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Il mondo non è un luogo comune: immagine e statuto del ‘mondo’ in Hand Me Down World (2010) di Lloyd Jones Lorenzo Mari

1. Weltliteratur/world literature: questioni di statuto “[W]orld literature is not an object; it’s a problem”1. Con questa formula, apparentemente generica e applicabile a molte altre discipline, Franco Moretti ha inteso risolvere già all’esordio2 una tensione produttiva fondamentale, entro il dibattito critico sulla Weltliteratur/world literature, ovvero il conflitto tra una possibile reificazione e istituzionalizzazione della disciplina e la sua disponibilità strategica come opzione dinamica, che può decostruire, se non scardinare, impianti teorici già consolidati. Moretti propende, dunque, per una definizione problematica del campo di studi, preferendo descriverne la complessità, che è sia materiale che immaginativa, piuttosto che affermarne le potenzialità a livello istituzionale. Di conseguenza, Moretti si impegna a descrivere la vastissima articolazione della world literature mediante alcuni ‘modelli spaziali astratti’, aventi forma di ‘alberi’ (trees) e ‘onde’ (waves)3, che si possono anche intersecare, in vario modo, tra loro – come sarà poi nel suo successivo saggio Graphs, Maps

“La world literature non è un oggetto; è un problema” (traduzione mia – mantengo l’originale espressione inglese per “world literature”, in quanto è in tale ambito, culturalmente e politicamente determinato, che si muove Moretti). Cfr. F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, New Left Review, 1, 2000, pp. 54-68, p. 55, corsivo nell’originale. 2 Si fa riferimento al ‘nuovo esordio’ della riflessione riguardante la Weltliteratur/world literature che si è verificato nel primo decennio del ventunesimo secolo. In realtà, come sarà discusso anche in seguito, si tratta della ‘ri-emersione’ di un dibattito critico che si era già delineato in modo articolato – per quanto preaccademico – nella corrispondenza epistolare tra Johann Wolfgang von Goethe e Johann Peter Eckermann, nel 1827, e che è continuato ‘sotto-traccia’ fino a un definitivo ‘ritorno alla ribalta’ del quale l’articolo di Moretti è stato uno dei primi esempi. A tal proposito, cfr. Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani, La letteratura nell’età globale, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 41-51. 3 F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, pp. 66-67. 1


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and Trees4. Il potenziale decostruttivo della Weltliteratur/world literature, invece, è declinato nel confronto con le letterature nazionali, per le quali la world literature si presenta come “a thorn in the side, a permanent intellectual change”5. La posizione di Moretti, collocabile entro le tipologie della critica di marca transnazionale, trova, paradossalmente, uno dei suoi principali oppositori in Fredric Jameson, ovvero nello stesso critico statunitense di orientamento marxista che Moretti cita a piene mani nel suo saggio6, in merito alla discussione, su base mondiale, del romanzo come compromesso formale tra istanze estetiche europee e non-europee7. La possibile obiezione, tuttavia, si situa altrove, nell’opera di Jameson: è, infatti, nel saggio “Notes on Globalisation as a Philosophical Issue”8, che Jameson ha sostenuto – in una posizione diametralmente opposta a quella di Moretti – la permanenza di una critica di livello “nazionale”, con chiare fondamenta economico-politiche, di contro alle tematiche facilmente traslabili su un piano transnazionale, di “identità” e di “cultura”9. In ogni caso, il rapporto tra letterature nazionali e Weltliteratur/world literature non è soltanto il risultato di reciproci, e contrastanti, affondi critici; come ha notato Gayatri Chakravorty Spivak nel suo successivo saggio Death of a Discipline10, si tratta anche di un dibattito politico sulle possibilità materiali della critica accademica – un dibattito, quindi, che riguarda da vicino la divisione del lavoro intellettuale. Moretti descrive tale divisione del lavoro, vigente tra gli specialisti della Weltliteratur/world literature e gli specialisti delle letterature nazionali, come “cosmica” e “inevitabile”11. All’interno di questo schema, che si può intuire come essenzialmente conservatore, Moretti vede come unica alternativa possibile – a livello critico, ma non istituzionale – il ritorno alla sociologia delle forme letterarie, da perseguirsi attraverso un modello di lettura e critica che egli definisce, coniando un neologismo, “distant reading”12. Nonostante il “distant reading” si opponga, in modo esplicito, alla pratica invalsa nell’uso nell’accademia anglo-americana del close reading, non può portare, per questa ragione, ad alcun innovamento disciplinare o trans-disciplinare – in quanto, appunto, si tratta di una pratica che interviene in un modello di divisione del lavoro accademico descritto come “cosmico” e, dunque, immutabile. Spivak contesta questo passaggio di Moretti, ricordando non soltanto come certi metodi di lettura ‘a distanza’ siano, in realtà, favoriti da politiche accademiche, editoriali e di F. Moretti, Graphs, Maps, Trees: Abstract Models for a Literary History, Londra, Verso, 2005. “Una spina nel fianco, una sfida intellettuale permanente” (traduzione mia). F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, p. 68. 6 Ibidem, p. 58 e seguenti. 7 F. Jameson, “In the Mirror of Alternate Modernities”, in Karatani Kojin, Origins of Japanese Literature, Durham-Londra, Duke University Press, 1993, pp. vii-xx. 8 Il saggio è contenuto in The Cultures of Globalisation, a cura di Fredric Jameson e Masao Miyoshi, DurhamLondon, Duke University Press, 1998, pp. 54-77. 9 F. Jameson, “Notes on Globalisation as a Philosophical Issue”, p. 58. 10 G. C. Spivak, Death of a Discipline, New York, Columbia University Press, 2003. Traduzione italiana: Morte di una disciplina, Roma, Meltemi, 2003. 11 F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, p. 66. 12 F. Moretti, op. cit., p. 57 e seguenti. 4 5


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traduzione specifiche dell’accademia euro-americana, ma anche come quello di Moretti sia un metodo fortemente eurocentrico13: si finisce per postulare una lettura dei testi che è più un ‘test’ delle leggi evolutive che, secondo Moretti, governerebbero il sistema mondiale della letteratura-14, che non un’analisi critica aderente alla realtà del testo. Mediante il ricorso a queste ‘leggi evolutive’, si consolida quel linearismo storiografico evoluzionista che è intrinseco al discorso eurocentrico, piuttosto che ri-configurarlo secondo l’incontro con tradizioni e produzioni culturali diverse da quella euro-americana. Spivak, per contro, mira a superare la divisione del lavoro accademica tra Area Studies (studi d’area, con un’alta competenza linguistica nelle lingue non-europee) e Comparative Literature (studi interdisciplinari, con una bassa competenza linguistica nelle lingue noneuropee). A tal proposito, Spivak conia un’altra espressione – “Transnational Cultural Studies” – allo scopo di descrivere l’ipotetico spazio d’intersezione dove l’incontro tra queste due discipline possa avvenire e rinnovarsi, nel segno della riflessione su Weltliteratur/world literature15. Come condizione necessaria di questo incontro, Spivak pone un’indicazione metodologico-disciplinare molto precisa, ovvero lo sviluppo accademico di una competenza linguistica e traduttiva anche nell’ambito delle lingue non-europee. La proposta di Spivak, quindi, risulta chiaramente orientata verso l’istituzionalizzazione della disciplina, seppure attraverso la scelta di etichette e parametri moderatamente divergenti. Come si può notare, il dissidio tra Moretti e Spivak sul campo d’azione della Weltliteratur/world literature torna, insistentemente, a postulare una tensione produttiva tra la reificazione e l’istituzionalizzazione della disciplina e la decostruzione delle discipline esistenti. Tale confronto dialettico non si può risolvere facilmente a favore dell’una o dell’altra tesi: né i modelli astratti e le leggi evolutive suggeriti da Moretti hanno facile applicazione metodologica-critica, né gli “studi culturali transnazionali” cui ambisce Spivak hanno avuto, per il momento, una traduzione concreta nella divisione del lavoro accademica. Ciò rende manifesto un conflitto che non è possibile sciogliere del tutto in favore dell’una o dell’altra posizione: in altre parole, la Weltliteratur/world literature risulta essere oggetto e problema allo stesso tempo. Quest’ultima definizione di Weltliteratur/world literature non rende conto soltanto del dissidio tra le posizioni di Moretti e Spivak, ma presenta anche altre notevoli implicazioni. Se, ad esempio, si è inteso qui mantenere il binomio anglo-tedesco Weltliteratur/world literature, non si è voluto con questo postularne l’intraducibilità in lingua italiana, quanto sottolineare il fatto che tale dibattito critico concerne, in primo luogo, la posizione di potere delle comunità accademiche, e delle soggettività critiche, coinvolte nella produzione del sapere. Com’è noto, infatti, una delle prime riflessioni sulla Weltliteratur è stata avanzata da Johann Wolfgang von Goethe, nella sua corrispondenza epistolare con Johann Peter Eckermann del 1827. L’idea di Weltliteratur, in altre parole, ha preceduto la nascita della G. C. Spivak, Morte di una disciplina, pp. 48-49 (nota 1). F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, p. 57 e seguenti. 15 L’espressione non è esplicitata in Morte di una disciplina, ma ne permea l’argomentazione: la stessa operazione è presente in Critica della ragione postcoloniale (Roma, Meltemi, 2004), come segnala la quarta di copertina dell’edizione italiana. 13 14


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comparatistica letteraria, che è stata poi di dominio, per così dire, ‘tedesco’ fino alla seconda guerra mondiale. Successivamente, la riflessione sulla Weltliteratur è ricomparsa soltanto nell’ultima generazione di comparatisti germanofoni, e segnatamente durante la seconda guerra mondiale, nei testi di Fritz Strich, esegeta di Goethe16, e in Eric Auerbach17. Allo stesso modo, la world literature si è affacciata come tale nel campo della comparatistica anglo-americana – che, proprio alla fine della seconda guerra mondiale, ha guadagnato l’egemonia, in campo critico – in un suo particolare momento, storico e ontologico, di crisi. È Spivak stessa a sostenere questa tesi – a partire dal titolo del saggio, Morte di una disciplina – mirando a scongiurare quella “morte della comparatistica” che interverrebbe, invece, inesorabilmente, qualora la comparatistica continuasse a rifiutare un confronto più aperto e diretto, in un contesto transnazionale, con le tradizioni letterarie, culturali e linguistiche non-europee. Se, dunque, il dibattito critico relativo a Weltliteratur e world literature interviene in alcuni peculiari momenti di crisi di una disciplina già istituzionalizzata, mirando alla sua riconfigurazione, ciò avviene in analogia con i progetti teorici e politici della critica femminista, nonché dei Gender Studies, dei LGBTQ Studies, dei Postcolonial Studies, o anche dei Subaltern Studies. Nello specifico, però, una simile ‘emersione disciplinare’ ambisce a ridefinire una peculiare figurazione discorsiva, in cui l’egemonia accademica e culturale di una formazione nazionale o trans-nazionale – pur essendo largamente frammentata, se non in ‘crisi’ – si interroga sul proprio rapporto con il ‘mondo’ e sulla propria capacità di definirlo – per dirla, tra gli altri, con Salman Rushdie, sul proprio “potere di descrizione”18. Tale volontà di appropriazione del “mondo” risulta, anzi, tanto più forte nei momenti di crisi, dove alla debolezza materiale delle discipline si contrappone uno sforzo retorico che, in un’ottica del tutto compensativa, dev’essere almeno uguale e contrario. A questo proposito, si veda, ad esempio, una delle prime repliche, in ordine di tempo, all’articolo di Moretti, ovvero l’articolo di Jonathan Arac significativamente intitolato “AngloGlobalism?”19. “English in culture, like the dollar in economics, serves as the medium through which knowledge may be translated from the local to the global”20: basandosi su questa semplice eppure dirimente ipotesi, Arac ha inteso sottolineare il pericolo di un appiattimento della world literature sulla realtà socio-economica della globalizzazione e sui sistemi linguistico-letterari e culturali che in questo contesto rivestono posizioni egemoniche – ovvero, la produzione letteraria, critico-accademica e, in genere, culturale in lingua inglese. Si tratta, dunque, di verificare se, oltre al predominio materiale di marca anglofona nella produzione culturale, che è acclarato, la crescente riflessione su Weltliteratur/world literature non stia diffondendo anche un modello ideologico, ovvero una Cfr. F. Strich, Goethe und die Weltliteratur, Berna, Francke, 1946. E. Auerbach, "Philologie der Weltliteratur," in Weltliteratur: Festgabe für Fritz Strich zum 70. Geburtstag, Berna, Francke, 1952, pp. 39-50. 18 S. Rushdie, Versi satanici, Milano, Mondadori, 1989 (1988), p. 168. 19 Cfr. J. Arac, “Anglo-Globalism”, New Left Review, 16, 2002, pp. 35-45. 20 “L’inglese nella cultura, come il dollaro in economia, serve come mezzo attraverso il quale la conoscenza può essere traslata dal locale al globale” (traduzione mia). Cfr. J. Arac, op. cit., p. 40. 16 17


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sorta di “Anglo-Saxon conformity” che fornisce un’interpretazione ristretta e parziale dell’idea di “mondo”, non interrogandone adeguatamente tutte le possibili dislocazioni. 2. Mondo come oggetto, mondo come problema Uno dei primi studiosi ad interrogarsi sulle molteplici rappresentazioni possibili del “mondo” che possono essere funzionali allo studio della Weltliteratur/world literature è stato David Damrosch, che, in apertura di What is World Literature?, si è posto questo interrogativo: “Which literature, which world?”21 (ovvero: “quale letteratura, quale mondo?”). Alla luce dell’importanza, che è stata precedentemente delineata, dei rapporti di potere nella definizione delle possibilità critiche e istituzionali della Weltliteratur/world literature, la domanda di Damrosch può essere integrata dall’inevitabile corollario: “Which literature, whose world?” (“quale letteratura, il mondo di chi?”). In questo senso, pur tenendo conto dei rapporti politico-economici e delle relazioni di potere all’interno della società globalizzata, non è possibile declinare il “mondo” esclusivamente nell’immagine dell’attuale globalizzazione, senza incorrere allo stesso tempo nel rischio individuato da Arac nel saggio di Moretti, ovvero in una riproposizione del modello socio-economico e culturale egemone, in cui “l’inglese serve come mezzo di traduzione dal locale al globale”22. Tale dinamica instaurerebbe un meccanismo di conversione diretta tra le diverse dimensioni del globale, che è paragonabile, per immediatezza e ‘spendibilità’ al cambio di valuta, ed è simboleggiato al massimo livello da quella combinazione linguistica opaca che è la diffusissima espressione “villaggio globale”. Al contrario, la traduzione dal locale al globale non risulta mai diretta, e immediata: la stessa “conversione” in inglese costituisce almeno un passaggio di mediazione. Inoltre, la riflessione sulla Weltliteratur/world literature, come si è già tentato di delineare, procede da un dibattito critico molto più lungo e più ampio, che non si può limitare entro la riflessione dell’ultimo decennio, essendo consustanziale allo studio critico-accademico ‘moderno’23 dei fenomeni letterari. Se non è riducibile al perimetro del ‘villaggio globale’, il mondo non è neppure completamente sovrapponibile al ‘globo’ o al ‘pianeta’ - a ricordarlo è sempre Spivak, in Morte di una disciplina, quando scrive: Il globo è nei nostri computer. Nessuno vive lì. Ci consente di pensare che possiamo mirare a controllarlo. Il pianeta rientra nelle specie di alterità, che appartengono a un altro sistema; eppure lo abitiamo, a prestito. Non è effettivamente in netto contrasto con il globo. Non posso dire “il pianeta, D. Damrosch, What is World Literature?, Princeton, Princeton University Press, 2003, p. 7. Uno dei primi critici ad attaccare la posizione pro-attiva di Moretti e la posizione critica di Arac come versanti opposti dello stesso “Anglo-Globalism” è stato Vilashini Cooppan, nell’articolo “Ghosts in the Disciplinary Machine: The Uncanny Life of World Literature”, Comparative Literature Studies, 41.1, 2004, pp. 10-36 23 L’etichetta di “modernità”, d’altra parte, necessità anch’essa di essere rivista, alla luce della discussione radicale di questa costruzione concettuale come linearista ed eurocentrica, che è stata operata nel pensiero postcoloniale, e segnatamente da Dipesh Chakrabarty in Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princeton University Press, 2001. 21 22


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d’altra parte”. Quando invoco il pianeta penso allo sforzo richiesto per raffigurare la (im)possibilità di questa intuizione non derivata.24

Mentre parlare di mondo in termini di ‘globo’, ovvero di una letteratura ‘globale’ e ‘della globalità’, rinvia a una dimensione della globalizzazione che, oltre che presentista, è tecnocratica – “Il globo è nei nostri computer” – e presenta, quindi, le stesse aporie di un’identificazione del mondo con il ‘villaggio globale’, il riferimento al ‘pianeta’, proiettando il mondo oltre confini naturali e umani, rimanda alla costituzione di un sistema di alterità transnazionale, che costituisce, secondo Spivak, un punto di riferimento fondamentale per analizzare criticamente tutto ciò che è percepibile come ‘differenza’ entro il perimetro del mondo. Tra ‘globo’ e ‘pianeta’, dunque, la preferenza di Spivak per il secondo termine è chiara, in quanto il riferimento a una dislocazione che genera differenze è foriero di quelle riflessioni di marca subalterna, postcoloniale e/o di gender, che l’autrice ritiene essere fondamentali nell’esercizio della critica. Tuttavia, come Spivak stessa afferma, non vi è una linea di demarcazione netta e precisa tra ‘globo” e “pianeta’: le ragioni sono, in prima battuta, di carattere epistemologico, ovvero risiedono nel comune movimento di dislocazione che entrambi i termini operano a partire dal concetto di ‘mondo’. Vi è un’ulteriore dislocazione, infine, che Spivak ingloba nella propria argomentazione, anche se prelude a sviluppi teorici che possono essere tanto correlati, quanto autonomi: la consapevolezza di abitare il mondo, prendendolo “a prestito” e non dominandolo, rinvia alla definizione del mondo come Terra, ovvero al tempo stesso come terra e come ecosistema. È al primo termine che Spivak rivolge in modo preminente la propria attenzione25, interessandosi – in linea con la propria formazione accademica, parzialmente avvenuta presso il gruppo fondatore dei Subaltern Studies – delle ‘zone rurali’ del mondo e delle collettività, spesso in stato di evidente subalternità, che le abitano: “[l]a terra è un’immagine para-nazionale in grado di sostituire una internazionale che può forse fornire, oggi, un luogo dislocato per l’immaginazione della planetarietà”26. Completando l’obiezione di Jameson sulla permanenza del livello ‘nazionale’ in ambito transnazionale, Spivak aggiunge che anche ciò che è para-nazionale – in inglese, si può definire ‘terra’ come ‘country’, con doppio significato (‘nazione’ e ‘zona rurale’) – può assurgere a un confronto inter- o trans-nazionale. Ne è stata dimostrazione, tra gli altri G. C. Spivak, Morte di una disciplina, p. 92. Nel paragrafo che precede la citazione, qui riportata, che riguarda “globo” e “pianeta”, Spivak si mostra diffidente verso la definizione di “Terra” come “ecosistema”, perché questa interpretazione può preludere a un ambientalismo “generico” che si pone come l’ultima astrazione politica cui conduce l’asservimento al capitale globale (Morte di una disciplina, p. 92). La contraddizione con il lessico adottato poco oltre – la Terra come terra “presa a prestito” – delinea un quadro critico, se non contraddittorio, piuttosto complesso. A tal proposito, dunque, pare opportuno ricordare come la riflessione tradizionale del literary ecocriticism (cfr. The Ecocriticism Reader: Landmarks in Literary History, a cura di Cheryll Glotfelty e Harold Fromm, Atlanta, University of Georgia) sia recentemente giunta ad avere una declinazione postcoloniale e transnazionale, con il saggio di Graham Huggan e Helen Tiffin Postcolonial Ecocriticism: Literature, Animals, Environment, New York, Routledge, 2010. 26 G. C. Spivak, Morte di una disciplina, p. 113. 24 25


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fattori, il dibattito critico e politico transnazionale promosso dagli stessi Subaltern Studies, ovvero da un sapere di marca gramsciana, sviluppatosi in India e riversatosi poi nell’accademia anglo-americana. In conclusione, sia esso ‘villaggio globale’, ‘globo’, ‘pianeta’ o ‘terra’, il ‘mondo’ come ‘oggetto e problema’ allo stesso tempo si pone come territorio ideale per il confronto dialettico tra Weltliteratur/world literature e letterature nazionali. Spivak, tuttavia, non si ferma a questa riflessione, individuando un’altra dimensione fondamentale di quel confronto dialettico tra le discipline che la Weltliteratur/world literature può generare, ovvero l’elaborazione socio-simbolica della soggettività femminile. Spivak si basa su una formula che è costante nelle sue opere precedenti ed è riportata anche in Morte di una disciplina: “la figura della donna è pervasivamente strumentale nel cambiamento della funzione dei sistemi discorsivi”27. In Morte di una disciplina, tale assunto – di importanza fondamentale, nell’approccio contemporaneo ai Gender Studies – risulta associato alla ri-lettura del mito platonico della caverna, nonché della sua interpretazione freudiana, già operato da Luce Irigaray in Speculum28. Tramite questa operazione, Spivak giunge a concludere che è la presenza dell’Unheimlich – il perturbante freudiano, adeguatamente ri-significato da una lettura gendered – a proporsi come nota dominante nel contesto del dibattito sulla world literature. Quest’ultimo ambito d’analisi, infatti, si basa sul meccanismo della “de-familiarizzazione di uno spazio famigliare” – facendo leva su quella sorta di estraneità al ‘mondo’ che deriva dalla ‘planetarietà’ – anziché sull’operazione opposta, che è stata invece pertinente alla comparatistica letteraria e anche, parzialmente, ai Postcolonial Studies29. Se dunque, nell’interpretazione di Irigaray e successivamente di Spivak, nell’uscita della caverna si esplica l’uscita dalla vagina della donna, all’interno di uno schema interpretativo chiaramente influenzato dal discorso patriarcale, l’uscita dalla cavernamondo verso la ‘planetarietà’ non può non tener conto di questa implicita rappresentazione, fortemente asimmetrica, di genere. Di conseguenza, dislocando il mondo-caverna e interrogando la planetarietà, la metodologia dei Gender Studies non si presenta come un ‘fattore della critica’, ma come uno ‘strumento interpretativo generale’ anche per l’ambito della Weltliteratur/world literature: Nel nostro tentativo di tracciare la planetarietà rendendo la nostra patria (home) unheimlich o perturbante, costruiremo un’allegoria della lettura dove il sistema discorsivo si sposta dalla vagina al pianeta come significante del perturbante mediante il colonialismo nazionalista e il postcolonialismo. Questo è aderire al mio metodo: il gender come strumento critico generale piuttosto che come qualcosa che debba costituire un fattore in casi speciali.30

Cfr. G. C. Spivak, Morte di una disciplina, p. 113. Una prima formulazione di questa frase è presente in The Spivak Reader: Selected Works, a cura di Donna Landry e Gerald Mac Lean, New York/Londra: Routledge, 1996, p. 226. 28 Cfr. L. Irigaray, Speculum. De l’autre femme, Parigi, Éditions de Minuit, 1974. 29 G. C. Spivak, Morte di una disciplina, p. 96. 30 G. C. Spivak, Morte di una disciplina, pp. 93-94, corsivi nell’originale. 27


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Ne deriva che una ri-configurazione completa, e di marca transnazionale, delle questioni legate al gender è, secondo Spivak, un’operazione critica ineludibile per costruire ciò che lei definisce “planetarity”, ovvero una prospettiva ‘planetaria’ che tocca, in vario modo, tutte le discipline che concorrono alla formazione del dibattito sulla Weltliteratur/world literature, senza per questo incorrere nelle evidenti aporie inerenti al “planetary humanism”31 descritto da Paul Gilroy. In ogni caso, che si coaguli entro una stessa retorica o fornisca un punto di vista esterno (‘planetario’, ad esempio) per ri-definire una pluralità di discorsi, sembra evidente come la riflessione sulla Weltliteratur/world literature sintetizzi continuamente – oscillando tra i poli opposti delle strategie critiche decostruttive e dell’istituzionalizzazione – un “new intellectual style” (ovvero “un nuovo stile intellettuale”), per usare le parole di Timothy Brennan32. Se la ricerca di un nuovo posizionamento e di un nuovo stile intellettuale è chiara sia nel testo di Spivak che in quello di Gilroy, non può dimenticarsi, a questo punto, un riferimento essenziale per entrambi i discorsi critici, come il “secular criticism” che è stato proposto da Edward Said già nelle sue prime opere, come Beginnings33 e The World, the Text and the Critic34. Said afferma la necessità e la persistenza di una lettura materialista dei testi coloniali e postcoloniali, di contro alle prospettive foucaultiane e post-strutturaliste all’epoca invalse nell’uso. Senza entrare nel merito della questione per motivi di spazio, sembra comunque chiaro come la proposta di una lettura ‘mondana’ o ‘secolare’ rappresenti un’ulteriore possibilità di dislocazione – questa volta, più metaforica che altro – del discorso sul mondo come ‘oggetto e problema’. Sommando tutte queste dislocazioni – mondo come villaggio globale, come pianeta, come rinnovato mito della caverna, come scontro tra forze culturali e politiche egemoni e subalterne, come possibilità di una rinnovata critica materialista, etc. – si ottiene un immagine plurale e variamente dislocata e, dunque, articolata, del “mondo”, che si può ragionevolmente ritenere consustanziale al dibattito sulla Weltliteratur/world literature. Evidentemente, una simile pluralità concettuale non collima con la formula “one and unequal” (ovvero “uno e diseguale”, o anche “iniquo”)35 che Moretti ha adottato, traendola dalla teorie politico-economiche sistemiche di Immanuel Wallerstein36 e coniugandola con i propri modelli descrittivi astratti. La serie di dislocazioni qui proposta rimanda, piuttosto, alla nozione di continuo “re-scaling”, che Saskia Sassen ha coniato per analizzare le interazioni transnazionali tra le tre dimensioni (locale, nazionale, globale),

Cfr. P. Gilroy, Against Race: Imagining Political Culture Beyond the Color Line, Cambridge, Harvard University Press, 2003. 32 Cfr. T. Brennan, “On the Relationship of Postcolonial Studies to Globalisation Theory and the Relationship of both to Imperialism”, in Post-scripta. Incontri possibili e impossibili tra culture, a cura di Silvia Albertazzi, Gabriella Imposti, Donatella Possamai, Padova, Il Poligrafo, 2005, pp. 103-118, p. 105, traduzione mia. 33 E. Said, Beginnings, New York, Columbia University Press, 1975. 34 E. Said, The World, the Text and the Critic, Cambridge, Harvard University Press, 1983. 35 F. Moretti, “Conjectures on World Literature”, p. 55 e seguenti. 36 Moretti fa riferimento (“Conjectures on World Literature”, p. 57) all’opera in tre volume di Immanuel Wallerstein The Modern World System (1974, 1980, 1989), tradotta in Italia per i tipi del Mulino come Il sistema mondiale dell’economia moderna (1978, 1982 e 1995). 31


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che da sempre persistono e insistono nei processi di globalizzazione37. In ambito letterario, l’analisi di Sassen è stata ripresa da Remo Ceserani e Giuliana Benvenuti nel loro recente saggio La letteratura nell’età globale, dove si afferma la necessità, entro il contesto della Weltliteratur/world literature, di una “analisi postcoloniale multiscalare”38. Tale multi-scalarità può certamente essere attraversata dalle metodologie dalla critica postcoloniale, ma si può declinare anche in altri ambiti che siano capaci di riconfigurare completamente il discorso critico, come quei Gender Studies cui, come si è visto, ricorre Spivak. 3. Un testo paradigmatico fuori dal paradigma: Hand Me Down World (2010) di Lloyd Jones Cercando i luoghi testuali dove possano emergere le tensioni critiche che sono appena state delineate – continua dislocazione del mondo; necessità di un’analisi multi-scalare; confronto della Weltliteratur/world literature con i Postcolonial Studies e/o i Gender Studies – ci si imbatte con facilità in quei testi, di recente pubblicazione, che sono stati definiti, in modo del tutto approssimativo, “romanzi globali”39. Ne può essere un esempio paradigmatico il romanzo Hand Me Down World (2010)40 di Lloyd Jones. Il testo in questione, infatti, è stato scritto in inglese da un autore neozelandese appartenente al mainstream anglofono transnazionale ed è stato tradotto rapidamente in molte lingue41: Hand Me Down World può dunque essere comodamente preso ad esempio dell’influenza del cosiddetto “Anglo-Globalism” all’interno della produzione letteraria. Ciò potrebbe scoraggiarne la lettura critica in chiave transnazionale, allo scopo di evitare l’incessante riproduzione delle dinamiche di potere del cosiddetto “AngloGlobalism”. In realtà, come già si è tentato di dimostrare, la Weltliteratur/world literature si caratterizza per essere al tempo stesso “oggetto e problema”, affermando e al tempo stesso decostruendo i principi delle egemonie culturali e politiche vigenti. Di conseguenza, è possibile che anche da un romanzo in lingua inglese e appartenente al mainstream transnazionale giungano gli spunti critici necessari a ri-affermare lo statuto problematico della nascente disciplina, nonché a dare una sorta di ‘modello multi-scalare’ della rappresentazione del ‘mondo’ che le è inerente. Cfr. S. Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton, Princeton University Press, 2001. Cfr. G. Benvenuti e R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, p. 73. 39 L’approssimazione nella definizione deriva dal fatto che, come anche qui si è tentato di affermare, non esistono “romanzi globali” in quanto tali, né esistono forme letterarie specifiche dell’attuale società della globalizzazione, in quanto la Weltliteratur/world literature implica un dibattito critico che si può dire co-esteso alla creazione ‘moderna’ delle discipline umanistiche e implica categorie spazio-temporali più ampie di quelle tradizionalmente adottate. 40 Lloyd Jones, Hand Me Down World, Melbourne, Text Publishing, 2010. L’edizione qui consultata é: L. Jones, Hand Me Down World, Londra, John Murray, 2011. 41 Il romanzo – tradotto in tedesco, francese, turco e lituano, come si apprende dalla pagina della casa editrice Text Publishing: http://textpublishing.com.au/books-and-authors/book/hand-me-down-world (ultimo accesso il 12 gennaio 2013) – non è ancora stato tradotto in italiano. 37 38


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Da questa prospettiva, la produzione letteraria di Lloyd Jones, stilisticamente molto raffinata e costantemente attraversata da una varietà di appigli meta-testuali, si rivela un territorio adeguato per l’innesto critico. Ne è dimostrazione il fatto che già nel romanzo precedente rispetto a Hand Me Down World, ovvero Mr. Pip42, sia presente una gamma di elementi testuali che possono essere ricondotti a un nascente interesse dell’autore per le condizioni problematiche di una lettura transnazionale43. Tuttavia, é soltanto in Hand Me Down World che l’invenzione, ovvero la ‘dislocazione inventiva’, del ‘mondo’ può dirsi centrale. L’intenzione è evidente già a partire dal titolo del romanzo: in Hand Me Down World, ciò che il mondo, è chiamato a ‘far passare’, a livello materiale, e a ‘tramandare’, a livello metaforico, è la storia di una donna africana, della quale non si conosce l’identità anagrafica, ma che si può chiamare per convenzione – come accade, provvisoriamente, anche nel romanzo – “Ines”. La storia di “Ines” è l’esperienza di un lungo itinerario di migrazione, avente carattere transnazionale: Hand Me Down World non si sofferma, però, in modo esclusivo sulle caratteristiche e sugli eventi propri della migrazione, ma cerca di trascendere questo approccio tematico, offrendo anche altri spunti meta-testuali. In effetti, il viaggio di “Ines” evidenzia, di per sé, una struttura piuttosto semplice, riversandosi in una trama altrettanto elementare, che è poi la pluralità di narratori, e il frequente uso di analessi e prolessi delle varie narrazioni, ad articolare in modo complesso. Stando alla trama, dunque, “Ines”, partita dal villaggio africano d’origine – descritto in termini molto vaghi e generici nelle prime pagine del libro44 – si ritrova a lavorare la donna, dopo aver vinto un concorso di bellezza, in due alberghi, prima in una località non meglio imprecisata sul Mar Rosso e poi in Tunisia. Il viaggio di Ines continua poi con l’attraversamento del Mediterraneo su un’imbarcazione che trasporta altri migranti africani verso le coste europee e, successivamente, con un viaggio circolare tra Italia, Austria e Germania. Ciò che la spinge, in questa seconda parte del suo percorso migratorio, non è più la ricerca di un lavoro, bensì la necessità di ritrovare il proprio figlio naturale, che le è stato sottratto con l’inganno dal padre – un compagno occasionale, di nome Jermayne, incontrato in albergo. “Ines” riesce nel suo proposito, ma una volta raggiunti Jermayne e il figlio a Berlino, la donna viene arrestata per l’uccisione preterintenzionale di una donna – la vera Ines, alla quale la protagonista ha poi “rubato” l’identità – ed è deportata verso il carcere di Catania – luogo in cui si ferma il suo viaggio, nonché la narrazione. Al mondo si chiede, dunque, di “far passare” la donna attraverso i molteplici confini che si frappongono, in un primo momento, al consolidamento della sua posizione socioeconomica personale e, successivamente, al ritrovamento di suo figlio. Sono i confini che, in altre termini, le impediscono di godere di un pieno riconoscimento della sua soggettività: in questo senso, è significativo il fatto che, nella prima fase della migrazione, Lloyd Jones, Mr. Pip, Auckland, Penguin New Zealand, 2006. Per una lettura in chiave transnazionale di Mr. Pip, cfr. Z. Norridge, “From Wellington to Bougainville: Migrating Meanings and the Joys of Approximation in Lloyd Jones’ Mr. Pip”, The Journal of Commonwealth Literature, 45.1, 2010, pp. 57-74. 44 L. Jones, op. cit., pp. 3-4. 42 43


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non si tratti di confini nazionali, come sarà, invece, e in modo determinante, nella seconda parte del libro (confermando, così, in ultima battuta, la bontà dell’obiezione à la Jameson, riguardante la permanenza del livello del “nazionale” anche in ambito transnazionale). Nella prima parte del viaggio, infatti, le località attraversate da “Ines” non hanno nome; non sono, dunque, chiaramente individuabili su una mappa. Tale mancanza di riferimenti potrebbe indurre il lettore a postulare una riproposizione del discorso eurocentrico, nella sua costruzione di una rappresentazione omogenea e indistinguibile dell’Africa. In realtà, tale scelta – così come quella di definire la donna, ripetutamente, come “African woman”45, o con il nome fittizio di “Ines”, non esplicitandone mai l’identità anagrafica – è solo in apparenza una reiterazione del discorso eurocentrico e ricco di clichés sull’Africa e/o sulla ‘donna nera’: entrambe le scelte hanno, all’interno del testo, valenze strategiche più complesse. L’imprecisione nella collocazione geografica della vicenda in terra africana, ad esempio, serve almeno due scopi. In primo luogo, si rende manifesto il fatto che, oltre ai confini nazionali, esistono altre linee di demarcazione altrettanto potenti. che, in questo caso, riguardano il corpo femminile: è l’esposizione del corpo, all’interno di un contesto di bellezza, che consente a “Ines” di essere assunta in un albergo, mentre è lo sfruttamento sessuale a portarla al concepimento del figlio e, in un secondo momento, a darle il sostegno economico necessario a pagarsi la traversata del Mediterraneo. In entrambe le situazioni la donna svolge un ruolo attivo, risolvendo così in modo produttivo la propria agency; ne consegue, però, che l’economia politica alla quale il corpo della donna si sottomette e, allo stesso tempo, é sottomesso, sia soltanto accennata, risultando estremamente ambigua. Ciò che si profila, in ogni caso, sin dalle prime pagine, é una condizione di genere, nella quale il superamento dei confini geografici è legato all’immagine e all’uso del corpo, piuttosto che a specifici fattori politico-economici, ad esempio. Pur mancando un approccio articolato alla questione delle migrazioni transnazionali, tramite l’accostamento dei confini nazionali e di genere si delinea comunque quella tensione, sottolineata da Spivak, tra “mondo” e “soggettività femminile” come nessi fondamentali del dibattito sulla Weltliteratur/world literature. Sarà poi il resto del romanzo, come si vedrà, a definire in modo più chiaro questa tensione. In secondo luogo, la mancanza di confini nazionali in terra africana costringe a un’articolazione più precisa degli spazi sub- e, di conseguenza, trans-nazionali. In altre parole, sono i passaggi della donna dal villaggio all’hotel e dall’hotel a un’altra nazione e continente a essere posti in rilievo: in ambito trans-nazionale non vi sono soltanto relazioni tra diverse culture o diverse nazioni, ma anche tra diverse dimensioni del locale, del nazionale e del globale. Si giustifica così l’enfasi sul “re-scaling” adottata da Saskia Sassen: la ‘multi-scalarità’ del testo interessa ‘mondi’ diversi, variamente connessi, o separati, tra loro. Sono presenti, infatti, le dimensioni sovra-nazionali – “l’Africa” – e nazionali – Tunisia, Italia, Austria, Germania – della cartografia convenzionale, ma anche dimensioni spazialmente più limitate – il villaggio, il carcere – o anche, infine, dimensioni che sono apparentemente circoscritte al ‘locale’, ma che in realtà esprimono anche i livelli del 45

L. Jones, op. cit., p. 50 e seguenti, per un totale di 10 occorrenze.


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‘nazionale’ e del ‘globale’. Quest’ultima definizione si attaglia, in un primo momento, agli alberghi nei quali “Ines” lavora: non-luoghi per eccellenza della postmodernità globale, come ha rilevato Marc Augé46, sono percepiti da “Ines” come mondi a sé stanti, e rappresentati, di conseguenza, come tali, tramite la significativa definizione: “hotel world”47. La stessa categoria è applicabile, successivamente, anche alla città di Berlino, che è lo scenario principale della seconda e terza sezione del romanzo. Infatti, Berlino, come un hotel, è un luogo dove convergono personaggi provenienti da varie parti del mondo – la protagonista, il neozelandese Defoe, il poeta-performer francese Bernard/Millennium Three e l’afro-tedesco Jermayne con la moglie Abebi – ma che, in ultima istanza, si riduce, come ogni città, all’esperienza ridotta e ripetitiva che ne può fare quotidianamente una persona. Sono le parole di un personaggio di nascita berlinese, Hannah, a confermarlo: Berlin is a large city. But I have found that one’s occupancy comes down to a small number of streets, one or two trains, a handful of restaurants, a favourite book shop, cinema and a corner of the Tiergarten or the Volkspark. A pattern emerges. The pattern of our lives, yes, and it occupies a very small area of the city. If you follow someone over a period of time you will get to know the pattern.48

Il continuo cambiamento di scala inerente al concetto di “re-scaling” si applica dunque anche ai singoli luoghi, sgretolandone la compattezza e decostruendone l’unicità. È questa operazione di dislocazione che li può porre in una relazione, spesso di portata transnazionale, con altre esperienze, altre soggettività, altre appartenenze. L’ultima frase, infatti – “se segui qualcuno per un periodo di tempo, arriverai a capirne il tracciato” – risulta valida tanto per la berlinese Hannah, che è responsabile dell’affermazione, quanto per “Ines”, il cui “tracciato” attraverso il mondo si rende effettivamente disponibile, a livello meta-testuale, al lettore che ne segua la storia “per qualche tempo”, ovvero che si impegni nella lettura del romanzo nel suo complesso. Al mondo non si chiede soltanto di “far passare” la protagonista, ma anche di “tramandarne” l’esperienza, un compito che dovrebbe essere in primis lo stesso libro – Hand Me Down World – a poter assolvere. Effettivamente, nelle prime tre sezioni del romanzo – la prima è intitolata, significativamente: “What they said” (“Cosa raccontarono”) – sono raccolte una serie di “testimonies” (“testimonianze”), ovvero di narrazioni, condotte da una grande varietà di testimoni/narratori, che riguardano la “donna africana” durante il suo lungo viaggio. Tuttavia, queste narrazioni/testimonianze si rivelano sempre, in qualche modo, inattendibili. Il lettore ne è edotto immediatamente, attraverso le contraddizioni più evidenti di questi racconti, oppure a distanza di pagine:

M. Augé, Non-lieux. Introduction à une antropologie de la surmodernité, Parigi, Seuil, 1992. L. Jones, Hand Me Down World, p. 189. 48 “Berlino è una grande città. Ho scoperto, tuttavia, che lo spazio occupato da una persona si riduce a un ristretto numero di strade, uno o due treni, una manciata di ristoranti, una libreria, un cinema prediletti, e un angolo del Tiergarten o del Volkspark. Emerge un tracciato. Il tracciato delle nostre vite, sì, e occupa una porzione molto piccola della città. Se segui qualcuno per un periodo di tempo, arriverai a capirne il tracciato” (L. Jones, op. cit., p. 90. In questo caso, come in tutte le citazioni successivi, le traduzioni sono mie). 46 47


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nella quarta sezione, infatti, è la donna a fornire la propria versione dei fatti, chiarendo anche alcuni punti oscuri. Uno degli indizi più frequenti dell’inattendibilità dei narratori di sesso maschile è costituito dalle menzogne riguardanti “Ines” che questi personaggi dichiarano di avere raccontato alle loro mogli: accade, per esempio, al camionista Antonio Gatti49 e allo scacchista croato emigrato in provincia di Roma50. In queste manifeste dichiarazioni di mendacità, emerge la potenzialità erotica destabilizzante che il discorso eurocentrico e patriarcale ha tradizionalmente imputato alla donna nera: considerandola come una prostituta per il solo fatto di essere una donna nera migrante – come nel caso di Antonio Gatti51 – o, in genere, subendo una fascinazione erotica apparentemente inspiegabile – che deriva dal set di discorsi già ricordato e che fissa il corpo della donna nera come desiderabile e immediatamente disponibile – gli uomini che danno testimonianza del suo viaggio si trovano a censurare sia il proprio desiderio sessuale sia l’aggressività che a tale desiderio è correlata52. Si può facilmente concludere che da questa autocensura ne derivino altre, da considerarsi come inevitabili anche in funzione della pluralità, nonché della frammentarietà e della parzialità di prospettiva delle singole “testimonianze”. Se ciò conferma quanto sostenuto, più volte, da Spivak – “la figura della donna è pervasivamente strumentale nel cambiamento della funzione dei sistemi discorsivi” – le lacune e le omissioni che caratterizzano le narrazioni della seconda parte del libro si presentano di segno parzialmente diverso. Anche i personaggi di Ralf e Defoe offrono una narrazione tendenziosa della storia della donna, ma ciò non deriva soltanto dalla fascinazione erotica per la donna nera, che pure agisce in entrambi. L’inattendibilità di Ralf, per esempio, ha anche ragioni metaforiche: la cecità che è intervenuta qualche tempo prima di conoscere Ines, infatti, induce Ralf a vivere in un mondo che il lettore intuisce essere sempre più posticcio. È dunque il particolare ‘mondo’ in cui viene a trovarsi Ralf a metterne in dubbio l’attendibilità di narratore: si ripresenta anche qui, e in modo prepotente, la tensione discorsiva tra ‘mondo’ e ‘soggettività femminile’. Nella quarta parte, infine, è “Ines” a raccontare la propria storia, ripercorrendola insieme alla propria compagna di cella, Ramona, nel carcere di Catania. Il racconto della protagonista mette in luce le menzogne e le omissioni delle testimonianze precedenti, proponendosi, apparentemente, come l’unica narrazione che può aspirare a una qualche verità. In realtà, la necessità di fornire la propria versione dei fatti, tanto per “Ines” quanto per gli altri personaggi, deriva dalle esigenze dei procedimenti giudiziari ai quali “Ines” è sottoposta per l’omicidio preterintenzionale della donna italiana. Il romanzo non acclara mai del tutto le circostanze dell’uccisione, lasciandole in sospeso: questo dato, ad ogni modo, è sufficiente a debilitare, almeno parzialmente, tutte le testimonianze, inclusa quella L. Jones, op. cit., pp. 30-35. L. Jones, op. cit., pp. 40-46. 51 Mentre Antonio Gatti dichiara all’ispettore di polizia di aver dato un passaggio a “Ines” proprio perché non sembrava una prostituta (L. Jones, op. cit., p. 28), “Ines” sostiene, nel suo resoconto, di essere stata trattata come tale dal camionista (L. Jones, op. cit., pp. 202 e 204). 52 Di nuovo, è il racconto di “Ines” (op. cit., pp. 202-204) a rendere manifesta l’aggressività e la violenza del camionista, che egli, nella sua narrazione, si rifiuta di ammettere. 49 50


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della stessa “Ines”, nell’attesa di una verità giudiziaria, ovvero una verità di ordine apparentemente ‘superiore’, che il testo tuttavia non arriva a fornire. Il lettore, dunque, si trova chiamato a simpatizzare, per buona parte del testo, con “Ines”, ma questa gli resta largamente sconosciuta, se non inconoscibile. In questa tensione tra le rappresentazioni egemoniche, o comunque “provenienti da altri”, e l’autorappresentazione della donna subalterna, si manifesta in tutta la sua forza uno degli interrogativi fondanti della ricerca di Spivak, anche nell’ambito della Weltliteratur/world literature: “Can the Subaltern Speak?”53. Hand Me Down World dà, in ultima battuta, una risposta negativa a questa domanda, come si può constatare, ad esempio, notando che della “donna africana”, o comunque di “Ines”, non si conosce mai la vera identità. Come confermano alcune copertine del libro, riportate all’inizio dell’articolo, l’identità della donna – che sia data dall’espressione opaca “donna africana” o dal nome fittizio di “Ines” – è un hand-me-down, un “vestito di seconda mano”, proprio come l’impermeabile azzurro che diventa il tratto distintivo di “Ines” durante la sua permanenza a Berlino. Nel titolo, inoltre, l’espressione hand-me-down, anche se en masque, è accostata alla parola world, confermando una volta di più come la condizione della donna, nel suo essere priva di identità anagrafica individuale, sia legata alla sua particolare storia di migrante transnazionale. Il rapporto tra il “mondo” e la soggettività femminile – un conflitto di discorsi che, come si è visto, Spivak introduce al centro della Weltliteratur/world literature, in Morte di una disciplina – non si limita a questi indizi testuali; risulta, anzi, costantemente tematizzato in tutto il libro, al punto che in ciascuna delle “testimonianze”, accanto alla manipolazione della storia di “Ines”, vi è sempre anche un analogo tentativo di appropriazione e rappresentazione del “mondo”. È quanto succede, ad esempio, al documentarista inglese impegnato in un progetto cinematografico sui Rom che frequentano Alexanderplatz, a Berlino54. Incapace di entrare in contatto con il “mondo dei Rom” che egli intende rappresentare nel suo film, per il documentarista “Ines” è soltanto una presenza disturbante in più55, e il suo contributo alla trama principale si limita all’accompagnare “Ines” presso l’African Refugees Centre della città. L’interazione tra i due personaggi, e i rispettivi “mondi”, non è significativa: le due diverse esperienze rimangono quasi del tutto isolate e non comunicanti. In modo ancor più consistente, vi sono “testimoni”, e dunque narratori, che ritengono il proprio “mondo” più importante di quello del quale “Ines” è portatrice e parte integrante. Accade che per almeno due di essi sia il “mondo animale” ad essere preminente: si tratta dell’“anziana raccoglitrice di lumache”56 e di Defoe57. Per entrambi, la relazione,

Come è stato più volte rilevato, la traduzione corretta della domanda posta da Spivak è: “Può la subalterna parlare?”. [Il saggio “Can the Subaltern Speak?” apparve per la prima volta nella raccolta a cura di Cary Nelson e Lawrence Grossberg, Marxism and the Interpretation of Culture, Champaign-Urbana, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-316]. 54 Ibidem, pp. 76-89. 55 Id., p. 79 e seguenti. 56 Id., pp. 36-39. 53


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esperienziale e/o metaforica, con il “mondo animale”, diventa la chiave interpretativa per eccellenza per decifrare la realtà nel suo insieme. Tuttavia, il costante riferimento al mondo animale acquisisce una peculiare connotazione quando la narrazione s’intreccia con quella del personaggio di “Ines”: ne deriva l’animalizzazione della donna nera, più volte ripetuta nel romanzo, secondo un meccanismo che è, mutatis mutandis, l’esplicitazione di un dispositivo discorsivo interno al discorso eurocentrico e patriarcale. Ciò risulta particolarmente evidente nel caso della “raccoglitrice di lumache”, che paragona “Ines” alla “lumaca africana gigante”58. In ogni caso, la tensione tra il “mondo” e il mondo di “Ines” culmina in altri due passaggi, ovvero nella testimonianza di Ralf e nel rapporto di “Ines” con Jermayne. La relazione tra Ralf e “Ines”, infatti, è subordinata alla cecità dell’anziano, che ha inaugurato, per lui, la vita in un “nuovo mondo”59: rispetto a questo mondo, “Ines” – che lavora come collaboratrice domestica in casa di Ralf – è allo stesso tempo agente della rappresentazione, in quanto riceve il compito di descrivere la realtà che Ralf non può più vedere, e soggetto permanentemente escluso. Di “Ines”, infatti, Ralf conosce soltanto il corpo, da lui esplorato con le mani60; tuttavia, la scena, per Ralf, costituisce esclusivamente il preludio della ricerca di un rapporto sessuale con “Ines” e, al raggiungimento di questo scopo, l’esplorazione erotica risulta definitivamente destituita di finalità conoscitive. Nel rapporto con Jermayne, invece, non si esplica soltanto un conflitto di genere, né esclusivamente un dissidio sui diritti parentali: si verifica anche uno scontro meta-testuale tra una soggettività migrante, doppiamente subalterna, e una soggettività altrettanto ibrida – Jermayne può essere considerato un “afro-tedesco” – che invece è perfettamente integrata nel sistema egemone. Non è soltanto la possibile implicazione Jermayne/German a confermarlo; anche un’annotazione apparentemente innocua – “Jermayne is very clever on computers. He had his own business writing software”61 – indica, in realtà, come la soggettività globale62 ed egemone di Jermayne sia al tempo stesso simile e, ciononostante, radicalmente differente dalla soggettività transnazionale e subalterna di “Ines”. Ciò prelude a un conflitto che non è solo radicato nella trama narrativa del romanzo, ma che simboleggia l’inevitabile scontro tra la dimensione globale dell’uno e quella “planetaria”, portatrice di differenze, dell’altra. Si può osservare, così, come nel corso del romanzo il “mondo di Ines” sia variamente manipolato, trovandosi a confronto con altri “mondi”, talvolta impermeabili, talvolta in aperta lotta per il riconoscimento con i processi di rappresentazione propri del “mondo di Id., pp. 123-184. Anche se i riferimenti che Defoe fa al mondo animale – in particolare, ai pesci del mare di Ross, da lui attraversato in nave – non sono strutturali nella sua narrazione, come accade, invece, nel caso della “raccoglitrice di lumache”, si tratta comunque di elementi determinanti per interpretare la sua prospettiva tematico-ideologica rispetto al “mondo”. 58 Ibidem., p. 37. 59 Id., p. 101. 60 Id., p. 276. 61 “Jermayne è molto abile con i computer. Il suo lavoro era scrivere software” (id., p. 305). 62 Si ricordi come il passaggio di Spivak precedentemente citato – “Il globo è nei nostri computers” – si concentri sulla tecnocrazia come aspetto fondamentale della dimensione globale, segnalando così le complessità e le difficoltà del rapporto tra il “globale” e il “planetario”. 57


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Ines”.A ragione di tale “moltiplicazione dei mondi”, si può facilmente osservare come il “mondo” abbia, in Hand Me Down World, una rilevanza testuale che è, perlomeno, paragonabile a quella del personaggio di “Ines”: i due elementi testuali, infatti, rivaleggiano per la centralità nelle singole narrazioni e anche nella struttura complessiva del romanzo. D’altra parte, il “mondo” non assurge allo status di personaggio, se non in chiusura di romanzo, quando le parole di Abebi – la madre “adottiva” del figlio di “Ines”, Daniel – prefigurano la fine della lotta tra “Ines” e il “mondo”, che avverrà quando “Ines” uscirà di prigione e sconfiggerà quel “mondo” che le è stato avverso: One day she will leave the prison. (…) And then Daniel and I will come by. (…) Now she sees us – sees me and looks confused perhaps, yes, that is likely, but then she will see the boy and that’s when she stands up and the rest of the world melts away.63

Se questa citazione finale ottiene di giustificare definitivamente l’interpretazione del testo come una lotta per il riconoscimento di Ines di contro al “mondo”, è opportuno ricordare come, nelle varie narrazioni, il “mondo” assuma anche altre connotazioni, e dislocazioni. Talvolta, il termine designa il “mondo” nell’accezione più comune del termine, indicando, cioè, la totalità di ciò che esiste sulla Terra64; talvolta, ciò che viene definito come “mondo” fa parte della prospettiva ideologica sul mondo che attiene a ogni singolo narratore, come nel caso del “mondo animale” che interessa la “raccoglitrice di lumache”, o a Defoe; talvolta, infine, si tratta di un semplice significante verbale, del quale soltanto l’inserimento in una catena sintattico-semantica più articolata può proporre un (nuovo) significato, come accade nella frequente occorrenza testuale: “the most natural thing in the world”65. Paradossalmente, anzi, è proprio l’insistenza su quest’ultima locuzione a prefigurare nel romanzo uno dei motivi-cardine, secondo Spivak, della Weltliteratur/world literature: la “defamiliarizzazione del famigliare”, ovvero l’emersione di un perturbante transnazionale, che Spivak individua nella ri-significazione della “figura della donna”, ma che Jones pone qui in relazione dialettica anche con la “ri-significazione del mondo” nella quale sono, a vario titolo, impegnati tutti i personaggi-narratori del romanzo. È in questa riproposizione in varie forme e termini del “mondo” – nella catena narrativa che va dal puro significante verbale alla (pre-)figurazione di un personaggio, antagonista di “Ines” – che il romanzo procede all’imitazione e all’elaborazione metaforica di quella dislocazione continua che attiene, invece, al “mondo” della Weltliteratur/world literature – nella catena retorica che va, ad esempio, dal “villaggio globale” a una prospettiva “planetaria”.

“Un giorno uscirà di prigione. (…) E a quel punto arriveremo io e Daniel. (…) Ora ci vede – vede me e sembra confuse forse, sì, questo è possible, ma poi vede il bambino e a quel punto si alza in piedi e il resto del mondo scompare” (L. Jones, op. cit., pp. 312-313). 64 Cfr. ad esempio: “My first taste of the world was a finger of another stuck inside my mouth” (“Il mio primo assaggio del mondo è stato un dito di qualcuno nella mia bocca”; L. Jones, op. cit., p. 4). 65 Ibidem, pp. 135, 137, 142, 153, 274 e 295. 63


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Le successive “invenzioni del mondo” che sono costituite dalle singole narrazioni non conducono all’invenzione di un mondo “uno e diseguale”, ma a un’interrogazione radicale della pluralità – dislocata a livello transnazionale – dei mondi dei quali “Ines”, insieme a tutti gli altri personaggi, ha esperienza. Nessuno dei personaggi, in ultima analisi, può esercitare fino in fondo il proprio “potere di descrizione” sul mondo, che rimane sfuggevole e contraddittorio rispetto ai vari tentativi, egemonici o subalterni, di inquadrarlo in una sola narrazione. Ad una valutazione attenta di questa pluralità e contraddittorietà è chiamata, di conseguenza, anche la critica letteraria che si intenda occupare oggi del testo all’interno del dibattito su Weltliteratur/world literature.


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