Ucuntu n.113

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Genova 2011-2011 Nascita di un regime a cura di Nino Recupero

Rai “Sparisce" computer della Struttura Delta...

Bitcoin La moneta elettronica cambierà il mondo?

La bella estate

Black block, Govern block, Cement block, Marchionn block, Dell'Utr block... Non si può stare tranquilli un momento in questo paese, signora mia

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L'appello della società civile per il giudice Salvi a Catania

Satira: Asterix fra i NoTav Roberto Morrione un mese dopo

|| 6 luglio 2011 || anno IV n.113 || www.ucuntu.org ||

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Caso Catania Le associazioni sottoscritte,

nel momento in cui vengono da più parti riportati episodi sconcertanti che coinvolgono fra l'altro aspiranti al posto di procuratore capo al Tribunale di Catania, manifestano la propria preoccupazione per la nomina prevista in conseguenza del pensionamento del Dott. Vincenzo D’Agata e sottolineano la necessità che chi assumerà l’incarico riesca finalmente a disvelare e a rendere pubblico l’intreccio fra poteri economici, politici e mafiosi che, anche in campo nazionale, ormai è noto come il “ Caso Catania”. Come cittadini abbiamo il diritto di sperare in un futuro di legalità e giustizia per la nostra città. A questo scopo le Associazioni firmatarie del presente appello, così come già richiesto, auspicano che la nomina a procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Catania ricada su una personalità di alto spessore che eserciti l'autonomia della magistratura rispetto al potere politico, che sia capace di operare al di fuori delle logiche proprie del sistema politico-affaristico della città, che possibilmente sia del tutto estranea all'ambiente cittadino, che provenga cioè da realtà lontane dall’humus siciliano e catanese in particolare, una personalità che favorisca il riscatto civile della nostra città e che contribuisca a restituirle orgoglio e dignità. Associazione Centro Astalli, AS.A.A.E., Assoc.CittàInsieme”, Assoc. Domenicani Giustizia e Pace, Laboratorio della Politica Onlus, La Città Felice, Assoc. Studentesca e Culturale "Nike", Comitato NO-TRIV, Assoc. Oltre la Periferica, Librino, Punto Pace Pax Christi Catania, Sicilia e Futuro, Associazione Talità Kum

*** La Sicilia è la regione dove si trova la maggior economia sommersa del paese, come recenti e qualificati studi hanno evidenziato, e gran parte dell’imprenditoria cheopera nell’isola usufruisce di complicità o alleanze con le organizzazioni criminali. La mafia ha esteso da tempo i suoi interessi nell'economia “legale”, dove l'accumulazione della ricchezza avviene attraverso relazioni e attività costruite sulla base del coinvolgimento diretto e dei favori scambiati con potentati economici, politici, professionali. Si è creato così uno spazio dove lecito e illecito finiscono per entrare in commistione. L'epicentro di questa "area grigia", dove si intrecciano gli interessi di mafia ed economia, è oggi Catania, come ribadito anche dal Presidente di Confindustria Sicilia.

APPELLI PER LA GIUSTIZIA A CATANIA Al Vicepresidente del CSM Alla Commissione Uffici Direttivi e p.c. Presidente Repubblica che UnaAlcittà dove, da della anni, diversamente a Palermo o Caltanissetta, l'azione di contrasto della Procura è stata assolutamente inefficace. Emblematica, da questo punto di vista, è apparsa la gestione dell’inchiesta che ha coinvolto il governatore Lombardo e il fratello Angelo. Gli inquirenti si sono divisi sui provvedimenti da assumere in merito all'esito delle indagini sul Presidente della Regione. Il Procuratore D'Agata, nelle prese di posizione pubbliche, ha dato l’impressione di un evidente imbarazzo e fastidio nei confronti dell’inchiesta; in un'intervista rilasciata a Zermo, sul quotidiano di Ciancio (a sua volta indagato in altro procedimento), sembra esprimere contrarietà per le considerazioni espresse da Ivan Lo Bello sul peso dell'imprenditoria mafiosa a Catania. Infine, una fotografia pubblicata in questi giorni ha riacceso i riflettori sul “caso Catania”, una vicenda giudiziaria nata dalla denunzia di Giambattista Scidà che lanciò l’allarme di contiguità tra criminalità mafiosa e frange della magistratura etnea. Alla luce di tutti questi fatti e alla vigilia della nomina del nuovo Procuratore della Repubblica, facciamo appello al Csm affinché la Procura di Catania abbia finalmente un Procuratore capo assolutamente estraneo ai giochi di Palazzo e all’intreccio delle poco chiare vicende catanesi. Un magistrato che non subisca le forti interferenze esterne che hanno condizionato da decenni la direzione della Procura catanese. Giolì Vindigni, Gabriele Centineo, Mimmo Cosentino, Angela Faro, Santa Giunta, Vincenza Venezia, Salvatore Cuccia, Luciano Carini, Giuseppe Di Filippo, Enrico Giuffrida, Lillo Venezia, Claudio Novembre, Massimo Blandini, Marzia Gelardi, Maria Concetta Siracusano, Francesco Duro, Margherita Ragusa, Antonella Inserra, Mario Pugliese, Giovanni Caruso, Elena Maiorana, Tuccio Giuffrè, Rosa Spataro, Paolo Parisi, Marcella Giammusso, Giuseppe Pappalardo, Raffaella Montalto, Giovanni Grasso, Federico Di Fazio, Claudio Gibilisco, Riccardo Orioles, Elio Impellizzeri, Ignazio Grima, Angelo Morales, Pippo Lamartina, Andrea Alba, Matteo Iannitti, Valerio Marletta,

Marcello Failla, Alberto Rotondo, Riccardo Gentile, Barbara Crivelli,Massimo Malerba, Enrico Mirabella, Maria Lucia Battiato, Mauro Viscuso, Sebastiano Gulisano, Aldo Toscano, Anna Bonforte, Grazia Loria, Pierpaolo Montalto, Toti Domina, Fabio Gaudioso, Giovanni Puglisi, Titta Prato, Maria Rosaria Boscotrecase, Lucia Aliffi, Fausta La Monica, Salvatore Pelligra, Anna Interdonato, Lucia Sardella, Federica Ragusa, Alfio Ferrara, Federico Urso, Paolo Castorina, Giusi Viglianisi, Laura Parisi, Gaetano Pace, Luigi Izzo, Alberta Dionisi, Carmelo Urzì, Pina De Gaetani, Giusi Mascali, Marcello Tringali, Daniela Carcò, Giulia D’Angelo, Alessandro Veroux, Ionella Paterniti, Francesco Schillirò, Francesco Fazio, Tony Fede, Antonio Presti, Luigi Savoca, Salvatore D’Antoni, Alessandro Barbera, Vito Fichera, Stefano Veneziano, Pinelda Garozzo, Francesca Scardino, Irina Cassaro, Carmelo Russo, Franco Barbuto, Maria Luisa Barcellona, Nicola Musumarra, Angela Maria Inferrera, Michele Spataro, Giuseppe Foti Rossitto, Irene Cummaudo, Carla Maria Puglisi, Milena Pizzo, Ada Mollica, Maria Ficara, Rosanna Aiello, Rosamaria Costanzo, Mario Iraci, Giuseppe Strazzulla, M. C. Pagana, Vincenzo Tedeschi, Nunzio Cinquemani, Francesco Giuffrida, Maria Concetta Tringali, Maria Laura Sultana, Giovanni Repetto, Giusi Santonocito, Marco Sciuto, Tiziana Cosentino, Emma Baeri, Renato Scifo, Luca Cangemi, Elisa Russo, Angela Ciccia, Alfio Fichera, Giampiero Gobbi, Domenico Stimolo, Piero Cannistraci, Roberto Visalli, Mario Bonica, Claudio Fava, Giancarlo Consoli, Maria Giovanna Italia, Riccardo Occhipinti, Giuseppe Gambera, Orazio Aloisi, Antonio Napoli, Giovanni Maria Consoli, Elsa Monteleone, Francesco Minnella, Antonia Cosentino, Sigismonda Bertini, Giusi D’Angelo, Lucia Coco, Fabrizio Frixa, Santina Sconza, Felice Rappazzo, Concetto De Luca, Maria Luisa Nocerino, Alessio Leonardi, Renato Camarda, Angelo Borzì, Chiara Arena, Alberto Frosina, Gianfranco Faillaci, Daniela Scalia, Lucia Lorella Lombardo, Pippo Impellizzeri, Giuseppe Malaponte, Antonio Mazzeo, Marco Luppi, Ezio Tancini, Aldo Cirmi, Luca Lecardane, Rocco Ministeri, Gabriele Savoca, Fulvia Privitera, Daniela Trombetta, Vanessa Marchese, Edoardo Boi, Stefano Leonardi, Ivano Luca, Maria Crivelli, Guglielmo Rappoccio, Grazia Rannisi, Elio Camilleri, Rosanna Fiume, Alfio Furnari, Claudia Urzi, Luigi Zaccaro, Daniela Di Dio, Gigi Cascone, Ettore Palazzolo, Nunzio Cosentino, Matilde Mangano, Andrea D'Urso, Daniela Pagana, Stefania Zingale, Concetta Calcerano, Luana Vita, Maria Scaccianoce, Costantino Laureanti, Pierangelo Spadaro, Paola Sardella, Luisa Gentile, Antonio Salemi, Antonino Sgroi...

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Politica

Buone vacanze, anzi no C'è tanto da fare, proprio ora...

Spero che siate in vacanza, tutti meno quelli che portano avanti siti, blog, movimenti e roba varia. Siete infatti l'unica forza concreta di questo paese. I politici, per quanto benintenzionati, sono dilettanti: Di Pietro che fa i capricci, Vendola sì-e-no, Veltroni che vuole i referendum ma nel Pd, Grillo che oggi è Mao e domani Fantozzi... I cattivi, purtroppo, in vacanza non ci vanno mai. Noi abbiamo dimenticato il G8, ma loro no, e infatti ci riprovano a ogni occasione. Noi non riusciamo a fare una rete unita, e loro appena possono ce la strozzano coi bavagli. Noi ci accapigliamo sul sesso dei diavoli e loro, ridendo e scherzando, preparano golpe alla vaselina. Gli operai, in vacanza ci vanno poco e male. Quelli più fortunati (i polentoni, i terroni al nord e tutti gli altri “perbene”) ci vanno col cuore in gola, non sapendo se ritroveranno la fabbrica (svanita in Cina, in India, o semplicemente in cocaina) e se dovranno lavorare il doppio o solo qualche ora in più. Per tutti gli altri – callcenterine romane, neri, terroni al sud, muratori rumeni – la parola “vacanza” è una di quelle a cui anche solo pensare è pericoloso, come “pensione”, “contratto”, “orario” o “avvenire”.

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Ecco, è un'estate così. Ma non stava vincendo il centro sinistra? Ma Berlusconi non stava andando a ramengo? Sì, nei giornali è così. Ma nella realtà non ci sono solo la destra e la (centro)sinistra, c'è anche chi sta sopra e chi sta sotto. Lo scontro vero è quello, anche se è maleducato parlarne. Ma tutto ciò che succede, Berlusconi o Bersani, lega o tricolore, ha un senso solo se chi sta sotto comincia a salire un poco, e questo non lo decide la “politica” ma altre cose. I guai in famiglia non mancano, siamo sinceri. C'è lite fra Cgil e Fiom, cioè fra il sindacato “politico” e quello degli operai organizzati. Noi – fra amici si parla chiaro – diciamo che ha ragione la Fiom, pane al pane. Fa male la Camusso a trattare su cose senza le quali né gli operai né il Paese possono campare. Ma non di tradimento si tratta, bensì di errore: uno dei tanti sbagli in buonafede di cui è costellato il cammino (né sarà l'ulti-

mo) dei lavoratori. Non è un pranzo di gala, diceva il tale. L'importante è che almeno qualcuno abbia le idee chiare e non si lasci scoraggiare e abbia pazienza, e poi la dura realtà – l'unica maestra seria – farà il suo lavoro. Ricordo quell'operaio cinquantenne, si chiamava Bastiano, il più diffidente della fabbrica. “Sciupirari? e picchì? cca concludemu? 'A fuorza, simpri iddi ci l'hannu!”. Eppure, quando occupammo la fabbrica, era davanti al cancello, in prima fila: “Non si campa cchiù! Che vita è? Pissu ppi pissu, facemu a luttacontinua tutt'insemi e quannu finisci si cunta!”.

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Nella crisi Marchionne (su cui insistiamo moltissimo perché è il centro di tutto, sia della “politica” che della realtà vera) c'è stato un episodio trascurato dai media, ed anche dalla maggior parte dei blog indipendenti. E' stato quando gli operai della Fiat serba, quella che doveva far da crumira a Mirafiori, a un certo punto propongono ai torinesi: “Bene, allora incontriamoci e mettiamoci d'accordo. Magari organizziamo qualcosa insieme. Visto che il padrone è lo stesso...” Non è che siano stati presi molto sul serio. Normale, nell'ottocento (siamo nell'ottocento, lo sapete). Normale ma non scoraggiante – all'inizio le cose vanno piano. Fatto sta che per la prima volta è stata messa sul tavolo, elementare ingenuo e tutto quel che volete, l'idea di uno sciopero multinazionale. E' un'idea pericolosa, specie se messa insieme (e qualche operaio ci penserà, ci puoi giurare) con l'altra di organizzarsi in rete (Tunisia, Milano) per fare cose “politiche”, più o meno moderate. Io dico che andrà così, prima o poi. “Uno inventa la tipografia e quegli zozzoni di operai dopo un po' ne approfittano per farsi i volantini. Si figuri con internet, signora mia”.

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Succedono tante cose, nel mio paese. Al Nord i volontari cattolici spazzano via la Lega. A Parma i cittadini che due anni fa lodavano i vigili che picchiavano i negri ora linciano il sindaco di cui hanno scoperto, poveri innocenti, che è un po' ladrone. A Napoli, la città più “qualunquista” d'Italia

(giusto, signora mia?), dànno a De Magistris esattamente gli stessi voli di trent'anni fa a Bassolino: traditi ma non arresi, non rassegnati affatto al “non c'è nulla da fare”. A Roma “consulitur”, ma Sagunto non si lascia espugnare affatto. Questo è il clima.

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Tutto questo si unisce in un concetto semplice: facciamo rete. Dappertutto, e senza etichette. Abbiamo un modello vincente, è l'antimafia. Senza etichette e chiacchiere (e quando ne ha di solito sono dannose), è il movimento-locomotiva di tutti gli altri. Vi serve un programma politico? Tre parole: Dalla Chiesa e Impastato. E poi non mollate i siti, continuate a remare. Certo, ciascuno di noi è moralmente giustificato quando non ce la fa più e molla il remo. Tutto così pesante, nessuno a dirti bravo. Eppure dobbiamo continuare. Non siamo più stretti in difesa ma stiamo costruendo - ora - l'alternativa.

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Io dico “siti” perché sono vecchio e mi pare di dire chissà che modernità. Ma in realtà le cose sono molto più avanti, e a portata di mano. Per esempio: c'è la tv guarda-e-dormi che sta morendo, per colpa non di Santoro ma di i programmi divertenti su YouTube (“Freaks” ha preso milioni di accessi, e con quattro soldi). C'è la destra che è morta, e sono i gruppi FB che l'hanno seppellita. C'è il centrosinistra che non osa essere troppo di destra (e Dio sa se vorrebbe) per paura di restar solo. C'è Repubblica che migra sempre più da carta a rete (sempre restando saldamente in mano a un padrone) applicando i suoi soldi alle nostre idee. Ma soldi non ce ne vogliono poi tanti. E noi stiamo qui a fare (solo) il nostro sito? Riccardo Orioles (PS: A Catania Tony Zermo ha appena benedetto il nuovo sindaco, un giovane “di sinistra” assai ragionevole. Il suo rivale – o alleato, non s'è capito bene – è un giovane “di destra” altrettanto ragionevole. Danno interviste insieme, fraternamente. Entrambi sono amici delle costruzioni ragionevoli (corso Martiri, ad esempio), entrambi ragionevolmente ben trattati da Ciancio. Auguri...)

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Mondo nuovo

E' nata la moneta del futuro Si chiama bitcoin Un sistema economico in cui i soggetti principali non siano solo le grandi banche e i governi ma anche un gran numero di cittadini connessi in rete, liberamente. Utopia? Certo. Ma anche Linux, una volta, era un'utopia: oggi fa funzionare la maggior parte di internet. Libero, senza grandi poteri, free source e basato sul web: il mondo del futuro (se non si autodi strugge prima) tutto sommato potrebbe anche essere così

Il Bitcoin è una moneta elettronica che unisce tre elementi tecnologici: 1) Il calcolo distribuito: invece di un supercomputer, tanti piccoli computer connessi tra loro, come nel programma SETI@home del 1999 (ricerca di segnali radio extra-terrestri) o in Folding@home del 2000 (analisi di assemblamenti di proteine). I primi usi di questa tecnologia risalgono agli anni '70, da Arpanet a Usenet e finalmente a Internet. 2) Il peer-to-peer (P2P): non c'è un server centrale ma ciascun utente fa da server a tutti gli altri. Appartegono a questa categoria i programmi di scambio file, da Napster a Torrent. 3) Il trasferimento di moneta tra conti pubblici usando crittografia a chiave pubblica come Pretty Good Privacy (PGP), nato nel '91. Tutte le transazioni sono pubbliche e memorizzate in un database distribuito. Tutte queste tecnologie hanno avuto una popolarità immediata, tali erano le genialate dei loro inventori: Shawn Fanning, Sean Parker, Bram Cohen, Phil Zimmermann. Popolarità non vuol dire vita facile: Napster fu

comprato e chiuso, il creatore di PGP incriminato. I creatori del Bitcoin sono nascosti da uno pseudonimo giapponese, Satoshi Nakamoto, e nel 2009 hanno realizzato la prima plausibile manifestazione di una “cryptocurrency” open source e globale. Complessi algoritmi controllano cioè la creazione della moneta, rendendo teoricamente inutili le banche. L'attività di generazione della moneta elettronica viene definita "mining" (gergo dei cercatori d'oro...) e viene svolto da un software open source che sfrutta la potenza di calcolo della scheda video. Con l'aumento dei bitcoin in circolazione, questa operazione richiede sempre più potenza computazionale. Il loro totale è fissato a 21 milioni (adesso ne sono presenti 6,7 milioni), mimando anche qui la scarsità dell'oro. Ma quanto vale un bitcoin, in realtà? Nel maggio 2010 un utente di forum, dalla Florida, chiedeva dove poteva comprare due pizze maxi coi suoi 10mila bitcoin (allora equivalenti a circa 40 dollari), suscitando ironie su una pizza così costosa. Con gli stessi bitcoin, adesso, potrebbe comprare un'auto di grossa ci-

lindrata. Il bitcoin infatti a gennaio 2001 valeva 0,2 dollari, a maggio mezzo dollaro, e un mese fa ha sfiorato i 30. Beh, non siamo alle leggendarie azioni Cocacola trovate nella cassapanca del bisnonno, ma un portafoglio bitcoin è memorizzato in un file del computer e resta lì finchè non viene ritrovato. *** Il bitcoin è lo strumento ideale per il micropagamento. Oggi donare un dollaro (o un euro) o spenderlo per un servizio si può fare solo passando per una compagnia telefonica (ih Giappone o in Usa) o addirittura per una banca (in Europa), con costi enormi. Con Paypal, ad esempio, su 1 euro quasi il 40% andrebbe in commissione. Il bitcoin è libero, funziona in rete e nessun potere esterno può metterci le mani. Ti permette di donare denaro a WikiLeaks, per esempio, dopo che Visa, Mastercard e Bank of America gli hanno chiuso i conti (permette anche di evadere le tasse, è vero: ma per questo, soprattutto in Italia, non c'era bisogno di aspettare sistemi nuovi...). E qualche governo magari lo vietasse, visto che è così indipendente? In teoria potrebbe farlo, ma in pratica… Sarebbe come riuscire a impedire davvero di scaricare musica "pirata".

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Mondo nuovo

Secondo WikiLeaks (28 giugno 2011, vedi sito) “il bitcoin è una moneta elettronica sicura e anonima. I bitcoin non sono facilmente tracciabili, e sono una veloce e tranquilla alternativa agli altri metodi di donazione. Quando Visa e MasterCard sono felici di dare servizi al Klu Klux Klan ma non a WikiLeaks, è tempo di agire”. *** Abbiamo "minato" il nostro primo bitcoin: che cosa ne facciamo ora? Possiamo convertirlo in euro attraverso MtGox per ricevere un bonifico su un conto bancario europeo, o attraverso WmCenter per ricevere euro su un conto Paypal. Su MtGox, al cambio odierno di 14 dollari a bitcoin (ma con una commissione di circa 50 centesimi), un bitcoin frutterebbe sui dieci euro accreditabili sul conto. Oppure possiamo spenderlo per ricevere beni o servizi. Già ora su www.spendbitcoin.com possiamo cambiare i bitcoin con buoni-acquisto usabili su Amazon (di qualunque nazione, anche amazon.it!). Uno dei siti più originali invece è www.forbitcoin.com, dov'e si possono comprare o vendere servizi di ogni tipo: traduzioni, assistenza informatica, creazione di loghi e siti, e anche cose strampalate, come l'ateo pronto a convertirsi e a pregare per te per

pochi centesimi, o il tizio che ti scrive lettere e poesie per aiutarti a conquistare (ma anche a lasciare) la tua ragazza. E ancora fare i compiti di matematica, farsi ritrarre in versione manga, vendere polline d'api... Non solo acquisti: www.biddingpond.com è uno dei primi esempi di siti di aste, come Ebay, ad avere il bitcoin come moneta. Le offerte in Italia sono ancora poche e poco battute, è frequentato da gente che abita oltreoceano, ma è possibile acquistare tra le altre cose materiale informatico e olio d'oliva. *** Bitcoin è "esploso" come visibilità a maggio, coi pezzi dedicatigli dei giornali economici "ufficiali" (Enonomist, Financial Times, Business Week). Questa popolarità purtroppo nelle ultime settimane ha richiamato anche l'attenzione dei ladri. E' arrivato il primo malware che ruba portafogli virtuali (più o meno come Serpe nei Simpson...) ed è stato attaccato MtGox, il più grande sito di trading di bitcoin, costringendolo a chiudere per una settimana per risolvere i suoi problemi di sicurezza. MtGox scambia sui 50mila bitcoin al

giorno, il suo immediato rivale, Tradehill, circa 1000. Un sostanziale monopolio, strano in un sistema decentralizzato. E anche nel mining le cose non vanno meglio: Deepbit "mina" un terzo dell'intera rete (4000 Ghash/s sui 12mila del totale). I nuovi ingressi tuttavia sono impressionanti (e hanno reso reso più lenta la creazione di nuovi bitcoin). Fra Usa, Giappone e Europa si calcola che nelle ultime ventiquattr'ore (bitcoinwatch.com) siano stati trasferiti 469.372, 94 bitcoin, circa 20mila all'ora. Se è un inizio, è un buon inizio. Goemon bitcoin-italia.blogspot.com/

Altri link: www.bitcoin.org/ it.wikipedia.org/wiki/Bitcoin www.businessweek.com/magazine/content/ 11_26/b4234041554873.htm www.guardian.co.uk/technology/2011/jun/22 /bitcoins-how-do-they-work www.economist.com/blogs/babbage/2011/0 6/virtual-currency

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Napoli

Alì cerca un letto «Fino a sette mesi fa lavoravo in una ditta molto grande. All’improvviso sono stato licenziato e ho perso tutto. Vivo qui da due mesi e sono in attesa di una sistemazione migliore. Quando ho perso il lavoro, ho perso tutto» «Ho ventisette anni e vengo dal Marocco. Sono qui per sapere se è disponibile un posto letto. Fino a ieri sono stato a casa di amici. Ci sono rimasto per due mesi ma ora devo trovare una soluzione perché non si può stare in quattro in un appartamento di diciotto metri quadri e pagare duecento euro ciascuno». Alì non si fida affatto degli operatori del 115, il servizio urgenza per i senza domicilio fisso disposto dalla regione Alta Normandia. Il 115 gli ha già confermato la disponibilità ma lui è titubante e non ama sorprese. Insieme a una trentina di lavoratori è lì, in fila dinanzi al portone d’ingresso del centro di accoglienza di Abbè Bazire, nella cittadina francese di Rouen. La moltitudine umana in attesa assume quasi le sembianze di un serpente lungo venti metri, a più teste, tutte rivolte nella medesima direzione e pronte a cacciare una preda che tarda a venire. Sono le tre di un freddo pomeriggio di gennaio. La smania dell’attesa, per Alì, si traduce in un fumare isterico. La sua sigaretta assume sempre più l’aspetto di una miccia a combustione veloce dalla punta incandescente. Alì è sbarcato in Normandia nel giugno del 2010 e ha poi peregrinato per le diverse città della regione lavorando come muratore, scaricatore, operaio agricolo e dormendo un po’ ovunque.Ha paura di non farcela, di rimanere di nuovo per strada a lasciarsi irrorare le ossa dall’umidità che le notti d’inverno sono solite portarsi dietro in questi luoghi. I

centri di accoglienza per i senza domicilio fisso non mancano nella piccola cittadina di Rouen. Solo per le urgenze ve ne sono quattro, per un totale di quattrocento posti letto. A scarseggiare sono però i posti disponibili per i sans papiers come Alì, i lavoratori sprovvisti di documenti, confinati nei segmenti più torbidi del mercato del lavoro francese. Alle quindici e dieci minuti comincia a farsi vivo l’addetto all’accoglienza. La folla dei senza dimora comincia lentamente a sfoltirsi. Di Alì non c’è più traccia. Lo incontrerò dopo qualche ora con le coperte tra le braccia in una delle camerate della struttura. Per Bertrand De Launay, direttore del centro, il numero di immigrati senza documenti che chiedono aiuto alla struttura aumenta vertiginosamente di anno in anno e allo stesso ritmo di quello dei lavoratori francesi. Nel centro di Abbè Bazir, su centoventi posti letto, solo venti sono destinati ai sans papiers e si può restare per un massimo di sessanta giorni. Restare di più significherebbe impedire l’accesso a tutti i clandestini a venire e il loro regolare avvicendamento all’interno della struttura. Il centro di accoglienza è un edificio a tre piani, vecchio di trent’anni, ma tenuto abbastanza bene. Le possibilità di permanenza al suo interno variano a seconda dei casi e ogni notte trascorsa qui ha il misero costo di un euro e cinquanta centesimi. Al distributore automatico di bevande incontro Thibault. È appena tor-

nato dal lavoro e ha bisogno di una sferzata chimica a base di caffeina. Sfinito in viso, con gli abiti da lavoro sudici di fango e un taglio sul collo mezzo sanguinante, mi regala un fievole saluto. Thibault è nato e cresciuto a Rouen e lavora come muratore in giro per l’alta Normandia. È il direttore del centro a presentarmelo. Stamane a Dieppe, dove stava ristrutturando un edificio, un calcinaccio gli è atterrato sul collo provocandogli una piccola ferita. «Fino a sette mesi fa lavoravo in una ditta molto grande. All’improvviso sono stato licenziato e ho perso tutto. Vivo qui da due mesi e sono in attesa di una sistemazione migliore. Quando ho perso il lavoro, ho perso tutto. Ho perso la mia casa e anche la mia compagna. I primi mesi li ho passati in macchina, poi ho superato la vergogna e ho deciso di venire qui. In questa struttura la maggioranza sono lavoratori, immigrati e non. È tutta gente che fa lavori di merda e che non ha soldi per prendere un appartamento. Io sono stato costretto a mettermi in proprio per lavorare e quando sei lavoratore autonomo può anche capitare che in un mese lavori solo dieci giorni e quindi la casa non te la puoi permettere». Paghe da fame, precarietà, instabilità occupazionale, disoccupazione, ingrossano ormai, in mezza Europa, le fila del popolo dei senza dimora. Quello dei lavoratori poveri è un esercito che sembra quasi scomparso dall’immaginario collettivo, dal dibattito politico,

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Napoli

e la cui miseria viene continuamente oltraggiata dai postulati della retorica neoliberista. Ad Abbè Bazir ci lavora anche Antoine. Lui coordina l’unità di strada dei maraudeurs, i cacciatori notturni di Sdf pronti a prestare soccorso in qualsiasi ora della notte. Antoine studia alla facoltà di Lettere e anche lui ha vissuto per strada tre anni. Ha venticinque anni e un solo dente in bocca. Ha un accento quasi incomprensibile, tipico degli abitanti delle campagne della Normandia. «Mio padre è morto cinque anni fa e io sono rimasto solo con mia mamma e i miei fratelli. I miei lavoravano la terra ma dopo la morte di mio padre è stato impossibile per mia mamma occuparsi di tutti i suoi figli. Così, un bel giorno, sono andato via di casa per cercare un lavoro. In realtà ne ho trovati tanti ma tutti per brevi periodi e pochi soldi. Avevo la terza media ed era

difficilissimo trovare un buon lavoro. A Le Havre conobbi un amico, nella mia stessa situazione, e con lui decisi di comprare una macchina, quelle quasi da buttare, da utilizzare per brevi spostamenti e per dormirci dentro. Dormivamo sulle strade che portano alla campagna, lontano dal centro, lontano da tutti. Quando di mattina arrivavano i contadini noi eravamo già a lavoro. L’ho tenuta per tre anni, era diventata la mia casa. Poi, venendo qui ad Abbè Bazir ogni dieci giorni per farmi una doccia, conobbi i ragazzi che lavorano nella struttura. È grazie a loro che sono riuscito a diplomarmi e poi iscrivermi all’università. Certo, lavorando di notte, è dura studiare, ma alla fine mi piace e lo faccio volentieri. Col lavoro cerco di aiutare gente come me, ma non è così facile. Però, almeno ci provo». In Francia il velo dell’indigenza si stende ormai dai centri urbani alle cam-

pagne. Cresce costantemente il numero di lavoratori costretti a dormire in macchina o in piccole case di cartone. La povertà morde quasi otto milioni di persone. Qui come altrove, il lavoro non è più sufficiente a proteggere la gente dalla povertà. Qui come altrove, cominciano a sanguinare, profonde, le piaghe inflitte dai signori del profitto. È ormai buio quando lascio l’Abbè Bazir. All’uscita, sul marciapiedi, i fari delle macchine in transito illuminano a scatti i volti di gente in marcia. A passaggio ravvicinato incrocio i loro sguardi. Sono quattro, uomini, tornano da lavoro, ridono e sorseggiano birra. Dopo pochi metri mi volto a guardarli: sono anche loro diretti all’albergo dei poveri. Giuseppe D'Onofrio Napoli Monitor

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Movimento

Roberto Morrione un mese dopo Libera Informazione riprende il suo cammino È trascorso un mese esatto da quel venerdì 20 maggio, il giorno in cui Roberto Morrione ci ha lasciato dopo una lunga battaglia, affrontata a testa alta contro la terribile malattia che ne minava la salute da tempo. Era un guerriero, come è stato ricordato il giorno dei suoi funerali e come un invincibile samurai si è battuto fino alla fine, con straordinaria lucidità. Il direttore non faceva mistero dei suoi problemi di salute, conscio come era del fatto che i problemi andavano affrontati e non nascosti. E per questo ha sempre guardato avanti: non per paura di sottrarsi al destino purtroppo scritto, non per la volontà di esorcizzare il male correndogli incontro, ma piuttosto per una questione di dignità, personale e collettiva. Pur avvertendo il peso della sua condizione, allo stesso tempo Roberto non voleva che il dolore personale lo sottraesse a quello che era stata una ragione di vita, il suo impegno per un giornalismo capace di raccontare la vita delle persone e contribuire a migliorarla. Non solo la denuncia di ciò che non andava o il racconto delle miserie umane, ma soprattutto la proposta capace di sollevare speranze e di mobilitare impegno. In queste lunghe settimane di lui abbiamo rivisto interventi significativi e riletto parole importanti; di lui hanno scritto e detto tanti altri meglio di quanto noi stessi potremmo fare, ovviamente; di lui abbiamo parlato privatamente con amici e colleghi e anche pubblicamente, in occasione di alcune uscite già programmate prima della sua scomparsa. Impegni che sono stati mantenuti, come quello del “Premio Ilaria Alpi”, nonostante la morte nel cuore, compagna muta e dolente di questi giorni. Parlare di lui, ricordare il suo insegnamento, non solo professionale, ci permette di non sentirlo troppo lontano, ci offre la possibilità di rivivere, anche se per un attimo, le tante occasioni di scambio profondamente intellettuale e di incontro veramente umano che ci ha regalato. In questo mese ne sono successe di cose importanti per il nostro Paese: dagli esiti imprevisti del ballottaggio per le elezioni

amministrative, con la conquista di città importanti per il centrosinistra, da Milano a Napoli, passando per Bologna e Torino alla straordinaria cavalcata che ha portato, contro ogni previsione e bavaglio mediatico, all’esito positivo dei referendum. Di quest’ultimo risultato, in particolare, Roberto avrebbe gioito in quanto segno di quella volontà di cambiamento che ha segnato anche la linea editoriale di Libera Informazione. Linea editoriale che – va detto solo per inciso e non per gusto di polemica – non ha convinto qualcuno, anche all’interno di ambienti insospettabili, per la chiara denuncia del malaffare e della corruzione che ha ammorbato le istituzioni negli ultimi anni e per la ricostruzione puntuale dei danni provocati dall’incontro delle volontà di mafiosi e corruttori con quella di uomini che hanno tradito il giuramento di fedeltà allo Stato. Raccontare la deriva delle istituzioni repubblicane, il mercimonio delle funzioni pubbliche non è stato per Roberto Morrione e Libera Informazione uno sfoggio di consunta moralità o la ricerca di un irrinunciabile scoop sulle escort nei palazzi del potere. Ritornare con caparbietà sul periodo del 1992/1993 per cercare di svelarne le trame non è stato per Roberto Morrione e Libera Informazione un vezzo intellettuale ma piuttosto il tentativo serrato di arrivare a trovare le prove dei fatti che hanno influenzato e continuano ad influenzare la vita del-

la nostra democrazia. Per rievocare la tensione morale di Roberto Morrione in questa direzione, pensiamo alle parole scritte da un altro intellettuale di valore, Pier Paolo Pasolini per il Corriere della Sera il 14 novembre del 1974: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frsammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere». Anche Roberto sapeva e non voleva tacere di fronte allo scempio attuato in questi anni di ogni funzione pubblica da parte di chi avrebbe dovuto avere come unico riferimento la Costituzione e non il proprio tornaconto o le proprie depravazioni. Anche Roberto sapeva e non aveva mai smesso di cercare i tasselli che compongono il complicato mosaico di anni passati ma ancora incombenti. Lo aveva fatto anni fa, mandando in onda su Rainews 24 l’ultima intervista a Paolo Borsellino. Ci si dimentica spesso di questa decisione presa in solitaria, anche nei libri migliori che ricostruiscono con maggior puntiglio quegli anni, perché è quasi consolatorio pensare che in Rai nessuno ebbe il coraggio di fare quello che andava fatto e serve ad accreditare la giusta tesi della necessità di un servizio pubblico che sia veramente dalla parte dei cittadini. E invece Roberto si prese quella responsabilità difficile, difendendo poi a spada tratta quella scelta, come era giusto fare. Abbiamo ricordato nel giorno dell’ultimo saluto, presso la sede della Provincia di Roma, che quella fu la prima decisione presa come direttore di Libera Informazione perché ne siamo convinti. Del resto, se si dipana il filo rosso della carriera professionale di Roberto Morrione, si troveranno

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Movimento

molte tracce in direzione di un giornalismo al servizio della democrazia: dagli esordicon Enzo Biagi alla lunga carriera all’interno delle redazioni giornalistiche dei Tg della Rai, dalla coraggiosa inchiesta sulla P2 al lancio di Rai International, per arrivare alla creatura di cui andava più fiero, Rainews 24. E non è un caso il coinvolgimento in questi anni nel percorso di Libera Informazione degli uomini e delle donne che lo hanno accompagnato nell’ultima avventura in Rai. Sono stati proprio i colleghi di Rainews i più vicini a Libera Informazione in questi giorni: le due ultime redazioni di Morrione insieme di strada ne faranno ancora molta. E ancora, in questo mese senza Roberto, sono da registrare l’operazione Minotauro in Piemonte e l’avvio del processo alle cosche calabresi in Lombardia, colpite dal blitz del 2010 coordinato dalle DDA di Milano e Reggio Calabria. Per il nostro direttore sarebbero state la conferma della puntuale attenzione che ci aveva invitato a mantenere sulla colonizzazione dei territori del nord Italia da parte delle cosche. Quando incominciammo a scriverne eravamo in compagnia di pochi; quando lo scorso anno pubblicammo “Ombre nella nebbia” ci prendemmo anche dei visionari allarmisti, salvo poi vedere utilizzato il dossier dalle redazioni giornalistiche più quotate o per la stesura dei tanti libri usciti sull’argomento. Senza ovviamente citata la fonte. Roberto ne aveva sorriso compiaciuto, contento che il nostro lavoro servisse a movimentare altre inchieste, nuove attenzioni. Sulla necessità di approfondire il tema della presenza delle mafie al nord, torneremo nei prossimi mesi, con un’importante iniziativa in collaborazione con la Regione Emilia Romagna. In fondo questo è uno dei tanti obiettivi raggiunti di Libera Informazione: raccontare quello che altri non raccontano, rilanciare le notizie che non arrivano al grande pubblico, creare rete all’interno di un mondo professionale dove il solista è la regola e la squadra l’eccezione. E, sempre in questo

mese senza Roberto, è emerso con assoluta chiarezza la necessità di riforme che diano speranze agli italiani, soprattutto a quelli più giovani che chiedono lavoro e dignità, secondo i diritti sanciti dalla Costituzione. Ecco l’amore di Roberto per la Costituzione era pari a quello per la sua professione: il lavoro giornalistico per lui era un fattore di cambiamento civile. Così si spiegano i suoi impegni sindacali e politici e anche la stagione vissuta con Libera, con la nascita di Libera Informazione. Per descrivere meglio il pensiero di Roberto sulla funzione della professione giornalistica sono utili le parole di Pippo Fava che in uno dei suoi editoriali per il “Giornale del Sud”, scrisse: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon

governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare. E le sofferenze e le sopraffazioni, la corruzione, la violenza che non è stato capace di combattere». Insomma in questo mese di cose ne sono successe tante e però siamo stati fermi, senza avere la possibilità di raccontarle, per i normali problemi burocratici che seguono la scomparsa di chi dirige il lavoro giornalistico di una testata e che stiamo risolvendo. A tale proposito formuliamo i migliori auguri di buon lavoro per Santo Della Volpe, il nuovo direttore di Libera Informazione. A lui passa il testimone, mentre a noi della redazione tocca il compito di continuare a giocare insieme con il contributo di tanti, a partire dai collaboratori e dai lettori. Non sarà facile riprendere e soprattutto continuare, avendo perso il regista e il presidente della squadra. Ci proveremo, dobbiamo provarci, per rispetto a quanto Roberto ha costruito e ci ha consegnato. Per chiudere quello che è un saluto ma anche una promessa che vogliamo fare a Roberto, prendiamo a prestito quanto scritto da altri valorosi colleghi. Sono le parole che chiosano l’editoriale con il quale “I Siciliani” tornarono in edicola all’indomani dell’uccisione del loro direttore. Profondamente diverso il contesto, profondamente diverse le ragioni di quelle frasi ovviamente, ma assolutamente identico è il dolore, assolutamente identica è la determinazione che ci accompagnano. Ecco perché scegliere queste parole, senz’altro dure, ma altrettanto dense in termini di volontà. «Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti. Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?» Lorenzo Frigerio Liberainformazione

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In questo Stato

Ritorno a Librino Era da più di due mesi che non andavo a Librino, l'ultima volta ci ero stato con la dottoresa Giardina per fare un sopralluogo. Sabato ci sono stato da volantinatore e ho girato tutto il Viale Moncada; sono tornato indietro nel tempo a quando ero bambino e andavo a giocare nei terreni di arance che c'erano lì. Oggi al posto dei terreni ci sono una schiera di pallazoni in cemento grigi brutti. Addentrandomi per cercare le cassette della pubblicità vedo muri spaccatti, mentre metto i deplian nelle buche scende la signora Giovanna che dice : “M sempri catti puttatti, soddi non ni puttati mai!”. “A simana ca trasi”, rispondo. Continuo il mio giro e attorno a me ci sono solo palazzi. Incontro due ragazzi in motorino: “Senti ma tu per dividere volantini - mi dicono - quando guadagni? “Dipende - rispondo - Quando distibuisco il catalogo guadagno 40 euro al giorno, quando è il depliant sono 23”. “Grazie per l'informazione" dicono, evanno via. Poi passo davanti al palazzo di Viale Moncada tre (il Palazzo di cemento), mi fermo per un attimo, chiudo gli occhi e ritorno ancora una volta indietro a quando là c'era un agrumeto inmenso. Da circa due mesi il Palazzo di cemento è stato sgombrato, le famiglie che lo occupavano sono state deportate chi in albergo, chi in pensioni, alcune famiglie sono finiti alla colonia Don Bosco che si trova alla Playa. Io non dico che il signor Sindaco non doveva fare l'ordinanza di sgombero, anche perchè lo stabile versa in condizioni pietose, cumuli di spazzatura per le scale, muri spaccati, fili elettrici sparsi in giro; però deve dare una sistemazione dignitosa alle famiglie che abitavano il pallazzo. Luciano Bruno

Perché chiudono le librerie "Trovo assurdo, preoccupante, persino incredibile che, in un momento in cui in Sicilia il fronte antipizzo comincia ad estendersi, facendo scricchiolare realtà dove prima non si muoveva foglia, nella modernissima Catania, una libreria, la Librando di

Maurizio Di Stefano, coinvolta fra l'altro in diversi episodi incendiari, stia chiudendo. L'ho scoperto per caso, anche perché di tanto in tanto ho frequentato quella libreria. L'altro pomeriggio cercavo di acquistare un libro e mi sono accorto che il proprietario stava riponendo i libri negli scatoloni, per trasferirsi nel più tranquillo e sorvegliato aeroporto.In quel momento ho collegato il fatto con la notizia che avevo appreso tempo prima dell'incendio della libreria. Io penso che questa cosa non possa essere né sottaciuta né sottovalutata. Se una libreria riceve un attentato e chiude, c'è poco da chiarire: si tratta di racket. Qualcuno sta costringendo il proprietario a lasciare l'attività e si tratta di capire per quale ragione. Questo attiene alle facoltà degli organi inquirenti che sono convinto stiano facendo il proprio dovere. Però una riflessione si pone rispetto a ciò che avviene a Catania: il fatto cioé che a denunciare siano in pochi, che il racket agisca indisturbato e cha tale situazione rallenti le potenzialità di grande sviluppo di una citta come Catania. Rosario Crocetta

- tempi celeri e certi per l’esame delle domande; qualcuno dovrebbe spiegare ai contribuenti perché si dilapidano ingenti risorse pubbliche per gli amici degli amici (pagando addirittura l’affitto ad un privato come la Pizzarotti spa di Parma) in tempi di tagli alle spese sociali ed invece ci sono tempi biblici per potenziare le commissioni ed il servizio d’interpretariato, costringendo così i migranti alle manifestazioni nella statale Catania-Gela , più volte violentemente represse. - riconoscimento della soggettività dei migranti e dei loro bisogni (dall’eliminazione delle inutili file al diritto di poter cucinare), invece chi gestisce il megaCara li considera solo come oggetti da controllare. Nel fare appello alle realtà e cittadini solidali a raccogliere e donare ai migranti vocabolari e dizionari per facilitare la comunicazione e la conoscenza reciproca, in continuità con le molteplici attività che dall’inizio di marzo svolgiamo di fronte al villaggio degli aranci invitiamo a partecipare Rete Antirazzista Catanese

Mineo: tutto tace A Mineo per i migranti ci sarà mai qualche miglioramento? Nei prossimi giorni si preannunciano alcuni cambiamenti per i quasi 2000 richiedenti asilo del villaggio degli aranci; infatti da luglio dovrebbe subentrare la Protezione Civile al posto della Croce Rossa e si dovrebbe insediare una seconda sub commissione per l’esame delle richieste d’asilo (tutt’ora la media è di poco più di 10 casi a settimana). Intanto non fa ben sperare l’attivazione dei bus navetta A/R per Mineo e Caltagirone, sono attivi da una settimana, ma i costi sono proibitivi (2 euro per Mineo e 4,5 per Caltagirone), viste le enormi difficoltà economiche dei richiedenti asilo, che a differenza di tutti gli altri Cara d’Italia non percepiscono alcun contributo economico né schede telefoniche per parlare con i propri cari ( in compenso si può telefonare 3 minuti al mese e solo per 2 ore al giorno per pochi giorni a settimana, dopo naturalmente le solite interminabili file)! Così chi ha la possibilità economica può far moltiplicare i profitti sulla disperazione della stragrande maggioranza. Le manifestazioni dei giorni scorsi hanno contribuito a smuovere qualcosa e molto di più si potrebbe fare se le associazioni del calatino insieme a quelle catanesi con una presenza collettiva costante riuscissero a sostenere le giuste rivendicazioni dei migranti:

Un muro contro la mafia Giorno 9 Luglio alle ore 10.30 presso la facolta' di lettere e filosofia - aula A2 del monastero dei Benedettini - insieme ai familiari delle vittime della strage di Capaci, l'associazione "Addiopizzo Catania" sara' lieta di inaugurare il murale sito in Viale Ulisse e realizzato all'interno del progetto "un muro contro la mafia". L'associazione donera' ufficialmente l'opera ai Catanesi, i quali, grazie all'acquisto del biglietto della lotteria di Pasqua "regaliamo una sorpresa", ne hanno permesso la realizzazione. Il murale e' il volto nuovo che i cittadini, tramite il lavoro determinato che in questi mesi hanno svolto insieme agli addiopizzini, vogliono dare di se stessi: un volto che sappia di bellezza e legalita' nel costante impegno per la memoria. Addiopizzo Catania comitato@addiopizzocatania.org

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In questo Stato

Una rivoluzione a Catania... Catania affoga nei suoi problemi, ma i suoi amministratori volano alto. Pensano al futuro, o al futuribile. Un modo di far politica che elude i problemi del presente per immaginare la Catania del ‘3000. A tutto questo ci aveva già abituato l’illustre predecessore di Stancanelli, l’on. Scapagnini: Catania era al buio, ma lui la immaginava come il faro della civiltà del Mediterraneo. Siamo in mezzo a una strada ma il sindaco va a Londra per partecipare al GRABS, porta il suo contributo allo studio dei piani urbani di adattamento al cambiamento climatico, quando il verde pubblico della nostra città è ridotto a poche aiuole arse dalla calura e depredate dai vandali di turno. E mentre il sindaco veleggia verso Londra, il Consiglio comunale fa rotta verso casa. Numerose sedute andate a vuoto, con spreco di soldi pubblici, di tempo e di efficienza per mancanza del numero legale. I soliti giochi di potere perpetrati dai partiti di maggioranza bloccano quelle (poche) decisioni che si potrebbero prendere a vantaggio di una città che boccheggia in coda alle classifiche nazionali di vivibilità. La politica o tace perché non ha nulla da dire o si parla addosso su un piano molto lontano dai reali problemi della nostra città. A quando, anche a Catania, una rivoluzione arancione, a quando un nuovo popolo di “indignados” che mandi a casa questi stanchi amministratori e li sostituisca con gente veramente degna di questo nome? CittàInsieme

Ai giuristi dell'Università di Catania Mi chiamo Goffredo D’Antona esercito l’attività di avvocato penalista da qualche anno, sono abilitato avanti le giurisdizioni superiori. Mi rivolgo a Voi per esprimere la mia incredulità e perplessità su quanto da voi ritenuto sulla non opportunità della

costituzione di parte civile dell’Università nel procedimento penale realtivo al tragico ferimento di una studentessa accaduto circa un anno fa, avanti la sede di una facoltà. Leggo su un giornale on line, Step 1, una affermazione del rettorato “la decisione dell'Università di Catania di non costituirsi parte civile nel processo contro Andrea Rizzotti è frutto di un'attenta riflessione che ha coinvolto i giuristi dell'Ateneo. Si è scelto di non avvalersi di questo strumento processuale perché, anche nel caso in cui la richiesta dell'Ateneo non fosse stata respinta e l'università fosse riuscita a vantare un danno, la conseguenza sarebbe stata quella di incidere negativamente sul patrimonio dell'imputato, a tutto svantaggio delle vere vittime, Laura Salafia e la sua famiglia” Ora come detto un po’ di processuale penale lo mastico anche io, pur non essendo un giurista, qualche processo l’ ho fatto mi permetto, di rivolgermi a voi, agli autori di quella attenta riflessione, e di contestare quanto da voi attentamente riflettuto. Ridurre la funzione della parte Civile ad una mera ipotesi di risarcimento economico patrimoniale, identificare il ruolo di quella che più volte viene definita la Privata Accusa, alla stregua di un soggetto il cui unico interesse è l’aspetto economico, quello che in gergo noi avvocati definiamo “ parafangari “ svilisce una delle funzione principe della parte civile. Che è essenzialmente di rappresentare in giudizio la persona offesa e/o il danneggiato di un fatto-reato. Essere la voce di un soggetto che ha subito un danno. Testimoniare con la propria presenza un no al delitto. Non potete non sapere la forte valenza simbolica di questo istituto in special modo quando, come nel caso in specie, il danneggiato è un ente non economico. La storia dei processi ci racconta dell’importanza della presenza degli enti, sindacati, associazioni anti-raket, accanto alle persone offese, nei processi di mafia, come quelli per incidenti sul lavoro. Come potete disconoscere questa storia ? Come la potete ignorare? Come potete affermare che una costituzione di parte civile avrebbe danneggiato la famiglia della vittima ? Insulterei la vostra intelligenza se vi ricordassi che esistono i risarcimenti simbolici, insulterei la vostra professionalità. Perdonatemi ma la vostra valutazione è un grave errore di miopia processale, inaccettabile in un praticante avvocato, disarmante se proviene da chi dovrebbe insegnare diritto. Goffredo D’Antona

L'Italia comincia dai paesini così Cari amici dell’Arci, mi permetto di inviarvi questa lettera aperta per segnalarvi un fatto grave di cui forse alcuni di voi sono al corrente. L’interrogativo per il quale spero mi concederete qualche minuto del vostro tempo per leggere queste righe è semplice: che fine ha fatto la raccolta differenziata a San Michele di Ganzaria? Mi pongo e vi pongo questa domanda perché da più parti m’è giunta voce che la raccolta dei rifiuti smistati da alcuni sammichelesi volenterosi non sono trattati come si dovrebbe. Per dirla in parole povere: la differenziata non si fa più. Detto sinceramente spero che qualcuno di voi possa smentire questo mio dubbio, ed è principalmente con questa speranza che vi scrivo. Scrivo a voi che siete “l’Italia migliore”, parafrasando e invertendo il senso dell’orribile uscita di un pessimo politico e pessimo uomo. Scrivo a voi che avete dato prova più di ogni altro, politicanti compresi, di provare un sentimento sconosciuto ai più, del SENSO CIVICO. Spero che almeno voi potrete aiutarmi a far chiarezza su questo mio terribile dubbio. Si! è un dubbio “terribile” perché svariate ragioni: per cominciare perché ci sono ancora quattro o cinque (o 50?) sammichelesi idioti che continuano a separare la plastica dal vetro, dall’alluminio. Che si tengono in cucina o in garage tanti sacchetti diversi dove lasciano accumulare i propri rifiuti. “Nca mugnizza è!” Qualcuno potrebbe dire. No, non è mugnizza. Non è più qualcosa di cui possiamo separarci in fretta, gettandola dove capita. Le immagini di Napoli sono uno scenario possibile, è bene saperlo! La situazione precaria di Palermo ne è una dimostrazione. La soluzione a tutto questo è unicamente la raccolta differenziata. A meno che non preferiamo masochisticamente soluzioni più sbrigative come rigassificatori e discariche. In questo caso saranno i nostri figli, i nostri nipoti e i nostri discendenti a pagarne le conseguenze con l’insorgere delle asme, con i tumori, con l’inquinamento delle falde acquifere, dei prodotti agricoli, di tutta la catena alimentare. Nicolas Gentile

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In questo Stato

Un sindaco che funziona (in Sardegna) Spett.le ABBANOA s.p.a, p.c. Al Commissario di ATO Sardegna, Al Presidente di ABBANOA spa, Al Presidente della Giunta Regionale, Al Prefetto della Provincia di Sassari OGGETTO: Situazione condotte idriche e fognarie nel Comune di La Maddalena. Nonostante le numerose comunicazioni ed incontri atti a cercare una soluzione definitiva ai gravi ed innumerevoli problemi che interessano le condotte idriche e fognarie del nostro Comune e nello spirito di una fattiva collaborazione fra Enti, ad oggi la situazione generale -sia per quanto attiene gli interventi di manutenzione straordinaria sulle condotte che i relativi ripristini, è sempre in continuo peggioramento. Attualmente il Comune è in stato di emergenza con perdite idriche e fognarie che coinvolgono la maggior parte delle strade cittadine, mentre la stagione estiva è ormai alle porte. Ciò provocherà, con l’aumento della popolazione turistica, un consistente sovraccarico per le reti idriche e fognarie. Anche i pochi interventi che vengono eseguiti, sempre con grande ritardo, non vengono portati a termine a regola d’arte: le strade interessate dagli interventi non vengono sistemate con il manto di asfalto ma con terra e sabbia che si dilava alla prima pioggia se non addirittura lasciate aperte. Già adesso ci si trova a registrare cali di pressione nelle condotte con conseguente diminuzione della stessa nei rubinetti e ciò desta, nell’Amministrazione, una certa preoccupazione anche con riferimento all’esperienze passate. La presente nota ha lo scopo di ricordare, ad Abbanoa SpA ed agli Spett.li Enti che

leggono per conoscenza, che se gli interventi risolutivi non vengono previsti e risolti con anticipo la conseguente emergenza non potrà essere giustificata come evento straordinario. Si diffida, pertanto, Abbanoa Spa a provvedere immediatamente alla sistemazione delle problematiche già ampiamente e ripetutamente segnalate. Si avvisa, altresì, che in mancanza di un immediato e risolutivo intervento l’Amministrazione provvederà ad instaurare nelle sedi più opportune ogni azione necessaria alla tutela del benessere e della salute dei propri cittadini. Nel caso si rendessero necessari, da parte di personale all’uopo incaricato dal Comune, interventi urgenti per il ripristino di condizioni di sicurezza in seguito a malfunzionamenti delle reti o degli impianti, l’Amministrazione provvederà inoltre ad addebitare a Abbanoa Spa il costo degli interventi medesimi. Tanto Vi dovevamo per Vostro buon governo e ad ogni effetto di legge. Il Sindaco di La Maddalena Angelo Comiti www.desaparecidos.it

Arriva l'Europa nel nostro quartiere! - “Aiuto, aiuto... calano i barbari!” - “Ma che dici?” - “Si, si francesi dal nord...” - “Normanni, angioini?” - “Forse! Anche un po' lanzichenetti.... ed infedeli mori, pure... e zingari.” - “Si vabbè...” - “Ti dico si, vengono da un posto «turco»... Alsazia mi pare” - “Ma insomma, turchi, francesi, arabi, tedeschi... che è scoppiata la terza guerra mondiale?”

- “Si, si salvi chi può... invasione, invasione di nuovo; ma niente paura ci siamo abituati... e poi possiamo usare il vecchio stratagemma dei «ciciri»: che successo per i Vespri!” - “Aspetta, aspetta... ma che per caso l'invasione è prevista per il 18 Luglio?” - “Esatto” - “Allora hai proprio ragione! Sarà invasione, sarà contaminazione... culturale” Ebbene si, cittadini di Catania, gente di San Cristoforo, siciliani, nel nostro bollettino di pace, vi annunciamo che sta per scoppiare lo scambio culturale. Durante 12 giorni infatti i ragazzi del Gapa, un gruppo di 10 giovani, si confronteranno con 10 coetanei alsaziani del centro sociale di Haganeu. Base delle operazioni sarà il nostro Gapannone, ma le operazioni saranno condotte in tutta la Sicilia, dalle gole dell'alcantara, alle Eolie, per terra e per mare. I ragazzi saranno accompagnati da 6 animatori: gli italiani Domenico e Giusy Guglielmino, Agata Squillaci e Salvatore Ruggieri, e due francesi, tra cui il redattore del progetto Laure Jacquet. Compito di questi mediare favorendo lo scambio aiutando a superare lo scoglio della diversità linguistica o generale. Il progetto finanziato dall'Unione Europea nell'ambito del programma “Gioventù in azione”, sarà occasione di confronto sui temi dell'ecologia, e della diversità culturale. Nella fattispecie i ragazzi francesi, infatti, rappresentano non solo la cultura transalpina, ma una realtà di confine, quella alsaziana, che un po' come la nostra Sicilia ha una storia ricca fatta di tante dominazioni. Inoltre i transalpini hanno origini diverse, tra maghreb ed Asia, indice di una Francia ormai multietnica. L'Europa si allarga, si mescola e si unisce... Ma non è più la forza dell'Impero Romano ad annettere, ne quella religiosa del papato, bensì quella della cultura delle differenze. E San Cristoforo risponderà con la sua solita accoglienza, che ne contraddistingue gli abitanti! W L'EUROPA UNITA!!! W L'EUROPA DEI POPOLI!!! Centro Gapa Catania

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Antimafia sociale

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Schegge di storia siciliana

I silenzi e la conquista dello stato ”Cari tutti, a causa dello squallore di questo periodo preferisco rifarmi alla Storia e quindi avrò il piacere di inviarvi settimanalmente schegge di storia siciliana. Croce diceva che la Storia è viva e la cronaca è morta. La cronaca vale un giorno, mentre la storia vale sempre...”. Così l'autore, che è un vecchio militante del movimento antimafia: antimafia: ma forse non siamo d'accordo. d'accordo. La storia è un insieme di cronache di tante persone persone comuni. E tutte diventano anch'esse anch'esse storia, prima o poi. Comunque, Comunque, ecco le storie che Elio Camilleri fa girare su internet. Antiche e attualissime, attualissime, siciliane << Mi piacerebbe tanto tanto che i destinatari "adulti" delle mie schegge le facessero leggere ai giovani e che i destinatari "giovani” le facessero leggere agli adulti >> eliocamilleri@libero.it NON C'ERA SCAMPO... Non c’era scampo per quei democristiani siciliani che volevano una Sicilia liberata dalla mafia, dalla corruzione e da porcherie d’ogni tipo. Non ci fu scampo, quella sera del 9 marzo 1979 per Michele Reina, ammazzato con tre colpi di calibro 38 davanti alla moglie, invasa da un orrore infinito. Nei giorni successivi arrivarono rivendicazioni da Prima linea e dalle Brigate Rosse, ma le indagini furono condotte a 360 gradi. Poi arrivò Buscetta e la pista mafiosa divenne quella più accreditata. In effetti Michele Reina fu la prima vittima “politica” della strategia corleonese e di Totò Riina, in particolare. Di lì poco anche Piersanti Mattarella avrebbe fatto la stessa fine. Michele Reina era una di quei democristiani che, nella traccia del Segretario nazionale della DC, Benigno Zaccagnini e del Segretari regionale Rosario Nicoletti, nonché nel medesimo progetto di Piersanti Mattarella, intendeva stabilire un dialogo con il PCI. Dopo vent’anni, nell’aprile de 1999, in Cassazione, furono state confermati l'impianto accusatorio e le pene irrogate. Furono condannati all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci. Quando ammazzarono Reina il muro di Berlino non era ancora crollato e i motivi che portarono a questo omicidio si possono, oggi, rintracciare nell’esistenza e nella

resistenza, nel 1979, di quel muro. Poi, come si sa, nel 1989 quel muro venne giù e i motivi della sentenza della Cassazione, oggi, si possono pure ritrovare nel crollo e nella fine dell’esistenza e della resistenza di quel muro. Dopo il 1989 il comunismo non fece più paura, ma fino ad allora non fu possibile neanche tentare un qualsiasi dialogo con le sinistre. Certo siamo stati liberi di comprare auto e tv, case e vestiti di moda, di viaggiare e di andare al ristorante tutte le volte che si voleva, ma chi si azzardava a scalfire il sistema di potere politico – mafioso supportato dalla Chiesa, dagli USA, dalla massoneria e dai servizi deviati era, regolarmente, un “cadavere ambulante”. IL SILENZIO CHE UCCIDE Gli anni settanta stavano finendo, Aldo Moro era stato ammazzato dalle Brigate Rosse perché pensava ad un governo con i comunisti ed il comunista Peppino Impastato era stato ammazzato, pure lui come Moro, il 9 maggio del 1978. Anche Michele Reina, segretario provinciale della DC, pensava di governare a Palermo ed alla Regione con i comunisti ed anche lui fu ammazzato da Cosa Nostra il 9 marzo del 1979. Si cominciò a temere per la sorte del Presidente della Regione Siciliana, che, come Reina, pensava al coinvolgimento del PCI nell’ambizioso progetto di coniugare legalità, trasparenza e sviluppo. L’insofferenza di Cosa Nostra si esplicitò

chiaramente quando Stefano Bontate fece capire a Giulio Andreotti che Mattarella stava proprio esagerando. Secondo quanto si legge nella Sentenza della Suprema Corte di Cassazione l’incontro avvenne “nella primavera - estate del 1979 presso la tenuta dei Costanzo "La Scia", ubicata nei pressi di Catania”. “nell’incontro tra i medesimi interlocutori - organizzato proprio al fine di stabilire come intervenire per limitare l'azione dell'uomo politico ritenuta pregiudizievole degli interessi economici del sodalizio - oltre a sgomentarlo sul piano etico e umano, ha definitivamente convinto Andreotti dell’impossibilità di controllare e limitare la drasticità degli interventi operativi dell'organizzazione e di incanalarli verso soluzioni politiche e incruente”. In sostanza aveva ben capito che Piersanti Mattarella era, ormai, un “cadavere ambulante”, ma tacque di un silenzio profondo, assoluto, definitivo. Non lo avvisò, né lo mise in guardia. Non andò dal Magistrato a denunciare le minacce, né in Parlamento ad animare un decisivo dibattito sui rapporti tra mafia e politica, non scrisse articoli sui giornali per destare attenzione nell’opinione pubblica ed il suo silenzio fu la progressiva solitudine di Piersanti Mattarella, anticamera dell’esecuzione mafiosa che arrivò il 6 gennaio 1980. In Sicilia non era possibile essere cattolici e democristiani onesti, bisognava per forza essere anticomunisti, ma mai antimafiosi.

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Schegge di storia siciliana

COSA NOSTRA CONQUISTA LO STATO Il trio corleonese Liggio, Riina, Provenzano conquistò il controllo politico della Cupola e lanciò Cosa Nostra nell’affare del narcotraffico, enormemente più lucroso del contrabbando del tabacco cui erano “rimasti” impegnati i mafiosi delle “famiglie” palermitane. Fu proprio in questi anni che Cosa Nostra stabilì sicuri riferimenti a Roma ed in Lombardia. La nuova Cupola corleonese ristrutturò, allora, Cosa Nostra che: “si avviò a perfezionare fino ai più alti livelli, con il protagonismo di un organico soggetto collettivo, quella funzione di grande e violenta mediazione parassitaria tra il contesto nazionale della società dei consumi e lo specifico contesto regionale della società del sottosviluppo che, in definitiva, confermò, rinnovandola, la tradizione del fenomeno mafioso”. (G.C. Marino. Storia della mafia. Newton Compton. Roma.2006. pag. 261) Come dire che negli anni ottanta la Sicilia vide crescere enormemente la distanza con il resto del Paese in termini di crescita sociale ed economica pur in presenza di una progressiva espansione del modello affaristico mafioso su tutto il territorio nazionale. Gli anni ottanta iniziarono con auspici funesti: appena il 4 gennaio 1980 Piersanti Mattarella fu ucciso da Cosa Nostra e pagò per aver dato ragione a Pio La Torre sulla necessità di imporre legalità e trasparenza

nella politica regionale. Ed invece andò a finire che Cosa Nostra presentava a Lima le sue richieste e lui le passava a Roma, ad Andreotti e Andreotti incaricava il suo trio Evangelisti, Vitalone, Ciarrapico di sistemare le cose e loro le sistemavano. Era diventato così solido il rapporto tra mafia, politica ed imprenditoria che sarebbe opportuno, così, come riflessione a margine, apportare sostanziali modifiche alla distinzione marxiana tra struttura (lavoro, economia, cioè produzione e commercio) e sovrastruttura/e (istituzioni politiche, amministrative, giudiziarie), dato che trattasi ormai, tra l’una e le altre, di un’effettiva identità. IL TEOREMA SCARPINATO La bellezza della Storia sta nella sua logica che è la sua stessa forza, che ci fa capire perché oggi le cose stanno così e come si fa (sempre che si voglia !?!) per liberarsi dal pattume che ci avvolge e ci sovrasta. Tanti anni fa, nel 1875, due studiosi toscani, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, denunciarono che i latifondisti non erano vittime della mafia, ma loro stessi complici. Tanti anni fa, già all’indomani dell’Unità questi stessi latifondisti, aristocratici ed assenteisti preferirono il legame scellerato con la borghesia mafiosa e parassitaria, rivendicando l’esclusiva nel controllo sul territorio. La classe dirigente siciliana, insomma,

ebbe enormi responsabilità nel progressivo accentuarsi del divario tra la Sicilia ed il resto del Paese. Gramsci parlò e scrisse di un “patto scellerato” tra latifondisti del sud e industriali del Nord come collante del nuovo Stato. Ancora oggi, la classe dirigente siciliana, secondo Roberto Scarpinato, non può assolutamente affermare di essere vittima della mafia, ma sodale e strutturalmente legata con essa. “E’ davvero stupefacente che la classe dirigente siciliana non abbia mutato una virgola negli argomenti difensivi elaborati oltre cent’anni fa [ … ] e abituata a considerare l’isola alla stregua di un unico e articolato sistema di risorse private di cui godeva la proprietà per diritto politico”. (G. C. Marino. Storia della mafia. Newton Compton. Roma. 2006. Pag. 271) Considerare la Sicilia proprietà privata della classe dirigente equivale a dire che in Sicilia governava Cosa Nostra e che la Sicilia era “cosa loro”, destinata ad un sottosviluppo garantito ed assoluto. La bellezza della Storia è anche questo: capire, prima o poi (meglio prima che poi) che, liberati gli occhi, le orecchie e la bocca dalle bende, dai tappi che ci hanno imposto, sarà finalmente possibile vedere, sentire ed urlare la verità.

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Antimafia sociale

L'ultima foto alle mafie un tour virtuale nell'Italia dei 150 anni Raccontare le storie di mafia e antimafia in Italia tracciando un mosaico territoriale con un punto di vista inedito e creativo. E' l'obbiettivo del concorso fotografico ideato dall'associazione daSud per Lunga Marcia della Memoria, che dal 2007 esplora il Paese unendo arte e cultura contro la criminalità organizzata e per i diritti Per l'edizione 2011 della Lunga Marcia della Memoria, daSud punta sulle immagini e lancia un concorso fotografico che parte da una domanda: Cos'è la mafia nella tua Regione? Cos'è la mafia vista dalla tua Regione? Negli scatti ci sarà spazio per nuove forme di criminalità organizzata e vittime, violenze e sfruttamento, ambiente e grandi opere, finanza e lavoro. Ma anche lotte antimafia, rivendicazione di diritti, storie di resistenza. Un modo per interrogarsi su cosa sono la mafie e su cosa deve essere l'antimafia oggi. Un tentativo di fotografare i clan per l'ultima volta, assumendo l'impegno di una lotta che ci consegni un futuro libero dalle mafie. Il concorso nasce dall'incontro di due progetti dell'associazione: la campagna per i 150 anni dell'unità d'Italia "Le mafie ci uniscono" e il fumetto della collana Libeccio (Round Robin Ed.) "Lollò Cartisano, l’ultima foto alla ‘ndrangheta". La giuria del concorso è presieduta dal fotoreporter Tano D'Amico. In palio un premio di 500 euro per il

vincitore, la raccolta completa delle graphic novel della collana Libeccio di Round Robin editrice e daSud, le magliette e le targhe dell'associazione e il premio speciale “Lollò Cartisano” assegnato dalla famiglia del fotografo ucciso dalla 'ndrangheta nel 1993.

Le migliori foto inviate verranno pubblicate sul sito del premio (premiodasud.wordpress.com e su dasud.it). Gli scatti per ogni regione

saranno protagonisti di un tour virtuale per l'Italia unita dalle mafie e dalle antimafie che verrà rappresentato graficamente da una cartina interattiva del Paese e che sarà un nuovo modo di daSud per raccontare l'Italia. E le più belle foto saranno parte di un book realizzato dall'associazione daSud e di una mostra itinerante prevista per l'autunno. La Lunga Marcia della Memoria di daSud si concluderà il 22 luglio a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, il paese di Lollò Cartisano. Quel giorno, insieme ai familiari di Cartisano e alle associazioni antimafie, si svolgerà l'annuale camminata verso la cima di Pietra Cappa, nel cuore dell'Aspromonte, un luogo di straordinario fascino dove fu ritrovato il corpo di Lollò. Nel corso della giornata si svolgerà un evento pubblico durante il quale saranno assegnati i riconoscimenti del Primo Premio Lunga Marcia della Memoria. Le foto vanno inviate entro il 10 luglio. Il bando del premio è su premiodasud.wordpress.com

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Documentari

“Silvio forever” L'ultimo documentario su Silvio Berlusconi, uscito lo scorso 25 marzo e da poco anche in libreria, non è l'ennesimo film di denuncia, bensì un'autobiografia originalissi ma dell'uomo Berlusconi e uno spaccato scottante di quella parte d'Italia di cui il Premier è espressione

Da “Sua maestà Silvio Berlusconi” a “Viva Zapatero” fino alle “Dame e il Cavaliere”, tanti sono i documentari incentrati su Berlusconi, che vanno a comporre un unico racconto di denuncia. “Silvio forever” sfugge a questo intento. Sfiora a stento le note vicende di tangenti, cosa nostra e donnine per concentrarsi su altro. È un documentario originalissimo, un film di montaggio, basato quasi interamente su materiale di repertorio, privo della solita voce fuori campo che accompagna con la manina lo spettatore. Un’autobiografia satirica dove è lo stesso Berlusconi a raccontarsi attraverso un puzzle di dichiarazioni di più di vent’anni. Berlusconi mostra non tanto le proprie contraddizioni, quanto le sue grandi doti di illusionista, di grande piazzista,di uomo a cui tutto è lecito, dal grande charme, sempre “vicino alla gente”. I registi, Roberto Faenza e Filippo Macelloni, sono stati accusati di aver realizzato un simpatico ritratto del premier, sicuramente apprezzato dai suoi sostenitori come dai suoi oppositori, di aver trascurato tutti gli illeciti compiuti, per non dire alla fine nulla.

Ma aspettarsi, quasi 10 anni dopo, un nuovo “Citizen Berlusconi” è fuorviante perché il film è il ritratto dell’uomo Berlusconi, un istrione, un uomo della commedia dell’arte, sempre al centro della scena, che burlescamente è in grado di capovolgere tutto con successo e di trasformare l’illecito in lecito, di far passare i suoi interessi personali come quelli di un intero popolo. Ma questo ritratto dell’uomo non è altro che lo spaccato scottante di quella parte d’Italia di cui Berlusconi è espressione e che pertanto trova in lui la propria legittimazione. Il Cavaliere non è solo un

grande demagogo illusionista, ma è lo specchio della vita e dei sogni di tutti quegli italiani che in lui si riconoscono e che approvano come normali anche le azioni più dissennate. E in questo sta la forza del film, il cui mordente sarcastico sprigiona una carica di profonda amarezza, perché il protagonista va via via decostruendosi mostrando tutta la fragilità del paese. Diversi momenti del film sono così dedicati all’imponente mausoleo “assiromilanese”, fatto costruire da Berlusconi ad Arcore, simbolo del delirio di grandezza che prima o poi si sgretolerà per diventare polvere sotto i piedi di un paese vacillante e precario. Sonia Giardina

Titolo originale: Silvio Forever Nazione: Italia Anno: 2011 Genere: Documentario Durata: 80' Regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni Sito ufficiale: www.silvioforever.it

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Satira

Se qui ci fosse Asterix vi avrebbe già fatto il culo

I no-tav non hanno le pozioni magiche, e i despoti romani (e padani) gli invadono la terra

Se fossimo in un fumetto, in Val di Susa ci sarebbe Asterix con la sua pozione magica. Avremmo visto elmetti azzurri volare per aria, poliziotti mandati da Roma scaraventati a fondo valle, scontri epici dove le mani nude vincono su manganelli e lacrimogeni, ruspe demolite a schiaffoni e feste notturne all'aria aperta per celebrare la vittoria contro gli invasori. Se fossimo in democrazia, le grandi opere e le grandi spese sarebbero state organizzate a partire dal basso, invitando i cittadini di ogni territorio a presentare proposte concrete per lo sviluppo delle infrastrutture, affidando ai rappresentanti locali il compito di raccogliere e valorizzare queste proposte, e al governo il ruolo tecnico di esecutore materiale per realizzare quello che le comunità richiedono, elaborano e progettano. Se fossimo in dittatura, ci sarebbero dei movimenti di liberazione, pronti a rischiare in prima persona per far fallire i progetti del dittatore gettando sabbia negli ingranaggi con ogni mezzo necessario: scioperi, sabotaggi, blocchi ferroviari, noncollaborazione, inviti alla diserzione e alla disobbedienza rivolti alle truppe della repressione. Ma purtroppo non siamo in un fumetto, nè in democrazia, nè in dittatura: siamo in un regime invisibile dove la libertà è solo formale, così come è formale l'esistenza di

una opposizione politica che rappresenti i cittadini più deboli. In questo regime invisibile i diritti valgono fino a quando non vengono sospesi da uno dei Kapo' di turno, fosse anche un pregiudicato ubriaco di potere. Il riferimento è a quel Roberto Maroni che oggi fa picchiare i cittadini ribelli, colpevoli di difend-

ere la propria terra, mentre ieri chiedeva voti al grido di "padroni a casa nostra", e l'altro ieri veniva condannato con sentenza definitiva per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Per la Cassazione la resistenza praticata nel settembre 1996 da Maroni e degli altri leghisti contro gli agenti che stavano facendo una perquisizione nella sede della Lega "non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali". Infatti gli agenti erano stati mandati da Guido Papalia, procuratore della Repubblica di Verona, che stava indagando sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere "un'organizzazione paramilitare tesa ad attentare all’unità dello Stato". Poi però quella organizzazione si è fatta Stato e le indagini furono sospese per il banale principio che lo Stato non può indagare su se stesso. Ancora una volta la democrazia è sconfitta: vince la legge del più forte. Asterix, salvaci tu! Mai come oggi un fumetto può fare a livello culturale quello che le opposizioni non riusciranno mai a fare sul piano politico, per incompetenza, vigliaccheria o connivenza. Ulisse Acquaviva www.mamma.am

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Satira

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Memoria

Genova 2001 a cura di Nino Recupero

Data: 23/07/2001 16:45 Da: Recupero Oggetto: Tre scritti sul G8

QUESTE PAGINE Le pagine che seguono sono la trascrizione di alcune mail inviate alla Catena di San Libero il 23 luglio 2001 da Nino Recupero, che a quel tempo insegnava storia all'università di Milano. Con questi materiali, selezionati a caldo nell'immediatezza dei fatti, voleva aiutarmi a farmi rapidamente un'idea della situazione e anche, credo, esprimere in maniera “utile” l'indignazione civile che lo pervadeva. Con Nino siamo stati amici per molto tempo (è stato lui a convincermi ad andare a conoscere Giuseppe Fava, trent'anni fa) ed è stato – oltre che uno storico insigne, un militante civile di tutte le cause giuste: dal sostegno al movimento operaio, coi gruppi della nuova sinistra, all'impegno antimafia, a fianco dei Siciliani di cui fu uno dei primissimi collaboratori. Della Catena di San Libero fu uno dei primissimi lettori. Nell'anniversario del G8 - il reale momento di fondazione della “seconda repubblica” italiana – ci è sembrato giusto riproporre il punto di vista di Recupero, da cittadino responsabile e da storico, come si esprime in questa eloquentissima selezione. Ci è anche caro associare questo momento alto - di militanza e memoria - del nostro lavoro col ricordo di Nino. Riccardo Orioles

Nino Recupero.

Uno - Gli uomini neri Uomini neri. Ragazzi. Con i volti coperti, le felpe con il cappuccio, le bandane, i passamontagna, i berrettini, le scarpe da ginnastica, i jeans, le magliette, le canotte. Vestiti per caso. Uomini neri. Ragazzi qualunque. Come il volto che si affaccia dalla foto-tessera di Carlo Giuliani, due occhi azzurri tranquilli, un taglio di capelli ordinato, un'immobilità catturata dal flash. Solo istantanea. Capace all'improvviso di una violenza estrema. Di giocarsi in un attimo la propria vita. Feroce. Gratuita. Demente. Assurda. Provocatoria. La violenza degli uomini neri, dei ragazzi qualunque, esplosa nelle strade e nelle piazze di Genova è stata etichettata in mille modi. Tutti giusti, tutti veri, tutti reali. Non è questo il punto. La descrizione dei comportamenti visti e accaduti a Genova, delle vetrine spaccate, dei cassonetti incendiati, delle barricate erette, degli assalti a qualunque cosa, quella di piazza, era fedele e non poteva essere altrimenti. Quando mai la violenza è fine, razionale, ragionata, consapevole, libera, spontanea? Prezzolati, infiltrati, collusi, sospetti, strani: ciascuno ha un episodio che ha visto, fotografato, filmato o che gli è stato raccontato da persona credibile e che attesta la bontà di quella definizione. Ma ciascuno di questi dettagli - veri o verosimili non può spiegare la complessità di quello che è accaduto: un manipolo di incursori non può mettere a ferro e fuoco una città se non facendo leva su un sentimento di devastazione già vivo e impellente e pronto a esplodere. E questo è il punto. Non molto tempo fa, un uomo assaltò da solo con una bottiglia molotov un treno, mettendo a repentaglio la vita di innocenti passeggeri. Fu ritrovato lungo i binari, morto, forse suicida. Con difficoltà gli fu data un'identità (a Carlo Giuliani è andata meglio, i suoi amici si sono battuti per lui): nessuno sembrava conoscerlo, le persone che aveva occasionalmente frequentato erano più che altro preoccupati di prendere le distanze, era un solitario, un emarginato dissero tutti per rassicurarsi -, viveva di elemosine, di randagismo, di sue voci nella te-

sta. Sarebbe andato a Genova quell'uomo? Avrebbe dato fuoco alla città? Da dove viene questa violenza, da quali viscere insondabili e non sondate, quali urla grida che non trovano orecchie per ascoltarle, quali parole non trovano lingua per parlare, modi per organizzarsi, "coscienza" per diventare politica, fare sociale, comportamenti collettivi? Dove sono i sociologi che capiscono, gli intellettuali che ragionano e discettano, i politici che rappresentano, i giornalisti che scrivono, i preti che ascoltano gli ultimi, gli infimi? Gli uomini neri, i ragazzi qualunque colpiscono tutto, negozi, banche, insegne, case, cose, poliziotti, compagni. "Il n'y a pas des innocents" - non ci sono innocenti. Nostri talebani che minano i nostri Buddha. Danno fuoco alle nostre certezze, alle nostre coordinate. Non c'è potenza nei loro gesti, non c'è potere, solo furia devastatrice. Assassina e suicida, martire e colpevole, nuda. Violenza nuda, corpi nudi. Non ricoperti dall'intelligenza dei movimenti, dalla capacità di inventare rappresentazione, di trattare i media, dalle tattiche, dall'uso del tempo, dalla pazienza di saper vincere e perdere in un lungo percorso, dalla storia. Figli di questo tempo, incapaci di sopportarnee il dolore, forse più degli altri raccontano di questo tempo e della sua assurdità: in fuga, dalla famiglia, dal lavoro, dalla società, persino dai centri sociali. Ai margini. A Goteborg come a Genova. Figli di questo tempo, forse più d'altro ci mostrano cosa davvero accadrebbe se i poveri del mondo, gli esclusi, gli emarginati, i reietti, gli affamati, i condannati al "braccio della morte" di una vita quotidiana miserabile, improvvisamente arrivassero come cavallette, come una delle sette piaghe, nelle nostre ricche città. Carichi d'odio cieco. Spettri essi stessi, uomini neri, evocano uno spettro, un'apocalisse. Eppure, che movimento sarebbe mai questo nuovo, enorme, forte, che nasce da Seattle e da Porto Alegre, che raccoglie gli operai americani e i contadini brasiliani, Internet e gli aiuti in medicine per un villaggio dell'Africa, che si preoccupa dei prezzi del caffè e degli OGM, del Chiapas e del copyright, se non ascoltasse anche loro, le loro ragioni, il loro dolore, la loro furia? lanfranco caminiti 22 luglio 2001

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Memoria

Due

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questa è una delle testimonianze che ho ricevuto. è più che attendibile da ciò che ho potuto vedere. Ciao Subject: testimonianze da genova Ciao a tutti. Ho partecipato alle manifestazioni di Genova di venerdì e sabato, quelle degli scontri. Quello a cui ho assistito e quello che ho vissuto è difficile da raccontare, ancora più difficile forse da credere, per chi non c'era. Vi prego solo di leggere per intero questa email e di credermi quando vi dico che ciò che vi racconterò è tutto vero. Sono cose a cui io stesso ho assistito o cose che mi sono state raccontate da amici carissimi. L'informazione, in special modo quella televisiva, sta tentando di stravolgere la realtà in un modo allucinante. Non trovo le parole adatte a descrivere lo stato emotivo in cui mi trovo, e in cui si trovano tutte le persone che erano a Genova con cui ho parlato oggi. Per tre giorni siamo stati privati dei diritti elementari, siamo stati braccati da Polizia e Carabinieri, molti sono stati picchiati, insultati, minacciati. Un ragazzo è stato ucciso. Le forze dell'ordine dovrebbero servire a permettere lo svolgimento delle manifestazione, dovrebbero difendere chi manifesta democraticamente. A Genova, invece, i manifestanti sono stati carne da macello. Sequenza 1. Già alla partenza da Milano, capiamo che da quel momento non siamo più cittadini a tutti gli effetti. Prima di salire sul treno veniamo perquisiti come criminali, uno ad uno. Fin qui va bene, è per la sicurezza. Il treno impiega 8 ore per arrivare a Genova, quando normalmente ne servono due. Nessuno ci avvisa, nessuno ci spiega. Arrivati a Genova (alle cinque del mattino), una delle poche note positive. Troviamo una sistemazione per dormire in un campo sportivo trasformato in campeggio. Il clima è bellissimo. Migliaia di persone dormono fianco a fianco, nei sacchi a pelo, con negli occhi ancora le immagini della manifestazione pacifica di giovedì 19. C'è voglia di condividere un'esperienza im-

portante e un'attesa piena di speranza per il giorno seguente. Sequenza 2. La mattina dopo, il brusco risveglio. Venerdì le varie associazioni si troveranno sparse nella citta' per fare un assedio festoso con danze, performance e slogan alla famosa zona rossa. Nella piazza in cui ero io, il corteo è pacifico, si canta e si balla accanto alle barriere di metallo innalzate a difesa degli otto grandi. Si batte il ritmo sulle inferiate e si gridano slogan contro i G8 e la blindatura della città. Di colpo la Polizia apre gli idranti con acqua al peperoncino che brucia gli occhi. Lo fa una, due volte, ma nessuno perde la calma. Sequenza 3. La calma è invece cessata in altri punti della città. Sul lungo mare arriva il famoso black block, alcuni di loro vengono visti parlare con la polizia, altri direttamente escono dalle loro fila. Iniziano a sfasciare tutto. Polizia e carabinieri stanno fermi. I Black block cercano di infilarsi nel corteo dei lavoratori aderenti ai COBAS e altri sindacati, di cui picchiano uno dei leader, vengono respinti a fatica. Poi i black blok puntano sulla prima piazza tematica (centri sociali), piombano armati fino ai denti. La polizia li insegue, i manifestanti si trovano attaccati prima dai black e poi dalla polizia che a quel punto inzia le cariche violentissime. I Black se ne vanno e piombano sulla piazza dove c'era la rete di Lilliput (commercio equo, gruppi cattolici di base, Mani Tese, pacifisti, ecc.). La gente facendo resistenza pacifica cerca di allontanarli. La polizia insegue: carica la piazza. La gente alza le mani grida pace! Volano lacrimogeni e manganellate. Ci sono feriti. I Black se ne vanno e continuano a distruggere la città... 300-400 del Black Bloc vagano per Genova, chi li guida conosce perfetttamente la citta': il loro percorso di distruzione punta a raggiungere tutte le piazze tematiche dove ci sono le iniziative del movimento.. E' impressionante. Si muovono militarmente, si infiltrano, i capi gridano ordini, gli altri agiscono. E a ruota arrivano polizia e carabinieri che caricano indiscriminatamente, mentre i Black si dileguano. Sequenza 4. E' arrivata la sera, saranno le sei. Dei balck block non si ha più notizia. Si diffonde la voce che i Carabinieri hanno ucciso un manifestante. Ci raduniamo nella

cittadella del Genoa Social Forum, sul lungo mare, siamo circa diecimila. iamo tutti esausti, arrivano voci di decine di feriti ricoverati negli ospedali e almeno il doppio che hanno preferito non farsi ricoverare per evitare la schedatura. Arriva Bertinotti (unico politico che ha avuto il coraggio di presentarsi) che riesce a calmare un po' gli animi. Vorremmo tornare ognuno al proprio campeggio, ma i responsabili del GSF, dal palco, continuano ad implorarci di non uscire dalla cittadella: la polizia è impazzita e ha iniziato a picchiare chiunque abbia l'aspetto di un manifestante. Ogni cinque minuti la voce dal microfono grida: "Non uscite, è pericoloso! Stiamo trattando con il sindaco per avere degli autobus che vi accompagnino ai campeggi. Ripeto è pericoloso camminare per Genova, la polizia è fuori controllo". La tensione è alle stelle. C'è paura, i racconti di pestaggi violentissimi si moltiplicano. Ragazzi e suore che piangono. C'e' un sacco di gente ferita. Un anziano che piange con una benda in testa, è un pensionato metalmeccanico. Il senatore Malabarba racconta che è stato in questura. Ha trovato strani personaggi vestiti da manifestanti, parlano tedesco ed altre lingue straniere. Confabulano con la polizia e poi escono dalla questura. La tensione aumenta ogni volta che gli elicotteri sorvolano la cittadella illuminandoci con un enorme faro. Restiamo letteralmente imprigionati per oltre quattro ore, finchè non arrivano gli autobus che ci riportano ai campeggi, sfiniti. Di notte uno dei campi dove i manifestanti dormono, il Carlini, viene circondato dalla polizia. Entrate a perquisire, fate quello che volete, dicono i manifestanti. La gente piange: implorano di non essere ancora caricati. La polizia entra: nel campo non trova niente. Nel nostro campeggio la gente discute, ma i sentimenti più diffusi sono la paura e lo sconcerto per quanto sta succedendo. Ci addormentiamo inquieti e preoccupati per quanto potrebbe accadere l'indomani. Sequenza 5. Sabato mattina, parte la grande manifestazione. Siamo tantissimi, 300 mila. L'inizio è tranquillo, canti, balli, centinaia di bandiere, colori, lingue diverse. Ambientalisti, contadini, associazioni dei

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Memoria

diritti civili, gente comune, anziani, genitori con i propri figli. Ad un certo punto, senza ragione, la polizia spezza il corteo in due, in piazzale Kennedy. Dal nulla, sbucano fuori i soliti del black block: scoppia l'inferno. La polizia inizia a caricare tutti e due gli spezzoni del corteo. La testa riesce ad andare avanti, lo spezzone di coda rimarrà immobile sotto il sole fino a sera. Iniziano inseguimenti per tutta genova, la polizia picchia indiscriminatamente. Lo spezzone di coda del corteo è stretto da un lato da un muro altissimo, dall'altro c'è il mare. Davanti c'è il blocco della polizia, dietro c'è la massa di persone. Di colpo la polizia inizia a lanciare lacrimogeni contro il corteo: sono tutti seduti con le mani alzate, inermi. Il gas dei lacrimogeni è orticante, brucia gli occhi e non fa respirare. L'unica via di fuga è buttarsi nel mare. Cinquecento persone si ritrovano a mollo, per trovare riparo dal gas. Anche gli elicotteri sparano lacrimogeni dall'alto, dal mare arrivano altri carabinieri. Intanto i black block scorrazzano ovunque, nessuno li ferma. Picchiano un ragazzo di Rifondazione, prendono a sassate i portavoce del Genoa Social Forum, incendiano, spaccano tutto. Io sono alla testa del corteo, dove la situazione è tranquilla. Quelli del Social Forum ci invitano a defluire: bisogna liberare la piazza dove finisce il corteo per permettere a chi sta dietro di fuggire dalle cariche della polizia e dai lacrimogeni che vengono sparati senza sosta. Arriviamo al Marassi, dove ci sono i pulmann per chi deve ripartire. Dobbiamo stare fermi lì, nel resto della città è guerra. Anche lì, dal nulla, cominciano ad arrivare i lacrimogeni e c'è un accenno di carica: contro gente ferma o sdraiata ad aspettare che partano i pullman, la gente comincia a correre, raggruppandosi il più lontano possibile da fumo, ma tutte le vie di fuga sono bloccate. Da qui, dopo aver trovato altre persone con cui attraversare a ritroso la città, partiamo: dobbiamo tornare alla cittadella del GSF, sul lungo mare, per recuperare gli zaini e capire quando e come poter tornare a casa. Ci dicono di stare attenti: nella città la polizia ha scatenato una vera e propria caccia all'uomo. Incrociamo alcune camionette della polizia da cui ci urlano "vi

ammazzeremo tutti!" o da cui i poliziotti con la mano mimano una pistola che spara verso di noi, ridendo. Sequenza 6. La manifestazione è finita da alcune ore. A mezzzanotte la polizia irrompe nel centro stampa del GSF. Massacrano di botte tutti quelli che si trovano dentro, tra cui gli avvocati dell'ufficio legale del GSF di cui arrestano il responsabile. C'è sangue ovunque: sui muri, sugli oggetti, sul pavimento, in pozze. Distruggono tutti i computer dell'ufficio legale con dentro decine e decine di testimonianze raccolte durante gli scontri. Requisiscono o distruggono tutti i documenti con le testimonianze e tutte le videocassette con i filmati che provano le violenze gratuite della polizia durante le manifestazioni. Durante la perquisizione, ad avvocati, giornalisti, parlamentari, medici e registi presenti è impedito di entrare. Vittorio Agnoletto e alcuni parlamentari vengono picchiati. Le famose armi comparse in conferenza stampa, sabato notte non si erano viste, e comunque sarebbero state trovate nell'altra scuola perquisita, che fungeva solo da dormitorio per i manifestanti. Questi tre giorni sono stati un incubo, e l'incubo è proseguito oggi quando ho visto i telegiornali. A parte il tg3 e un po' il tg2, tutti gli altri danno notizie completamente manipolate: è allucinante. Vi prego, non prendete sul serio quello che dicono i media. Stanno stravolgendo la realtà. Sono atterrito. Ho paura. Comincio a rendermi conto di quello che è successo a Genova e ho dentro una rabbia che mi fa piangere. I diritti più elementari sono stati sospesi, l'informazione è completamente sotto il controllo di chi ha voluto e perpetrato questo massacro. Riflettete su questo: prima che venissero fuori le immagini della sparatoria in cui è morto il manifestante, la versione della polizia era che il ragazzo era stato ucciso da un sasso tirato da un altro manifestante. Dato che molta della documentazione raccolta dal GSF è stata distrutta o requisita dalla polizia, rimangono le versioni di governo e forze dell'ordine... E' importante che il maggior numero di persone sappia la verità. Fate girare questa email, parlate con i vostri conoscenti. Luigi

*** Tre (Enrico) ciao Nino. e' stata deliberatamente impedita ogni forma di contestazione. lasciamo perdere noi, disobbedienti civili, ma hanno sparato lacrimogeni, anche dagli elicotteri, pure sul corteo in cui sfilavano Cgil e istituzionali vari. donne vecchi bambini... non hanno rispettato nessuno. senza motivi validi hanno attaccato la manifestazione di sabato dividendolo in tre spezzoni proprio nei punti dove era meno organizzata.i pacifisti che cercavano di posizionarsi tra manifestanti e polizia per dividere le due parti sono stati selvaggiamente picchiati. chi faceva foto o immagini era spesso il loro principale bersaglio, nei primi tre arrestati c'è una ragazza di 19 anni che, venerdì, aveva fatto provato a documentare gli scontri. ora si trova nel carcere di Alessandria con l'accusa di Reistenza e oltraggio... gli infiltrati? qualcuno probabilmente l'ho visto ma non ho prove per dimostrarlo certo è che venerdì la polizia ha teso una sorta di trappola al corteo della disobbedienza civile. hanno atteso che arrivassimo in una strettoia eppoi, senza neppure attendere il contatto e senza alcun avvertimento, hanno sparato centinaia di lacrimogeni. lacrimogeni non comuni evidentemente perfezionati per l'occasione. a quel punto il corteo si è allungato ed ha reagito per mantenere un minimo di struttura. però è saltato tutto ed il tentativo di mantenere una struttura non violenta ha funzionato solo a circa 300 metri dal fronte degli scontri. 300 metri in cui poi si infilava chiunque. dopo un paio d'ore un gigantesco camion con gli idranti (caricati con acqua irritante, mi hanno detto) è partito a 60-70 allora contro gli scudi dello spezzone non violento. sono stati nuovamente lanciati gas "particolari", diversi da quelli esplosi nel croso di tutto il pomeriggio, mentre la gente fuggiva in ogni direzione inseguita anche per 800900 metri fino all'arrivo allo stadio Carlini dove si è saputo della tragica morte di Giuliani. il giorno dopo sfilando senza alcuna protezione abbiamo evitatto ogni contatto e, dopo le cariche, siamo riusciti a tornare

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Memoria

Genova 2001 a cura di Nino Recupero

a Milano, eravamo gli ultimi a partire poichè prima sono stati fatti andar via i compagni diretti al sud, abbiamo saputo dell'aggressione vile, violentissima e irragionevole (perchè se hai informazione di armi ci vai prima e non dopo le manifestazioni a perquisire e comunque quello che poi effetivamente è stato trovato non è di fatto significativo) al media center. La voce che circolava è che in realtà si cercasse video o foto in cui si vedevano poliziotti oi carabinieri mentre parlavano con gente vestita "da black". alcune delle foto le ho viste poi nei tg.cmq questo erano le voci. con una stretta al cuore ripenso all'articolo di Sofri apparso sulla repubblica di giovedì scorso (leggete l'articolo se lo trovate in rete): dopo il nostro primo morto (68) l'atmosfera non era più la stessa - dice - alla gioia si sostituita l'amarezza la rabbia ed il movimento non è più stato gioioso e festante...." . spero che chi ha già vissuto certe esperienze sia in grado di aiutarci a non rifare gli stessi errori. a noi è apparso chiaro in un attimo che o sei schiavo, o sei omologato o vai comunque represso... indipendetemente da come esprimi la tua protesta. non staremo zitti però. vi invito personalmente a partecipare alle iniziative dei prossimi giorni. non lasciateci soli!!! cercherò di riportare altre testimonianze un caro abbraccio

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All'improvviso cominciarono All'improvviso cominciarono a piovere lacrimogeni ed in un attimo vedemmo due cellulari carichi di poliziotti venirci incontro. Iniziammo a correre velocemente, ma imboccata l'unica stradina ci accorgemmo che era un vicolo cieco. I cellulari procedevano a velocità elevata con la chiara intenzione di investirci: è lì che ho capito di poter morire. Non potevo mettermi al lato del muro: la strada era troppo stretta, mi avrebbero sventrato. Giunti a mezzo metro da me (non avevano rallentato) mi accorgo che sulla sinistra c'era una breccia nel muro: l'unica via di fuga. Io rimasi sospeso nel vuoto perché ero aggrappato ad un compagno che non era riuscito a lanciarsi ed aveva la gamba bloccata dal cellulare, mentre lo riempivano di manganellate. Però feci forza e lo trascinai con me nel baratro: un volo di cinque metri tra i rami degli alberi e rasentando il muro di calcestruzzo: volo attutito dal fogliame che si trovava alla base. Uno dei compagni cadde di faccia e si fece male, sanguinava. Un poliziotto scese dal furgone blindato e, impugnando un'arma da fuoco, dall'alto del muro gliela puntò addosso pronunciando queste parole: "Bastardo, alzati sennò ti freddo all'istante; ti faccio fuori se non mi dici dove sono gli altri; dimmelo bastardo, che scendo sotto e vi ammazzo tutti". Eravamo caduti nel giardino di una clinica per anziani; la direttrice, che aveva osservato tutto da dietro i vetri delle finestre, decise di uscire fuori in nostro sostegno dicendo: "Qui non c'è più nessuno, c'è solo lui e sta male, molto male, bisogna soccorrerlo". Ed il poliziotto, imperterrito: "Signora, si faccia i cazzi suoi e ritorni dov'era, se no entriamo dentro, sfasciamo tutto, li troviamo e li staniamo". Ad un certo punto si allontanarono di lì. Noi rimanemmo nascosti con l'aiuto di alcune persone del personale della clinica (che ci offrirono anche soccorso) per circa mezz'ora-tre quarti d'ora, con l'elicottero che sorvolava le nostre teste ripetutamente. La direttrice ci invitò però a lasciare il giardino della clinica perché una delle infermiere aveva nel frattempo avvisato i carabinieri credendo che fossimo dei violenti. Carmine

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Cronaca di tre giornate

Sono un genovese che ha partecipato a tutte e tre le giornate di manifestazioni anti G8. Premettendo che si è trattato di una mobilitazione gigantesca e bellissima, e densa di contenuti, desidero raccontare gli episodi ed il clima di violenza nei quali mi sono trovato, spinto dall'indignazione sia per quanto visto sia per le ricostruzioni governative. Dopo la splendida manifestazione di giovedi' 19, pacifica e colorata, si temevano tensioni per il giorno dopo, da entrambe le parti. I manifestanti temevano cariche della polizia nei punti di assedio non violento alla zona rossa; le forze dell'ordine, al contrario, avevano paura del corteo di tute bianche e della galassia dei contestatori piu' radicali nella zona della stazione Brignole. Infatti, la mattina di venerdi' 20 ho potuto constatare che la piazza della stazione (piazza Verdi), era stata trasformata, nella notte, in un'enorme gabbia da sbarramenti di container su tutte le vie di accesso. Fra i container erano aperti piccoli varchi che che si sarebbero potuti facilmente chiudere. La netta impressione era di una trappola. Verso le 12.15 di venerdi' 20 stavo mangiando un panino nella cittadella del GSF a piazzale Kennedy. C'erano pochissime persone. D'improvviso il piazzale è stato attraversato di corsa da un ragazzo di circa 18 anni, vestito completamente di nero, con felpa a cappuccio, uno zaino pesante -lo rallentava- e un bastone. Il ragazzo ha preso alcune bottiglie d'acqua e si è dileguato in direzione punta Vagno. Mi sono un po' allarmato, pensando a scontri con lacrimogeni, e mi sono affacciato su corso Marconi. Davanti alla Fiera del Mare, quartier generale delle forze dell'ordine, c'era un imponente schieramento di polizia in assetto antisommossa che guardava sfilare un grosso corteo, circa un migliaio di persone direi di Globalise Resistance, comunisti dal basso, ecc. Bandiere rosse, slogan, nulla piu'. Alla mia destra, invece, all'incrocio con via Rimassa (circa 300 metri dai poliziotti), c'era un gruppo di 2-300 persone, con bandiere dei Cobas.

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Mi sono avvicinato: la tensione era palpabile. Il gruppo era fermo, ma si staccavano continuamente piccoli gruppi di ragazzi vestiti di nero, come quello visto nel piazzale; molto aggressivi, urlavano, picchiavano i bastoni contro vari oggetti per far rumore, a volto mascherato. Sotto i portici del palazzo d'angolo un negozio (City Center Cisalpino) aveva vetrine e insegna completamente devastate; la stessa sorte era toccata all'altro lato di via Rimassa a banche e concessionarie d'auto. Ho risalito via Rimassa: c'erano pochissime persone, per la maggior parte tute nere isolate, con bastoni, che si muovevano rapide e nervose e sembravano di vedetta. C'erano pero' anche vari genovesi che si aggiravano con aria stupita. Avanzando ho notato che le campane del vetro e della carta e i cassonetti erano rovesciati. Ovunque c'erano cocci e bruciavano cartacce e rifiuti. In fondo a via Cecchi la situazione era impressionante, anche le macchine parcheggiate avevano i vetri sfondati (compresa una francese quasi certamente di manifestanti). In via Barabino, direi, un'auto era capottata e completamente bruciata, circondata dai pompieri. Ne deduco che i disordini erano cominciati già da almeno una mezz'ora. La tensione era altissima; all'incrocio con Corso Buenos Aires, circa un chilometro piu' su del gruppo di tute nere e Cobas, c'erano moltissimi poliziotti in tenuta antisommossa, fermi. Mi aspettavo una carica da un momento all'altro; ho capito poi, dalle riprese di una TV locale (Primocanale, che aveva una telecamera sul grattacielo di Corte Lambruschini), che un altro gruppo di tute nere stava contemporaneamente devastando piazza Tommaseo. I poliziotti in corso Buenos Aires, che vedevano sia questi sia il gruppo di via Rimassa, non si sono mossi in nessuna delle due direzioni per i tre quarti d'ora nei quali io sono rimasto in zona. Lo stesso si puo' dire per i poliziotti della Fiera del Mare, molto piu' vicini. A questo punto sono tornato da quelli di via Rimassa. La situazione si era aggravata: le tute nere erano in piena azione, distruggevano insegne e vetrine con lunghe mazze, e a gruppi di tre rovesciavano le campane e le

sventravano dalla base. Questa operazione, in particolare, era compiuta con velocità e perizia straordinarie (il tutto in meno di un minuto: in un caso ho cercato di fotografarli, ma nel tempo di inquadrare l'immagine tutto era già finito). I Cobas non si muovevano, e io non capivo che rapporto avessero con queste tute nere. Ho letto poi che sono stati messi in mezzo e che un dirigente sindacale è stato pure aggredito; di certo non sono stati in grado di organizzare alcuna reazione. Io ero profondamente indignato e incazzato per quel che vedevo; l'ho detto a una di queste tute nere, un ragazzo di circa vent'anni, con una bandana sulla bocca. Ero concitato, gli ho detto che stavano sbagliando tutto, che non era certo quella la strategia da usare. Lui mi ha risposto che era stufo di strategie, ne avevano parlato anche troppo con quelli dell'Askatasuna. Erano tutti italiani: due o tre incappucciati gridavano ordini, dicevano di stare compatti e poi di avanzare perchè piu' avanti stavano attaccando i compagni. A questo punto me ne sono andato in piazza Dante, dove la zona rossa era assediata da Attac, Arci e svariate altre associazioni pacifiche. Lungo il percorso, in piazza della Vittoria, completamente occupata dalla polizia, ho visto scendere da una Fiat targata Roma, senza alcun distintivo, due personaggi con codini, bandane e aspetto, diciamo cosi', da "autonomi", in mezzo ad un nugolo di poliziotti e dirigersi tranquilli verso la zona degli scontri. Almeno una decina di queste persone in borghese stavano sulla porta della Questura, in mezzo ad un andirivieni incredibile di uniformi. In una delle vie laterali che conducono a via XX Settembre, via Cesarea direi, c'erano i resti di una carica recente davanti alla grata della zona rossa (a questo punto erano circa le 13.30): acqua degli idranti, ovunque per terra striscioni e cartelli del gruppo "Resist/Revolt-F**k capitalism". Le uniche persone presenti erano due anziani che commentavano "gliele hanno date di santa ragione". A piazza Dante tutt'altra atmosfera: musiche, balli, teatro di strada, fiori disegnati per terra, sfotto' alla polizia oltre le grate (puntando vari specchietti: "guardatevi

come siete sfigati"), lancio di palloncini con su scritto "sangue infetto", mutande stese. Le azioni piu' violente erano: lancio di bottigliette d'acqua; scossoni alle grate, o il picchiarci sopra con bottigliette di plastica, o l'arrampicarcisi per issare varie bandiere. Verso le 16 arriva Agnoletto e ci invita a tornare in corteo a piazzale Kennedy: davanti ai vari cancelli siamo 50.000, abbiamo vinto, dice. La gente inizia a sfollare, con calma. A questo punto la polizia, da dietro le grate, spara un paio di lacrimogeni o usa del gas al peperoncino, non capisco. Varie persone lacrimano; una vera provocazione a freddo. Nessuno reagisce e la gente continua a sfollare. Poco dopo sono in un punto della piazza dove le grate curvano, il che mi permette di vedere di fronte a me i due lati della barriera. Sul lato manifestanti una ventina di persone continua a battere le bottigliette contro l'inferriata; dall'altro lato si avvicina calmo un poliziotto con una grossa bomboletta spray e da non piu' di 20 /30 cm la spara in faccia ai dimostranti, che ondeggiano e hanno uno sbandamento all'indietro. Segue rapidamente il lancio di numerosi lacrimogeni nella piazza ancora mezza piena; panico, la gente corre su per via Fieschi, arginata da un servizio d'ordine improvvisato. La polizia dilaga in piazza Dante e noi ci raduniamo nella sovrastante Carignano, decidendo di non rispondere in alcun modo e di andare comunque in corteo a piazzale Kennedy. Giungono voci di manifestanti isolati malmenati nelle vie laterali da gruppi di poliziotti, senza motivo. Purtroppo avranno conferma: testimoni oculari del servizio sanitario mi fanno un resoconto dettagliato di un caso. Quando arriviamo a piazzale Kennedy, verso le 18, giunge la notizia della morte di un manifestante. L'atmosfera diventa rapidamente tesissima: nella cittadella del GSF ci saranno 10.000 persone, una buona metà delle quali si riunisce spontaneamente in assemblea: dal quartiere di fronte, la Foce, si alzano qua e là colonne di fumo nero di incendi e nuvole di fumo chiaro di lacrimogeni; ci sono elicotteri a volo radente e mezzi dei vari corpi delle forze dell'ordine che sfrecciano a sirene spiegate; una città in guerra.

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Genova 2001 a cura di Nino Recupero

In assemblea parlano tutti i coordinatori, le notizie che circolano sono le seguenti: i morti sono già due; il gruppo dei pacifisti di piazza Manin è rimasto imbottigliato e viene attaccato dalla polizia; le tute bianche sono tornate allo stadio Carlini, circondate dalla polizia che puo' fare irruzione da un momento all'altro; gruppi di poliziotti picchiano manifestanti isolati, è sconsigliato allontanarsi dalla cittadella; i manifestanti alla foce stanno subendo violente cariche. In questo clima sembra impossibile contenere la rabbia della gente, che vorrebbe uscire in corteo a protezione di chi veniva attaccato. Penso che sarebbe stato un disastro; per fortuna, con grande determinazione i coordinatori compatti dissuadono la piazza da gesti inconsulti (particolarmente ammirevole Luca Casarini, che tornava da un pestaggio della polizia in corso Gastaldi). In questo clima, qualche delinquente dà fuoco agli uffici di una finanziaria in un palazzo di fronte a piazzale Kennedy. A pochi metri si alza una gigantesca colonna di fumo nero, che ci terrorizza e rischia di dar fuoco all'intero palazzo sovrastante. Passa una buona mezz'ora prima dell'arrivo dei pompieri. Di fronte all'incendio un ragazzo italiano, circa 25 anni, sostiene le azioni delle tute nere. Dice fra l'altro che con tali azioni lui dà un senso a quest'esistenza di merda. Ne segue un alterco molto acceso con numerosi manifestanti. Torno a casa a piedi, attraversando la Foce (sono circa le 21.30): ovunque negozi distrutti, barricate di cassonetti e di auto carbonizzate ancora fumanti, e quant'altro. Un TIR dei carabinieri sta portando via un grosso furgone completamente carbonizzato e ancora fumante (vedro' poi in TV che è stato attaccato 4 ore prima), procedendo a zig zag fra le macerie stradali.Il giorno dopo, sabato 21, la paura che la violenza inquini il corteo è forte. Decido percio' di dare una mano, partecipando ad una squadra sanitaria con un amico medico. Io e un'altra ragazza, che non siamo medici, portiamo garze e medicamenti negli zaini. Tutti abbiamo distintivi di riconoscimento. Al coordinamento sanitario di via Battisti gli altri medici del GSF, alcuni dei quali conosco molto bene, raccontano delle violenze della polizia di cui sono stati testimoni oculari il giorno prima.

Non li riportero', non essendo stato testimone diretto. Le squadre sanitarie e quelle legali vengono distribuite lungo tutto il corteo. Noi siamo assegnati alla Fiom, e per un lunghissimo tratto di Corso Italia procediamo tranquilli in mezzo ad un enorme corteo festoso (anche troppo, penso, visti i fatti del giorno prima). Siamo pero' in contatto col coordinamento del GSF, che segnala scontri a Marassi, dove il corteo dovrebbe arrivare, e in coda, a Quarto. Quando incrociamo via Piave abbiamo a fianco le tute bianche. Di colpo viene distruta la vetrina di una concessionaria; ne segue un parapiglia, nel quale le tute bianche riescono a isolare i vandali e a cacciarli dal corteo; non sono piu' di una quindicina, tutti molto giovani. Le notizie degli scontri intorno a piazzale Kennedy diventano piu' preoccupanti; saranno circa le 14. Decidiamo quindi di sganciarci dalla nostra posizione e di andare a vedere. Dal tratto di strada fra piazza Rossetti e la cittadella del GSF si alza una grande nuvola bianca, con tracce di fumogeni che solcano l'aria in continuazione. Quello è piu' o meno il punto in cui il corteo deve deviare per dirigersi verso Marassi. Noi stiamo 200 metri dietro la linea degli scontri, e iniziamo a soccorrere persone intossicate dai lacrimogeni, ed un ragazzo con un'ustione ad una mano. Il corteo, che è enorme, resta fermo per parecchio tempo: continua ad arrivare gente da dietro, e nessuno puo' proseguire; inoltre, migliaia di persone sono intrappolate nella cittadella di piazzale Kennedy, dove stanno mangiando: da un lato il mare, dall'altro i fumogeni. La situazione peggiora: sulla prima linea degli scontri scoppia un grosso incendio, ci sono barricate. Il corteo è deviato da un estemporaneo servizio d'ordine (persone per mano) su una via parallela, via Casaregis. Migliaia di persone restano pero' fuori da questo cordone, troppo avanti per capire cosa sta succedendo, o in attesa degli amici intrappolati nella cittadella. Questo servizio d'ordine è comunque piuttosto permeabile e male organizzato. Noi siamo vicini alla spiaggia di punta Vagno, in una zona dove ci sono baracche di pescatori. Vedo numerosi ragazzi, sui vent'anni o piu' giovani, sia tute nere sia non "in

divisa", che arrivano sulla spiaggia a rifornirsi di pietre. Alcuni cercano, inutilmente, di prendere delle sbarre di ferro da un cantiere che imperturbabile continua a lavorare. La polizia inizia a sparare molti lacrimogeni anche in mezzo ai tendoni delle piadine nella cittadella. La gente fugge terrorizzata e trova un varco sul lungomare, nella zona dove siamo noi. Molti dicono: male che vada mi butto in acqua. Sulla strada, nello spazio di corso Marconi fra piazza Rossetti, dov'erano le barricate, e via Casaregis, dove ha svoltato la manifestazione, cominciano le cariche della polizia. Ne conto almeno tre: in questo tratto, la gente è ancora densamente assiepata, e per tre volte migliaia di persone sono costrette a correre a rompicollo, in preda al panico, rischiando la strage. Un testimone oculare mi racconta che nelle cariche vengono usate anche le autoblindo della polizia, che sventrano le macchine bruciate e gli altri resti di barricate in mezzo alla strada. L'uso delle autoblindo è confermato anche da radio GAP. Ci avvertono che all'interno della cittadella c'è una ragazza ferita. Si tratta ormai di un punto pericoloso, prossimo alla prima linea, dove iniziano a cadere numerosi i lacrimogeni. Decidiamo che bisogna portare via la ferita. Si tratta di una ragazzina di circa 15 anni, vestita con un top, che ha una brutta ustione da lacrimogeno sulla pancia nuda. E' sdraiata, in forte stato di choc ("sto morendo..."); non riesce a muovere un braccio (il medico mi dirà: probabile alcalosi respiratoria). E' accompagnata dalla madre. Con ogni probabilità qualche solerte funzionario dello Stato le ha scambiate per pericolose sovversive mentre cercavano di uscire dal tendone del ristorante. E il solerte ha sparato alzo zero. Ora i lacrimogeni piovono anche dall'alto, dai tetti o forse da qualche balcone. Da tempo non c'è piu' traccia di tute nere o simili. Portiamo la ragazzina a braccia piu' indietro, in mezzo alle baracche vicino al mare. Mi accorgo pero' che in acqua, a una trentina di metri, ci sono numerosi gommoni con poliziotti in tuta da palombaro. Intanto abbiamo chiamato l'ambulanza, che per raggiungerci deve passare davanti alla prima fila di poliziotti in assetto di guerra.

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Non ci riesce, perchè come si ferma è fatta oggetto del lancio di numerosi lacrimogeni, e deve allontanarsi in tutta fretta. Il punto in cui siamo con la ragazza ferita è ormai pericolosissimo: pochissimi manifestanti smarriti, e a pochi metri, da un lato i poliziotti che avanzano con l'unico scopo, ormai, di spezzare il corteo sull'angolo di via Casaregis; dall'altro i gommoni pronti allo sbarco. Lacrimogeni ovunque. Scappiamo lungo la spiaggia mettendo la ragazza su una barella improvvisata con due assi di legno; dai gommoni ci sparano altri lacrimogeni, il fumo mi investe e perdo il contatto con gli altri. Ho poi saputo che sono rimasti intrappolati sulla spiaggia, ma un gruppo di finanzieri appena sbarcati ha lasciato passare la ferita e li ha fatti andar via. Io risalgo verso il coordinamento GSF di via Battisti; c'è grande agitazione ovunque. Si teme di essere inseguiti dalla polizia e schiacciati nei vicoletti di Albaro. Molte persone sono intossicate dai gas, alcuni hanno la testa insanguinata. Un uomo arriva al coordinamento barcollante, la testa coperta di sangue. Cerco di dirigermi verso Marassi per ricongiungermi con la testa del corteo, ma nel quartiere di S. Fruttuoso la confusione è totale. Appaiono e scompaiono gruppuscoli di tute nere, che buttano cassonetti in fiamme in mezzo alla strada, fanno barricate, spaccano vetrine e distributori. Appaiono e scompaiono, ugualmente, cordoni di polizia in tenuta antisommossa, che arrivano sempre dopo che i violenti si sono dileguati e caricano piu' volte (meno violentemente, ora) grossi gruppi di manifestanti disorientati che cercano di tornare ai pullman. La scena si ripete a scacchiera, per quanto ho visto: in via Giacometti, dalla quale i poliziotti si ritirano; in piazza Giusti, dove ci sono gli scontri peggiori, con barricate in fiamme nel tunnel ferroviario; in piazzaTerralba e via Torti. Per chi conosce la topografia di Genova, gli scontri di piazza Giusti sono particolarmente incomprensibili: poche decine di persone mettono tutto a soqquadro, circondate da tre lati dalla polizia (corso Torino, Borgo Incrociati, via Giacometti); i primi due gruppi intervengono solo molto dopo, quando non restano che i manifestanti pacifici, molto piu' numerosi; il terzo addirittura si ritira.

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“Quelle tute nere viste da tutti ma nessuno le ha fermate” Dopo l'incontro al Cimitero per l'addio a Carlo e per abbracciare la famiglia amica, ritengo di aver diritto ad una risposta all'insopportabile orgia di parole dense di animosità e anche di stupidità e di falsità. Ecco il mio diario dal 17 al 22. Martedì incontro con Manu Chao per organizzare il concerto. L'incasso andra a Città aperta e per altri progetti. Mercoledì grande musica in Piazzale Kennedy, con oltre ventimila giovani, nessun incidente. Giovedì immenso corteo (50.000) con i Migranti. Tutto pacifico. Alla sera, festosa cena con Manu Chau e amici alla Lanterna. Venerdì: entrano in scena 200-300 tute nere perfettamente schierate nei pressi di Alimonda, mentre un elicottero volteggiava su di noi e la polizia non era lontana. Nello stesso tempo, al Carlini, si preparava il corteo della "disobbedienza civile". Nè contro le persone, nè contro le cose. Ripetute raccomandazioni alla non violenza. Perché ad un chilometro e mezzo dalla rete, la Forza Pubblica attacca, con una valanga di lacrimogeni, approfittando delle scorribande dei violenti non fermati prima? Confusione, paura, disperazione, rabbia, scontri. Una vera imboscata. Carlo muore. Sabato: la folla raddoppia. Oltre duecentomila persone per il corteo finale. Si sfila suonando e cantando, ricordando Carlo. Perché la polizia, i carabinieri riescono a frantumare il corteo invece di tenerlo unito nel suo procedere pacifico? In quel pomeriggio si dà inizio ad una vera "caccia all'uomo" che perdurerà tutto il giorno. Avrà il suo vergognoso termine alla Diaz. Perché le tute nere hanno potuto agire quasi indisturbate danneggiando sistematicamente negozi, banche, auto, da Corso Solferino a via Felice Cavallotti? Che è successo alla Caserma di Bolzaneto? Ho tuttora tanti amici nelle Forze dell'Ordine. Quanti "servitori dello Stato" di Diritto ho stimato e apprezzato in questi ultimi anni. Non crederò mai he le Forze dell'Ordine, improvvisamente, siano diventate “scriteriate”. Don Andrea Gallo

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Carlo, uno qualsiasi...

Carlo era uno qualsiasi, Carlo era uno che era andato allo spogliarello della Ferilli, Carlo quel giorno doveva andare al mare, Carlo si è solo difeso da un estintore lanciato dai carabinieri, Carlo è uno del Blocco Nero... Come si incrociano le speculazioni, sarebbe bastata una vita “diversa” per creare il personaggio mediatico perfetto, ma invece quella vita sembrava fatta apposta per non essere questa COSA. La domanda del giornalista "Cos'era allora Carlo?" agli amici e alla ragazza non poteva che meritare la risposta di lei, “Che cavolo di domande fai?”. Val la pena di tornare su questa vicenda proprio perché trascurata dalla mediatizzazione volgare e ricca di spunti per capire questa generazione, la parte di questa generazione che si ribella. Le giornate di Genova rappresentano un punto di svolta, la cui profondità vedremo meglio quando si saranno dissipate le nebbie delle accuse reciproche e sia la rivolta che la sua repressione diverranno un patrimonio collettivo. Gian.

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Coperto col catrame

Coperto col catrame il tratto in cui c'erano ancora le macchie di sangue di Giuliani GENOVA - La bara di Carlo Giuliani adesso è una striscia di catrame. E Walter e Valigia ancora una volta sono senza casa: tornano a dormire dove capita. "Finché possiamo qui sul marciapiede, poi vediamo". Sono ragazzi di strada e per giorni hanno dormito in piazza Alimonda. Ogni sera stendevano i teli sull'asfalto, a fianco del tumulo di fiori dove il loro amico è caduto, sulla segatura gettata per coprire il sangue, con un paio di transenne a dividerli dalle auto che passavano. Questa è stata la casa di Walter e Valigia e di altri come loro. Fino a ieri. Quando operai del Comune hanno coperto tutto con il catrame. “E' per le buche”. C'erano da quattro-cinque anni e lè vicino ci sono ancora. La colata fresca è solo su uno spicchio di piazza. "Del posto di Carlo è rimasta la segatura. quella con il sangue l'abbiamo raccolta e gettata nel mare dove noi del gruppo facevamo il bagno, a Quarto".

|| 6 luglio 2011 || pagina 28 www.ucuntu.org ||


Memoria

|| 6 luglio 2011 || pagina 29 www.ucuntu.org ||


Regime

Rai: struttura Delta Una telefonata allunga la vita...

"La verità è sempre rivoluzionaria" Antonio Gramsci

gnani, l'imprenditore Vittorio Farina, proprio con l'allora dirigente Lorenza Lei. Il deputato Alfonso Papa e un carabiniere infedele dei Ros vengono preavvertiti con sms di un'inchiesta scottante su Rai News. Un lavoro duro quello dell'Internal Auditing Rai. Gli 007 di via Monte Santo, (52) furono chiamati a indagare sull'assunzione con contestuale promozione del figlio della segretaria del gran maestro della P2, Licio Gelli.

"Faremo chiarezza" promette Lorenza Lei, direttore generale della Rai, che da il via alla struttura supersegreta dell'Internal auditing per "l'acquisizione di tutta la documentazione per aprire un'indagine interna" sulla cosiddetta struttura Delta formata da dirigenti Rai, in parte ex funzionari di Mediaset e collaboratori personali del premier, come Debora Bergamini che avrebbe curato gli interessi dell'unico concorrente privato all'interno del servizio pubblico televisivo.

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*** Le rivelazioni dei quotidiani domenicali scuotono il mondo politico e il settimo piano di viale Mazzini. Le intercettazioni pubblicate dalla stampa chiamano in causa lo stesso vicedirettore generale della Rai, Gianfranco Comanducci, che scrive a presidente e dg invocando un'indagine interna che fughi ogni dubbio sulle sue responsabilità. Il dubbio è però il seme dell'inchiesta chiamata ad appurare la vitalità interna della struttura Delta non solo per il passato ma anche per il presente. D'altra parte, gli 007 di via Monte

Santo, da una settimana studiano i quattro faldoni contenenti le sedicimila pagine dell'inchiesta P4 di Napoli con 70 mila intercettazioni, alcune delle quali riferite al controllo degli appalti in Rai da parte dell'ex apprendista della P2, tessera 203, Luigi Bisignani.

*** Emergono telefonate per combinare appuntamenti di un socio di Bisi-

Un giorno d'estate, è il 15 settembre 2005, prima che la relazione giunga in consiglio di amministrazione, gli uffici supersegreti e superblindati dell'Internal Auditing Rai vengono violati dai soliti ignoti: mancano la cassaforte, estratta dal muro, e due computer con le memorie. Niente segni di scasso su porta e finestre Il computer è quello contenente l'inchiesta sul neo assunto, Gianluca Ciardelli. Assunzione richiesta dall'allora direttore di Rai Uno, Fabrizio Del Noce. Pino Finocchiaro www.rainews.it/ pinofinocchiaro.blogspot.com

|| 6 luglio 2011 || pagina 30 || www.ucuntu.org ||


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