Obsession - Valentina C. Brin

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Obsession Š Valentina C. Brin Fotografia e progetto grafico di Alessandra Casiraghi www.facebook.com/JillianPhotoArt

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Valentina C. Brin

Obsession

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1 Prologo

Eleanor White si sentiva piccola e insignificante di fronte al cancello di Collingwood, una struttura in ferro battuto che rappresentava l’esatto contrario di tutto ciò che lei era. Quello si ergeva imponente, un perfetto biglietto da visita del mondo lussuoso che custodiva oltre le sbarre, mentre lei si considerava una ragazza come tante altre, forse un po’ scialba, e nemmeno il colore dei suoi capelli – una calda tonalità di rosso - sembrava poterle levare dalla testa l’idea di essere a tratti persino anonima. Tuttavia la considerazione che nutriva verso il proprio aspetto non era mai stata un problema con cui convivere. Al contrario, era un dettaglio di poca importanza se paragonato a ciò che pensava di se stessa come persona; ai suoi trascorsi, alla vita che aveva condotto fino ad allora, agli affetti che aveva raccolto e che portava con sé. A vent’anni Eleanor poteva vantare un fisico forte e sano, e una famiglia numerosa che le aveva dato amore, calore e forza sufficiente per affrontare le difficoltà che la vita le avrebbe messo davanti. In circostanze normali le sarebbero bastate queste poche cose per vivere con soddisfazione, senza pungoli che premessero verso la speranza di qualcos’altro, ma da quando le contingenze l’avevano spinta verso quel lavoro... Non poteva permettersi di essere schizzinosa, lo sapeva bene. Non con una famiglia che l’aspettava a casa, non quando le bocche da sfamare erano più numerose del cibo che i suoi genitori riuscivano a portare a casa in cambio del sudore speso nei campi. All’inizio aveva accarezzato con una certa accondiscendenza l’idea di servire la famiglia Spencer a Gladstone, la tenuta padronale. Lavorare come cameriera le era sembrato un buon compromesso per tamponare i problemi della sua famiglia, perché sapeva di essere sveglia, veloce e di facile apprendimento, tutte qualità che le avrebbero garantito di portare a casa il pane, magari di strappare per sé anche qualche piccola soddisfazione, qualche minuscolo elogio, un complimento che valesse il suo lavoro tanto quanto il penny che metteva da parte a fine giornata. Era convinta che prestare servizio presso i conti non le avrebbe creato problemi, perché possedeva tutto 5


ciò che le serviva per svolgere quel compito al meglio delle sue possibilità. Ne era stata così certa, così ingenuamente certa... Quello non era stato l’unico giudizio fallace, tra l’altro. Quando aveva lasciato Gladstone aveva creduto che fosse finita; che gli Spencer sarebbero stati una parentesi chiusa definitivamente. Era convinta che l’unica cosa rimasta da pagare per la sua leggerezza sarebbe stato il bruciore della ferita che portava nel cuore, ma che per lo meno sarebbe stata libera di vivere la sua vita come desiderava. Invece il destino l’aveva spinta ancora più in profondità nella morsa che la riavvicinava agli Spencer portandola proprio a Collingwood, dove viveva il figlio che i conti avevano allontanato dall’ovile. Eleanor non aveva mai avuto l’occasione per incontrarlo, e dopo la fine del suo incarico aveva pensato che nessun’altra strada l’avrebbe potuta condurre da quell’uomo. Invece eccola lì, davanti all’unico posto al mondo dal quale avrebbe preferito scappare, incastrata tra un passato ancora fresco di umiliazione e un prossimo futuro che non poteva in alcun modo prevedere, inchiodata davanti a quel cancello dalla necessità di fronteggiare le difficoltà che soffocavano la sua famiglia. Dai, Eleanor. Non può essere peggio di quello che hai già affrontato. Quando mise la mano sul cancello e spinse, questo si aprì con un cigolio pesante, un rumore che le ricordò il presagio nefasto di una maledizione pronunciata da labbra invisibili: era il suo destino, e parlava attraverso la voce di Collingwood. La sua risata sembrava riecheggiare tra le fronde pigre degli alberi, quasi si divertisse a leggerle nel cuore per strapparle di dosso ciò che vi trovava e rilanciarglielo contro più ingarbugliato di prima. Sembrava dirle: “Gli Spencer saranno ovunque andrai”. E nonostante il desiderio di negarlo - nonostante la voglia di spezzare le catene invisibili che la legavano a quella famiglia -, Eleanor sentiva chiaramente una strana sensazione agitarsi in fondo al cuore, quasi fosse un presagio che lottava per diventare reale. Era la verità che premeva per uscire e le diceva che, sì, Collingwood sarebbe stata un destino al quale non avrebbe mai potuto sottrarsi. Gli Spencer l’avrebbero sempre seguita.

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2 Davanti al padrone

Il viale che portava alla tenuta era un percorso immerso nell’abbraccio di alberi secolari, che impedivano alla vista di spingersi in profondità. Eleanor sapeva perfettamente che cosa avrebbe trovato quando fosse arrivata alla fine: la penombra creata dalle fronde avrebbe lasciato finalmente spazio alla luce e lo sguardo sarebbe stato libero di abbracciare la sterminata opulenza che quel posto trasudava. Del resto la ricerca del lusso era una consuetudine negli ambienti nobiliari, soprattutto quando vedeva implicati gli Spencer, una famiglia antica e influente, ossessionata dalla rispettabilità del proprio nome. Vantavano una linea di sangue immacolata, mai sporcata da matrimoni intrecciati con mercanti arricchiti o da figli illegittimi avuti da popolani. Ufficialmente non esistevano vergogne, non c’erano scandali, non una macchia che intaccasse il prestigio del casato. L’altra faccia della medaglia, però, parlava di un’oscurità che a stento riuscivano a scrollarsi di dosso. Circolavano dicerie insistenti e pettegole che mormoravano di complotti aggrappatisi alla storia della famiglia Spencer come un’epidemia. Parlavano di giochi di potere, di legami scellerati, di amicizie corrosive che finivano per trascinare nel sangue chiunque fosse nato sotto il loro nome. Non c’era da stupirsi che quell’aura di timore non si fosse mai placata: aveva gravitato attorno ai conti da che Eleanor ne aveva memoria, quando la respirava dalla culla. Ricordava perfettamente come da bambina cadesse vittima degli scherzi dei suoi fratelli, costretta a prestarsi a stupidi giochi che avevano come tema preferito proprio la dinastia Spencer. I ricatti, le penitenze… Ogni cosa era costruita sul loro nome, come se fosse l’unica argomentazione abbastanza forte da spaventare. Come se gli Spencer fossero una paura ancestrale ereditata nel corso degli anni attraverso il sangue dei genitori. Ricordava bene anche le sfide di coraggio che i suoi fratelli le lanciavano: chi si avvicinava di più al cancello di Gladstone vinceva il titolo di più coraggioso. Era l’appellativo a cui tutti ambivano, un marchio di prodezza capace di garantire credibilità anche al bambino più piccolo e secco; un desiderio inseguito con le unghie e con i denti 7


attraverso prove molto dure. E avvicinarsi alla residenza dell’orco era una prova durissima per la piccola Eleanor. Se da bambina qualcuno le avesse predetto che il suo destino si sarebbe intrecciato con la famiglia Spencer, avrebbe negato con convinzione. Probabilmente si sarebbe messa a ridere e gli avrebbe dato del pazzo, salvo poi andare a sfogare le sue ansie da bimbetta intimorita dietro le gonne rassicuranti di sua madre. Invece eccola lì vent’anni dopo, a fronteggiare l’imponenza di Collingwood che si svelava ai suoi occhi proprio come aveva supposto. Al servizio degli Spencer per la seconda volta. Spera di essere piazzata alle cucine, Eleanor. Renderà tutto più indolore. Il lusso esibito all’esterno della tenuta si rivelò poca cosa in confronto all’immensità del salone d’ingresso, un tripudio ostentato di marmi, decori, quadri e tendaggi capace di inchiodare con la propria maestosità chiunque calpestasse quei pavimenti, facendolo sentire insignificante. Guardate cosa vuol dire essere uno Spencer, questo era il messaggio che si doveva respirare tra quelle pareti ingrate, ed Eleanor ne fu vittima a tutti gli effetti. Rimase lì, la bocca aperta in un’espressione stupita e gli occhi rivolti al soffitto, la valigia stretta nella mano e gli abiti consumati con cui copriva l’orgoglio umile dei propri natali. Il popolino e la reggia del Re. Avrebbe dovuto esserci abituata, e invece... Che ci faccio qui? «Posso aiutarti?» Eleanor si voltò annaspando, mentre l’ombra di quel pensiero scoraggiato pesava ancora sulla coscienza. Ad averle offerto aiuto era stata una ragazza giovane, probabilmente coetanea, sicuramente un membro della servitù: l’abbigliamento modesto e il cesto di ortaggi che reggeva sottobraccio dimostravano il suo ruolo con il realismo innegabile di una prova schiacciante e, se anche questo non fosse stato sufficiente, lo stato tremendo in cui versava la crocchia che le raccoglieva i capelli avrebbe tolto ogni dubbio. Ma il sorriso genuino che le rivolgeva, la curiosità che le illuminava lo sguardo… Non c’era traccia di ombre nei suoi occhi limpidi, che brillavano di una vitalità costantemente negata dalle dicerie che circolavano riguardo agli Spencer e alla vita nascosta tra le mura delle loro tenute. 8


Bastò questo per allontanare dal cuore di Eleanor qualunque incertezza si fosse affacciata dentro di lei. «Sono la nuova cameriera.» «Giusto, arrivavi oggi. Seguimi.» La ragazza condusse Eleanor lungo uno dei tanti corridoi che si aprivano dall’androne prima di farle imboccare le scale di servizio che scendevano al piano terra, la zona del palazzo che spettava alla servitù. «Mi chiamo Maggie. Tu sei...?» «Eleanor» ribatté lei con un sorriso leggero, espressione che sfumò non appena varcò la soglia della cucina: al tavolo centrale erano sedute due donne di mezza età, intente a spennare un fagiano e a pelare patate; le mani segnate dal lavoro quotidiano, i volti stanchi, sfioriti, inaccessibili. A colpirla più di tutto però fu la luce debole che trovò nei loro occhi. «Un piccolo avviso, Eleanor: al conte non piace chi perde tempo. Bisogna sbrigarsi ed essere veloci o s’innervosisce, e posso assicurarti che non è un bello spettacolo» Maggie si pulì le mani sporche di terra sul grembiule che portava allacciato in vita. «Prima di accompagnarti dal conte ti mostro dov’è la camera, così appoggi la valigia.» Non è un bello spettacolo. Liberarsi di quelle parole non fu possibile. Le ronzarono nella testa in continuazione, per tutto il tempo necessario a raggiungere gli alloggi della servitù. Si intervallarono agli sguardi spenti e rassegnati delle donne che aveva incrociato nelle cucine, suonando un rintocco d’allarme che Eleanor scelse di non ignorare. Aveva sentito molte voci riguardo la proverbiale assenza di Ashton Spencer da Gladstone, alcune beffarde e altre pettegole. C’era chi sosteneva la tesi di qualche scandalo insabbiato nella lontananza, chi parlava di incompatibilità di vedute con il padre, chi sosteneva che fosse stato cacciato per il suo vizietto. Del resto, che fosse un uomo incline all’ira era un pettegolezzo che ricorreva spesso nelle cucine di Gladstone, eppure Eleanor non ci aveva mai dato troppo peso. Ma in quel momento, persa com’era nel silenzio dei corridoi di Collingwood, i mormorii che riguardavano il conte assunsero improvvisamente tutto un altro colore. Si trattava di sfumature che non avevano nome, appena accennate nel loro spettro di luce. Anonime proprio come la strana sensazione che le montò nella pancia, quasi un presentimento; un vago senso inafferrabile, la punta di un’emozione non ancora matura. 9


Era certa di un’unica, chiarissima cosa. Quelle sfumature appartenevano al buio. * La luce del giorno non era l’unica cosa che fosse bandita dalla camera di Ashton Spencer, né la più importante: il mondo che si apriva oltre la finestra era la prima cosa che veniva tagliata fuori dalle tende, perennemente calate sui vetri e sul piccolo microcosmo in cui il conte viveva. Il buio era la sua bolla d’ossigeno e il suo padre confessore, una cura certa e rassicurante; un angolo d’aria in cui poter respirare prima di spingersi nuovamente verso il fondo, in quell’inquietudine velenosa che gli marciva il cuore. Non aveva bisogno di nient’altro per stare bene. Non gli servivano le attenzioni zelanti delle cameriere, né i loro sguardi intimoriti; men che meno aveva bisogno dei loro pensieri, o delle loro emozioni. Gli bastava ciò che aveva in quel momento: il silenzio della propria camera, il sapore di un brandy pregiato, l’abbraccio della penombra che gli permetteva di cullare le ombre che portava in pancia. E la disciplina. Esigeva che i servi fossero invisibili ai suoi occhi, silenziosi, perfettamente in riga; non una rimostranza, non una contraddizione, nemmeno una parola. Solamente l’indispensabile per permettere alla tenuta di sopravvivere e a lui di annegare dentro le ombre che gli affogavano il cuore. Non che tutto questo fosse difficile da ottenere, naturalmente: la servitù lo temeva. Aveva paura di lui, della sua rabbia, della sua proverbiale mancanza di controllo. Temeva il nome della sua casata. Un timore che lui aveva cavalcato e che aveva spinto ai livelli dolorosi che gli avevano consentito di gestire Collingwood nel silenzio e nel rigore più assoluto. Era sempre stato così sicuro dell’efficacia della paura! L’aveva vista funzionare, ne aveva sentito il potere chiuso tra le mani, fino a ritenerla il mezzo di controllo per eccellenza, quello prediletto. Ne era talmente certo che ogni smentita pesava sul suo umore come un macigno in grado di trascinarlo a fondo, perché, dannazione, un ordine era un ordine, e quando veniva disatteso significava che la paura in grado di ordinare il suo mondo veniva meno, pezzo dopo pezzo. E se non c’era paura, allora non c’era rispetto. E se mancava quello... 10


Accadde anche in quel momento. Un paio di colpi leggeri alla porta, sebbene gravasse l’ordine di non disturbare il padrone; una deviazione dalle disposizioni date che riportò nella stanza tutto ciò che Ashton aveva cercato di lasciare fuori: persone, parole, pensieri. Fu come precipitare in un incubo a occhi aperti, strappato a forza dall’apatia meravigliosa di un sonno senza immagini. E fu fastidio. Disturbante, cattivo, invasivo fastidio. Si coprì gli occhi con una mano, il cattivo umore che montava già dentro di lui come una fiamma libera. Servi. «Vattene!» gridò, ma chiunque avesse bussato non sembrò disponibile a soddisfare i suoi capricci. «Signore, la nuova serva è arrivata» la voce di Maggie Thompson giunse attutita dall’altra parte della porta. Quella donna era una media seccatura nella rosa delle scocciature che gravitavano attorno al palazzo, ma era al servizio di Ashton da tempo sufficiente perché il conte sapesse che non sarebbe bastata una parola ringhiata con scortesia per indurla a lasciarlo annegare nel buio. Appoggiò il calice di brandy sul tavolino, proprio accanto alla sua pistola - l’unico alleato su cui poteva contare davvero, il braccio destro che gli aveva permesso di soffocare sul nascere troppe iniziative -, mentre la voce di Maggie continuava a chiamarlo. Aprì la porta all’improvviso, con tale forza da farla sbattere contro il muro. Il rimbombo che ne derivò fu assordante, violento come l’inquietudine aggressiva che gli mordeva il cuore; un rumore che gli penetrò dentro spaccandogli lo stomaco. «Ho detto vattene. ORA!» Probabilmente fu abbastanza per farla desistere: la ragazza non osò replicare, raggelata. Afferrò Eleanor per il polso e fece per allontanarsi assieme a lei, quando la voce fredda e insinuante di Ashton la fermò. «Ho detto a te di andare, non alla tua amica. Stupida pezzente.» Fu un insulto fatto e finito, lo sapeva perfettamente. Sapeva anche di aver suscitato la rabbia della ragazza, perché vedeva quell’emozione proprio lì, incollata sul volto di Maggie mentre le bruciava la pelle nel tentativo di scappare dai suoi confini per aggredirlo. Voler ribattere senza poterlo fare... Che meraviglia. Fu una visione che lo glorificò e lo fece sentire elettrico, una tentazione irresistibile che soffiò sul mare agitato della sua cattiveria. 11


L’altra ragazza invece – una rossa scialba e insignificante, con un viso piuttosto ordinario - lo guardava basita, come se avesse di fronte un pazzo. Uno sguardo stupito, sfumato d’incredulità e di qualcosa di ben più forte e pericoloso. Soltanto un’oncia, una puntina che avrebbe potuto dar vita a un uragano nelle condizioni avverse: indignazione. E Ashton ripiombò subito nel malumore. «Allora? Sto aspettando» sibilò rivolto a Maggie con disprezzo. La ragazza si prodigò in un inchino e si allontanò senza aggiungere altro. * In cinque minuti Eleanor aveva avuto un chiaro esempio di cosa significassero le parole pessimo carattere, di cui Ashton sembrava essere davvero ben dotato. Era sconcertata, letteralmente. Non era raro che i membri delle famiglie nobili avessero dei modi piuttosto arroganti verso le persone che lavoravano per loro – cielo, l’aveva vissuto in ognuno dei mesi trascorsi a Gladstone -, ma non aveva mai visto prima un tale disprezzo. Era feroce, quasi violento. Ingiustificato, nonostante lui fosse il conte e potesse sostanzialmente agire come desiderava. «Entra, pezzente.» Ci risiamo, pensò Eleanor con irritazione. Doveva mantenere la calma. Doveva ignorare qualunque provocazione, farsi scivolare addosso le sue parole velenose e rimanere forte, incrollabile. Salda ai suoi obiettivi, alla sua famiglia e a ciò che quel lavoro significavai. Entrò nella camera da letto di Ashton Spencer piena di buoni propositi, che crollarono uno dopo l’altro non appena il conte la squadrò da capo a piedi. La stava esaminando, sfacciato e borioso, e a giudicare dalla sua espressione il suo parere non era affatto positivo. «Pezzenti, irascibili e pure brutte. La solita sfortuna.» Eleanor dovette appellarsi a tutto l’autocontrollo di cui disponeva per mantenere la calma e ignorare quel commento crudele e fine a se stesso. «Signor conte, sono qui per lavorare. Se potete dirmi quali saranno le mie mansioni…» «Quanta fretta di fuggire da questa stanza, pezzente!» la canzonò Ashton sedendosi sulla poltrona con movimenti misurati, forte della propria superiorità, del proprio ruolo, del valore inestimabile che la società gli riconosceva mentre lei veniva calpestata. Un valore che imponi a discapito del prossimo. 12


Fu un pensiero immediato e obiettivo, sufficiente per accendere in lei la scintilla del risentimento; una piccola e fulgida fiammella che nascondeva in sé il potere devastante della ribellione. «È Eleanor» mormorò, lo sguardo basso come il suo posto le richiedeva, la voce ferma come il suo cuore orgoglioso le imponeva. Un atteggiamento che sembrò cogliere Ashton di sorpresa, di certo fuori da ogni sua aspettativa. «Come?!» «Ho detto che il mio nome è Eleanor, signor conte. Non mi chiamo pezzente» ripeté più forte, sollevando lo sguardo e puntandolo dritto sul suo bel viso. Occhi grigi, labbra piene, capelli neri, lineamenti regolari. Non aveva ancora prestato attenzione al suo volto, ma non poteva nascondere che Lord Spencer fosse davvero un uomo affascinante. Una dote che spiccava in pari proporzione con l’arroganza, tra l’altro. «Eleanor, dici?» Ashton si alzò e la raggiunse al centro della stanza, lo sguardo puntato su di lei, immobile, ferino e cupo. Pericoloso. «Non mi potrebbe importare di meno. Qualunque sia il tuo nome, non cambia il fatto che questo è ciò che sei» rispose, indicando con un cenno della mano l’intera figura della ragazza. «Una pezzente come tutti gli altri servi, ed è una cosa che non cambierà mai. Sei una sporca pezzente senza alcun valore. Ricordatelo, la prossima volta che riterrai opportuno ribattere.» Pezzente. Non cambierà mai. Senza valore. Furono parole che le rimbombarono nella testa e non trovarono spazio negli incastri del suo orgoglio; furono insulti che la dignità ereditata dai suoi genitori non le permise di accettare. Non a testa china, non con lo sguardo basso, non senza difendersi. Non quando si amava per ciò che era pur non possedendo titoli o ricchezze. Lottò. Si difese con la rabbia orgogliosa di chi non è disposto a piegarsi davanti alle imposizioni di un’ingiustizia, il rifiuto per quelle parole crudeli dalle quali non aveva intenzione di farsi massacrare. Lo fece con lo sguardo dritto e sicuro, con le spalle aperte, con il mento alto. Il cuore in fiamme. «So bene chi sono, signor conte, e so che nemmeno un cane meriterebbe di servire un uomo arrogante come voi» lo apostrofò senza riuscire a trattenere il veleno che voleva gettargli addosso 13


attraverso quelle parole taglienti, e quando Ashton le sollevò il mento, guardandola gelido, lei gli restituì tutto l’astio che provava per lui. «Meglio un cane che una pezzente come te.» Fu troppo. Eleanor scacciò la mano di Ashton come se fosse un insetto fastidioso, ma riuscì a trattenersi e a evitare di spingersi oltre: questa volta tenne per sé tutto quello che pensava di lui, facendo buon viso a cattivo gioco. Aveva bisogno di allontanarsi da quella camera e da lui, o sarebbe esplosa con conseguenze davvero pericolose per se stessa. «Signore, quali saranno le mie mansioni?» mormorò cercando di controllare la grave alterazione che le faceva tremare la voce. Dimmele maledetto stronzo, così ho la scusa perfetta per uscire da questa stanza. Per tutta risposta, lui le rivolse un sogghigno inquietante che non le piacque per niente, un’espressione crudele che aveva il sapore del controllo. Un sogghigno malevolo, divertito, vendicativo. Machiavellico. «È meglio che tu capisca subito qual è il tuo ruolo qui dentro, pezzente. Sarai una cameriera. La mia cameriera personale.»

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3 Rabbia

Eleanor White non si era mai lamentata della propria vita, nonostante non fosse cresciuta con gli agi e le certezze che le famiglie altolocate potevano assicurare alle loro figlie. Non aveva mai perso di vista le piccole fortune che la sorte le aveva concesso e aveva saputo farsele bastare di giorno in giorno, consapevole che molte persone provenienti dalle casupole del popolo erano costrette a fare i conti con crucci ben peggiori dei propri. La salute della sua famiglia, il cibo che riusciva a portare a casa lavorando presso le tenute nobiliari… Aveva tenuto costantemente nel cuore queste fortune senza mai lasciarsi sfiorare dall’ingratitudine, ma dopo aver messo piede a Collingwood il suo ottimismo era precipitato drasticamente fino a raggiungere livelli allarmanti. Ashton Spencer era l’inizio e la fine dei suoi problemi, l’unica nube capace di oscurare la fiducia che aveva sempre riposto nella buona sorte. A s h t o n. Non c’era nome che fosse più appropriato per quell’uomo borioso e prepotente, talmente pieno d’orgoglio da rischiare di rimanerne soffocato. Era un nome che esprimeva grandezza, superiorità e arroganza, tutte qualità di cui il conte era abbondantemente provvisto e che mostrava a chiunque senza alcuna riserva, soprattutto quando l’oggetto dei suoi insulti era lei, la pezzente dai capelli rossi che doveva sopportare costantemente le pretese assurde e capricciose avanzate dal giovane Spencer, possibilmente senza fiatare. Non lo sopportava. Detestava la sua arroganza, aborriva il modo in cui si pavoneggiava e quello in cui esercitava la superiorità che il suo lignaggio gli conferiva. Che s’impicchi, lui e il suo lignaggio, pensò mentre risaliva alla svelta le scale che portavano al salone d’ingresso del palazzo. Tra le braccia reggeva un cesto di panni puliti e profumati di sapone, sole e aria fresca; tutti abiti di Lord Spencer naturalmente. Vestiti costosi, pregiati, realizzati dai migliori sarti di tutto il regno. Indumenti che dovevano riflettere la ricchezza del conte, oltre al suo enorme ego. Vediamo se riesci a non sciuparli, l’aveva canzonata lui al primo incarico, quando le aveva gettato gli abiti sporchi sui piedi. 15


Eleanor aveva dovuto raccoglierli senza fiatare, mordendosi il labbro per evitare di ribattere. Perfino un sì ostile e irritato avrebbe potuto gettarla in una pessima situazione, e con Lord Spencer non c’era da scherzare. Era quasi arriva in cima alle scale quando inciampò sull’orlo della gonna. Fu questione di un attimo, un istante breve per compiere l’irreparabile: nel momento in cui sentì il ginocchio piegarsi, costretto dalla stoffa, capì che il danno era già fatto. Sbilanciata in avanti, con le gonne tra i piedi come una trappola mortale, Eleanor fece l’unica cosa che l’istinto le suggerì: si aggrappò al cornicione con entrambe le mani, il cuore che pompava sangue e paura per quella caduta sfiorata. Il cesto naturalmente cadde giù, giù, sempre più giù, finché la sua corsa non si arrestò davanti ai nobili piedi di un altrettanto nobile uomo. Ed Eleanor pensò che, davvero, forse avrebbe potuto cominciare a lamentarsi; giusto un po’, l’indispensabile per sfogarsi contro la sfortuna ingrata che sembrava divertirsi a perseguitarla. «Ma bene!» sbottò Ashton Spencer. Era appena tornato da una battuta di caccia, lo sport che in assoluto sembrava prediligere. Tra le mani fasciate da pregiati guanti di pelle stringeva ancora il fucile, e la guardava con fredda supponenza. «Che diamine stai facendo?» «Il bucato, signore» Eleanor si rialzò velocemente, recuperando il cesto e gli abiti ormai sparpagliati lungo le scale. Non osò guardare Ashton negli occhi: sapeva che non avrebbe sopportato il suo sguardo provocatore. Fece per salire nuovamente le scale, ma lui le afferrò il braccio con forza, impedendole di sottrarsi alla sua presenza. «Voglio che mi guardi quando ti parlo, hai capito pezzente?» Era irritato. Pericolosamente irritato. La sua voce era ridotta a un sibilo minaccioso mentre le artigliava il braccio con tale forza da farle male, una stretta soffocante dalla quale Eleanor cercò di divincolarsi senza tuttavia riuscire a sottrarsi ad Ashton di un millimetro. E lì, tra quelle mani che le stringevano il braccio e, con esso, anche ogni sua libertà, lasciarsi andare all’irritazione fu fin troppo semplice. Ashton voleva che lo guardasse? Bene, l’avrebbe guardato: dritto negli occhi, l’espressione astiosa di chi non è disposto a concedere più di ciò che è giusto dare; il cuore pronto a dar battaglia con ogni mezzo, le intenzioni di rivalsa perfettamente leggibili sul suo viso. «Il mio nome non è pezzente. E comunque gli onorabili vestiti della vostra onorabile persona si sono sporcati e devo rilavarli, signore.» 16


Quindi, se volete scusarmi, devo proprio andare. Ora. Fremette, Eleanor. Fremette per l’irritazione che minava il suo controllo, per il lampo d’ira che le sue parole taglienti accesero negli occhi di Ashton, per le implicazioni tremende e, Dio, glorificanti che tutto questo avrebbe comportato. Il suo sguardo non cedette nemmeno un istante: rimase saldo, puntato negli occhi del conte, la provocazione che gridava il suo messaggio come un attacco deliberato all’ordine dell’universo. «Sporca pezzente! Sei solo una serva, nient’altro che una serva! Come osi parlarmi così?!» Ashton abbaiò, sobillato dall’ira. Quando lo vide levare in aria la mano, per un attimo Eleanor fu certa che l’avrebbe schiaffeggiata, eppure non cedette. Non indietreggiò, non si sottrasse a quella lotta di sguardi, non gli concesse la vittoria su di lei. Continuò a guardarlo in quegli occhi grigi furibondi, in quel viso bello e affascinante sconvolto dall’ira; la consapevolezza di ciò che stava per accadere a dare nuova forza al suo astio. Avrebbe dovuto tacere, glielo diceva la parte più razionale della sua mente, peccato che trattenere le parole non fosse nella sua natura. «Mi colpirete? Siete il genere di uomo che picchia una donna?» gli domandò, probabilmente più velenosa di ciò che intendeva essere; l’indignazione per ogni parola del conte che bruciava sulla pelle e la costringeva a gridare per non esserne consumata. Quando Ashton lasciò scivolare il fucile sulle scale senza smettere di fissarla, la linea furente che la sua bocca serrata descriveva fu un campanello d’allarme che costrinse Eleanor ad arretrare lentamente verso il cornicione delle scale. Capì di essere in trappola quando sentì il granito premere contro la sua schiena, freddo e ruvido. Va bene Eleanor, ce la puoi fare. Non ti farà del male. Una parte di lei continuò a sostenere questa tesi anche quando il conte le impedì ogni via di fuga, appoggiando le mani sul cornicione e intrappolandola di fatto tra le scale e il proprio corpo. «Sono il genere di uomo che picchia le serve che non obbediscono» Ashton glielo disse a un soffio dal viso, la voce bassa e tremante, pericolosa; così come erano tremanti le braccia che la trattenevano contro il cornicione, quelle braccia forti e definite che si tendevano sotto il tessuto della casacca. «Hai intenzione di mettermi alla prova?» C’era sarcasmo nelle parole del conte, un’ironia pungente e crudele che sconfinava nella verità: le avrebbe messo le mani addosso se avesse continuato a sfidarlo, tutto di lui lo lasciava intendere. 17


Stai al tuo posto. Controllati, per l’amor del cielo. Eleanor non rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo, le labbra serrate e le parole trattenute a forza per evitare conseguenze irreversibili. E poi lui, quella vicinanza così soffocante, così insopportabile… La sua ira, la sua aggressività, la sua boria… Rappresentavano una cortina invisibile stretta attorno al collo di Eleanor, ed erano tutte per lei. «Rispondimi.» Controllati. Attenta a quello che dici. Scelse la mediazione. Un piccolo compromesso strappatole con la forza. «No, signor conte.» «Guardami quando ti parlo.» Eleanor non lo fece. Non riuscì a obbedire, non a quell’ordine che avrebbe potuto significare la perdita di ogni ragionato controllo. Finché avesse mantenuto lo sguardo basso avrebbe potuto evitare di farsi sfuggire frasi inappropriate, mantenendo il controllo della propria indignazione. Ma, per l’amor del cielo, se l’avesse guardato negli occhi… Se avesse obbedito al suo desiderio e avesse affrontato il disprezzo e l’arroganza senza fine che lui le sputava addosso attraverso ogni più piccola espressione… «Guardami!» Ashton l’afferrò per i capelli tirando senza troppa delicatezza la crocchia che li raccoglieva, costringendo Eleanor a sollevare lo sguardo su di lui e a incontrare i suoi occhi. Fu un gesto impaziente, violento: le rubò un gemito di dolore e, assieme al male, le strappò anche ogni controllo sull’astio che trasudava ovunque dentro di lei. «Non provare mai più a mancarmi di rispetto. Non disobbedirmi, non prenderti libertà che la tua posizione non ti permette di avere. Impara a stare al tuo posto, pezzente» glielo mormorò così, a pochi centimetri dal viso; il mento alto e quello sguardo acceso da una luce ferina, l’ira dirompente che rendeva contratto il volto di Ashton. E lei… Lei reagì nell’unico modo che quella sfuriata le consentì di fare: rimanendo in silenzio, immobile, gli occhi fissi su quelli del conte, e un nodo di astio e umiliazione a pesarle sulla bocca dello stomaco. Si costrinse a tacere, le labbra tremanti per lo sforzo di non cedere al macigno che premeva dentro di lei nel tentativo uscire e travolgere. Rimase lì, costretta tra il cornicione e il conte, una mano di Ashton infilata tra i suoi capelli e la sua espressione bruciante a corroderle il 18


cuore. E quando lui la studiò, accarezzando con lo sguardo ogni cosa di lei... Gli occhi e l’anima che vi brillava dentro, le labbra socchiuse in un’espressione di dolore e d’irritazione; la linea che dal collo scendeva giù fino a incontrarsi con la clavicola e poi oltre, in quelle curve costrette dal bustino… Sentì il suo sguardo freddo e cinico incollarsi a lei, doloroso nel crudele disprezzo con cui la soppesava. E i suoi occhi grigi, belli e terribili; il suo volto, arrogante e affascinante in modo insopportabile... Più delle parole di Ashton poté il suo silenzio: riuscì a incrinare la corazza di Eleanor all’improvviso, forte dello sguardo intenso e sleale con cui il conte la inchiodava anima e corpo al cornicione. Ma la crepa apertasi nella sicurezza di Eleanor divenne una debolezza insostenibile quando lui tornò a cercare i suoi occhi: la sentì allargarsi e prendere possesso di ogni controllo, sfaldando in un attimo ogni sicurezza. Quegli occhi intensi che la divoravano in tanti, troppi modi… Quel viso… Fu naturale, una reazione quasi fisiologica che Eleanor non riuscì a controllare, la pelle in fiamme e il cuore che premeva in gola: distolse lo sguardo, a disagio. In imbarazzo. Non può essere! Un pensiero pungente e fastidioso che lo sguardo sorpreso di Ashton rese ancora più inaccettabile. E quando il conte sbottò e si allontanò da lei, irritato e a tratti persino indignato, Eleanor si sentì morire di vergogna. Dio, come poteva mostrarsi così di fronte a un uomo della levatura morale di Ashton Spencer?! «Perché stai arrossendo?» Eleanor non seppe fare altro che negare, una bugia che il suo sguardo sfuggente non contribuiva certo a sdoganare. «Non sto arrossendo!» Troppo veloce, troppo forzata. Falsa. Fu un errore. Sul bel volto di Ashton si disegnò un’espressione di vero disgusto, come se lei non fosse degna nemmeno di rappresentare il terreno su cui pestare i piedi. «Per favore, non mi dire che sei in imbarazzo!» Eleanor rimase gelata a guardare il conte negli occhi e a leggere le insinuazioni che erano espresse fin troppo palesemente in quello sguardo intenso e arrogante. Provare imbarazzo presupponeva un certo tipo di interesse, di attrazione, o per lo meno escludeva l’indifferenza. E la sola idea la indignò perché, Dio, possedere quel genere di debolezza nei riguardi di un uomo come Ashton Spencer 19


aveva il sapore inaccettabile di un crimine. Un reato che Eleanor non aveva la benché minima intenzione di accettare. «Con tutto il rispetto, ma se pensate questo siete pazzo» sentenziò prima di raccogliere il bucato e di assecondare il bisogno istintivo che le suggeriva il cuore: allontanarsi. Rintanarsi nelle cucine, laddove il conte non si sarebbe fatto vedere. Dove lei avrebbe potuto respirare di nuovo. * Ashton rimase immobile sulle scale, inchiodato dalle parole indignate di Eleanor; l’orgoglio ferito e l’incredulità che si davano battaglia dentro di lui per avere la meglio. Non avrebbe mai pensato che quella sguattera potesse arrivare a tanto. Non soltanto aveva rifiutato di piegare la testa, ma gli aveva addirittura dato del pazzo. A lui, ad Ashton Spencer. Il suo padrone. Aveva negato l’imbarazzo provato nel momento in cui l’aveva guardato coscientemente negli occhi – un imbarazzo che, per l’amor del cielo, il conte aveva visto fin troppo bene! -. Aveva rifiutato la realtà. Come ha osato?! Per qualche strano motivo si era sentito punto nell’orgoglio. Negare l’imbarazzo voleva dire mettere in dubbio la sua prestanza, la sua capacità seduttiva e, assieme a tutto questo, rifiutare lui: il suo ruolo, la sua superiorità, la sua posizione, elementi che risultavano indissolubilmente legati in un unico groviglio di amor proprio. Nessuna donna prima di lei era arrivata a tanto, e la cosa lo irritava alla follia. Aveva sperato che negasse finché l’aveva avuta davanti, era vero; ma quando ciò era accaduto, l’orgoglio di Ashton aveva protestato pungolando la sua pazienza come uno spillo acuminato. Il conte Spencer desiderava eppure non voleva, questo era il problema: una contraddizione che gli dava alla testa, che gli faceva perdere la ragione. Lui poteva rifiutare quella serva, lui e soltanto lui, questa era la verità; una possibilità che a lei invece avrebbe dovuto essere preclusa come da ruolo. Era un privilegio che non le avrebbe permesso di avere. Mai. «Piccola stronzetta» sibilò sconvolto dall’ira, le parole che uscivano lacerate tra i denti. Salì le scale in fretta, la rabbia che gridava la propria guerra squassando il velo di silenzio e rigore a cui 20


Ashton si era da sempre votato. Aveva bisogno di solitudine, di rimanere costretto in una stanza vuota ad ascoltare il ritmo irregolare del proprio respiro rabbioso per mantenere la lucidità. Per non perdersi in se stesso. Maledetta pezzente. Le pagherà tutte, una dopo l’altra. Oh, Ashton ne era certo. L’avrebbe fatta disperare, le avrebbe fatto sputare sangue e bile costringendola in ginocchio a pregarlo di perdonarla. Avrebbe fatto ciò per cui l’aveva tenuta vicino: controllarla, piegarla. Avrebbe soffocato in lei qualunque spirito di ribellione che potesse contagiare il resto della servitù. L’avrebbe spezzata usando la sua ira come strumento. Un pensiero che gli diede appena un po’ di sollievo, sicuramente non abbastanza per ritrovare la ragione. Spalancò con rabbia le porte della biblioteca e si fermò chino di fronte a uno scaffale pieno di libri, le braccia appoggiate al mobile, le mani che sfioravano i bordi rilegati dei volumi in cerca di un appiglio per non affondare. «Calmati, Ashton.» Calmati. È solo una serva. Per quanto si ripetesse di lasciar perdere, però, l’ira non faceva altro che attecchire in lui con più ferocia, scavando istante dopo istante una tana sempre più profonda proprio lì, in mezzo allo stomaco. L’avrebbe uccisa, se avesse potuto. Quella sporca pezzente non si rendeva minimamente conto di che cosa rischiava, e Ashton... Oh, Ashton aveva davvero poca familiarità con il controllo. L’unica cosa che ancora lo tratteneva dalla sua folle smania era il pensiero della sua cara famiglia. Che cosa avrebbero detto? Cosa avrebbero pensato di lui e delle sue azioni? Si sarebbero precipitati a Collinwood a imbrigliarlo ancora una volta, oppure… «Fanculo pure loro!» esplose rabbioso, l’ira che premeva contro gli argini erosi del suo autocontrollo. Quando lo travolse completamente, poi, fu come essere ciechi: Ashton si ritrovò improvvisamente preda di una forza più grande di lui, una furia che gli rubò ogni lucidità e che lo costrinse a sfogarne la violenza su ciò che le mani riuscivano a trovare. A farne le spese furono i libri. Li strappò dagli scaffali uno per uno, senza rispetto, come se per ogni volume lanciato potesse gettare via anche un po’ di quella rabbia che gli bruciava la pelle. Non pensò mai, nemmeno per un istante. Non permise alla ragione di intromettersi in quello sfogo. Lì, in quegli istanti di follia, non era 21


importante l’entità dei danni che stava infliggendo a quella collezione antica. L’unica cosa che lo muoveva era la rabbia spropositata e violenta che lo stava facendo impazzire, quell’ira che doveva necessariamente essere gettata fuori. Riuscì a calmarsi solamente quando non fu rimasto nemmeno un libro intatto: tutti i volumi della biblioteca erano riversi sul pavimento, le pagine strappate e le copertine antiche lacerate; una violenza alla storia dell’uomo, alla storia della sua famiglia, alla storia della sua stessa vita. Tutto quello che Ashton e la sua famiglia erano stati – ciò che aveva permesso a lui, a suo padre e alle generazioni che li avevano preceduti di nutrire l’intelletto con parole e concetti, spogliandosi dei bambini che erano stati per diventare uomini – era riverso sul pavimento, protagonista di un disordine empio e catartico che finalmente lo fece sentire libero e lucido. Svuotato. Se ne stava lì, al centro esatto di quella mattanza, il fiato corto e i polmoni che si aprivano affamati d’aria, le braccia pesanti, la testa sgombra da ogni pensiero, mentre dentro di lui non c’era altro che una calma fredda e pungente. Impiegò più di qualche istante per rendersi conto di ciò che aveva provocato. «Splendido, che disastro!» «Signor conte…» la voce di Maggie Thompson arrivò dal corridoio, come in risposta a quel problema sparpagliato ovunque attorno a lui: la ragazza era ferma sull’uscio della biblioteca, gli occhi pieni di quell’ansia consapevole e preoccupata che glorificava Ashton così tanto. La servetta non poteva fare a meno di studiare lo scempio che giaceva a terra, e il modo in cui si manteneva immobile rifletteva il timore per ciò che lui avrebbe potuto farle per il semplice fatto di essere capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Probabilmente desiderava essere altrove, a occuparsi di qualche mansione che non contemplasse il rischio di incorrere nelle proverbiali cattive maniere di Ashton Spencer. Tipico. «Metto subito in ordine, signore» mormorò Maggie facendosi spazio tra i libri riversi sul pavimento e mantenendo lo sguardo basso, timorosa. Curioso che serva proprio la violenza per far capire a questi pezzenti quale sia il loro posto. Fu come avere un’intuizione, un’epifania improvvisa di ragione e lucidità in cui ogni cosa gli fu tremendamente chiara: il sorriso di Ashton divenne un vero e proprio ghigno mentre la ragazza, china sul 22


pavimento, stava già cominciando a raccogliere ciò che restava dei volumi. Finalmente aveva capito cosa fare. Finalmente sapeva come domare Eleanor White. «Chiama la tua nuova amichetta. Avrà lei l’onore di mettere a posto, e già che ci sei…» la sua voce era bassa, per niente incoraggiante. Non prometteva nulla di buono. «Dille che l’aspetto qui.»

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4 Piegata

Eleanor intuì subito che qualcosa non andasse. Stava cambiando le lenzuola nella camera da letto del conte quando Maggie era entrata, ed era stato sufficiente darle uno sguardo per capire: il modo in cui si torceva le mani, la sua espressione preoccupata mentre le riferiva che Lord Spencer aveva richiesto la sua presenza in biblioteca… Una manciata di giorni trascorsi a stretto contatto con Ashton erano stati più che sufficienti per insegnarle un intero codice di lettura con cui interpretare l’atteggiamento di chi gli stava attorno, e quello di Maggie gridava l’arrivo di una pericolosa tempesta. In quel momento, mentre scendeva le scale per raggiungere la biblioteca, cercare d’immaginare quale sarebbe stato l’ennesimo insulto che Ashton le avrebbe urlato era fin troppo semplice. Sarebbe incorsa in uno spettacolo di rabbia incarnata, una scenata fatta di grida, di oggetti infranti e di imprecazioni lanciate al cielo, ne era certa. Ma quello che trovò svoltando l’angolo... Non c’erano rumori né urla ad attenderla, nulla che potesse far pensare a una presenza umana; soltanto un immobile, pesante, soffocante silenzio. Un’assenza di rumore a cui il suo cuore rispose con un guizzo d’inquietudine sleale. Perché non lo sento gridare? Quando si affacciò sull’uscio della biblioteca, la prima cosa che notò furono i libri. Erano riversi sul pavimento come se fossero stati gettati a terra da una mano rabbiosa e violenta, le pagine strappate, profanate, calpestate. Poi vide lui. Era circondato da ciò che restava di quel massacro alla cultura, i volumi sparpagliati ai suoi piedi come vittime sacrificali. Le dava le spalle, ricurvo e stanco, sfinito. Sfibrato dallo stesso demone che l’aveva indotto ad alzare la mano contro l’intera biblioteca e che si trovava ancora lì, in quella stanza, incollato alla sua schiena contratta. Che diamine è successo? «Il signor conte ha chiamato?» Eleanor domandò, la voce che tremava sotto la spinta dell’agitazione; una reazione che non seppe controllare, non in quella stanza. Non quando l’atmosfera che 24


respirava tra quelle mura portava l’odore della violenza appena consumata. Eppure... «Alla buon’ora!» Eppure bastò la punta di sadica ironia che gli colorì la voce nel momento in cui l’accolse. Fu il dettaglio essenziale, quello in grado di bruciare all’istante l’ansia che le aveva fatto tremare le gambe fino a pochi istanti prima. Dio, quanto faticò per costringersi a tacere... Stai zitta. Se parli ora non ne uscirà nulla di buono. Lo sapeva, Eleanor. Lo sentiva nell’elettricità che pizzicava l’aria, lo vedeva nel modo affannato in cui Ashton respirava: meno parlava, più possibilità aveva di uscire indenne da quella camera camminando sulle proprie gambe. Una certezza che tuttavia si incrinò quando il conte cominciò a girarle attorno. Sembra un predatore che sta per balzare addosso alla sua preda. Non lo perse mai di vista. Si guardarono, si cercarono, si sfidarono, in un gioco di sguardi dal quale lei non si tirò mai indietro. Ma quando il conte sparì oltre il suo campo visivo, fermandosi alle spalle di Eleanor... Non poterlo vedere diede nuova forza all’agitazione che portava nel sangue. «Metti in ordine» la voce di Ashton suonò fredda, pericolosa. La sua presenza vibrava dietro di lei, un rumore silenzioso ma ingombrante, impossibile da non percepire. Non la stava toccando, eppure Eleanor lo sentiva vicino, troppo vicino, quasi le sfiorasse le spalle, la schiena. La curva morbida del sedere. E poi quel soffio, quasi un alito, proprio all’altezza della tempia... «Subito» le mormorò all’orecchio, e lei credette di impazzire quando sentì il suo respiro solleticarle la pelle sensibile del collo, proprio sotto il lobo. Oh, Dio. Fu questione di un attimo. Una girandola di sensazioni contraddittorie l’aggredì all’improvviso, al ritmo furioso con cui il suo cuore pulsava nel petto: odiava quell’uomo ma non se ne andava, lo temeva eppure lo sfidava, non le piaceva ma nonostante tutto… No. No! Allontanarsi fu una necessità. Voleva prendere le distanze dal conte, dai suoi pensieri che imboccavano troppe direzioni diverse per poterle seguire. Eppure in quel groviglio di consapevolezze confuse esisteva una luce, un’unica, singola certezza che spiccava chiara nel marasma che aveva aggredito la coscienza: era decisa a obbedire, sì, ma aveva tutta l’intenzione di farlo a modo suo. 25


Fece per protestare, desiderosa di difendere la propria dignità, ma Ashton non sembrò intenzionato a farle una simile concessione. «Non osare.» Fu un sibilo a denti stretti che celava pericolose intimidazioni, e non c’era alcun dubbio a riguardo: il conte avrebbe messo in atto ogni minaccia. «Lo sai che mi stai facendo impazzire? Non è una buona cosa, quindi non tirare troppo la corda e ricorda qual è il tuo posto, serva.» «Posso sapere perché vi farei impazzire?» Lo sapeva benissimo naturalmente, allo stesso modo in cui era consapevole di essere una persona incapace di tacere. Era fatta così: esasperava la situazione, lentamente, finché la cosa non le sfuggiva di mano e le conseguenze non le piombavano addosso con tutto il loro peso problematico. Non era stata capace di trattenersi neppure in quel momento, nonostante Lord Spencer le mormorasse minacce all’orecchio: continuava a sfidarlo con voce ferma, risoluta e sicura, sebbene dentro di sé tremasse come una foglia. Un atteggiamento che sembrava spingere Ashton vicino al limite, verso quella linea di confine che portava a una perdita di controllo definitiva. Violenta. «Perché sei insolente. Ribatti sempre a ogni mia parola, e questo mi fa perdere la testa» il conte riprese a girarle attorno, gli occhi ferini, sconvolti dalla rabbia. «Sei una gran scocciatura, lo sai pezzente? Mi hai davvero stancato.» Fu puro istinto, non riuscì a trattenersi: le parole le scapparono di bocca prima che Eleanor potesse dare loro forma, e lo fecero nella maniera peggiore, con sarcasmo. Un’ironia pungente e provocatrice. «Sono spiacente, signore.» E la reazione del conte fu altrettanto repentina. Prima che Eleanor potesse avere il tempo di allontanarsi, Ashton sollevò la mano contro di lei e la schiaffeggiò con forza proprio lì, in pieno viso, sulla guancia. E il male – quello dell’anima - fu pazzesco. Eleanor si sentì calpestata, umiliata, spogliata di una dignità che non le spettava più nemmeno per il fatto del tutto naturale di appartenere alla razza umana. Lo odiò senza riuscire a darsi un freno, un sentimento oscuro che montò dentro di lei dando vita a un nodo nervoso che le si conficcò in gola prima di salire, arrivando a pizzicare gli occhi. Dio, quanto avrebbe voluto lasciarsi andare al nervoso, concedersi uno sfogo per gettare fuori tutto quello schifo... Se solo fosse stata da sola... 26


«Come osi?!» Ashton gridò insulti contro di lei, il viso reso paonazzo dallo sforzo, ma Eleanor non riusciva ad ascoltarlo. L’unica cosa che le occupava la mente era quanto lo detestasse. Quanto lo disprezzasse come uomo, come persona. Avrebbe voluto colpirlo nell’orgoglio, ferirlo come lei era stata ferita; perfino un’oncia del suo dolore sarebbe andata bene, tutto pur di aprire almeno una piccola ferita dentro di lui. «Non sei altro che una serva! Una sudicia pezzente che rende il mondo sporco con la sua sola esistenza!» Fu troppo. Troppo veleno, troppo astio, troppa crudeltà perché Eleanor potesse rimanere presente e responsabile. Agì senza pensare, senza riflettere sulle conseguenze che un’azione tale avrebbe potuto provocare. Agì e le grida del conte cessarono all’improvviso, appena all’inizio di una nuova sequela di insulti pieni di rabbia e di disprezzo. Lord Spencer rimase freddato, immobile come se l’avessero appena pugnalato, capace solamente di guardare Eleanor come se fosse l’apparizione spettrale di una persona morta da tempo. Si toccò la guancia, la mano tremolante, malferma. Incerta. Aveva appena ricevuto una pugnalata della peggior specie, diretta alla parte più vulnerabile di tutto il suo essere. Era appena stato ferito nell’orgoglio da Eleanor White. Con uno sputo. «Tu–sei-morta.» Quando il conte sollevò la mano, per Eleanor fu impossibile fuggire. Il braccio di Ashton, la minaccia che portava sul dorso, la sua furia irrefrenabile… Ogni cosa si abbatté su di lei e sul suo dannato orgoglio come una poderosa bastonata, piegandola. Levandole il respiro. Facendole perdere l’equilibrio e sbalzandola a terra in un gemito di dolore e di qualcos’altro, un sentimento più semplice e profondo che l’atterrì come nessun’altra cosa avrebbe mai potuto fare. Paura? «Dov’è finito tutto il tuo coraggio, pezzente?» Ashton la canzonò, la sua voce supponente e velenosa. Probabilmente la stava guardando con la stessa boria crudele che rendeva il suo tono aspro e insopportabile, ma Eleanor non sollevò lo sguardo: per esserne certa fu sufficiente sentire gli occhi del conte su di lei, freddi. Indifferenti. E la rabbia lucida che la invase, che la costrinse a toccare la guancia offesa come se potesse riparare lo squarcio che quello schiaffo aveva aperto dentro il suo orgoglio… Il ruolo che Eleanor occupava in 27


quella situazione era chiaro, Ashton lo rendeva palese con ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola: lei era un oggetto in completa balìa dell’unico padrone di casa. Una marionetta al servizio del marionettista. Fu sul punto di cedere al nodo di odio e ribellione che minacciava di esplodere all’altezza della gola, quando accadde. Quando lo sentì toccarle il viso con la punta dello stivale sporco di terra, impregnato dell’odore di boschi e di caccia. Si trattò di un colpetto leggero, il pungolo irritante e cattivo di chi è ancora ben lungi dall’aver terminato gli argomenti con cui imporsi. Un altro messaggio, l’ennesimo ruolo sottomesso da non rinnegare. Non sei diversa dalla terra che sporca questa suola. «Così mi piaci, zitta» Ashton la costrinse a sollevare il viso e a guardarlo negli occhi, il piede sotto il suo mento. Si stava prendendo ogni cosa di lei: la sua dignità, la sua libertà. «Leccami le scarpe.» Il suo orgoglio. Odiarlo non fu mai così facile come in quel momento, con lo stivale di Ashton premuto contro le labbra serrate e la presunzione di quell’uomo a fomentare lacrime rabbiose che Eleanor non gli avrebbe mai concesso di vedere. Dovette mordersi le labbra per impedirsi di gridare. Di dire quello che pensava di lui. Dovette ingoiare l’umiliazione che le bruciava la gola e controllarsi in tutto e per tutto, perché se avesse ceduto non avrebbe più potuto tornare indietro. Eppure avere quella scarpa sporca sul volto, che premeva contro la sua guancia come se volesse spezzare lo spirito di Eleanor costringendola a piegarsi una volta per tutte… Non riuscì a trattenersi. Il bruciore insopportabile di quell’umiliazione pesava sul suo cuore come un macigno, insostenibile. Inaccettabile. Guardò il conte Spencer a lungo, il viso contratto in una smorfia rancorosa, le lacrime che premevano per uscire, l’orgoglio che più di ogni altra cosa spingeva Eleanor a opporsi ancora e ancora, sempre di più, come un muro invalicabile. Uno sguardo di odio e di guerra, il rifiuto di un’anima affatto piegata. Forse fu questo che mandò in bestia Ashton Spencer. Quando le ficcò la punta dello stivale in bocca, Eleanor cercò di ritrarsi, l’odore pungente e disgustoso della terra che anticipava un sapore ancora più vomitevole. Ma non bastò. 28


«OBBEDISCI!» Piegati. Prostrati. Riconoscimi come tuo signore e padrone. Non c’era altro significato che questo, dietro l’insistenza con cui il conte Spencer le colpì il viso sporco di fango. E quando Eleanor continuò a rifiutarsi di sottostare agli ordini folli di quell’uomo, lui fece l’unica cosa di fronte alla quale la ragazza non si sarebbe potuta rifiutare: sfilò la pistola dalla fondina che teneva assicurata alla cintura, sotto la casacca, e gliela puntò addosso. Uno scatto metallico, il proiettile caricato e pronto a far fuoco, ed ecco che ogni priorità venne a cadere. Qualunque rifiuto testardo, l’orgoglio, la rabbia… Ogni cosa rimase congelata e lontana di fronte alla minaccia reale che lui le presentò. Eleanor non lo odiò mai così tanto come in quel momento, mentre gli occhi grigi del conte venivano illuminati da una luce compiaciuta e crudele. Sadica. «Obbedisci.» E lei lo fece. Ingoiando le lacrime e i compromessi indegni che quello che stava facendo sanciva, leccò la punta polverosa degli stivali di Ashton. Lo fece in silenzio, senza concedergli nemmeno un sospiro, gelosa di ogni più piccola debolezza che avrebbe potuto mostrargli; che avrebbe potuto glorificare e nutrire il suo ego storto e malato. Si piegò di fronte a lui senza possibilità di appello, chinando la testa e uccidendo il proprio orgoglio. Il sapore di quell’umiliazione insostenibile sulla lingua le faceva venire voglia di vomitare, ma Eleanor si impose di essere più forte della nausea che lo sporco sulla sua bocca le causava. «Lecca anche l’altro stivale» imperiosa e atona, la voce di Ashton si conficcò nel suo orgoglio ferito come un coltello. E fu bruciore che si unì al fuoco dilaniante di quella vergogna. Ti odio. Leccò. Ti odio, Ashton Spencer. Leccò lo sporco, l’umiliazione, i compromessi. Ingoiò il sangue che sgorgava dal suo orgoglio dilaniato e non guardò mai quell’uomo negli occhi. Donargli lo spettacolo della propria mortificazione era una concessione che Eleanor White non gli avrebbe mai fatto, nemmeno sotto la minaccia tremenda di una pistola. 29


Fu sul punto di alzarsi e affrontarlo, sanguinante ma non spezzata, quando sentì dei passi provenire dal corridoio. «Signore, il conte Russell Spencer chiede di voi. Dice che è importante» Maggie si affacciò all’ingresso qualche istante dopo e quando sorprese Ashton a puntare la pistola contro Eleanor, china sui suoi stivali, sgranò gli occhi preoccupata. Non osò fiatare, una reazione che la giovane White comprese perfettamente e che non biasimò mai, nemmeno per un istante. «Lo raggiungo» Ashton sbuffò, riponendo la pistola nella fondina. Fece per incamminarsi, ma prima di uscire dalla biblioteca si voltò verso Maggie con uno sguardo arrogante, ricolmo di quel disprezzo che dilagava ovunque nella sua anima buia. Fu indifferente, superbo. Padrone. «A proposito, porta via la tua amica. Non mi piace che gli animali sporchino il pavimento.»

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