friulano Giovanni de Brignoli ed il suo allievo Vincenzo Ottaviani, daranno contributi a ricerche in campo botanico, agronomico e medico: nel suo periodo urbinate, 18081816, de Brignoli, con l’aiuto del suo allievo, fonda l’attuale Orto Botanico dell’Università, istituendolo inizialmente per il Liceo cittadino. Il medico e filosofo urbinate Francesco Puccinotti (Urbino 1794-Firenze 1872), da considerare tra i fondatori della Medicina del Lavoro, è legato alla sua città di origine per il suo primo periodo formativo e per l’inizio della sua carriera accademica, che continuerà con successo nelle Università di Pisa prima e Firenze poi: questo grande scienziato e patriota manterrà con la sua città di nascita molti contatti. Così come in anni successivi capiterà ad Angelo Battelli, originario di Macerata Feltria ed allievo di P. Alessandro Serpieri in Urbino, che si affermerà negli studi della Fisica e nella politica come parlamentare. Lo scienziato, filosofo ed educatore che emergerà su tutti nell’Ottocento urbinate è proprio Alessandro Serpieri che, sebbene nato a S. Giovanni in Marignano nel 1823 da famiglia riminese, si formerà in Urbino nelle scuole scolopiche guidato da P. Magherini fino ai 15 anni. Dopo aver completato studi scientifici e teologici a Firenze e poi a Siena, dove contemporaneamente insegna filosofia al liceo dei Tolomei, tornerà ad Urbino a 23 anni come docente di Filosofia al liceo e come professore di Fisica alla Libera Università. Serpieri è quindi l’unico grande scienziato del 1800 che, formato almeno in parte nella scuola urbinate, svilupperà in Urbino tutte le sue molteplici attività scientifiche ed umanistiche per circa quarant’anni, al servizio della scienza, dell’educazione e della cittadinanza. Serpieri, pur mai dimentico delle sue origini riminesi, sarà urbinate autentico, rifiutando negli anni successivi alla sua consacrazione ad eminente uomo di cultura e di scienza trasferimenti a sedi più prestigiose. Aiutato in questo dal conforto di una meritata stima da parte degli urbinati e dell’intera comunità provinciale: a seguito della notizia di un suo possibile trasferimento, nel 1867 una delegazione di urbinati chiederà con successo al Provinciale degli Scolopi a Firenze di non procedere. Serpieri lascerà Urbino per Firenze solo nell’ottobre del 1884, dopo la statalizzazione del liceo Raf-

Alessandro Serpieri

faello, decisa dal Governo su pressioni delle autorità municipali di Urbino, non più negoziabile presso il Ministro dell’Istruzione Pubblica causa la contemporanea statalizzazione accordata al liceo fanese. Serpieri morirà dopo pochi mesi nel febbraio 1885 a Fiesole, dove era stato nominato Rettore della prestigiosa Abbadia Fiesolana. Sull’opera e sulla vita di questo ecclettico ed instancabile scienziato e religioso sono disponibili alcuni scritti, parte dei quali legati agli impeti celebrativi successivi alla sua morte: tra questi la biografia scritta dallo scolopio Giovannozzi nel 1886.1 In seguito il nome di Serpieri si ritrova in pubblicazioni scientifiche nelle quali, fino agli anni 1930, si citeranno i risultati delle sue ricerche. Anche Giovanni Pascoli, collegiale ad Urbino tra i 7 ed i 15 anni di età e profondamente influenzato dal Serpieri nella sua formazione, cercherà ed esaminerà a fine ‘800 opere del suo Rettore, in particolare Salmi scritti in varie occasioni, tra le quali la Prima Comunione del Poeta medesimo. Attorno al 1985, in corrispondenza del centenario della morte dello scienziato, articoli e biografie appaiono su va-


rie riviste.2 Attorno agli anni ‘90 Flavio Vetrano (oggi ordinario di Fisica e direttore del Dipartimento di Scienze di Base dell’Università Carlo Bo) ed suoi collaboratori, nel completare il loro importante lavoro di restauro e ricostruzione del Gabinetto di Fisica dell’Università, per la maggiore sua parte legato alle acquisizioni di Serpieri, documentano altri aspetti dell’opera dello scienziato con varie pubblicazioni e relazioni a congresso.3a-c Grazie a Serpieri dunque ed all’iniziativa del Prof. Vetrano l’Università e la città di Urbino possono vantare “Il Museo del Gabinetto di Fisica”, istituzione tra le più prestigiose in Italia per l’esposizione di strumenti del 1800. Dobbiamo essere grati alle sorelle Rosella e Silvia Persi per aver pubblicato nel 1998, finalmente in maniera integrale e con brillante saggio introduttivo, un diario giovanile del Serpieri: Appunti sull’educazione dei fanciulli in un Collegio.4 Quest’opera, che presenta i tratti della grande modernità e profondità delle concezioni educative di Serpieri, era stata oggetto nel 1885 di due diverse pubblicazioni postume, la prima incompleta e la seconda non priva di interventi censori. Negli anni 2000 non sono apparse in letteratura pubblicazioni con novità significative sull’opera e sulla vita di Alessandro Serpieri, certamente per un esaurimento delle risorse storiografiche. Questa situazione di inerzia potrebbe rapidamente cambiare, e già appaiono segnali in tale direzione,5 a seguito del rinvenimento nel 2011 da parte di Cesarino Balsamini e di Piero Paolucci, entrambi dell’Università di Urbino e nella specifica circostanza stimolati dal loro ruolo di Curatore e di Tecnico Osservatore dell’Osservatorio Meteorologico “A.Serpieri”, di una grande quantità di materiale autografo del Serpieri presso le Scuole Pie Fiorentine. Grazie ad un’ottima collaborazione stabilita con i dirigenti delle Scuole Pie, gran parte del materiale è stato prestato all’Osservatorio Serpieri in due fasi: nella prima sono stati fotografati e digitalizzati i registri perfettamente conservati dell’Osservatorio Meteorologico istituito dal Serpieri nel 1850, recuperando i dati fino al 1884 e ricostruendo l’intera serie storica meteorologica dalla fondazione ad oggi; sono stati acquisiti inoltre altri documenti importanti (un agenda del Sacerdote, quaderni di appunti di ricerca ed altro) per un totale di circa 6.000 pagine fotografate. Ventotto grandi qua-

derni contenenti dettagliati appunti di Fisica redatti dal Serpieri per le sue lezioni sono stati esaminati nei loro contenuti, registrandoli con notazioni utili per future consultazioni. L’occasione di questo primo prestito ha consentito di organizzare in Urbino nel giugno del 2012 una mostra documentale su P. Serpieri. Il successivo prestito di materiale dell’ottobre 2012 ha permesso di valutare scritti e documenti molto eterogenei: appunti per ricerche, manoscritti pronti per la stampa, molti dei quali inediti, documenti pubblici e privati che aprono una finestra importante sulla vita scientifica e personale di P. Serpieri. Citiamo tra i tanti: il testamento chirografico del Sacerdote, un inedito sul tema La civiltà specchio della Morale, una lettera del fratello Achille che gli riportava gli esiti del colloquio con il Ministro dell’Istruzione Pubblica in merito alla statalizzazione del Liceo Raffello, un plico con tutte le onorificenze ed i diplomi assegnati al Serpieri (si apprende ora che Serpieri era Accademico dei Nuovi Lincei), molti scritti scientifici, in particolare di fisica e matematica, scritti di teologia, filosofia morale, trascrizioni di discorsi pubblici e di omelie, e tanto altro. Sono state in questa occasione fotografate circa 7000 pagine ed è stato fatto un puntuale inventario di tutto il materiale pervenuto prima della restituzione agli Scolopi fiorentini. Restano nella biblioteca fiorentina documenti da esaminare pari a circa un quinto di quelli esaminati. Quando si trovano così repentinamente grandi quantità di fonti documentali si apre il problema di come consentirne l’accesso ai tanti studiosi interessati alla loro consultazione, fermo restando che esse sono collocate in una biblioteca di una scuola privata, consultabili quindi attraverso accordi ed appuntamenti. La biblioteca non ha personale fisso ma un unico responsabile, dedito peraltro ad altre attività. Solo un’archiviazione informatica razionalmente costituita e messa in rete potrebbe superare questo problema ed aprire a molti studiosi la possibilità di intraprendere ricerche in diversi settori. Di seguito tracceremo qualche esempio. Meteorologia • con l’ampliamento della serie storica di Urbino (località climatica di particolare interesse per posizione) e con la sua completa ricostruzione si potranno avere elementi di riflessione sulle ciclicità del clima. I dati so-

Diploma Accademia di Lione, per concessione dell’Archivio Serpieri delle Scuole Pie Fiorentine

no stati rilevati con estrema cura scientifica dal 1850 ad oggi e rappresentano un grande potenziale per le attuali ricerche sul clima. Quando la serie storica dei dati sarà completamente validata e trascritta su adatta applicazione informatica potrà essere messa a disposizione dei ricercatori e si potranno conoscere le condizioni meteorologiche della città di Urbino nel periodo 18501884. Storia ed Epistemiologia della Scienza • nuovi studi possono riguardare le metodologie di ricerca dello Scienziato tratte da appunti di laboratorio, con approfondimento di ciò che già traspare dalle pubblicazioni ufficiali; • si potrà meglio collocare lo Scienziato nelle vicende scientifiche dell’Ottocento, in particolare: sull’emergente esigenza di bilanciare studi applicativi e studi di base, sulla sua posizione in merito alle teorie evoluzionistiche e più in generale sui rapporti tra la fede e la scienza e sul concetto di estetica nella scoperta scientifica. Fisica, Astronomia e Matematica • molto del materiale, ad un primo esame da parte di alcuni ricerca-

9


tori di queste discipline, è stato considerato interessante per studi sulla storia di queste scienze. Botanica e Biodiversità • la classificazione della flora del bacino del Metauro e quella della flora del Catria, definita quest’ ultima dal Serpieri in base all’altitudine, potrebbero consentire studi attraverso comparazioni con la flora attuale, sulla conservazione dell’ambiente e su variazioni del clima. Studi Teologici e di Scienze religiose • le fonti recuperate: saggi, discorsi e omelie, sveleranno il pensiero di una grande personalità cattolica dell’800, impegnata tra scienza e fede, con riflessi sull’attualità del grande dibattito che si sviluppa nella società europea attorno a questi temi. Letteratura • la disponibilità di nuove fonti documentali amplia la conoscenza, per ora valutata su base deduttiva, dell’influenza che il Serpieri ha avuto sul suo allievo Giovanni Pascoli, direttamente od indirettamente, nel periodo della sua formazione giovanile. Il prof. Ritrovato6, docente della Carlo Bo e studioso del Pascoli e della poetica pascoliana, ha già esaminato fonti documentali provenienti dal materiale rinvenuto a Firenze che dimostrano come il mito del fanciullino, che caratterizzerà una delle fasi creative più importanti della vicenda poetica Pascoliana, sia legata a ricordi di precise attività tipiche del modello educativo del Serpieri, espresse attraverso l’uso di termini scientifici (astronomici, meteorologici e botanici) appresi durante attività svolte a stretto contatto con lo Scienziato. Educazione • Padre Serpieri è stato riconosciuto in vita come grande figura di educatore: valutazione basata sulla sua opera e i suoi risultati più che su documenti o scritti ad essa relativi. Serpieri ha esposto pubblicamente i suoi principi educativi solo attraverso alcuni discorsi tenuti in ambiti celebrativi, dei quali sono stati rinvenuti ora i manoscritti, ed in commissioni didattiche di livello nazionale, nelle quali era chiamato a conferire il contributo della sua esperienza. Nel diario precedentemente citato, tenuto nei primi anni della sua opera educativa (1848-1850) e pubblicato postumo, Serpieri aveva riflettuto ed elaborato principi ai quali poi si ispirerà senza deroghe. Tutti gli altri scritti, compreso il manoscritto dell’interessantissimo galateo La civiltà Specchio della Morale, erano fino ad oggi sconosciuti: esperti di pedago-

10

gia e di sistemi educativi potranno studiare l’intero corpo di questi scritti per mettere a fuoco valori e strumenti da eventualmente riconsiderare nella formazione dei cittadini di oggi. In conclusione: Padre Serpieri, Accademico dei Nuovi Lincei, è stato autore nella seconda metà del 1800 di studi scientifici ed umanistici molto noti in Italia ed era in corrispondenza con molti scienziati europei. Testimonianza ne sono le onorificenze assegnategli da importanti accademie francesi, l’introduzione nei Licei germanici di un testo di Fisica da lui scritto, le versioni in francese e portoghese di altri testi e di altri contributi didattici. La figura di questo tardo epigone dei grandi geni del Rinascimento italiano dovrebbe, a nostro avviso, essere ripresa e riproiettata a livello europeo, in quell’Europa nella quale si era già fortemente affermato in vita con le sue scoperte scientifiche e per la sua inimitabile capacità didattica. Bibliografia 1) G. Giovannozzi, Della vita e delle opere di P.Alessandro Serpieri, Tipografia Calasanziana, Firenze 1887. 2) M.S. Sibella, Anticipazioni attorno ad un anniversario: la figura e l’opera di Alessandro Serpieri, Ricerche, Bollettino quadrimestrale degli Scolopi italiani, n.3, pp.324-5, Firenze 1984. 3) aF. Vetrano, Il Gabinetto di Fisica dell’Università di Urbino: la sua storia, il suo museo. Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1996. b R. Persi, Alessandro Serpieri. Un riminese tra storia, scienza e politica scolastica di metà Ottocento. Bruno Ghigi Editore, Rimini 1996. c O. Girelli, Urbino e il Collegio Raffaello 1705-1884. Cap. V: Alessandro Serpieri Rettore del Convitto Raffaello di Urbino, Editrice Montefeltro, Urbino 2011. 4) A. Serpieri, Appunti sul sistema di educazione in un Collegio (18491850). A cura di Rosella e Silvia Persi, AGE Srl, Urbino 1998. 5) P. Alessandro Serpieri, La civiltà specchio della morale, a cura di L. Bravi, P.G. Rocchiccioli e C. Balsamini, Age Srl, Urbino 2013. In appendice : P.G. Rocchiccioli, P. Alessandro Serpieri, cenni biografici. 6) Vedi nota 4c, Cap. VII. Giovanni Pascoli, allievo del Collegio Raffaello.

Diploma Accademia dei Nuovi Lincei, per concessione dell’Archivio Serpieri delle Scuole Pie Fiorentine

Cesarino Balsamini Prof. Ass. di Chimica Organica. Curatore dell’Osservatorio Meteorologico “A.Serpieri”, Facoltà di Farmacia, Università “Carlo Bo”di Urbino.


La poesia della resistenza e la nuova incisione Valerio Volpini e Arnaldo Battistoni di Gastone Mosci

I testi di Valerio Volpini (Fano 19232000) dedicati alla poesia sono due: nel 1947 la cartella d’arte fanese “Undici poesie di Valerio Volpini / Undici incisioni di Arnaldo Battistoni” e nel 1949 la plaquette “Barbanera” con la presentazione di Carlo Bo (19112001) e una acquaforte di Arnaldo Battistoni (Fano 1921-1990) nelle edizioni della Scuola del Libro. Volpini e Battistoni collaborano intensamente. L’opera prima di tutti e due, 1947, registra un poeta nuovo ma anche un incisore ancora inedito che ha concluso molto bene la Scuola del Libro. Nel periodo bellico frequentano entrambi Urbino: Volpini studente di Carlo Bo e Battistoni di Leonardo Castellani. Volpini si interessa di letteratura e legge i poeti fiorentini, Battistoni respira l’aria nuova della grafica ed è attratto da Morandi. Nel corso dei loro studi, arriva il 25 luglio 1943, l’arresto di Mussolini e la caduta del fascismo, poi l’8 settembre con il cambio delle alleanze militari: gli italiani si accordano con gli Alleati, i tedeschi occupano l’Italia e danno vita ad una repressione senza scampo. La scintilla dell’opposizione e della libertà s’infiamma e anima la resistenza armata. Volpini è attratto da quel contesto e, ventenne, va subito in montagna nell’Appennino di Cantiano insieme all’amico Aldo Deli. La poesia di Volpini nasce nel luogo della lotta, dei conflitti, dei lutti, dell’erranza e si nutre di quella esperienza, di quella cultura tesa verso la libertà, verso l’umanità della convivenza umana e il desiderio della pace. Volpini e Battistoni realizzano alla fine della guerra - undici poesie e undici incisioni - una plaquette originale nella confezione, di particolare qualità nelle stampe calcografiche, con poesie scritte fra il 1944 e il 1947 all’insegna dell’aforisma di Paul Valéry “... il faut tenter de vivre”, posto in esergo. Una edizione d’arte nuova nella presentazione, povera ma autorevole, in trenta esemplari, carta paglia, una poesia e una grafica nello stesso foglio, realizzata nei laboratori della Scuola del Libro, con l’indicazione di alcune poesie uscite nelle riviste il “Gallo” di Genova e “Ricerca” di Roma, di giovani cattolici democratici. Vi sono due indirizzi creativi: la poesia d’amore, “Canto per G*”, Gabriella, la sua ragazza, poi moglie, un testo d’ironia e di passione, e la poesia della Resistenza, “Ricordo”, dedicata al martire Giannetto Dini, un giova-

ne fanese originario di Macerata Feltria di 17 anni fucilato barbaramente a Massa Lombarda da fascisti e nazisti insieme al suo compagno urbinate Ferdinando Salvalai di ventidue anni. Per il resto si tratta di poesie legate all’ambiente, ad altre occasioni, di intensità e partecipazione amara, a leggerle settant’anni dopo la loro composizione. Il dialogo fra il poeta e l’incisore è serrato, procede con lo stesso sentimento di autonomia e di convergenza sui valori della poesia e della grafica. Delle undici poesie della prima pubblicazione molte vengono riproposte nella edizione ufficiale presentata da Carlo Bo, “Barbanera”, sulla quale rimandiamo al saggio “Valerio Volpini poeta civile”, in quanto sono composizioni d’ambiente (Canzone per G*, Fiaba, Tramontana, Casa di campagna, Fantasmi dedicata a Cesare Moreschini, Barche al meriggio) con acqueforti martoriate dalle morsure, segni profondi e descrizioni palpitanti. La poesia “Il sorbo nell’uliveta” è acccompagnata da una incisione che piaceva molto a Morandi, faceva sapere Battistoni a Volpini; l’ultima della plaquette, “Assisi”, è dedicata a Leopoldo Elia alla fine del passaggio del fronte. Volpini intuisce l’espressione della poesia legata alla Resistenza: non è sempre poesia di lotta e di sangue, ma anche di amore per la natura, per il paesaggio, per l’ambiente, beni irrinunciabili come la libertà, il dialogo, l’amore dei “ribelli per amore” e l’amore di chi ama la propria donna. La poesia è la narrazione di quanto avviene in montagna e nella vita, in quel contesto storico, con la consapevolezza che la natura non è una cornice ma l’essenza che partecipa alla esistenza delle persone. Una plaquette (cm. 36x21, con 12 fogli e custodia) di trenta esemplari numerati e poche pda, distribuita agli amici ed ai coetanei addetti ai lavori artistici. Prestissimo esaurita la disponibilità e dimenticata dagli autori. L’ho riproposta in occasione del Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” sul blog Fano Città, www.fanocitta,it (luglio e agosto 2013).

Gastone Mosci, docente universitario in pensione. E’ stato redattore della rivista “Il Leopardi” (1974-1975), direttore de “Il Nuovo Leopardi” (1982-1997), nella redazione di “Hermeneutica” (1981 ss.), nella redazione de “Il nuovo amico” (1984 ss.) ed ora direttore del blog www.fanocitta.it

11


Il partigiano nel forno di Francesco Colocci

Storie (vere) rusticane nei dintorni di Urbino Erano i giorni instabili di aprile (1944) quando si riprendono i grandi lavori della campagna ma non è ancora tempo di tagliare il fieno. Si interrano intanto i semi nelle piccole serre per trasferire poi le giovani pianticelle nello spazio aperto del campo appena la temperatura si stabilizza su valori compatibili. Quel mattino sembravano gravare, come sospese minacce, i nuvoloni neri che velocemente percorrevano il cielo di Ca’ Berardo, diretti ad oriente, verso quel tratto limitato dell’orizzonte su cui si stagliava, contro luce, la solitaria chiesetta rustica di Santa Maria in Spinateci. Fin dalle prime ore del mattino, le oche, uscite in branco dal recinto, starnazzavano inquiete su e giù per l’aia, attorno al pozzo, sotto l’immane quercia al confine del prato, come se cercassero di attirare l’attenzione o fossero presaghe di prossime sciagure. Gli altri animali erano invece quieti. Donne e uomini attendevano al lavori della campagna che già mostrava i segni evidenti del rigoglio che sarebbe esploso in tutta la sua magnificenza di lì a qualche giorno. I ragazzi più grandicelli erano alla scuola elementare presso la sede parrocchiale di San Giovanni in Pozzuolo distante tre kilometri di strada interpoderale in terra battuta che gli studentelli percorrevano ogni giorno a piedi con le cartelle di legno dietro le spalle, a zaino. I più piccoli razzolavano come le galline nel cortile di casa sotto il controllo blando dei nonni e di tutti coloro che, per esigenze di lavoro, dovevano rimanere nelle vicinanze. Ai campi un po’ più lontani, assieme agli uomini che già cominciavano a tagliare il primo fieno benché immaturo ma vigoroso ai margini del bosco con la falce fienaia (la “falcnera”), era andato anche Giovanni, un partigiano jugoslavo che aveva disertato l’esercito regolare e si era messo con le bande organizzate che combattevano tedeschi e fascisti. Non aveva a che fare con i comunisti di Josip Broz Tito ma neppure con i monarchici. E tuttavia era segnalato come pericoloso comunista sovversivo. Disperso dopo un feroce rastrellamento nella zona costiera, era arrivato nel territorio interno e si era diretto, alla cieca, verso i monti. Così era giunto a Ca’Berardo senza sapere dove fosse, quasi assiderato, una buia e nevosa notte di febbraio. A-

12

veva attraversato campi, fossi, dirupi braccato dai fascisti cui però era sfuggito facendo perdere le proprie tracce perché si era infilato dentro boschi e piantagioni senza riemergere mai sulle strade percorribili dai mezzi militari. Strisciando così ai margini delle zone coltivate e trovando costantemente rifugio nel fitto della macchia, aveva percorso una infinità di kilometri in direzione sud, il più lontano da quella che sarebbe stata la linea gotica. Ormai era stremato dalla fame e dal freddo. Abbandonata ogni velleità di farcela da solo, era disposto a tutto pur di non cadere nelle mani dei tedeschi. Quella notte, sabato 5 febbraio 1944, memorabile per Giovanni, si era deciso a bussare alla casa contadina che distava di meno dal margine del bosco e dalla posizione che aveva raggiunto. Non conosceva che poche parole in lingua italiana ed era ben consapevole di rischiare la vita se avesse trovato persone ostili. Aveva però una buona speranza basata su esperienze precedenti: i contadini pur essendo poveri e stretti nella morsa della paura di essere a loro volta denunciati, difficilmente avrebbero rifiutato una richiesta di soccorso ed inoltre, nella stragrande maggioranza, erano intimamente avversi alla violenza della guerra e del fascismo. Così si fece coraggio. Si avvicinò guardingo alla casa e s’infilò dietro un carro agricolo, ai margini dell’aia. Di lì potè osservare, con senso di sollievo,il vacillante lume della lampada a petrolio ed intravedere, dietro i vetri affumicati ed opachi, il movimento di almeno due giovani donne, una robusta ed alta, l’altra decisamente più minuta e bassa. La scena, pur imprecisa, gli apparve tanto rassicurante da immaginare, per un attimo, il senso di quell’andirivieni come se osservasse un’azione teatrale occhieggiando da uno spiraglio del sipario. Il punto di vista gli sembrò tanto inadeguato che subito si portò più vicino, nei pressi del cancello malandato della loggia d’ingresso. Si muoveva benissimo al buio come un felino e sapeva far tesoro persino del peso delle ombre e dei chiaroscuri della notte o del lucore riflesso della neve. Improvvisamente avvertì forte il senso della fame e del freddo intenso. E tuttavia non sapeva come fare percepire la sua presenza senza impaurire quella gente pacifica e raccolta nell’ultimo rito della faticosa giornata. Racimolò tra la neve un sasso e provò a battere nel-

Ca’ Berardo, 1984

Chiesa di san Giovanni in pozzuolo

le barre di legno del cancello a forma di palizzata. Nessuno rispose. Riprovò più forte e finalmente qualcosa sembrò muoversi. Dovette ricredersi. Stava per abbandonare il sasso ed emettere un grido qualsiasi ma si fermò. Picchiò ancora nel cancello con maggior vigore ad intervalli più lunghi. Finalmente si aprì la finestra dalla quale spioveva la debole luce che subito disegnò un riquadro più netto nella strada coperta di neve. Si affacciò un uomo che Giovanni, in controluce, non poteva distinguere. “Chi è là?” – scandì l’uomo affacciato. Giovanni, senza rispondere, avanzò di un passo. Si mise dentro il cono di illuminazione e volle mostrarsi interamente per chiarire subito che non veniva per minacciare. Per quanto spaventevole fosse il suo aspetto, l’interlocutore muto, dalla finestra, ben poteva distinguere che non si trattava di

un bandito se non altro perché disarmato, cencioso, imbrattato come il più miserabile dei mendicanti. Quasi un “ecce homo”. Non pronunciò una sillaba anche perché non sapeva ancora se potersi fidare. L’uomo chiuse la finestra. Giovanni però attese. Gli pareva impossibile che si potesse liquidare uno sciagurato nelle sue miserevoli condizioni. Poco dopo intravide una fiammella vacillante retta da un giovane contadino che scendeva lungo la scala dietro la cancellata. Giovanni si avvicinò d’istinto. Senza aprire il cancello, il contadino alzò il lume fumigante a petrolio e rischiarò un poco il volto dell’ospite. Giovanni intuì che non c’era ragione di temere: “Io essere jugoslavo di Molat” – disse con accento malsicuro – io essere disertore. Me caccia fascisti. Avere fame e grande stufo e fredo, grande fredo”. Giovanni si era addossato ancora


di più al cancello di legno “Noi siamo poveri contadini – rispose sbrigativamente l’uomo – ma abbiamo un po’ di pane anche per chi ha forse più bisogno di noi e magari un bicchier di vino”. I due sorrisero appena. E furono subito amici tanto da condividere il dolore atroce di quella guerra che assurdamente uccideva lo spirito umano in ogni parte del mondo. Giovanni era entrato a far parte della famiglia in attesa di tempi migliori e nella speranza di potersi ricongiungere ai suoi che vivevano nella remota isola di Molat, non molto distante da Zara. Intanto aiutava nei lavori agricoli anche per ricambiare ed esprimere gratitudine per l’ospitalità che sapeva essere assai pericolosa. Quella mattina di aprile, si era sparsa rapidamente la voce per le campagne di S. Giovanni in Pozzuolo, che i tedeschi stavano organizzando un rastrellamento su larga scala e controlli meticolosi nelle case sparse dei contadini. Sospettavano – correva voce – che vi si annidassero quelli che nei loro manifesti definivano “banditen”, in altri termini i partigiani. Ben sapevano gli occupanti tedeschi quanto fosse forte il sentimento antifascista tra i contadini che pure erano lontani anni luce da ciò che poteva indicarsi come attività politica. L’imminenza del pericolo aveva fatto scattare un rapido tam tam per le campagne. L e donne, spaventate dalle immagini truci delle rappresaglie di cui si raccontava, lasciarono il lavoro dei campi e tornarono a casa nella generosa convinzione che la loro presenza potesse scongiurare gli oscuri pericoli che sembravano minacciosamente addensarsi. Giovanni, per primo, sapendo di essere non solo il più esposto anzi la preda della caccia ingaggiata dai tedeschi ma anche la dimostrazione palese di “complicità” della famiglia ospitante, immediatamente decise di togliersi di mezzo e di fuggire. Diversamente i tedeschi avrebbero potuto fare una carneficina per rappresaglia. Il capofamiglia però lo rincorse e lo fermò. Si consultò con le donne e tutti, deliberatamente, preferirono il rischio alla sicura cattura dell’ospite. Certamente lo avrebbero preso perché aveva poco vantaggio, perché i tedeschi erano inferociti per l’esito fallimentare del richiamo alle armi lanciato dai repubblichini e perché questa volta setacciavano i boschi con un branco di cani addestrati a sbranare le vittime. Giovanni in-

sistette. Meglio uno che il rischio di tutti. “Loro volere solo me – si ostinava a dire – io avere colpa. Voi essere buoni”. Ma non ci fu verso. Non lo lasciarono partire. Nessuno pensò più alla paura ma solo ad una difesa efficace per superare la tremenda prova del rastrellamento. Era necessario nascondere accuratamente Giovanni. Provarono un nascondiglio nella stalla poi tra il fieno nella fitta trama di un pagliaio attraverso un varco ritagliato con apposito falcino verticale ma ogni volta scoprivano un aspetto debole o una carenza che avrebbe potuto essere fatale. Pensarono al pozzo dell’acqua piovana profondo cinque metri ma sarebbe stato necessario un meccanismo per riemergere nel caso avesse dovuto sparire sott’acqua ove i tedeschi lo avessero ispezionato. Ad una ad una, sembravano svanire le soluzioni ipotizzate. Così Giovanni andava rafforzandosi nella sua originaria convinzione di non disporre se non della possibilità della fuga per quanto temeraria potesse apparire. Ad un tratto le donne ebbero una intuizione: “Lo cacciamo nel forno!!” suggerirono e quasi gridarono con quel senso di sollievo che prova il derelitto quando, all’ultimo istante, afferra un appiglio. Il forno era ancora tiepido per la panificazione della sera precedente. Lì per lì, Bernardino, il capofamiglia, rimase interdetto. Il forno infatti era dentro il loggiato d’ingresso all’abitazione. I tedeschi sicuramente sarebbero arrivati fin lì. Dunque sarebbe stato inutile. “Ma no! – esclamò come per una improvvisa illuminazione – la bocca del forno è così stretta da escluderne l’uso come nascondiglio almeno per la dimensione di un adulto. E poi il fatto che si trovasse quasi dentro casa avrebbe potuto essere un vantaggio. Infatti nessuno nasconderebbe un ricercato nel posto più vicino e di immediata visibilità. “Va bene, - concluse Bernardino – va bene il forno. Adesso, Giovanni, - scherzò quasi divertito rivolgendosi al partigiano – il forno è pronto per la cottura: ti inforniamo prima che si raffreddi!”. Giovanni, questa volta, non si fece ripetere l’invito. Tolse dai piedi un groviglio di lacci che tenevano insieme dei pezzi di cuoio che forse, una volta, erano un paio di scarpe. Salì su di una scaletta di legno, spinse i piedi in avanti e si sdraiò come in un triclinio romano. Poi tentò di assottigliarsi contorcendosi con il movimento della biscia soprattutto per far passare le

Gemma e Bernardino due dei protanisti

spalle. Finalmente si ritrasse a modo del lombrico quando urta un oggetto estraneo o sospetto. “E non fiatare! “, ammonì il capofamiglia prima di accostare il coperchio di ferro alla bocca del forno. Tutti tornarono alle occupazioni consuete come se nulla fosse accaduto. Se mai fossero arrivati i tedeschi, non doveva trapelare neppure l’ombra delle preoccupazioni dei preparativi di difesa. Verso mezzogiorno, l’abituale silenzio musicale della campagna fu rotto dal rombo minaccioso di tre motociclette militari tedesche che percorrevano, dentro una nube di polvere, l’ultimo tratto poderale di collegamento con “la strada maestra”, come dicevano i contadini riferendosi alla via principale custodita dai cantonieri. All’arrivo dei tre mostri rombanti, le oche sull’aia schizzarono starnazzando e svolazzando all’impazzata in direzioni diverse e si ricomposero poi lentamente, in branco irrequieto, lontano dal pericolo. Ridicoli i tedeschi, perché impolverati come mugnai, scesero dalle motociclette impugnando le armi, abbaiando, nella loro barbarica lingua nazista, qualcosa che nessuno riuscì a capire ma di cui non poteva sfuggire il tono perentorio e minaccioso. I contadini infatti capirono soltanto la parola “banditen”e l’altra ancora più lugubre e terrificante “caput”. Era – pensavano terrorizzati – la resa dei conti, forse il preludio della fine. Era evidente che non stavano scherzando. Armi spianate percorsero il perimetro della casa, penetrarono nell’abitazione, spalancarono con violenza ogni stanza, esplorarono la stalla delle mucche, la cantina, il magazzino, la loggia dove si custodivano gli attrezzi agricoli, saggiarono i pagliai. Entrarono nella stalla delle pecore e poi dei maiali incuranti del fetore e dello sterco sparso ovunque ed, in fine, inspiegabilmen-

te, tornarono nella loggia dell’ingresso dove era il forno. Frugarono tra le tavole riposte a catasta, guardarono sotto il grande telaio al quale lavoravano, a turno, le donne, scrutarono il mucchio di canapa cardata, esaminarono la legnaia proprio a ridosso del forno. Erano ormai ad un metro dal ricercato. Sarebbe bastato un respiro più forte, un colpo di tosse e l’avrebbero acciuffato con tragiche conseguenze per tutti. Improvvisamente l’ufficiale di pattuglia richiamò i sottoposti e come erano venuti sparirono in un nuvolone di polvere. Giovanni era salvo. Con lui la generosa famiglia che l’ospitava. Festeggiarono subito con un bel bicchiere di fresco bianchello anche per rintuzzare gli esiti della paura e della tensione. E tutto tornò rapidamente alla normalità come vuole la sobrietà contadina. Urbino, 12 maggio 1995. Franciscus urbinas scripsit

Francesco Colocci, studi classici, laureato in filosofia con Livio Sichirollo, Italo Mancini, Bruno Gentili, docente di lettere nella scuola media e media superiore, giornalista dal 1976 ha collaborato con il Corriere adriatico, La gazzetta di Pesaro, Il messaggero. Consigliere comunale a Urbino dal 1999 al 2004 e presidente commissione cultura e turismo.

13


Il capolavoro del 1953 di Maria Lenti

Angelo Maria Rossi. Medico condotto. Targa in ottone luccicante, sulla porta dell’abitazione-ambulatorio, nella piazza del paese. Un paese spalmato su una collina, alle spalle un’altura rocciosa: le giornate seguono il loro corso, costanti nel tono, nel tenore, nella durata, nel “basso” immutabile. Il centro più vicino a venti chilometri di strada sterrata. Una corriera a nafta dal muso lungo: partenza alle sei di mattina, ritorno alla sera. Segmento alba-tramonto, insomma: come per i paesani, per lo più lavoranti in campagna, e come per gli artigiani nei vicoli dal ritmo rassicurante nella loro manualità. Una piazza quadrangolare: vi spiccano la fontanella-vasca, l’ufficio postale e quello del centralino telefonico, il palazzotto dell’unico proprietario delle terre attorno per ettari e ettari (nonché sindaco), la chiesa rimaneggiata ma dignitosa nel mattone a vista, il municipio bianco. Lampadine di poche candele per l’illuminazione pubblica. Nelle case, per lo più, lampade ad acetilene o a carburo. Caserma con due carabinieri. Un prete di buona volontà, prodigo di parole consolanti su ciò che non va, sulla necessità di sopportare. Tre pluriclassi alle elementari. Segretario comunale e famiglia. Modesta abitazione, annesso l’ancor più modesto ambulatorio, per il medico condotto, con tanto di Fiat “topolino” per le chiamate urgenti fuori abitato. Sono io il medico, Angelo Maria Rossi. La cui storia più significativa – ché il seguito ne fu stretta conseguenza –, rievocata in queste pagine, cioè al limitare ultimo della vita, culmina nei trentuno anni, compiuti a gennaio del 1953. Bocciato al concorso per la docenza universitaria dopo due anni di sedulo assistentato volontario, superato bellamente da altri nella graduatoria ospedaliera, in rotta non rimediabile, definitiva pertanto, con i miei anziani genitori, che da impiegati comunali benestanti avevano riposto ogni speranza sul figlio unico dottore, avevo lasciato baracca e burattini, avevo sposato in fretta, più che obtorto il loro collo, Luisa – ventunenne buona come il pane, troppo buona, figlia senza padre della nostra donna di servizio defunta mesi avanti, ragazza sprovveduta adorante “il suo dottore” – ed avevo cercato a gennaio una condotta isolata, la più lontana dalla mia città grande, sparsa in una pianura che terminava soltanto all’orizzonte. Fino a luglio fui un po’ catturato dal saliscendi delle colline, meta di passeggiate da pensatore dell’Ottocento con tanto di cappello e di bastone. E dalla mia professione, svolta con serenità: le visite mi trovavano sempre ben disposto e l’affidamento dei pazienti, per consigli peraltro, al “dottore” solleticava il mio amor proprio. Ero più che animato e proteso verso i bambini, la cui guarigione era uno stimolo a fare del mio meglio, primo gradino per risultare bravo, soprattutto. L’esito positivo della vaccinazione antivaiolosa – nessun bambino aveva avuto complicazioni – aveva scatenato complimenti a non finire. Ero sembrato un novello Edoardo Jenner, una cui statua era riprodotta nel sussidiario degli scolari! Poi…il cielo della novità cominciò a ingrigirsi in una monotonia impari a qualsiasi pazienza, superiore ad ogni capacità di sopportazione. Anche nei rapporti con mia moglie. Io non la cercavo più. Non la desideravo più. Né avevo mire su altre, su un’altra. Le delusioni, che mi avevano spinto alla schiena verso la fuga, riprecipitavano nelle mie vene. Le percepivo, prepotenti, scorrere su e giù. Mi rodevano lo stomaco e le viscere. Le notavo nella sottomissione di Luisa: piegata sul compatimento e sull’attesa di un mio gesto, incapace di farne uno di suo, persino d’amore, che mi scuotesse, aspettava da me il primo cenno in ogni cosa, in ogni passo, in ogni occorrenza. Mi girava intorno, falena assillante e, in verità, molesta. Le ambizioni vissute nella fantasia dall’adolescenza alla gioventù, il brillante futuro sognato e perseguito con accanimento all’università, quel camice candido da primario in sala operatoria covato come un tesoro, come un pavone davanti alla sua ruota, …tutto svanito. Sommerso dal crollo, ero immerso in una sconfitta. Non ho mai permesso che si assistesse a una mia sconfitta. Fin da ragazzino, perdendo al gioco con i miei coetanei, reagivo in maniera spaventosa. Urlavo tanto da incutere terrore: si allontanavano gli astanti, i piccoli scappavano. Innervati nelle mie fibre, quei moti spontanei sono divenuti, pur silenti, evidenti

14

Anita Aureli, “Donna con rose”

nel mio crescere: infatti, non ho mai avuto troppi amici, in ogni caso non amici fidati, intimi. Era, anzi, manifesto un buon slargo, suscitato da quanto il nostro io emana di sgradevole mettendolo fuori inavvertitamente, tra me e gli altri. Subodorando la mia protervia interiore, compressa, il mio senso di autosufficienza, mi lasciavano al mio carattere, alla mia non ammessa (da me) solitudine: la non competitività favoriva, la cosa andava da sé, il primeggiare, la distinzione nelle diverse situazioni. Non fu difficile progettare la “fuga” di Luisa, rimprovero muto ma personificato del mio insuccesso. Durante le visite alla moglie del tenente, alla sorella del parroco, alla signora del “signore delle terre”, davanti alla tazzina del caffè, al bicchierino di alchermes o di rosolio alla menta, nauseanti al mio gusto perché fatti in casa come i biscotti, mi adoperai affinché Luisa desse l’impressione di avere amnesie. La tal cosa? Rimbeccavo dolcemente, dolcissimamente la correggevo: non era andata come lei sosteneva. All’occorrenza, quindi: « Hai lasciato il rubinetto del lavandino aperto? » Inutile il suo “no”: il giorno successivo tutti sapevano che un intero pomeriggio era occorso per asciugare il pavimento. « Sei uscita per ultima? …Chiuso il portone? » Qualche paziente, venuto a cercarmi, notava la porta accostata. « Il veglione? Sì, che ci andiamo. Il vestito nero, però, ha ancora la cerniera… », che io, ovvio!, avevo rotto l’ultima volta slacciandogliela. « Devo sostituirla. Ce la farò? », azzardava lei, timida. Gettavo le mie osservazioni nel bel mezzo di discorsi insipidi e di pettegolezzi, di quisquilie. Inevitabile la presa sui presenti. Nessuna presa, al contrario, le proteste balbettanti di Luisa, le sue snervate reazioni. Si sa che è più facile allinearsi e allearsi con il vincitore che non con la vittima che sta soffrendo, a scanso di sofferenze, appunto. Dunque, non aveva scampo alle mie falsità scivolate a verità. Compreso quel mio braccio premuto alle sue spalle in ogni occasione, così protettivo da non lasciare dubbi sul nostro affiatamento. La depressione le si leggeva, intensa e in intensificazione, nel volto, nelle spalle abbassate, in un sorriso accennato, mai disteso o convinto. Triste. …La maternità che non arriva?, si interrogavano circospetti i nostri conoscenti. Ma le mie insinuazioni si facevano lentamente più subdole, subliminale la loro cascata.


« Una calma, di notte. Dormo davvero bene e mi alzo riposato,… se non vengono a cercarmi. Luisa, invece, si agita. …Ti volti e ti rivolti… Come mai? » « Non so. Forse…la stagione, il cambio di aria. Una camomilla, un calmante, …magari un sonnifero…», cincischiava. « Ma! No, non è il caso… Non sono io che posso prescrivertelo ». Si offrì il sindaco di procurarsi una ricetta alla sua prossima andata nel centro vicino con farmacia. Le serrai gli occhi proprio con il sonnifero, quegli occhi che, solo a tratti, giusto un agnellino consapevole della Pasqua dei suoi padroni, avevano osato di sottecchi restituirmi svirgolate contraccuse. Per confermare a me stesso di volerne la “dipartita”, avevo iniziato a prepararle io il bicchiere con l’acqua e il sonnifero. In seguito faceva da sola. Una sera di molta quiete… Il vento, che in quell’autunno avanzato arrivava dalla valle con furore, si era fermato. A cena finita aiutai Luisa a rassettare la cucina. Mi dilungai, con sincerità, su parole affettuose, carezze. E sul nostro passato – io all’università, lei giovanissima tuttofare – di rincorse da una stanza all’altra della mia casa, sul suo farsi prendere e di nuovo fuggire, sullo sbocciare del suo corpo, per decisione di entrambi si fa per dire, ormai mio. Veloce, mentre era in bagno e sapevo che vi sarebbe rimasta a lungo, spensi il lampadario e accesi l’abatjour. In un attimo quindici potenti pasticchine si posarono sul fondo del bicchiere pronto sul comodino. Misi il pigiama. Lievemente, dal sonno alla morte, povera Luisa. Preso il bicchiere, controllai che risultassero rimasugli della bianca medicina e impronte. Feci uno sforzo per reggere il bicchiere con l’indice e il pollice e due pezzetti di carta tra essi e il vetro interno e verificare controluce le dita di Luisa, tra la base e la metà, le labbra, all’orlo. La fortuna, più che sfacciata, fece tutto lei per salvarmi nella contingenza e nell’immediato prosieguo. Cinquanta minuti più tardi, chiamato dal genero di un paziente asmatico, andai di corsa dall’altra parte del paese. Al ritorno, sulla porta di casa mia, fui raggiunto per un parto difficile cui dovetti far fronte prima che arrivasse la levatrice lontana qualche chilometro. Assistetti la puerpera in difficoltà fino al vagito del neonato. Alla luce incerta del mattino, alcuni mutuati, infreddoliti davanti all’ambulatorio, videro la mia “sorpresa”, il respiro che mi era mancato al silenzio di Luisa, lei sul letto, cerea, il tubetto a terra. Suicidio. L’unica spiegazione, allibita ma forse non tanto pensando alla depressione e all’isolamento di Luisa. Ragionevole la morte cercata. Per tutti. Nulla aggiunsi. Nulla dissi. Di solito i suicidi lasciano una lettera, un biglietto. Ma penna, calamaio e inchiostro erano restati nella faticata quinta elementare di Luisa. Ero io a rispondere alle lettere della zia, alle cartoline di un lontano cugino dall’America. Molti i pazienti che mi avevano visto umettare la busta, affrancata, non di rado consegnata a loro perché mi facessero la cortesia di imbucarla. Qualche esitazione dei carabinieri, qualche accertamento sommario… Infine nessuna indagine. Chi mai poteva sospettare del dottor Angelo Maria Rossi? « Ammodo, serio, scrupoloso. Alla mano. Gentile. » « Innamorato…un così bel ragazzo… » « Così giovane, poverino, restato solo! », alcuni dei tanti commenti. « Sperduto quassù, non ci andrà mica via, adesso? », la preoccupazione. Interminabili le visite di condoglianze, abbondanti gli alimenti in dono (zucchero, caffè, farina, ecc.) secondo la compartecipazione al lutto della zona e del tempo, il va e vieni dalla camera in cui il corpo, vestito dell’abito migliore, era stato lasciato al compianto e alle preghiere prima della posa nella cassa. Piansi tanto dietro al feretro di Luisa che volli seppellire lì, nella nuda terra. Le si addiceva quel cimitero: un fazzoletto, in mezzo a campi appena arati e filari di viti, quattro cipressi all’entrata, distese di campanule spontanee nei muri di cinta – a primavera, mi avevano avvisato, distese di viole e primule – una cappelletta di pochi metri quadrati. Piansi e non era ipocrisia, perché io amavo Luisa, l’amavo tanto, fin dai nostri giorni “bambini”. “bambini” anche per me: nonostante il divario d’età, noi giocavamo e ci “amavamo di un amore che era più che amore” (le citazioni poetiche erano una mia peculiarità!). Riassaporai il calore della sua devozione, l’am-

mirazione per Angelo Maria che « ha promesso che mi sposerà», le nostre mani allacciate e la tenerezza dei suoi seni di adolescente sul mio costato morbido perché invaso dal piacere. Rivissi l’interminabile bacio in quel viale interminabile dell’università, il giorno dell’alloro!, nascosti dietro un platano… Fu a questo punto del ricordo che udii, o mi parve di udire, una voce sottilissima al mio orecchio, insinuante: «Angelo, spergiuro!» Potevo stare tranquillo. Ognuno faceva del suo meglio per consolarmi, per trattenermi: pulizie e pasti affidati a una donna trovata dal sindaco, inviti a cena, qualche torta, qualche piatto speciale da paesane caritatevoli, ecc. E, in più, offerte non equivoche. «Il dottore, non ci lascerà, vero?»: il petto della moglie del segretario comunale aveva sfiorato la mia mano destra protesa in un gesto di negazione. (Temeraria e provocante, civettuola d’età, la incantonai con una certa aggressività, e non ebbi dinieghi di nessun tipo, nell’ambulatorio il pomeriggio successivo). “Tutto per il suo verso. Anche il sesso”, riflettevo. E vivevo una sorta di liberazione. Serpeggiava densa, però, una amarezza acre in me. Mi ci macerai per due settimane. …Da scolaro, da studente, qualsiasi cosa mi riuscisse bene doveva avere un pubblico a sguardo sbarrato che mi lodasse, che rilevasse le mie “vincite”, gli esiti delle mie prove. I temi bellissimi, le traduzioni di latino e greco perfette, di francese al ginnasio, i problemi esatti fino all’inverosimile, la maturità liceale sbalorditiva, la laurea in sei anni con il massimo dei voti, i primari letteralmente di stucco e assorti durante la mia specializzazione, ecc., le conquiste femminili (Luisa era il porto sicuro e la tana del mio più puro egoismo) avevano sempre avuto una risonanza personale e narcisistica per le invidie di compagni e colleghi, l’approvazione dei professori. Giocoforza che dalle mie profondità, lì dove giaceva nascosto il delitto, insistesse un ritornello morboso: «E’ opera mia! Mia! » E che, sottolineatura di un martelletto di campana che suona a morto, da quell’anfratto salisse il sibilo: «Angelo, spergiuro!» Ritornello e sibilo mi seguirono, mi inseguirono (o mi precedettero, spianandomi i duecento metri di distanza in salita?) verso la caserma. Certamente mi sostennero quando, dopo che il tenente mi aveva fatto entrare premuroso se non deferente ma con un’espressione che non sembrava aspettarsi un segreto quanto una verità a lui nota, conosciuta, chiara, sussurrai non staccando lo sguardo dal suo: «Ho ucciso mia moglie. Sono io il colpevole!» Raccontai, con dovizia di particolari e linguaggio forbito, preciso, il come e l’ora, le circostanze e la modalità, l’alibi provvidenziale delle visite notturne, i testimoni casuali del mio dolore. Pensoso il tenente. Che mormorò quasi in trance: « Confessi… Confessa per il rimorso? » « Il rimorso? », risposi. « No, io non l’ho mai conosciuto! » « Perché, allora? » La voce di Luisa si fece bassa, penetrante. La mia risuonò alta e stridula nelle due stanze vuote di quella stazione dei carabinieri: « Perché è il mio più bel capolavoro! » Maria Lenti è nata e vive a Urbino. Docente di lettere fino al 1994, anno in cui è stata eletta (e rieletta nel 1996 fino al 2001) parlamentare alla Camera dei deputati per r. c. Studiosa di letteratura ed arte. Saggi, recensioni, interventi critici si trovano in volumi collettanei, in riviste e su quotidiani. In Effetto giorno (2012) ha raccolto quelli di tenore culturale e politico. Nella primavera del 2014 uscirà il libro di tutti i suoi scritti sui poeti dialettali. Ha pubblicato poesie: Un altro tempo, 1972; Albero e foglia, 1982; Sinopia per appunti, 1997; Versi alfabetici, 2004; Il gatto nell’armadio, 2005; Cambio di luci, 2009; racconti: Passi variati, 2003; Due ritmi una voce, 2006; Giardini d’aria, 2011; lo studio Amore del Cinema e della Resistenza, 2009, l’antologia di poeti italiani contemporanei Dentro il mutamento, 2011. Ha curato, con Gualtiero De Santi e Roberto Rossini, il volume Perché Pasolini (1978). E’ presente in numerose antologie, tra cui le ultime Il ricatto del Pane (con Agenda e memoria) del 2012, e Rapa Nui (con Apologhi in fotofinish) del 2013.

15


Partecipanti Mostra collettiva dell’Associazione Culturale L’Arte in Arte URBINO Centro commerciale “Consorzio”, dicembre 2013 gennaio 2014

Antonina Grassi “Il volo” Anita Aureli “Iris”

Silvestro Castellani “Astratto per Elisa”

Gianfranco Ceccaroli “Composizione N°6” Angelo Barone “Senza Titolo”

Martha Belbusti “Senza titolo”

Gianfranco Raimondi “Moto perpetuo III°”

Regine Lueg “Vaso con coperchio”

Susanna Galeotti “Visioni”

Matilde “Regina” Orsini “Raggi di pace”

Nazzarena Bompadre “Un battito d’ala”

Alessio Spalluto “Pescare sogni nella pioggia”

Oliviero Gessaroli “Anime del deserto”

Fulvio Paci “Scenografia per Matera”

Guerrino Bonalana “Frattura rossa cucita con filo celeste”

Donatella Saladino “La casa sul mare”

Giovanna Ucci Fabi “Ballo in campagna” Da una incisione di A. Dürer”

Antonio Giangolini “Globo_R9NG42” ArnaldoPauselli “Cielo terra mare”

Stefano Caffarri “Caro...caro...caro”

Barbara Giovagnoli “Romantico Natale”

Marco Valdarchi “Il violoncellista”


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.