L'invisibile, di Valentina Coppola

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L'invisibile di Valentina Coppola

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Sento vibrare attorno a me il suono attutito della città ormai quasi completamente addormentata e il silenzio denso di attesa di chi aspetta l'arrivo degli Angeli: così chiamiamo le persone che ogni sera ci offrono un po' di sostegno. Ricordo ancora la prima volta che ne incontrai uno: mi si avvicinò diversi anni fa quando la mia vita era già andata oltre la sua pagina più lieta lasciandomi indietro e rendendomi ciò che sono anche ora, un invisibile. Non dimenticherò mai quel momento e ripensarci mi riempie di felicità. Mi stavo riparando dalla pioggia raccolto nel mio vecchio giaccone verde militare sotto i portici di una grande banca in centro. Al mio fianco altri invisibili che, come me, cercavano di riposare in una notte d'autunno che lasciava presagire la durezza dell'inverno che ormai era alle porte. Ero assorto nel mio silenzio, pensando al nulla; ascoltavo l'incessante ticchettio della pioggia sull'asfalto e mi facevo avvolgere dalla bellezza della mia città che, nonostante il temporale, continuava ad avere il fiero aspetto di una signora non più giovane ma sempre composta e mai stanca dei suoi anni. “Ciao”, mi disse quella sera Gabriella toccandomi leggermente il cappotto sudicio. Feci un salto e quasi caddi di lato dallo spavento: non mi aspettavo quell'intrusione anche perché non l'avevo sentita arrivare. La guardai spaventato all'inizio ma mi tranquillizzai quasi subito: non ho mai osato chiederglielo ma non aveva, secondo me, più di 25 anni. Quella sera mi regalò un sorriso reso ancora più bello dal fatto che era il primo che qualcuno mi rivolgesse da diverso tempo. Non lo ricambiai: in quel periodo ero arrabbiato con il mondo intero. Lei, coraggiosa, si sedette al mio fianco: una giacca a vento scura la avvolgeva lasciando soltanto il volto e le mani scoperte. “Mi chiamo Gabriella”, continuò. Non avevo tanta voglia di parlare; volevo solo starmene per fatti miei e lei comprese. Rimase lì per un po' rispettando 2


il mio silenzio; poi si alzò. La guardai allontanarsi senza voltarsi indietro e mi chiesi se forse avrei dovuto essere più gentile. Tornai a concentrarmi sul nulla ma con la coda dell'occhio mi resi conto che aveva lasciato qualcosa al mio fianco: era una busta con del tè caldo zuccherato e un panino alla mortadella. Lei non lo vide ma fu in quel momento che ricambiai il suo sorriso. È passato molto tempo da quella sera e sento di poter dire che Angeli è proprio il nome adatto a quelli come Gabriella. Eccola che arriva anche questa sera, puntuale come sempre. La saluto alzando la mano e in pochi passi mi raggiunge: “Ciao Marco, come stai questa sera?” “Non male...” Le rispondo ricambiando il suo sorriso e cercando di usare un tono di voce convincente. Fa già tanto per me, non voglio che si preoccupi. “Questa sera ti ho portato dell'acqua e della pasta al ragù appena fatta”, mi racconta soddisfatta mentre mi porge una busta di plastica. “Grazie, Gabriella. Sei un angelo.” Sorrido e la guardo negli occhi mentre glielo dico: spero che lei si renda conto che le sono davvero riconoscente. Sbircio incuriosito all'interno della busta di plastica che mi ha donato: la confezione ancora appannata della pasta sembra presagire una cena con i fiocchi. La saluto e mi allontano per mangiare tranquillo: assaporo con gusto ogni forchettata, saziando il mio stomaco e anche il mio palato. Qualche minuto ancora di riposo e decido di rimettermi in marcia: questa sera devo ancora finire il mio giro. Prendo il carrello e il mio zaino: dentro il primo ci sono solo cianfrusaglie; nel secondo, invece, c'è tutta la mia vita. Lo porto sempre con me e mi dispiace cambiarlo anche se ormai ha fatto il suo tempo. Esco dal parco e mi avvio: le strade del centro di notte sono il posto che 3


preferisco. Le luci accese nei locali mi ricordano quando vi passeggiavo in compagnia della mia nipotina Valeria: nelle sere calde come questa avevamo l'abitudine di scendere per mangiare il gelato dopo cena. “Lo prendo alla stracciatella nonno”, mi diceva ogni sera dopo aver guardato attentamente i gusti disponibili e la sua voce vivace mi risuona ancora nelle orecchie strappandomi un altro sorriso. Ripensandoci, probabilmente ad affascinarla di più in gelateria erano i loro colori brillanti dei gusti disponibili perché ogni volta, dopo averli guardati con attenzione per un po', finiva per prendere sempre lo stesso gelato: “Nonno,” diceva guardandomi sicura negli occhi, “per me stracciatella.” Eccola la gelateria che frequentavamo più spesso: ora la guardo da lontano stando sul lato opposto della strada. C'è tanta gente all'interno questa sera; anche i bambini sono molti: hanno tutti sul viso la stessa espressione; quella che aveva anche Valeria. Sembrano completamente assorbiti dal loro piccolo cono o coppetta: lo gustano con piacere come se, in quel preciso momento, fosse l'unica cosa in grado di renderli felici. Sorrido ripensando a Valeria e ai suoi occhioni color cioccolato lasciandomi ancora una volta trasportare dai ricordi; poi riprendo il mio viaggio. Cammino silenziosamente ancora per un po' mentre mi avvolge, come ogni sera, un senso di fragilità rispetto all'immensità del mondo intero. Non potrei più tornare alla vita di prima; no. Sono diventato troppo lento rispetto alla sua frenesia e mi sta bene così. Noi riuscirei a fare finta di nulla e a tornare alla vita di prima: non è possibile; non dopo tutto il tempo che ho passato qui in strada. Ogni giorno volti alienati e infelici mi passano avanti: c'è la casalinga indaffarata nelle spese quotidiane; l'uomo d'affari spregiudicato che sembra camminare 1 metro da terra; i venditori ambulanti che cercano di sopravvivere; c'è indifferenza, soprattutto; c'è solitudine anche se non sembra. Ho molto tempo per starmene seduto all'angolo di qualche strada a 4


guardarli arrancare, sempre scontenti, nelle loro vite quotidiane. Loro, al contrario, sembrano di non aver mai tempo: sempre impegnati a diventare o apparire qualcuno, si dimenticano di vivere, ne sono certo. Glielo leggo in volto. Ognuno pensa a sé stesso: cammina diritto avanti a sé ripetendo routine che mi si ripropongono avanti gli occhi tutti i giorni; senza pause e senza sconti. Gli innamorati sono gli unici che durante il giorno riescono a strapparmi un sorriso: la loro felicità è palpabile. Li riconosco bene ormai: loro anche sembrano camminare a 1 metro da terra ma hanno nello sguardo una luce diversa. Un po' rimpiango la vita di prima perché tutto, ripensandoci, era più facile. Il tempo, però, è la nostra grande incognita: pensiamo di averne una riserva infinita ma non è così e spesso ce ne rendiamo conto bruscamente. È il tempo che mi ha cambiato: prima avevo tante cose da dire e da fare proprio come tutti gli altri; ora, invece, vivo nell'attesa e ho scoperto che non è poi così male stare in compagnia di sé stessi. Mi mancano i miei cari: i miei figli e i miei nipoti erano ciò che mi permetteva di andare avanti. Ora è il ricordo delle belle giornate trascorse insieme a loro a permettermi di non impazzire. No, non posso tornare alla vita di prima. Non posso, nonostante l'amore che nutro nei loro confronti; non posso farlo. Le ultime parole di mio figlio mi risuonano nella mente mentre mi soffermo a guardare quello che per anni è stato l'appartamento che io e la mia famiglia abbiamo abitato. “Sei un testardo!” mi urla trattenendo le lacrime e il suo volto teso l'ho ancora davanti gli occhi. Sollevo lo sguardo verso la finestra del terzo piano che prima dava sulla nostra cucina e quasi la rivedo lì, mia moglie, intenta a cucinare una delle sue specialità. Se mi concentro sento persino il piccolo vociare dei miei figli quando, ancora spensierati, dovevano preoccuparsi soltanto dei compiti e 5


della scuola. Lentamente, però, il ricordo diventa sfumato e la luce di quella finestra torna a spegnersi lasciando al suo posto una persiana scardinata e un vetro rotto. Ora da lì si affacciano soltanto gli spettri di un passato felice ma lontano. Sospiro e torno sui miei passi: sospingo il carrello in avanti ancora per un po' ma non sono sicuro di riuscire ad andare oltre questa sera: lo zaino sembra essere diventato pesante e i miei piedi stanchi lottano contro la mente ancora affamata di ricordi. Volto l'angolo e mi preparo per la notte: sistemo il cartone che mi fa da materasso e mi sdraio sull'erba di una piccola aiuola. Porto le mani dietro la testa: per un po' saranno il mio cuscino. Guardo il cielo ma le luci della città sono troppo forti per permettermi di scorgere le stelle. Rovisto nella tasca del mio zaino e tiro fuori la foto di mia moglie: la porto sul petto e chiudo gli occhi. Questa volta non ho difficoltà a scorgere il cielo stellato: mi torna in mente quello che guardai con lei una notte di tanti anni fa; la stessa in cui le chiesi di sposarmi. La vedo guardarmi negli occhi mentre mi sorride; lo faccio anch'io. È bello addormentarsi così, cullato dai ricordi. Come ogni sera a lei dedico il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi: “Sei andata via troppo presto amore mio e hai lasciato al tuo posto un vuoto senza fine; un vuoto che nemmeno questa grande città e l'immenso cielo stellato riescono a colmare. Non posso che sperare, come ogni sera da quando te ne sei andata, che questa notte mi riservi il suo volto più dolce permettendomi di riabbracciarti, questa volta, per l'eternità”.

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