Shoah e..

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Liceo “Fratelli Testa� Nicosia

Shoah e ... genocidi rimossi

Anno scolastico 2008/2009

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I docenti impegnati nel progetto esprimono un sentito e sincero ringraziamento al Dirigente scolastico del Liceo "Fratelli Testa", prof. Giuseppe Chiavetta, solerte promotore del progetto in rete "Shoah e … genocidi rimossi", nonché ai Dirigenti scolastici, proff. Michele Casalotto e Ignazio Furnari degli Istituti Comprensivi "Luigi Pirandello" e "Dante Alighieri", per aver stimolato e sostenuto la partecipazione all'iniziativa da parte degli allievi delle terze medie. Un ulteriore ringraziamento va ai docenti: Anna Maria Di Figlia, Francesca Fascetta, Antonia Lo Presti (I. C. "D. Alighieri"), Maria Pugliese, Giuseppa Rizzo, Lella Sottosanti, (I. C. "L. Pirandello"). Un doveroso e grato ringraziamento rivolgono all'amministrazione comunale di Nicosia e, in particolare, al sindaco Antonello Catania e all' assessore alla Cultura, Sport e Turismo Nabor Potenza per aver acconsentito all'utilizzo della Palestra comunale in cui sono state effettuate le proiezioni cinematografiche e per aver appoggiato questa iniziativa che ormai da anni portano avanti con convinzione e dedizione. Desiderano, infine, ringraziare tutti gli allievi che hanno contribuito alla realizzazione del presente lavoro: gli alunni del Liceo Classico "F.lli Testa" con annessi L.S.P.P e L.S.S. Barberi Gambonello Marilena, Beritelli Sabrina, Billone Sabrina, Bonelli Giovanna, Cacciato Clarissa, Campione Patrizia, Candurra Nicoletta, Casalotto Laura, Carbonaro Beatrice, Catania Anna, Chiovetta Miriam, Cocuzza Samantha, Conticello Irene, Corallo Nadia, D'Amico Ilaria, D'Amico Michela, De Francisci Giusy, Di Dio Fiamma, Di Narda Maria Pina, Di Pasquale Loredana, Domina Federica, Faro Ilenia, Fascetta Luigi, Fascetta Virginia, Fazio Maria, Fiorenza Anna, Gentile Martino, Giaimi Giulia, Greco Federica, Grippali Margherita, La Blunda Gloria, La Giglia Luca, La Porta Egle, Lembo Annalisa, Leonardi Debora, Li Volsi Grazia, Li Volsi Laura, Lo Faro Flavio, Lo Faro Fulvio, Lo Gioco Marta Maria, Lupica Carmelania, Maggio Giuseppe, Maiuzzo Roberta, Manerchia Giusy, Modica Ilenia, Mongioj Maria Concetta, Montaperto Chiara, Nasello Santi Paride, Occhipinti Giovanni, Pagana Elisa, Passamonte Rosalia, Pescetti Angela, Pettinato Lavinia, Pezzino Cristina, Pidone Enrico, Pirrello Celeste, Pirrello Daria, Pirrone Lavinia, Pitronaci Giusy, Pitronaci Maria Michela, Prestifilippo Roberta, Ricciardo Melisa, Rizzo Lucia, Rotondo Angelica, Rotondo Giusy, Russo Marica, Russo Papo Rosy Maria, Sacco Angelica, Salamone Maria, Sangiuliano Fabiana, Schilirò Anna Maria, Scriffignano Silvia, Spallina Giusi, Stansù Irene, Sutera Gabriella, Testa Sebastiano. gli alunni dell'Istituto Comprensivo "D. Alighieri" di Nicosia Bottari Alessia, Calò Alain, D'Amico Maria Michela, Di Gregorio Vincenzo Aleandro, Failla Alessandra, Martello Silvio, Modica Filippo, Projetto Emanuela. gli alunni dell'Istituto Comprensivo "L. Pirandello " di Nicosia Cacciato Clorinda, Emanuele Rossana, Gaglione Federica, Grasso Loris Antonino, Li Volsi Roberto, Lo Sauro Sofia, Maira Giorgia, Russo Giulio, Turco Davide.

Cura editoriale ed editing: Salvatore Lo Pinzino Edizioni Novagraf Piano di Corte, 18 94010 - Assoro (EN) ISBN 978-88-88881-61-4 © 2010: Liceo “F.lli Testa” di Nicosia In quarta di copertina: foto celebrazione Giornata della Memoria 2008. Shoah e ... genocidi rimossi . Liceo “Fratelli Testa”, Nicosia, anno scolastico 2008/2009. [Assoro Novagraf], 2010 1. Genocidio - Sec. 20 364 1510904 CDD-21 SBN Pal02223107 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

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Presentazione Giuseppe Chiavetta* “Shoah e … genocidi rimossi” è uno dei progetti POF, promossi dal Liceo “Fratelli Testa” di Nicosia, per ampliare l’offerta formativa, legato alla celebrazione della Giornata della Memoria che il Parlamento italiano ha istituito in occasione del 55° anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau, campo di sterminio in cui fra il 1940 e il 1945 si è compiuto gran parte del genocidio degli ebrei. Sin dalla promulgazione della legge n. 211 del 20 luglio 2000, infatti, le scuole, spronate a celebrare il 27 gennaio con cerimonie, iniziative, incontri, narrazione dei fatti e momenti di riflessione, si sono impegnate a rendere la comunità scolastica più attiva e vigile, depositaria di una memoria storica, capace di opporsi, con gli strumenti democratici, a qualsiasi tipo di discriminazione e persecuzione. E così, rispettando la data fissata dal Ministero e dedicata alla commemorazione dell’Olocausto degli Ebrei, o meglio della Shoah (come gli Ebrei preferiscono denominare il genocidio dei loro fratelli), ogni anno, il nostro istituto ha espresso la volontà di promuovere iniziative tali da radicare nella memoria collettiva il significato e il messaggio di questa Giornata: dai cortei, con deposizione di una corona sulla lapide che ricorda i molteplici genocidi perpetrati nel XX secolo, alle mostre fotografiche, alle varie performance create dagli studenti, agli incontri con protagonisti dei fatti storici, alla pubblicazione del presente lavoro che, dedicando spazio sia alle leggi che portarono allo sterminio degli ebrei europei sia ai fatti storici che confluirono nella persecuzione di tante altre minoranze etniche e sociali, vorrebbe essere un piccolo ma significativo contributo a una corretta divulgazione storica. Tenuto conto della rilevanza sia formativa che educativa del progetto, si è ritenuto opportuno lavorare insieme agli Istituti Comprensivi “Dante Alighieri” e “Luigi Pirandello” di Nicosia, pur mantenendo la gestione del progetto, che ormai può considerarsi una tradizione per il nostro istituto, che ha sempre individuato nel rispetto dell’altro un valore irrinunciabile, prospettandolo ai giovani come priorità educativa senza mai tralasciare l’occasione di un approccio alla memoria storica attraverso cui passa non solo la comprensione delle dinamiche del presente, ma anche, e soprattutto, l’impostazione di una seria cultura della pace, del rispetto, della tolleranza, di una pacifica convivenza tra popoli e persone di etnie, culture e religioni diverse.

* Dirigente scolastico del Liceo “Fratelli Testa” di Nicosia (Indirizzi: Classico, Sociopsicopedagogico e Scienze Sociali).

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La commemorazione non si è mai ridotta ad un rituale ripetitivo e vuoto di significato, in quanto è stata sempre accompagnata da spazi di riflessione che hanno consentito ai giovani di comprendere che se un fatto grave, come il genocidio degli ebrei, è successo, può tornare a succedere e che, se si vuole cambiare in meglio la società, bisogna coltivare la memoria, custodirla, impegnarsi affinché non si ripetano gli errori o le nefandezze del passato. Grazie a questo progetto noi speriamo che possano sedimentare nelle coscienze dei giovani quei valori, quali la libertà, la solidarietà, la giustizia, la tolleranza, la dignità dell’essere umano, che devono essere difesi costantemente e quotidianamente, se si vuole costruire un’etica della responsabilità e migliorare il livello della propria umanità.

Il Dirigente scolastico, i docenti e alcuni alunni che hanno preso parte alla realizzazione del progetto.

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Ragioni di un impegno Valeria Fiscella e Luigi Gagliano* Un autentico interesse per la Shoah, triste pagina della storia occidentale, è scattato tra i docenti del nostro Liceo qualche anno prima della promulgazione della legge n. 211, quando, in occasione di un viaggio d’istruzione in Germania, abbiamo visitato con un nutrito gruppo di alunni, il lager nazista di Dachau. Sapevamo della Shoah e di quanto era successo durante il Secondo conflitto mondiale, avevamo visto fotografie e filmati sull’Olocausto, ma solamente quando abbiamo varcato il cancello di Dachau, quando un testimone di quella tragedia ci ha raccontato con voce visibilmente rotta dall’emozione fatti incredibili, quando abbiamo visitato il campo di concentramento e visto i forni crematori, abbiamo avuto piena consapevolezza di quella agghiacciante tragedia e avvertito l’esigenza di saperne di più. E così, sin dal 2004, con gli alunni abbiamo iniziato un lavoro di documentazione e avviato un approccio interdisciplinare. Allo studio della storia, gli alunni hanno affiancato la lettura di alcuni romanzi, poesie, canzoni, testimonianze sconvolgenti dell’orrore dei lager e la visione di qualche film. I nostri giovani, nell’affrontare la tematica della Shoah, hanno compreso che la tragica lezione dell’Olocausto non aveva cancellato il pregiudizio e l’odio etnico, che il virus dei nazionalismi aveva continuato ad allargare il suo contagio in tutto il mondo e alimentato dolore ed odio, che lo sterminio ebraico poteva essere assimilato ad altre eliminazioni di massa compiute da governi, regimi, società intere. A distanza di mezzo secolo dallo sterminio degli ebrei, il fenomeno, infatti, si era riproposto in Africa (Rwanda e Darfur), nei Balcani (Bosnia), nell’Unione Sovietica, in Cina, in Cambogia, nel Medio Oriente. Molte, troppe, erano le vittime dei regimi politici e religiosi, i martiri dell’odio e del terrore, coloro che erano stati straziati nel fisico e nell’anima fino a non essere più persone, perché si potesse archiviare il passato senza ripensarlo continuamente come ferita comune. E così dallo studio del genocidio degli ebrei europei, si è passati a quello degli altri genocidi del XX secolo e a quelli recenti, facendo sì che l’evento della Shoah rimanesse un paradigma di tutte le tragedie storiche in cui un individuo può essere privato della vita per il solo fatto di appartenere a un’etnia, un ceto sociale o una religione determinati. Si è avvertito il bisogno umano di catalogare, paragonare le catastrofi, mettere in relazione gli eventi, cercando di capire che cosa potesse portare a un genocidio, con

* Docenti di Italiano-Latino e di Storia-Filosofia del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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quale diritto milioni di abitanti siano stati trasformati in vittime, dopo essere stati deportati, massacrati, sterminati. Si è constatato come la violenza sia stata ovunque particolarmente efferata, come sia forte il desiderio di cancellare qualsiasi traccia dell’ “altro” in terre in cui i confini cambiano continuamente, si è rilevato l’aspetto fratricida di molti degli eccidi, i frenetici tentativi di tracciare linee di confine etnico attraverso una realtà fatta di intrecci razziali e l’avvicendamento di cicli sempre più ravvicinati di vendetta. Nello stesso tempo è maturata l’idea di testimoniare il nostro impegno ad opporci in qualche modo all’oblio della memoria, dedicando una lapide a tutte le vittime dei genocidi del XX secolo e facendoci promotori di manifestazioni pubbliche che coinvolgessero le scuole e rendessero partecipe tutta la cittadinanza, nella convinzione che solo attraverso la partecipazione attiva di tutti si facilita l’interiorizzazione dei valori connessi con la cultura della pace. E così, nel 2005, il Liceo “Fratelli Testa” ed il Comune di Nicosia hanno posto in Piazza Marconi una lapide commemorativa su cui è stata incisa una celebre frase di Tacito, vissuto durante la tirannide di Domiziano “Avremmo perduto anche la memoria, se fosse possibile all’uomo dimenticare quanto tacere”. Una frase che sottolinea l’impossibilità per l’uomo di dimenticare, anche se si vive sotto un regime politico che mira ad infiacchire le coscienze portandole al servilismo e che ribadisce l’importanza della memoria, antidoto che consente di cogliere in anticipo le situazioni politiche in cui si ripropone la logica dell’annientamento fisico di esseri umani e che fa assumere una responsabilità nei confronti del mondo in cui si vive. Per non dimenticare sono stati allestiti, di anno in anno, dei laboratori, in cui gli alunni hanno avuto modo di produrre diversi lavori: dai dossier agli spettacoli musicali, dalla pubblicazione di un saggio ai cartelloni contenenti carte geografiche (indispensabili per localizzare i luoghi in cui sono avvenuti i genocidi), didascalie esplicative, brevi ed essenziali notizie storiche e immagini fotografiche. E noi pensiamo che queste attività, mirate alla conservazione della memoria dei genocidi, abbiano rappresentato un monito importante per i giovani contro l’odio - razziale, etnico e religioso - che ancora insanguina molte parti del mondo e che talora riaffiora anche nelle società più evolute.

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La memoria … oltre la barriera dell’indifferenza Luigi Gagliano Pare che Adolf Hitler, in un discorso pronunciato pochi giorni prima di invadere la Polonia, al fine di vincere le titubanze dei generali della Wehrmacht relativamente ai piani di sterminio, in particolare all’intenzione di uccidere senza compassione anche le donne e i bambini per guadagnare alla Germania il suo “spazio vitale”, abbia concluso dicendo: “Dopo tutto, chi parla più al giorno d’oggi dello sterminio degli Armeni?” La battuta di Hitler vale, per noi, quale monito e persuasivo argomento perché sulle tragedie e sui più efferati massacri del passato non cada quel velo di oblio che Hitler utilizzava per perpetrare altri massacri, altre forme di sterminio. Dicendo ciò, non intendiamo certo pensare che la memoria sia (e nessuno, oggi, si illude che lo possa essere) un antidoto contro il ripetersi di un crimine. D’altra parte, è ovvio che nella memoria non possono trovare posto sentimenti quali l’odio o, a maggior ragione, la vendetta. Se l’uno e l’altra sono sentimenti che mai giovano ai parenti delle vittime, diventerebbero addirittura pedagogicamente devastanti nella formazione delle nuove generazioni alle quali, in fondo, il dovere della memoria è rivolto e affidato. Perché allora coltivare la memoria? Riteniamo che il dovere del ricordare stia, essenzialmente, in un atto di civiltà umana: quel senso di giustizia e di solidarietà che l’uomo deve avvertire per quanti, suoi simili, indifesi e innocenti, sono morti in un modo tanto feroce quanto gratuito; morti per quella “banalità del male” di cui ci parla la Arendt. Oggi, aggiungiamo, viviamo in una cultura sempre più diffusamente basata sul presente e sull’effimero; ciò fa sì che diventi ancor più essenziale il ruolo della scuola nell’educare al valore della memoria, che poi si trasforma, ne siamo convinti, anche in una forma di “educazione sentimentale” contro le ideologie e i tanti comportamenti ispirati (come, purtroppo, ogni giorno ci è dato constatare) al sistematico disprezzo per la vita umana. Per una scuola, per una comunità di alunni, coltivare il dovere della memoria significa, più in generale, autoeducarsi all’inderogabile dovere morale di trascendere il carcere del proprio “io” isolato, di essere interessati, di rivolgere la propria attenzione, la propria mente e il proprio cuore all’altro, soprattutto ai suoi drammi e alle sue sofferenze, col risultato di squarciare nella coscienza di ognuno, troppo spesso appiattita sul proprio “ego”, quello scudo di indifferenza che, probabilmente, pur esso è costitutivo della natura dell’uomo. Sull’indifferenza come problema educativo, ci ha sempre fatto molto riflettere, nella quotidiana attività di educatori, quell’ “evangelico” pensiero di M. Luther King che dice: “Non mi fa paura la cat-

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tiveria dei malvagi, ma l’indifferenza degli onesti”. Ecco perché riteniamo che per una scuola, di qualsiasi ordine e grado, istituzionalmente deputata a formare onesti cittadini, contribuire in qualche misura a contrastare il tarlo dell’indifferenza non sia, un obiettivo formativo secondario. Quanto sin qui detto dovrebbe essere più che sufficiente a far comprendere il perché, nel nostro ormai lungo percorso didattico, abbiamo sempre dato ampio spazio a momenti e a progetti nei quali gli alunni sono stati coinvolti in “questioni altre” (dal Darfur alla Cambogia di Pol Pot, dalle Foibe ai Curdi, dalla questione irlandese a quella tibetana, basca, cipriota…), in particolare giustifica il perché negli ultimi anni ci siamo lasciati volentieri coinvolgere in un impegno che il Liceo “ F.lli Testa” ha individuato e percepito come fortemente caratterizzante il nostro istituto: quello di utilizzare il Giorno della memoria per estendere il ricordo dalla Shoah ad altri genocidi meno noti, sui quali i mezzi di informazione - quando ne parlano e, di solito, in occasione dell’anniversario dei fatti - si limitano a qualche trafiletto. Senza avere la pur minima intenzione di sminuire quella che, giustamente, viene definita “unicità della Shoah”, crediamo che gli ebrei siano riusciti negli ultimi decenni a ottenere quella giusta attenzione (nel mondo della cultura, dell’informazione e delle stesse istituzioni pubbliche) sulla tragedia patita dal loro popolo molto più facilmente di quanto sia avvenuto per altri popoli che hanno subìto - anche se su scala minore - tragedia simile. E non si tratta tanto di numero di vittime, ma pensiamo piuttosto, e molto semplicemente, che nelle vicende dei popoli e nelle relazioni tra di essi valga quello stesso rapporto di forza che si riscontra a livello dei singoli individui, col risultato che c’è sempre qualcuno più uguale degli altri. Che una scuola, laica e non di parte, riporti un minimo di uguaglianza tra diseguali, crediamo sia un fondamentale principio di giustizia e, insieme, un imperativo etico per quanti in essa operano. Dopo questa pur ovvia considerazione, potrebbe apparire, nel presente lavoro, preconcetta e ideologica la scelta di dare alla trattazione relativa alla Shoah un’impostazione del tutto diversa rispetto a quella data agli altri genocidi: infatti, mentre questi ultimi vengono esposti attraverso i fatti e le vicende umane che li hanno caratterizzati, la “presentazione” della Shoah avviene, sostanzialmente, attraverso l’analisi dell’aspetto giuridico-legislativo che, nella sua evoluzione, ha accompagnato la pratica della politica antiebraica nazi-fascista. La ragione di tale scelta sta, per un verso, nel fatto che di treni carichi di deportati, di scheletri umani ammassati su camion o gettati in fosse comuni, di corpi ridotti in fumo nei camini dei campi di sterminio, e di quanti altri orrori la follia e la barbarie naziste hanno generato, noi tutti abbiamo ormai gli occhi e la mente pieni, considerato il numero crescente di film, documentari televisivi, libri, romanzi e letture varie che parlano della Shoah e dei lager. Ma la ragione della scelta sta, anche, nel fatto che il nostro liceo già nel-

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l’anno scolastico 1998-99, in occasione del 60° anniversario dell’emanazione delle leggi razziali, ha realizzato, con un gruppo di alunni, un lavoro di ricerca sugli ebrei; lavoro pubblicato in un libricino di 46 pagine (Gli Ebrei, dall’antisemitismo allo stermino programmato) lungo le quali i fatti e le vicende umane della tragedia ebraica, intrise di tutta la loro carica di ferocia ed orrore, hanno trovato ampio spazio. Anche nella realizzazione del progetto “Shoah ... e genocidi rimossi gli alunni hanno avuto un ruolo centrale, in quanto sono stati i veri protagonisti del proprio apprendimento, attivamente impegnati sia sul versante dei processi cognitivi, tesi alla rielaborazione concettuale, sia nei comportamenti di tipo operativo, tesi al fare e all’eseguire. La questione di un apprendimento significativo per l’alunno rimanda, in fondo, a quel principio che già un secolo fa la Montessori enunciava in questi termini:”Non c’è acquisto di sapere se non è conquista personale”. Tale principio implica che al momento dell’ ascolto si accompagni il momento dell’esperienza, la quale è ben più del semplice vedere, percepire le cose o assistere ai fatti; essa è, piuttosto, un vivere le cose con “intelligenza” (da intus-legere), cioè comprendendone il senso, problematizzando e ponendo domande, in modo che l’apprendimento si risolva davvero in un “guardare dentro” (alle cose), come l’etimologia del termine suggerisce. Dire che la scuola deve rendere “esperti” gli Piazza Marconi. Lapide commemorativa posta nel 2005. alunni non è un’utopia, ma un concreto impegno e un senso di responsabilità che chiunque operi in essa, e crede nel suo insostituibile ruolo formativo, non può non avvertire. A rafforzamento di quanto detto, vorremmo ricordare che la realizzazione del progetto ha previsto che al momento della ricostruzione “cartacea” dei fatti si accompagnasse l’esperienza filmica, la quale amplifica enormemente l’impatto emotivo con la realtà oggetto di conoscenza. E quando una conoscenza è “vestita” dall’emozione anche le sue radici si fanno più forti e profonde.

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Shoah Prime disposizioni contro gli ebrei Il 30 gennaio 1933 Hitler - leader del Partito nazista affermatosi come il primo partito tedesco nelle elezioni del 1932 - è nominato dal presidente Hindenburg cancelliere del Reich; dopo soli due mesi furono promulgate le prime disposizioni contro gli ebrei. Quella del 7 aprile, Legge per il rinnovo dell ‘ amministrazione pubblica, stabiliva il licenziamento di tutti gli impiegati statali ebrei, escludendone qualsiasi impiego in ruoli al servizio dello Stato; la successiva, del 12 aprile, impediva loro di esercitare importanti attività professionali (medico, avvocato, giornalista, giudice ...), riservate ai tedeschi “ariani”. Da allora gli ebrei dovettero lavorare in posizione umile e sottoposta, comunque, a persone non ebree. Le leggi di Norimberga Per i primi due anni la politica nazista si mantenne su toni abbastanza “soft” per non allarmare 1’ elettorato moderato. Le disposizioni antiebraiche del ‘33, in realtà, non furono scrupolosamente applicate e in ogni caso erano meno devastanti di quelle successive, le famose leggi di Norimberga. Nel 1935 contro gli ebrei tedeschi1 si rivolsero le cosiddette Leggi di Norimberga, che tolsero loro la parità dei diritti civili e costituirono la premessa

1 Gli ebrei presenti in Germania nei primi anni Trenta erano, in realtà, una ristretta minoranza, circa cinquecentomila, su una popolazione di oltre sessanta milioni di abitanti. Diversamente, però, da quanto accadeva nell’Europa orientale, in Germania erano concentrati nelle grandi città e occupavano la fascia medio-alta della scala sociale. Infatti erano, per lo più, commercianti, liberi professionisti, intellettuali, artisti; molti avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. La propaganda nazista, contro questa minoranza attivamente inserita nella società tedesca, riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità che erano largamente diffusi in tutta l’Europa centro-orientale.

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delle persecuzioni sistematiche che si sarebbero dovute concludere con lo sterminio esteso anche agli ebrei non tedeschi2. Occorre subito dire che i nazisti, del tutto insensibili alla questione religiosa (che per essi era ininfluente) trattavano gli ebrei non come un popolo dotato di un’ identità, bensì come una “razza” detentrice di caratteristiche proprie, naturalmente inferiori e degenerate; una razza che costituiva, quindi, un costante pericolo di inquinamento per i tedeschi “ariani”. Non a caso la prima delle leggi di Norimberga, emanata il 15 settembre 1935, fu la Legge per la protezione del sangue e dell’ onore tedeschi. Essa, infatti, stabiliva l’assoluta proibizione di “... matrimoni tra ebrei e soggetti di sangue tedesco o assimilato... I matrimoni contratti in violazione della presente legge sono nulli anche se per eludere questa legge venissero contratti all’estero…” (art. 1). Erano altresì proibiti (art. 2) “i rapporti extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco”. E perché non si credesse che le disposizioni in questione fossero pure enunciazioni di principio, la stessa legge precisava che le infrazioni sarebbero state punite con condanna “al carcere o ai lavori forzati”. La seconda legge di Norimberga3 , anch’essa emanata il 15 settembre ‘35, era la Legge sulla cittadinanza del Reich, la quale negava agli ebrei la cittadinanza germanica. Gli ebrei non furono più considerati cittadini tedeschi (Reichsburger), bensì Reichsangehoriger (letteralmente “sudditi dello Stato”). Questo comportò la perdita di tutti i diritti civili garantiti ai cittadini, in primis il diritto di voto. Infatti : “Solo un cittadino del Reich - recitava l’art. 2 - gode di tutti i diritti politici stabiliti dalla Legge”. E il diritto alla cittadinanza, era precisato poco prima, “viene acquisito attraverso la concessione di un Certificato di Cittadinanza del Reich”. Con le leggi razziste di Norimberga del settembre `35, gli ebrei non furono più cittadini tedeschi, ma stranieri mal tollerati, da isolare anche fisicamente.

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La politica antisemita, bisogna dire, si inseriva nel programma di “difesa della razza” che Hitler aveva posto alla base del suo movimento e che già nel Mein Kamph aveva trovato compiuta espressione. Hitler non solo era un convinto seguace delle più dure tesi antisemite maturate in Europa tra Ottocento e primi anni del Novecento, ma nutriva anche la più ferma convinzione che la finanza internazionale ebraica, controllata dal sionismo, fosse la principale responsabile della sconfitta tedesca del 1918, così come della disoccupazione seguita alla crisi di Wall Street. 3 Sono così denominate perché fu proprio nella città di Norimberga che il 15 settembre, durante l’annuale Congresso del Partito nazional-socialista, esse furono annunciate.

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Altre leggi contro gli ebrei Dal 1935 in Germania le norme contro gli ebrei si susseguirono a ritmo impressionante, fino a quando, nel 1941, essi furono costretti a portare come segno di riconoscimento una stella gialla cucita sugli abiti. Nel corso del 1936 gli ebrei vennero banditi da tutte le professioni, impedendo efficacemente loro di esercitare una qualche influenza in politica, nella scuola e nell’industria. Nel 1937-1938 vennero emanate nuove leggi che penalizzarono finanziariamente gli ebrei a causa delle loro origini; a partire dal l° marzo 1938 il governo tedesco non stipulò più contratti con aziende appartenenti ad ebrei. Con Decreto del 7 agosto 1938 veniva emanato dal Ministero dell’Interno l’elenco dei nomi (quali: Anschel, Baruch, Denny, Ehud, Uria ...per i maschi; Chana, Driesel, Rebekka, Rechel, Jezabel...per le femmine) che gli ebrei di nazionalità tedesca potevano ricevere. “Dal 1 ° gennaio 1939 - recitava l’art. 2 - gli ebrei aventi un nome non compreso nell’elenco ... dovranno adottare un nome aggiuntivo. Per i maschi quel nome sarà Israel, per le femmine Sara”. A distanza di poco meno di due mesi, i1 5 ottobre 1938, il Ministro dell’Interno emanava la Legge sul passaporto degli ebrei, costituita da tre articoli. Riportiamo i passaggi essenziali dei primi due. Articolo 1 Il passaporto tedesco di tutti gli ebrei ... residenti nel territorio del Reich, non è più considerato valido. Entro due settimane dalla data in cui la presente legge entrerà in vigore, i titolari di passaporto ... hanno l’obbligo di consegnare il documento alle Autorità Tedesche del distretto in cui hanno la propria permanente residenza o dove temporaneamente soggiornano. [...] I passaporti non più validi per l’espatrio riacquisteranno validità quando saranno contrassegnati con il marchio stabilito dal Ministro dell’Interno del Reich attestante che il titolare è ebreo. Articolo 2 Chiunque, negligentemente o intenzionalmente, non ottemperi agli obblighi prescritti ... sarà punito con il carcere o con un ammenda di 150 Marchi oppure con entrambe le sanzioni.

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Notte dei cristalli Nel novembre del ‘38 si compie il passaggio dalla persecuzione legislativa alla violenza di massa. Il 7 novembre all’ambasciata tedesca di Parigi un ebreo polacco, per vendicare l’espulsione dei suoi genitori dalla Germania, sparò al diplomatico tedesco Ernst Eduard von Rath. Joseph Goebbels (foto a destra), Ministro della propaganda tedesca, colse l’opportunità di ben figurare con Hitler ordinando una massiccia repressione a Berlino. Durante quella che venne chiamata Kristallnacht, Notte dei cristalli (tra il 9 e il 10 novembre), squadre di SS compirono raid contro negozi ebrei della città saccheggiandoli, distruggendone le vetrate (foto sotto) e devastando abitazioni e imprese di proprietà ebraica: 815 negozi messi a soqquadro, 171 case di abitazione distrutte, 197 sinagoghe incendiate (tra cui la Sinagoga di Borneplatz a Francoforte (foto sotto). Molti cittadini tedeschi inorridirono nello scoprire la reale portata dei danni; Hitler, temendo per la propria reputazione, diede ordine che ne fosse addossata la responsabilità agli ebrei. E così essi furono (per giunta!) obbligati a un risarcimento collettivo di un miliardo di Reichsmark; la somma venne raccolta con la confisca del 20% della proprietà di ogni ebreo. Nell’evento 70 ebrei furono uccisi o feriti, altri 20.000 vennero deportati verso i campi di concentramento che erano stati creati da poco. Iniziava lo sterminio di massa. Ma l’episodio del diplomatico tedesco ucciso a Parigi fu solo un pretesto per imprimere un’accelerazione alla persecuzione antisemita e, in particolare, escludere ulteriormente gli ebrei dalla vita economica. Il 12 novembre 1938, infatti, il regime emanava una Ordinanza per l’esclusione degli ebrei dall’economia tedesca. Di essa riportiamo i primi tre articoli. 13


Articolo 1 Dal primo gennaio 1939, è proibito agli Ebrei il libero esercizio della vendita al dettaglio, della vendita per corrispondenza e dell’artigianato. A decorrere dalla stessa data, agli Ebrei e altresì proibito promuovere e pubblicizzare beni e servizi in qualsiasi mercato, fiera o mostra e accettare ordini di acquisto. I negozi giudei che opereranno in violazione di questa ordinanza saranno chiusi dalla polizia. Articolo 2 A nessuno ebreo è consentito amministrare un’impresa con la qualifica di amministratore secondo la definizione che di tale termine dà la legge sul Lavoro Nazionale del 20 gennaio 1934. Qualora un ebreo ricopra una carica direttiva all’interno di un’impresa, potrà essere licenziato con un preavviso di sei settimane. Al termine di questo periodo tutti i diritti derivanti dal contratto di impiego... saranno considerati nulli. Articolo 3 Nessun ebreo può essere membro di una Società Cooperativa. Dal 21 dicembre 1938, gli ebrei membri di Cooperative perderanno la qualifica di socio. Non sarà necessaria alcuna notifica. Con tale provvedimento la dura campagna discriminatoria, intrapresa da tempo,

10 novembre 1938. Deportazione della popolazione ebraica a Dachau

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contro la minoranza ebraica del paese, giungeva al capolinea: decine di migliaia di ebrei furono rinchiusi in Lager per spingere gli altri all’emigrazione. Per quanti restavano, la vita diveniva pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e di nuove misure repressive. Dall’ aprile 1939 tutte le imprese ebree erano ormai fallite a seguito della pressione finanziaria e del calo dei profitti, o erano state persuase a cedere la propria attività al governo nazista. Il processo di discriminazione e di segregazione, tra il 1938 e il 1939, era proceduto anche attraverso sfratti e trasferimenti forzati di abitazione, volti a concentrare tutta la popolazione ebraica tedesca in determinati edifici o isolati, identificati dalle autorità cittadine e sorvegliati dalla polizia di stato (la Gestapo). A partire dal 1° settembre 1941 un Decreto di polizia relativo al marchio di identificazione degli ebrei obbligava questi ultimi di età superiore a sei anni, al fine di essere identificati ancora meglio, a portare la stella ebraica a sei punte (la Stella di Davide). Tale simbolo – recitava l’articolo 1 del Decreto – è rappresentato da una stella a sei punte di stoffa gialla bordata di nero, di formato equivalente al palmo di una mano. In essa deve essere iscritta, a caratteri neri la parola “Jude”. La stella deve essere cucita sul lato sinistro del petto degli abiti in modo ben visibile. L’articolo 2 aggiungeva: Agli ebrei è proibito uscire dall’area in cui risiedono senza un permesso scritto rilasciato dalla Polizia locale.

Deportazione degli ebrei dopo la “notte dei cristalli”

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Conferenza di Wannsee Il 20 gennaio del 1942 la persecuzione antiebraica compiva un salto di qualità: dalla fase della segregazione civile passava alla fase del vero e proprio genocidio. Nella Conferenza di Wannsee (dal nome del lago nei dintorni di Berlino presso il quale si tenne l’incontro) alti esponenti delle SS e del governo misero a punto tappe e strumenti4 di quella che da qualche tempo era chiamata la Soluzione finale del “problema” ebraico, espressione che nel linguaggio eufemistico del Terzo Reich stava a indicare un progetto ampio, burocraticamente e gerarchicamente strutturato, per la distruzione fisica della comunità ebraica nell’intera Europa, comprese le comunità dei Paesi - come l’Italia - alleati della Germania. Se per gli ebrei dei ghetti si ufficializzava l’eliminazione già in corso, per quelli dei Paesi dell’Europa occidentale si decideva l’annientamento attraverso il lavoro coatto. Era proprio in quest’ ottica che si collocava Auschwitz (foto sotto), l’esempio più compiuto dell’intreccio fra ideologia razzista e calcolo economico, in quanto centro di sterminio e insieme luogo di schiavitù. Quindi simbolo della Shoah. Sterminio degli ebrei: olocausto o shoah? Etichettato, durante il processo di Norimberga, col nuovo termine “genocidio”, poiché sembrava impossibile far rientrare quell’ immane evento nei vecchi schemi concettuali, lo sterminio degli ebrei, a partire dagli anni Cinquanta, venne più comunemente denominato “Olocausto”, termine ancora oggi molto diffuso. Tale denominazione, però, è respinta dagli ebrei, in quanto il termine olocausto, di derivazione greco-latina, significa letteralmente “interamente bruciato” e designa, nell’Antico Testamento, un solenne sacrificio in cui l’animale (un toro, un agnello...) viene ucciso e posto sul rogo rituale, da dove la vittima sacrificale - a seguito della propria totale “combustione” - ascende

4 Il verbale della Conferenza di Wannsee, redatto da Adolf Eichman, principale collaboratore di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza (Gestapo) e responsabile della pianificazione e attuazione della Soluzione finale, verrà reso pubblico per la prima volta nel corso del processo di Norimberga contro i crimini di guerra nazisti, al termine della seconda guerra mondiale.

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a Dio (in ebraico il rito è detto “Olah”, “ciò che sale”, verso il cielo). Per quanto detto, il termine olocausto avvolge il fenomeno dello sterminio degli ebrei di un’aura sacro-religiosa che nasconde l’insensatezza e la totale “gratuità” dell’assassinio nei forni crematori (foto a destra). Parlare di olocausto, insomma, è come sottintendere che quello sterminio di massa avesse un qualche valore sacro, che in un certo senso le vittime si votassero al sacrificio o comunque si sacrificassero per una causa più alta. In anni più recenti, sull’onda dell’omonimo film di Claude Lanzmann del 1985, si è diffuso ampiamente il termine Shoah, che in ebraico significa “catastrofe”, “distruzione” e che si limita a nominare la letteralità dell’evento, evitando le suggestioni implicite nel termine olocausto.

La legislazione fascista contro gli ebrei “Pochi conoscono bene che cosa ha significato per il nostro Paese la politica antisemita del fascismo. Alcuni hanno sentito vagamente parlare di leggi razziali. I più identificano tutto ciò che di antiebraico ci fu nel ventennio, con i lager nazisti e comunque con il periodo 1943-1945, quello cioè del dominio tedesco e della repubblica di Salò. [ ... ] Si deve sapere prima di tutto che nel nostro Paese dal 1938 al 1945 sono stati in vigore leggi liberticide, leggi assassine (gli ebrei deportati nei lager furono individuati attraverso gli elenchi previsti dalle leggi italiane), che avevano il dichiarato e ben articolato intento di discriminare una piccola minoranza di persone, di italiani, facendo di questi il capro espiatorio di una stolta, criminale politica che stava portando il paese alla rovina e alla distruzione”. (Così scrive Ugo Caffaz nell’introduzione al libro Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista). 1938: l’anno dell’ignominia C’è chi stigmatizza in questi termini l’approvazione delle leggi razziali da parte del Fascismo. In quell’anno Benito Mussolini decideva di fare il grande passo, di legare completamente l’Italia al Terzo Reich di Adolf Hitler, imitandolo anche nelle sue folli utopie razziste. Il fuhrer odiava e perseguitava gli ebrei, il duce, che su questo, come su quasi tutto, non aveva opinioni precise, stabilì che anche in Italia gli ebrei dovevano essere odiati e perseguitati. Ma quello che colpisce è il fatto che

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l’antisemitismo non apparteneva alla storia del Fascismo. Lo stesso Mussolini, nel 1932, nel libro-intervista Colloqui con Mussolini dello scrittore e giornalista tedesco Emil Ludwig (dal duce riveduto e approvato prima della pubblicazione), affermava: “L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei si sono sempre comportati bene, come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle Università, nell’Esercito, nelle banche”. A fine marzo 1933 - quando non era ancora rimorchiato da Hitler - Mussolini, accogliendo la sollecitazione dell’ambasciatore italiano (Vittorio Cerruti), inviava al suo collega e “allievo” tedesco un messaggio per convincerlo che “la lotta agli ebrei non rafforzerà il nazionalsocialismo”. Il 14 luglio 1934, quando in Germania si era prossimi a emanare le leggi di Norimberga per la discriminazione razziale, Mussolini su Il popolo d’Italia, organo del partito nazionale fascista, pubblicava un articolo nel quale, commentando favorevolmente le conclusioni antirazziste di un congresso internazionale di antropologi, scriveva: “In tema di razzismo gli scienziati non vanno a quanto sembra d’accordo con i politici. Si intende che il dissidio assume forme palesi e documentarie soltanto oltre i confini della Germania nazista”. E, con tono di sprezzante superiorità, aggiungeva: “Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talunne dottrine d’oltralpe”. L’ostilità del Fascismo all’antisemitismo di marca nazista si concretizzava nella concessione di asilo agli ebrei tedeschi che espatriavano per sfuggire alle persecuzioni, nella creazione di una nuova linea marittima Trieste-Tel Aviv per facilitare l’emigrazione verso la Palestina, e nell’apertura di una sezione ebraica nella scuola nautica di Civitavecchia. In definitiva, a differenza del nazismo, che sin dalle origini era essenzialmente razzista, il fascismo non era, originariamente, per nulla intrinsecamente razzista. Il Fascismo diventa razzista Dopo la conquista dell’Etiopia, il Fascismo assumeva connotati “imperiali”, e il duce cominciava a sentirsi attratto dalle idee dell’ “imbianchino austriaco” che a Berlino stava fondando il “Reich millenario”. I1 23 ottobre 1936 si compiva il primo passo di avvicinamento con i protocolli Ciano-Ribbentrop (“Asse Roma-Berlino”); con quell’accordo l’Italia si allineava, per la prima volta in maniera esplicita, alla politica tedesca. Nel settembre 1937 Mussolini (foto a sinistra) si recava in visita a Berlino, accolto da un’enorme folla acclamante, da manifestazioni e sfilate che lusingarono adeguatamente la sua vanità, e si convinse che l’alleanza con Hitler doveva essere totale. Quando nel maggio 1938 Adolf Hitler venne a

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Roma per ricambiare la visita del dittatore italiano la svolta razziale dell’Italia fascista era già ben definita. Il 14 luglio Ciano annota nel suo diario: “Il duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni sulla razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui”. In effetti il 15 luglio il Giornale d’Italia pubblica un “Manifesto del razzismo italiano”, firmato da dieci titolari di cattedra e assistenti; il più noto tra loro risulta essere Nicola Pende (foto a destra), senatore, direttore dell’istituto di Patologia speciale medica dell’Università di Roma. Il Manifesto un testo programmatico, preludio alle leggi razziali inizia dichiarando che le razze esistono, per affermare che la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana, che è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti, che gli ebrei non appartengo alla razza italiana. Per concludere: I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo. “Dopo il Manifesto - scrive lo storico della filosofia Eugenio Garin - si capì che era questione di tempo e di modi”. E infatti il 5 settembre 1938 venne emanato un Regio decreto per la difesa della razza nella scuola.5 “Regio” perché l’Italia aveva un re come supremo capo dello Stato, ma Vittorio Emanuele non batte ciglio e approva assieme alle tante altre scelte del Fascismo - tutte le aberrazioni razziali del regime. All’ ufficio di insegnante - recitava l’art. 1 nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state com-

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In realtà, sin dal mese di agosto il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai (foto sopra) aveva diramato una serie di circolari dove invitava rettori, provveditori e capi d’Istituto a diffondere la dottrina razzista nelle scuole di ogni ordine e grado e a escludere gli ebrei da ogni supplenza o incarico scolastico. L’attenzione dedicata alla scuola come sede privilegiata di una propaganda d’ispirazione razzistica e antisemita è testimoniata anche da un questionario che completava un manuale di circa 100 pagine pensato per le scuole, come sintesi dell’ideologia fascista. Il questionario (straordinario esempio di mentalità catechistica e di ottuso indottrinamento) doveva essere imparato a memoria e ripetuto meccanicamente.

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prese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potranno essere ammesse all’assistentato universitario, né al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza. All’articolo 2 si affermava che: Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. Con quel decreto, insomma, che fu la prima delle leggi razziali che si susseguirono dal ‘38 fino al ‘43, gli ebrei, alunni e insegnanti, furono espulsi dalle scuole e dalle università.6 Interessante notare che, relativamente all’esclusione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche, l’Italia fascista precedette la stessa Germania nazista, la quale solo dopo la sanguinosa “Notte dei cristalli” del 9-10 novembre decise di adottare anche per gli studenti un provvedimento di esclusione generalizzata. Il 6 ottobre 1938 si riuniva il Gran Consiglio del Fascismo, che approvava una Carta della razza. Essa dopo un frettoloso accenno al pericolo di “incroci e imbastardimenti” si occupava esclusivamente della persecuzione antiebraica e dichiarava che “le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali per tutti”. Il Consiglio dei ministri, il successivo 17 novembre, varò il Regio decreto per la difesa della razza italiana: un lungo elenco di ciò che “i cittadini italiani di razza ebraica” possono o non possono fare (non possono, per esempio, “prestar servizio militare “, “essere proprietari di terreni che... abbiano un estimo superiore a lire cinquemila “, né “essere proprietari di fabbricati urbani che...abbiano un imponibile superiore a lire ventimila”), dei diritti da loro perduti, delle sanzioni previste per i trasgressori. La difesa della “razza italiana” non poteva non prevedere, ovviamente, che “il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo” (art. l). Sulla G. U. del 2 agosto 1939 veniva pubblicato il Regio Decreto-Legge del 29 giugno 1939 avente come oggetto la Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica. Costituito da ben 35 articoli, nel primo di essi si affermava: L’esercizio delle professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercenti in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale, è, per i cittadini appartenenti alla razza ebraica, regolato dalle seguenti disposizioni. Il secondo articolo vietava, specifica-

6 Dal sistema scolastico italiano furono espulsi 96 professori universitari, più di 130 assistenti universitari, 279 presidi e professori di scuola media, oltre 100 maestri elementari, alcune migliaia di studenti elementari e medie e alcune centinaia di studenti universitari.

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mente, l’esercizio delle professioni di notaro e di giornalista ai cittadini italiani di razza ebraica. Come si è visto, la legislazione persecutoria italiana del 1938-39 colpì esplicitamente solo i diritti degli ebrei, in particolare quelli all’istruzione e al lavoro, separando gli ebrei dai non ebrei e stimolando quindi di fatto i primi all’emigrazione. “Il fine principale - scrive a questo proposito Michele Sarfatti - della persecuzione antiebraica non era quello di mantenere gli ebrei nella penisola in condizione di inferiorità, bensì quello di eliminarli dalla penisola, cioè di farli emigrare.” Ricollegandoci a quanto si diceva in premessa, circa la sostanziale estraneità dell’antisemitismo alla storia dell’Italia e dello stesso Mussolini, riportiamo - in conclusione - il seguente giudizio: «Le leggi razziali del 1938 furono motivo di sgomento per gli ebrei e di indignazione per la stragrande maggioranza degli altri italiani. Ne apparve chiara, immediatamente, la estraneità non soltanto alla storia del Paese, ma alla storia stessa del fascismo. Vennero intese come un prodotto di importazione e come il frutto peggiore dell’adeLa difesa della razza fu una rivista diretta da Telesio guamento mussoliniano alla “moda” tede- Interlandi che, alla direzione del quotidiano fascista sca; […] l’idea razzista era stata in Italia, Il Tevere, si era distinto nelle campagne antisemite per lungo tempo, il patrimonio di pochi, del 1934 e del 1936-37. La rivista vide il suo primo numero il 5 agosto 1938 (in cui venne ripubblicato il inascoltati, e per lo più disprezzati profeti, “Manifesto del razzismo italiano”) e venne stampae almeno fino al 1936 Mussolini l’aveva ta, con cadenza quindicinale, fino al giugno 1943 rilanciando l’antisemitismo in termini molto più respinta. espliciti e aggressivi di quanto non fosse mai accaNon si vuole affermare, con questo, che duto in precedenza. mancassero all’antisemitismo radici lontane. Ma era, quello “storico”, un antisemitismo di origine religiosa, non razziale.»7

7 I. Montanelli – M. Cervi, L’Italia dell’Asse, Milano 1981, pp. 233-234

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Genocidio degli Armeni Un po’ di storia Stanziato su un territorio comprendente la parte orientale dell’attuale Turchia e le terre a nord dell’Impero Persiano fino alle cime del Caucaso, il popolo armeno affonda le proprie radici già nel primo millennio a. C. quando, nel VII secolo, costituì uno stato unitario, anche se la presenza di popolazioni armene è testimoniata da documenti storici risalenti al 3000 a. C. All’inizio del IV secolo d. C., poi, la conversione al cristianesimo fa dell’Armenia il primo stato ad accettare la fede cristiana come religione ufficiale.

Con il trascorrere degli anni, gli armeni, per via dell’importanza strategica della regione anatolica da loro abitata, hanno perso e più volte riconquistato l’indipendenza, subendo a più riprese invasioni e dominazioni straniere. La dominazione più lunga fu quella dei Turchi, penetrati nell’area circa nove secoli fa, che instaurarono un regime di pulizia etnica ante litteram con soprusi, conversioni forzate all’Islam e ricorrenti massacri. Le persecuzioni aumentarono in intensità e ferocia alla fine 22


dell’Ottocento, sotto il regno (1876-1909) del sultano Abdul Hamid II (foto a destra): alle richieste degli armeni di autonomia o, comunque, di riforme volte a tutelare le loro vite e i loro beni, venne risposto con massacri di massa, nel corso dei quali, dal 1895 al 1897, furono trucidate 300.000 persone (foto sotto). La repressione turca provocò reazioni in difesa degli armeni da parte di numerosi stati europei, che chiesero al governo turco riforme atte a tutelarli, ma che, nel concreto, non riuscirono a mutare il corso delle vicende. Parallelamente al declino dell’Impero Ottomano, sul finire del XIX secolo, una speranza per l’indipendenza armena, presto disillusa, nacque quando prese sempre più forza un movimento progressista nazionalista turco, i cui membri erano detti in Europa “Giovani Turchi”, i quali – dopo aver rovesciato con l’appoggio degli stessi armeni1 e costretto all’esilio il sultano Abdul Hamid - si impadronirono del potere nel 1909 con il partito denominato “Ittihad ve Terakki Jemiyeti” (Comitato Unione e Progresso) e lo esercitarono per dieci anni, anche se, formalmente, a capo dell’Impero ottomano era il sultano Maometto V (1909-18), fratello di Abdul Hamid. Essi sembravano intenzionati inizialmente ad abbattere il sistema imperiale e avviare un processo di trasformazione del regime turco in senso parlamentare e costituzionale, per poi creare una federazione di tutti i popoli precedentemente inclusi nell’Impero. Tuttavia, nel giro di

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Nel 1907 a Parigi era stata stipulata un’alleanza tra armeni e Giovani Turchi con il progetto di riorganizzare l’Impero in modo che tutte le nazionalità potessero vivere pacificamente insieme; alleanza che nel luglio 1908 portò alla rivolta contro il sultano, costretto a concedere la Costituzione e libere elezioni. Quando, l’anno seguente, Abdul Hamid tentò di abrogare la Costituzione e di sciogliere il Parlamento, le truppe guidate da Mustafà Kemal, leader dei Giovani Turchi, bloccarono l’iniziativa reazionaria liquidando definitivamente l’autocratico sultano.

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pochi anni, e soprattutto dopo il 1913, molti dei Giovani Turchi abbracciarono un’ideologia radicalmente nazionalista, il “turchismo”, la quale, tra l’altro, si poneva come obiettivo la trasformazione dell’eterogeneo Impero ottomano in uno Stato-nazione omogeneo che ricalcasse il modello occidentale europeo. In definitiva, l’ideologia “panturchista”, che ispirava l’azione di governo dei Giovani turchi per riformare lo stato su base nazionalista, e quindi sulla purezza razziale (omogeneità etnica e religiosa), li portò a considerare l’elemento armeno come un “pericolo interno” da combattere ed annientare. Maometto V, sultano dell’Impero A proposito delle motivazioni che stanno dietro Ottomano al genocidio degli armeni, va detto che esse furono, sostanzialmente, di tipo politico e religioso insieme, e non di tipo ideologico e razzista, quale fu, per esempio, il processo di distruzione degli ebrei d’Europa condotto dai nazisti. L’obiettivo degli ottomani - inteso a fondare un vasto impero turco islamico, ricongiungendo le popolazioni turche dell’Anatolia alle popolazioni turche dell’Asia centrale (Kazaki, Uzbeki) - era la cancellazione della comunità armena, di religione cristiana, come soggetto storico, culturale e soprattutto politico, non la cancellazione del popolo armeno in quanto entità biologica. Il genocidio L’occasione per realizzare il progetto di sterminio si presentò con lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando le potenze europee, impegnate nella guerra, non avrebbero potuto interferire. Nell’ottobre 1914 il governo turco decise di entrare in guerra a fianco degli Imperi centrali. Seguendo le direttive dell’alleato germanico, l’esercito turco concentrò le sue forze nella lotta contro i Russi sul fronte caucasico. Ma quella campagna militare si risolse per i Turchi in una dura sconfitta: la Terza Armata turca, impreparata, male equipaggiata, mandata allo sbaraglio in condizioni climatiche ostili, venne pesantemente sconfitta nel gennaio del 1915 dalle forze sovietiche. I Turchi imputarono la sconfitta subìta all’intera comunità armena (circa 2 milioni) che abitava nella regione dove avvenivano gli scontri più violenti di quella campagna militare. In realtà, gli armeni, pur senza sottrarsi agli obblighi cui erano soggetti in quanto sudditi dell’impero ottomano, non contribuirono alla guerra con particolare impegno e anzi fra di loro si manifestò anche qualche tentativo di sottrarsi al servizio militare. Benché si trattasse di sporadici atti di diserzione, il clima si fece sempre più teso e il Comitato centrale del partito Unione e Progresso decise la soppressione dell’intero popolo armeno. Il primo passo verso lo sterminio prevede-

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va la chiamata alle armi per tutti gli armeni maschi validi, che, riuniti per formare speciali battaglioni, detti tchété, con l’inganno vennero disarmati ed eliminati di nascosto nel marzo del 1915. Poco più tardi l’attenzione fu rivolta alle personalità più in vista: la mattina del 24 aprile, nella città di Costantinopoli, allora capitale dell’Impero ottomano, vennero arrestati 650 notabili armeni; per loro (intellettuali, sacerdoti, professionisti e dirigenti politici) venne ordinato l’immediato arresto, cui seguì una barbara trucidazione2. Il piano turco, pensato e diretto dal ministro dell’Interno Mehmed Talaat - noto come Talat Pascià (foto a sinistra) - in stretta collaborazione con il ministro della Guerra Ismail Enver (foto sotto), proseguì poi con la già decretata deportazione nei deserti della Siria e della Mesopotamia di donne, vecchi e bambini, ormai uniche forme di vita umana rimaste nelle città armene: adducendo come pretesto la prossimità alla zona di guerra, il governo turco costrinse tutti i cittadini ad abbandonare le loro abitazioni per trasferirsi - così veniva detto - in “regioni più sicure”. In realtà la deportazione coinvolse anche le comunità armene residenti a centinaia di chilometri dall’area bellica, segno evidente che l’allontanamento dalle zone di guerra era solo un pretesto per lo sterminio. In questo frangente molti ufficiali e sottoufficiali armeni, scampati ai massacri precedenti, tentarono di organizzare sui monti la resistenza. Da elogiare è l’impresa degli armeni della città di Van che, nell’aprile del 1915, riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano, dove resistettero alla controffensiva ottomana e turca fino all’arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa, che nel mese di maggio liberò dall’assedio quei disperati. Altri tentativi di resistenza (purtroppo!) non ebbero la medesima fortuna, in quanto le improvvisate milizie armene dovettero soccombere alle soverchianti forze ottomane, che procedettero con la deportazione. Lungo la strada le carovane dei deportati, come del resto era possibile immaginare, subirono sistematicamente l’assalto di bande di malfattori turchi,

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Il 24 aprile è la data in cui gli armeni di tutto il mondo ricordano il genocidio del loro popolo da parte degli Ottomani. Lo chiamano “Metz Yegern”, cioè il Grande Male.

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fatti uscire appositamente dal carcere per costituire la Teshkilati Mahsusa (Organizzazione Speciale), il cui compito era uccidere gli armeni. Nel corso delle chilometriche traversate i prigionieri, lasciati senza cibo, acqua e scorta, morirono a migliaia; per i pochi sopravvissuti la sorte non fu migliore: perirono di stenti nel deserto, bruciati vivi, rinchiusi in caverne, o annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero. Riusciranno a sottrarsi a queste atrocità soltanto gli armeni residenti a Costantinopoli (l’attuale Istanbul) e Smirne, poiché troppo vicini alle sedi diplomatiche straniere, e gli abitanti di alcune province in prossimità del confine con la Russia, che si misero al riparo trovando protezione nell’esercito nemico o fuggendo oltre la frontiera. I mezzi usati per compiere lo sterminio rivelarono un’ inaudita ferocia e un sadico accanimento contro le vittime, ma ciò che più di ogni altra cosa riesce ad impressionare è il consuntivo numerico di questa prima parte del piano criminale turco: due terzi della popolazione armena furono soppressi. Ancora più sconvolgente, poi, è il fatto che tutto questo è avvenuto sotto gli occhi delle grandi potenze europee, che non riuscirono a prendere alcuna iniziativa in difesa delle popolazioni angariate – un flebile segnale si ebbe solo con l’intervento del Vaticano, tramite il papa Benedetto XV, che purtroppo, però, non produsse alcun effetto, anche in funzione del fatto che i turchi avevano ormai proclamato la guerra santa. Successivamente, approfittando

Nella foto Mustafà Kemal insieme ad altri Turchi

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degli sconvolgimenti in corso in Russia a causa della rivoluzione, gli armeni sotto il controllo dell’impero zarista si ribellarono e, il 28 maggio del 1918, dichiararono la propria indipendenza, proclamando la nascita della Repubblica Armena. Tuttavia la caduta del regime dei “Giovani Turchi” alla fine della Grande Guerra e la seguente ascesa alla guida del paese di Mustafà Kemal (nella foto), in seguito ribattezzato Ataturk (“padre dei Turchi”), non cambiò la situazione: tra il 1920 ed il 1922, con il Massacro di Smirne e l’attacco alla Cilicia armena, il nuovo governo portò a totale compimento il genocidio, decimando letteralmente la popolazione rimasta. Nel 1927 il primo censimento dopo questi ultimi crimini indicò che la popolazione armena ammontava a sole 123. 602 persone. Le ammissioni di colpevolezza Al termine di tutte le atrocità, il nuovo governo, sollecitato dalle potenze europee vincitrici, istituì una corte marziale per giudicare i responsabili dello sterminio. Venne giustiziato un prefetto, ma molti fra i colpevoli, con il compiacente sostegno delle autorità turche, riuscirono a fuggire o comunque a vivere indisturbati, segno evidente che reale scopo dei processi intentati ai responsabili del genocidio non era quello di rendere giustizia al martoriato popolo armeno, ma di addossare le colpe dell’accaduto sulle spalle dei Giovani Turchi discolpando, al tempo stesso, la nazione turca in quanto tale. Poco dopo, senza aver terminato i propri lavori, anche la corte marziale venne sciolta. Conclusa la fase processuale, lo stato turco smise di perseguire i responsabili, incamerò tutti i beni mobili e immobili degli armeni uccisi e lasciò cadere nel silenzio quanto avvenuto, negandone persino l’esistenza. Alcuni fra i principali organizzatori del genocidio morirono in seguito per mano di “giustizieri” armeni. Il genocidio, però, resta sostanzialmente impunito. A differenza dell’Olocausto ebraico, riconosciuto e condannato da parte tedesca, quello armeno non è stato mai né riconosciuto né tanto meno condannato da parte dell’attuale governo turco. Il governo di Ankara continua a sostenere, come i suoi predecessori, che non è mai esistito un genocidio, anche se riconosce che gli armeni vennero trasferiti verso la Siria dalle regioni orientali al confine con la Russia, ma sostiene che i morti furono vittime di conflitti civili. Ancora oggi gli stessi storici turchi non ammettono la verità del genocidio, in quanto sostengono non esistono documenti ufficiali che lo comprovino. Nonostante la negazione della Turchia e le sue reticenze, lo sterminio armeno è un dato incon27


testabile, ampiamente documentato oltre che dalle narrazioni dei superstiti, anche da parte di testimoni stranieri e imparziali, quali l’americano Henry Morgenthau, allora ambasciatore degli Usa a Istanbul, e altri diplomatici statunitensi, il pastore evangelico tedesco Lepsius, l’ inglese A. Toynbee (giovane storico che, già nel 1916, denunciò “lo sterminio sistematico e crudele di un intero popolo”), lo scrittore e filantropo tedesco Armin Wegner (testimone oculare del genocidio, del quale lasciò ampia documentazione fotografica), il francese Henri Barby, e, non ultimo, il console d’Italia a Trebisonda, Gorrini, per citare alcuni dei più noti. Negli archivi americani, inglesi, francesi, tedeschi e austriaci è conservata una ricca documentazione al riguardo. Inoltre vi sono i documenti di diretta provenienza turca, prodotti dalla corte marziale convocata per giudicare i responsabili del genocidio. Recentemente vi è stata la pubblicazione (gennaio 2009) di un libro, Le carte restanti di Talaat pascià, in cui le dimensioni del genocidio armeno vengono quantificate sulla base di dati provenienti da fonti ottomane. Il libro in questione è stato scritto da Murat Bardakci (nella foto), un giornalista che ha potuto leggere i documenti custoditi dalla vedova di Mehmed Talaat, dai quali risulta che la popolazione armena dell’impero turco ammontava, prima del 1915, a 1.256.000 persone ed era scesa, due anni dopo, a 284.157. Il numero di armeni scomparsi, quindi, ammonterebbe a poco meno di un milione, di cui molti uccisi, altri fortunosamente emigrati. Se un’appropriata definizione di “genocidio” richiede che il piano di sterminio di un popolo deve essere progettato e gestito dalle autorità statali, non vi è dubbio - sia per le tante testimonianze convergenti che per la consistente ed inequivocabile documentazione - che quello condotto contro il popolo armeno presenta tale requisito, in quanto organizzato e coordinato dal governo turco di allora, il governo dei “Giovani turchi”.

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Usa e questione armena Fino a poco tempo fa il riconoscimento del genocidio da parte della comunità internazionale sembrava ben lontano dall’essere una realtà e i timidi tentativi - quali quello dell’Assemblea nazionale francese3 - di dare dignità storica ai fatti avvenuti in quegli anni erano stati tutti insabbiati dalle inconsulte reazioni turche e dal vergognoso silenzio-assenso delle grandi potenze, prima fra tutte gli Usa che hanno sempre privilegiato la logica e le esigenze della realpolitik dando maggiore importanza ai legami politicomilitari con la Turchia (essenziale partner nella Nato) e rifiutando di concedere alla strage degli armeni lo status di “genocidio”, proprio per non urtare la loro strategica alleata. Nel gennaio 2007 (poco dopo il varo della legge da parte dell’Assemblea nazionale francese), un Comitato della Camera dei rappresentanti degli Usa presentò (dopo averla lungamente discussa e, infine, approvata) una “risoluzione sul genocidio armeno”, che però non arrivò all’aula del Congresso perché bloccata sia dalla Casa Bianca che dal Dipartimento di Stato, oltre che dalle pressioni del governo turco. La risoluzione invitava il presidente a garantire che la politica estera degli Usa riflettesse “una appropriata comprensione e sensibilità per le questioni concernenti i diritti umani, la pulizia etnica e il genocidio documentate negli archivi americani”, con particolare riferimento al “genocidio armeno”. Non se ne fece nulla anche perché le resistenze verso l’approvazione di quella risoluzione hanno potuto contare sull’appoggio dell’Amministrazione Bush, di numerosi esponenti della vita politica americana e dell’ex presidente democratico Jimmy Carter. Ultimamente molte speranze sono state riposte in Barack Obama, il quale nel corso della campagna elettorale aveva condannato il massacro degli armeni senza mezzi termini “non è un’accusa, un punto di vista o un’opinione – aveva scritto sul suo blog – ma un fatto documentato da una gran mole di prove storiche”. Eletto presidente, però, la questione armena ha assunto, per Obama, una prospettiva diversa. Indubbiamente, come ebbe a dire Mario Cuomo (governatore dello Stato di New York dal 1983 al 1995), “si fa campagna elettorale con la poesia e si governa con la prosa”. E così Obama (nella foto sopra con il presidente turco Adullah Gul), in occasione della visita in Turchia agli

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Tale Assemblea, nell’ottobre del 2006, votò una legge che punisce la negazione del genocidio armeno.

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inizi dello scorso aprile, ha evitato di pronunciare la parola “genocidio” continuando ad usare il termine diaspora, preferito dai Turchi, ed ha aggiunto: “Le mie opinioni sono di pubblico dominio, non vi ho rinunciato, ma non voglio interferire in alcun modo con i negoziati tra Turchia e Ankara, che potrebbero dare risultati molto presto”. Egli sa bene che l’aiuto di Ankara è essenziale su tutti i principali nodi strategici del Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Irak, specialmente dopo la chiusura di alcune basi americane nell’Asia centrale ex sovietica. Gli Usa hanno assolutamente bisogno di usare il territorio turco per le linee di rifornimento alle truppe in Afghanistan, tuttavia Obama ha addotto come scusa ufficiale i progressi in atto verso la normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia. E, difatti, nello scorso ottobre, (diremmo “per fortuna del presidente americano”), il presidente turco Abdullah Gul e il capo di stato armeno Serge Sarkisian (foto sopra) hanno firmato a Zurigo (presenti, fra gli altri, il Segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, e l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Javier Solana) uno storico accordo di normalizzazione di rapporti tra i due paesi. L’ accordo, che prevede la ripresa delle relazioni diplomatiche e prelude all’apertura del confine turco-armeno, per entrare in vigore abbisogna, però, della ratifica da parte dei due parlamenti. Conclusioni Il riconoscimento del genocidio armeno e la sua condanna non costituiscono un problema storico riguardante gli armeni soltanto, ma rivestono un carattere politico ed etico molto più generale, che coinvolge diverse altre nazioni. Ieri vittime degli obiettivi territoriali turchi sono stati gli armeni e i greci, oggi sono i curdi. La negazione del genocidio armeno, inoltre, costituisce tuttora un pericoloso precedente, che, nel recente passato, è servito da alibi a Hitler nell’organizzare l’Olocausto e, in seguito, agli storici revisionisti per negare l’Olocausto stesso. E’ evidente che, finché il genocidio armeno non verrà ufficialmente condannato, esso costituirà un esempio negativo. Non per nulla, oggi, il Parlamento Europeo ha posto il riconoscimento del genocidio armeno da parte dello Stato turco quale precondizione per l’adesione della Turchia alla Comunità Europea. Riconoscere il genocidio armeno non deve essere considerato un atto di ostilità verso la Turchia, al contrario è un atto carico di valenze positive per il futuro dello

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stato turco nella comunità delle nazioni: è stato proprio in seguito al riconoscimento dello sterminio da parte dei parlamenti di vari paesi che in Turchia è iniziato un movimento di condanna del genocidio da parte di un gruppo sempre più numeroso di intellettuali. Questi ultimi vanno quindi incoraggiati, anche attraverso un atto ufficiale di ammissione del crimine commesso da parte del loro governo, affinché spingano la Turchia a riconoscersi sempre di più nei valori fondamentali sui quali è basata la Comunità Europea. Il riconoscimento del genocidio può essere uno stimolo e un aiuto per la popolazione e la classe dirigente in Turchia, in quanto sollecita il paese a liberarsi di un’eredità pesante e negativa del passato, che potrebbe costituire un ostacolo al pieno sviluppo della democrazia e delle libertà civili. La stessa Armenia, occorre dire, da tempo chiede alla Turchia il riconoscimento di quel massacro di massa più che una chiara ammissione di responsabilità. Sarebbe un modo per chiudere un capitolo doloroso, che riguarda la storia del paese e non certo la Turchia di oggi. Dopo tutto, solo le nazioni che sanno affrontare la loro storia riescono a trascenderla e a costruire un presente migliore.

Due dei cartelloni prodotti nel 2005 dagli alunni del Liceo Classico in occasione della Giornata della Memoria.

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Genocidio in Ruanda Posizione geografica del Ruanda Il Ruanda (in francese Rwanda) è uno Stato (26.338 km²; 7.954.013 ab.; capitale Kigali) dell’Africa Orientale, che confina a ovest con la Repubblica Democratica del Congo, a nord con l’Uganda, a est con la Tanzania e a sud con il Burundi. Il Ruanda non ha sbocchi sul mare.

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Ruanda: un rapido sguardo alla sua storia Sin dai tempi remoti, il Ruanda fu abitato dai Twa, un’etnia di nomadi che vivevano di caccia e raccolta. Successivamente, nel primo millennio d.C., migrò in questo territorio una popolazione bantu coltivatrice: i Bahutu (o Hutu). Tra il XIV e il XV secolo arrivarono anche i Watutsi (o Tutsi), provenienti dal nord dell’altopiano etiopico. I Watutsi, per lo più pastori, erano più alti, avevano la faccia affilata, la loro pelle dava nel bruno più che nel nero. Giunti in quella terra presero il potere, impararono la lingua dei Bahutu e si servirono di questi ultimi come servi. Per i secoli successivi la storia interna del Ruanda fu una storia di re e principi Watutsi che si facevano la guerra tra loro. Nel 1884 la Conferenza di Berlino assegnò il Ruanda (assieme al vicino Burundi) alla Germania. I tedeschi si servirono dei Watutsi, pur costituendo la minoranza del Paese, per amministrare e così il loro potere crebbe. Diventato parte dell’Africa Orientale Tedesca, il Ruanda sviluppò l’economia grazie al potenziamento delle vie di comunicazione voluto dalla Germania, che governò fino al 1916, quando il Ruanda fu conquistato dal Belgio.4 Nel 1919 con il Trattato di Versailles l’ex colonia tedesca del Ruanda-Urundi divenne un protettorato delle Nazioni Unite sotto l’amministrazione del Belgio. Questo, come già la Germania, favorì la minoranza dei Tutsi (14%) sulla maggioranza Hutu, consentendo ai primi di godere di privilegi, di educazione di tipo occidentale e riservando a loro, soprattutto, gli incarichi di governo. Nel 1926 i Belgi introdussero un sistema di “carte d’identità etniche” che differenziava gli Hutu dai Tutsi, dei quali si servirono per consolidare il loro dominio. Con l’instaurazione di un rigido sistema coloniale di separazione razziale e sfruttamento e la concessione ai Tutsi della supremazia sugli Hutu, i Belgi alimentarono un profondo risentimento tra la maggioranza Hutu.2 Nel 1957, mentre il Ruanda è ancora sotto il dominio belga, nasce il Parmehutu, Partito per l’emancipazione degli Hutu. Questi, nel 1959, si ribellarono al potere coloniale del Belgio e all’oligarchia dei Tutsi: 150 mila Tutsi fuggirono in Burundi.

4 Ricordiamo che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Belgio, neutrale, fu invaso dai tedeschi. In seguito a ciò i Belgi del Congo (regione “regalata” a titolo personale al re dei Belgi Leopoldo II dalle potenze europee nella Conferenza di Berlino; dal 1908 colonia di stato, con il nome di Congo Belga; indipendente dal 1960) fecero la loro guerra ai tedeschi invadendo il Ruanda (e il Burundi), formalmente governati da due diversi re Tutsi. 2 Non si è lontani dal vero se si dice che l’odio tra le due componenti etniche della popolazione ruandese fu, almeno in parte, responsabilità del domino belga, che - come abbiamo accennato - favorì i Tutsi (alti e dai tratti europei) a danno degli Hutu, maggioritari ma dai tratti tipicamente neri. Tutsi e Hutu, infatti, da secoli parlavano la stessa lingua, praticavano la stessa religione e, prima dell’arrivo degli Europei, si riconoscevano nella stessa monarchia.

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Nel 1960 gli Hutu vinsero le elezioni organizzate dal governo coloniale belga; la situazione si capovolse e quando, nel 1962, il Ruanda ottenne l’indipendenza divenendo uno stato sovrano, o meglio una repubblica, gli Hutu insediarono al governo un nuovo presidente, Gregoir Kayibanda (foto in destra), che istituzionalizzò la discriminazione contro i Tutsi, impedendo loro l’accesso al potere, sottoponendoli a ripetuti massacri e costringendo, pertanto, i superstiti a rifugiarsi nei paesi vicini, soprattutto in Burundi,3 dove i Tutsi erano al potere. Nel dicembre del 1963 i Tutsi, che si erano rifugiati in Burundi, tornarono in Ruanda per riprendere il potere, anche per mezzo di stragi, ma non riuscirono nel loro intento. Nel 1972 il governo del Burundi sterminò migliaia di Hutu, in seguito ad una rivolta e agli scontri violenti scoppiati tra Tusti e Hutu. L’anno successivo in Ruanda (dove molto forti erano le tensioni tra le due etnie) il generale Hutu Juwanal Habyarimana (foto a sinistra), quando era ministro della difesa, depose con un colpo di stato l’allora presidente Grégoire Kayibanda e assunse la carica di presidente del paese (5 luglio ’73) e diede inizio ad un partito unico che peggiorò la situazione tra le etnie, anche a causa dell’ulteriore restrizione dei poteri Tutsi e del rafforzamento del potere esecutivo, mediante una nuova Costituzione approvata il 17 dicembre 1978, che introduceva il regime presidenziale. Habyarimana, riconfermato presidente nel 1983 e nel 1988, ottenne un miglioramento della situazione economica e l’autosufficienza alimentare. La situazione precipitò, però, nel 1990 quando le truppe del Fronte patriottico ruandese (Fpr), un movimento di ribellione costituito nel 1988 da guerriglieri Tutsi e Hutu moderati, rifugiati in Uganda, invasero il Ruanda per abbattere la dittatura

3 A seguito della proclamazione (1 luglio 1962) dell’indipendenza, l’ex colonia del Ruanda-Urundi si scisse in due nazioni separate: Ruanda e Burundi.

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Hutu di Habyarimana e riprendere, così, il potere. Il tentativo fallì grazie all’aiuto militare francese e belga. Intanto, le aperture del presidente verso il pluralismo furono ostacolate dalla guerriglia Tutsi e dagli estremisti Hutu. Tuttavia le due parti contendenti, con la mediazione delle Nazioni Unite, vennero a patti e, nel 1993, sottoscrissero gli Accordi di Arusha (Tanzania), secondo i quali avrebbero dovuto avviare il paese alle elezioni sulla base di un’equa spartizione del potere tra Tutsi ed Hutu. In questo clima di difficile ricomposizione nazionale, il 6 Aprile del 1994 l’aereo di Habyarimna venne fatto esplodere (colpito da due missili) mentre atterrava nella capitale ruandese, Kigali. Gli Hutu incolparono naturalmente i Tutsi, che a loro volta incolparono gli estremisti Hutu.4 Nel Ruanda iniziava l’orrore. La pace di Arusha del ’93 segnò, paradossalmente, l’inizio del massacro in Ruanda.

I cento giorni di sangue Mezz’ora dopo la notizia dell’attentato al presidente hutu, la radio ( Radio Mille Colline) lanciava agli hutu la parola d’ordine “Uccidete i tutsi come scarafaggi” e li invitava a non lasciarne vivo nessuno, nemmeno i bambini, che una volta cresciuti avrebbero potuto vendicarsi. Il 7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dal FAR (Forze Armate Ruandesi), con il pretesto della vendetta, iniziarono i massacri e le uccisioni della popolazione tutsi. Si pensa che autore del progetto di genocidio sia stato l’Akazu, la “casetta”, ovvero il clan familiare del presidente Habyarimana. Questa, non accettando limitazioni di potere, cominciò ad organizzarsi: vennero creati (1992) e armati gli interahamwe, milizie estremiste hutu irregolari, alle quali si promettevano denaro, case e potere in cambio dei massacri; vennero acquistati dalla Cina attraverso la ditta Chillington di Kigali, i machete; vennero redatte liste di esponenti tutsi da uccidere.

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Ancora oggi non si conoscono i veri responsabili di quel misterioso attentato aereo (di cui, allora, si accusavano reciprocamente i servizi segreti belgi e francesi) che provocò la morte del presidente Habyarimana, insieme al presidente del Burundi. Alcuni lo attribuirono alle frange estremiste del partito presidenziale, le quali non accettavano le condizioni dell’accordo di Arusha, che concedeva un ruolo politico e militare al Fronte patriottico ruandese. Una seconda ipotesi – sostenuta dagli hutu – ritiene che sia stato proprio l’Fpr a compiere l’attentato, convinto che i patti non sarebbero stati rispettati. Dell’organizzazione di quell’attentato, successivamente, è stata incriminata la moglie del presidente, Agathe Kanziga, che proprio quel giorno, contrariamente alle sue abitudini, decise di prendere un mezzo alternativo all’aereo, forse perché conosceva quale sorte sarebbe toccata al marito.

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Gli ultras dell’Hutu Power, con a capo il colonnello Theoneste Bagosora (nella foto), cominciarono a diffondere una lista di 1500 persone da uccidere per prime. Entrò in azione la milizia civile anti-tutsi, nata nel 1992, degli interahamwe , “quelli che lavorano insieme” che istituirono delle barriere stradali: al controllo dei documenti le persone che avevano sulla carta di identità l’appartenenza all’etnia tutsi vennero massacrate a colpi di machete. Si cercavano, soprat-tutto, gli intellettuali e i politici di spicco. Tutti gli hutu furono chiamati al genocidio: chi non partecipava al “lavoro” era considerato un nemico e quindi andava eliminato. La radio coordinava le operazioni, dava notizie ed esultava per le azioni più spettacolari, ma anche invitava i tutsi a presentarsi alle barriere per essere uccisi. Molti adulti si sacrificavano, nel tentativo di proteggere e salvare i bambini. Per cancellare i tutsi dal Ruanda i miliziani interahamwe, uccidevano coi machete, le asce, le lance, le mazze chiodate (le pallottole erano riservate a chi aveva i soldi e pagava per morire senza soffrire). Per i tutsi non esistevano luoghi sicuri: furono massacrati anche nelle vicinanze o all’interno dei luoghi di culto, incluse le chiese cattoliche, nonostante i cristiani costituissero circa l’80% della popolazione. Moltissime furono le donne stuprate tra aprile e luglio del 1994, molte delle quali rimasero infettate e incinte. Oggi questi bambini hanno circa quattordici anni e sono indicati con il nome collettivo di “figli del ricordo”. Sono i figli del genocidio, sono il frutto delle migliaia di stupri, per lo più collettivi, di cui circa trecentomila donne furono vittime. La peggiore strage fu quella di Gikongoro durante la quale furono uccise 27.000 persone utilizzando come armi il solito machete e bastoni chiodati. Quella del Ruanda fu una vera mattanza, per vedere la quale in quegli abominevoli giorni di aprile del ’94 bastava andare sulle rive del fiume Kagera, lungo il cui corso d’acqua fiacco e limaccioso i cadaveri venivano giù fiaccamente. Alcuni si gonfiavano oscenamente negli acquitrini prima di riprendere la loro corsa a valle, verso il fiume Nilo. Con i miliziani hutu che, ghignando, dicevano:”Così questi tutsi maledetti tornano alla terra da dove sono venuti e non avrebbero mai dovuto partire”. Quando qualcuno di quei cadaveri restava a riva, chi poteva vederli restava impietrito davanti alle loro piaghe, al modo selvaggio con cui erano stati uccisi. Nel

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Ruanda - come in ogni genocidio - essere assassini non bastava. Bisognava straziare e seviziare. Quello che impressiona è il fatto che un tale massacro fu compiuto non da professionisti del delitto o soldati in preda al panico o ad un odio bestiale, ma da gente comune che - come bravi operai del Male - ha ucciso, scuoiato, martirizzato al di là dell’immaginazione i vicini di casa, i compagni di lavoro o di studio, per coprire di croci, a fine opera, gli elenchi ricevuti. Il 4 luglio ‘94 Paul Kagame (nella foto a destra), a capo dell’esercito del Fpr, espressione dell’etnia tutsi, entrava a Kigali e rovesciava il governo hutu; il 6 luglio la guerra veniva dichiarata ufficialmente finita. Alla fine dei “100 giorni di sangue” furono uccisi da uomini della Guardia presidenziale, da miliziani del partito unico e da giovani hutu, circa 800 mila ruandesi. Tra le vittime, quasi tutti civili della minoranza tutsi, ve ne furono - va ricordato - anche dell’altra etnia: hutu uccisi perché appartenenti all’opposizione democratica al presidente o perché si rifiutarono di collaborare con i carnefici. Inoltre, quando a Kigali arrivarono i liberatori del generale Kagame, i tutsi non mancarono l’impegno di diventare a loro volta carnefici: circa 200 mila hutu furono massacrati nelle foreste dello Zaire, dove erano fuggiti per il timore di una vendetta tutsi. L’indifferenza del mondo La tragedia del Ruanda, costituisce l’ennesimo clamoroso esempio dell’incapacità di agire da parte delle forze internazionali. Essa, infatti, come quella consumatasi - su scala minore - nell’ex Jugoslavia è avvenuta nel completo silenzio della comunità internazionale. Nonostante la presenza di un contingente dell’Onu, il cui comandante, il generale canadese Romeo Dallaire (nella foto a destra), aveva denunciato il rischio dell’imminente genocidio e chiedeva a gran voce l’invio di rinforzi per intervenire, e le repressioni di molte organizzazioni umanitarie, il consiglio di sicurezza rifiutò di riconoscere che fosse in corso un genocidio, perché in quel caso l’intervento militare internazionale sarebbe stato inevitabile.

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Alcuni paesi, tra cui soprattutto il Belgio e la Francia, mandarono dei contingenti solo per salvare i propri cittadini e quest’ultima fiancheggiò addirittura le milizie hutu in ritirata dopo l’arrivo del Fpr. Il 22 giugno ’94, infatti, i francesi intervennero con un’azione militare umanitaria, l’operazione “Turquoise”, successivamente riconosciuta dall’Onu: l’intervento venne però utilizzato dai genocidari per proteggere la propria fuga dal paese. Solo a inizi estate, quando ormai si parlava di 500 mila ruandesi uccisi, la portavoce del governo americano riconobbe l’esistenza di “Atti di genocidio”, ma non di un genocidio in corso: i massacri continuarono così sotto gli occhi del mondo, inorridito ma incapace di intervenire per porvi fine. Anni dopo, sia il segretario dell’Onu, Kofi Annan ( nella foto ), sia il presidente americano Clinton chiesero pubblicamente scusa per il loro immobilismo, ma ormai centinaia di migliaia di ruandesi, forse un milione, erano stati trucidati. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda Per giudicare i responsabili del genocidio ruandese, talvolta protetti dagli stati occidentali che approfittavano della mancanza di rapporti di estradizione con il Ruanda, l’8 novembre del 1994 fu creato, con risoluzione 955 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR)5 con sede ad Arusha, nel nord della Tanzania. Il Tribunale di Arusha, nato come struttura gemella ( il “gemello povero”) della Corte dell’Aja per la ex Jugoslavia (con cui per anni ha diviso lo stesso procuratore Carla Del Ponte e gli stessi giudici d’appello) non ha avuto un decollo facile. Nei primi dieci anni di vita la Corte aveva arrestato poco più di cinquanta tra ex ministri militari, giornalisti, religiosi, ed emesso solo dodici verdetti. Lentezza, eccesso di garantismo, corruzione, burocrazia, molti ricercati che circolavano liberamente in Congo, in Kenya, in Gabon, in Francia o in Belgio hanno fatto esprimere ad alcuni osservatori, un bilancio deludente per la giustizia internazionale, fino a far dire: “Arusha, il sogno della Giustizia”. Dagli uffici di Arusha c’è chi ha controbattuto a tali critiche evidenziando che “operare in un Paese in via di sviluppo non ci ha certo aiutato; superate le inefficienze dei primi anni, niente da invidiare all’Aja nonostante gli staff più bassi”. In quanto all’accusa di eccesso di garantismo, si è replicato sostenendo che “non siamo qui solamente per condannare; la Corte

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Dall’inglese International Criminal Tribunal for Rwanda, più comunemente noto come Tribunale di Arusha.

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può anche emettere assoluzioni”. Ciò premesso, ripercorriamo rapidamente, quella che è stata, sino ad oggi, l’attività del Tribunale Onu per il Ruanda6. I primi processi per stabilire i responsabili del genocidio furono avviati nel 1997, ma dovettero subire rinvii a causa della mancanza di giudici. Nel frattempo 100 mila persone in attesa di giudizio affollavano le carceri. Un primo processo si concluse nel 1998, con la condanna a morte di 22 persone considerate colpevoli di genocidio. Nel settembre di quell’anno il Tribunale ha condannato all’ergastolo l’ex premier Jean Kambanda (foto a destra). Direttore dell’Unione delle Banche Popolari di Ruanda dal maggio 1989 all’aprile ’94, Kambanda era stato vice presidente del Movimento Democratico Repubblicano e, soprattutto, primo ministro “ad interim” dal 9 aprile 1994: un “pesce grosso” che ha riconosciuto le sue colpe. Infatti, arrestato a Nairobi il 18 luglio 1997, con l’accusa di partecipazione diretta al genocidio, in quanto non intervenne per fermare il massacro, egli confessò di distribuire armi e munizioni alle prefetture di Butare e Gitarma, conoscendo per cosa sarebbero state usate. La sua condanna all’ergastolo “per genocidio”, il 4 settembre del 1998, fu la prima dal 19487. Naturalmente furono condannati anche i responsabili delle emittenti televisive radiofoniche che avevano incitato il massacro dei Tusti. Nel luglio del 2000 il Tribunale condannava a 12 anni di reclusione l’italo-belga George Ruggiu, ( foto a destra) animatore della Radio libre des Mille Collines. Mentre il 19 Giugno 2003 venivano condannati all’ergastolo con l’accusa di aver incitato la popolazione al genocidio altri tre responsabili di giornali ed emittenti televisive e radiofoniche (Processo “ Media dell’odio”). Il 14 luglio 2004 l’ICTR emise la condanna all’ergastolo per “genocidio, sterminio ed assassinio” ai danni dell’ex ministro delle finanze ruandese

6 Occorre precisare che il Tribunale, il cui mandato è quello di perseguire i responsabili del genocidio e di altre violazioni della legge umanitaria durante il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre 1994, ha scelto, come sua strategia, di occuparsi soprattutto dei pianificatori delle stragi, fuggiti all’estero, lasciando ai tribunali nazionali ruandesi ( i tribunali Gacaca) competenza sui piccoli calibri. 7 Kambanda ricusò le sue confessioni e presentò ricorso presso la Camera d’Appello dell’ ICTR, che però il 19 settembre 2000 lo respinse.

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Emmanuel Ndindabahizi (prima foto a sinistra), arrestato il 7 luglio 2001 in Belgio. Il 14 aprile 2006 l’ex sindaco della città di Gikoro, Paul Bisengimana (seconda foto a sinistra), fu condannato a 15 anni di prigione, dopo essere stato arrestato in Mali. Il 18 dicembre 2008, infine, la Corte ha condannato all’ergastolo tre dei principali imputati politici e militari del genocidio: Theoneste Bagosora8, capo gabinetto – all’epoca dei fatt i- del Ministero della Difesa ruandese; il colonnello Anatole Nsengiyumva (foto sotto a sinistra), capo militare della regione di Gisenyi, nord-ovest del paese, e il maggiore Aloys Ntabakuze (foto sotto a destra), comandante dei para-militari nella zona dell’aereoporto di Kigali. Per altri imputati, politici e militari reclusi, il processo è attualmente in corso.

8 Bagosora, nato il 16 agosto 1941 in un villaggio del Ruanda settentrionale, comandò una delle unità militatri che portarono Habyarimana al potere con il colpo di stato del 5 luglio 1973 contro il presidente Gregoire Kayibanda. Fuggito da Ruanda nel luglio ’94 di fronte all’avanzata dell’esercito di Paul Kagame (leader Tutsi), fu arrestato in Camerun il 9 marzo 1996 e consegnato, l’anno successivo al Tribunale Onu che, appunto il 18 dicembre 2008, lo ha condannato all’ergastolo per genocidio, insieme ai sui due principali complici. Ritenuto una delle menti del genocidio, il colonnello Bagosora è stato descritto dal generale canadese Dallaire, ex comandante dei caschi blu in Ruanda durante il genocidio, nella sua testimonianza al tribunale di Arusha con le celebri parole: “ Io so che Dio esiste perché ho incontrato il Diavolo”.

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Genocidio di Srebrenica La disgregazione dello Stato jugoslavo Esempio di “stato artificiale” creato a tavolino dalle diplomazie, quello jugoslavo nasce alla fine della prima guerra mondiale, costringendo a vivere insieme popoli diversi per lingua e nazionalità, separati da virulenti odi atavici 5. Sino al 1945 le forti tensioni atonomistiche interne allo Stato furono contrastate da un intransigente politica centralistica, a guida ed egemonia serba. Dopo la seconda guerra mondiale la convivenza tra le diverse etnie era stata garantita grazie al carisma di Tito e alla rigida autorità esercitata dal Partito comunista. Ma dopo la scomparsa (1980) di Tito, appena l’impalcatura repressiva del regime cominciò a incrinarsi, i nazionalismi riemersero, per esplodere con la fine del comunismo e la disgregazione dell’Urss. Eltsin, ricordiamo, propugnando il totale abbandono del socialismo e facendo passare il messaggio secondo cui la Russia doveva pensare solo a se stessa, esprimeva una tendenza nazionalista che trovò imitatori in tutti i principali paesi che uscivano dal comunismo. Gli effetti più gravi della dissoluzione del “blocco” sovietico si ebbero nella Jugoslavia, dove nel corso del 1990 le elezioni politiche nelle sue diverse repubbliche furono vinte da forze nazionaliste che spingevano per l’indipendenza da Belgrado. Il trionfo dei nazionalismi ebbe in Jugoslavia conseguenze drammatiche. In Serbia - dove avevano trionfato i neo comunisti del Partito socialista di Slobodan Milosevic (foto sopra) - ripresero vigore le antiche ambizio-

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Sulla disgregazione della Jugoslavia riportiamo un brano di Indro Montanelli tratto da un articolo che il grande giornalista scrisse nell’ottobre del 1991: “Lo Stato jugoslavo si disfa perché era un prodotto artificiale della diplomazia europea riunita nel ’19 a Versailles per dettare le condizioni della pace. Si voleva dare un premio alla Serbia che per prima era scesa in armi contro l’Austria-Ungheria, consentendole di unificare sotto lo scettro dei suoi re Karagjorgjevich le province slave della Balcania. Nessuno badò, o volle badare, al fatto che in queste province c’erano tre religioni diverse (la cattolica, la greco-ortodossa e la musulmana), tre alfabeti diversi (il latino, il cirillico e l’arabo), ma soprattutto tre diverse tradizioni storiche: Croazia e Slovenia erano state fin allora province austriache, e quindi ad alto livello culturale ed economico; le altre, legate per secoli al carro turco, erano arretrate e povere. Sono rimaste insieme finché c’è stato un pugno di ferro (prima quello del re, poi quello di Tito) a imporglielo. Venuto meno il pugno, è venuta meno l’unione”.

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ni egemoniche, rispolverando il sogno o progetto di una ricostruzione della Grande Serbia del XIV secolo, i cui confini si estendevano dall’Epiro all’Albania alla Bosnia. Impaurite dall’ “imperialismo” serbo, Slovenia e Croazia - regioni settentrionali, più sviluppate dal punto di vista industriale - imboccarono la strada della secessione dalle repubbliche del Sud. Il 25 giugno 1991, infatti, le due repubbliche del Nord dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. Mentre la Slovenia era piuttosto omogenea sotto il profilo etnico, cioè ospitava solo una piccola minoranza (quella italiana) entro i propri confini, in Croazia, invece, si trovava (soprattutto nell’enclave della Krajina) una forte minoranza serba, circa il 12% della popolazione, che fu quasi subito oggetto di discriminazione. La comunità serba di Croazia, pertanto, si organizzò (appoggiata e sostenuta dall’esercito della Serbia) in formazioni armate, per ottenere a sua volta l’indipendenza dalla Croazia. A differenza di quanto avvenne in Slovenia, dove l’intervento dell’esercito federale serbo fu breve e blando e si concluse con un bilancio di morti relativamente basso, mentre in Croazia il conflitto seppure relativamente breve, fu sanguinoso e molto duro, con gli orrori della pulizia etnica. In sei mesi (luglio 1991-gennaio 1992) la guerra fra Serbi e Croati causò circa 10 mila vittime, città come Dubrovnik, Mostar e Vukovar furono duramente bombardate, e si concluse con l’occupazione della Krajina da parte dei serbi. Mentre Slovenia e Croazia venivano riconosciute come stati indipendenti e sovrani da molti governi europei, lo sgretolamento della federazione jugoslava proseguiva: nel settembre ’91 la Macedonia si era dichiarata indipendente; nel marzo ’92 anche la BosniaErzegovina, a seguito di un referendum, proclamava la propria autonoLa Jugoslavia nel 1991. Proprio in quell’anno, la Slovenia e mia. Il mese successivo Serbia e la Croazia, proclamarono la propria indipendenza seguite Montenegro si federavano, dando dalla Macedonia. Gli organi federali e i vertici militari accettarono l’indipen- vita a una nuova Repubblica denza slovena e macedone, ma reagirono duramente a quella Federale di Jugoslavia con il govercroata dando inizio alla guerra che, dalla primavera del ’92, no guidato dal Partito socialista si sarebbe estesa alla Bosnia. serbo di Milosevic6. 6

Ricordiamo che nel 2006, a seguito di un referendum, il Montenegro ha proclamato la sua separazione dalla Serbia e la sua indipendenza.

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Bosnia: guerra di tutti contro tutti Come accennato, a partire dalla primavera del 1992 il conflitto si sposta in Bosnia-Erzegovina, in cui si era insediato un governo presieduto dal musulmano nazionalista Alija Izetbegovic (foto a destra). In Bosnia è particolarmente accentuato l’intreccio etnico proprio dello Stato jugoslavo: su una popolazione di circa quattro milioni e mezzo di abitanti, oltre il 40% è di religione musulmana; il 31% è costituita da una comunità serba, di religione ortodossa; la comunità croata, di religione cattolica, rappresenta il 18% della popolazione (composizione etnica foto sotto). Nell’aprile del 1992 (dopo che il referendum del 1° marzo, boicottato dai serbi bosniaci, aveva sancito la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina dalla Jugoslavia) la comunità serba proclamò la Repubblica serba di Bosnia, nella parte di territorio corrispondente all’enclave della Krajina. Subito dopo i serbi di Bosnia, guidati dal loro presidente Radovan Karadzic e attivamente appoggiati dall’esercito federale serbo, iniziarono la guerra contro i musulmani e i croati bosniaci, temporaneamente schierati dalla stessa parte. L’ alleanza tra i due gruppi etnici, però, ben presto si rompe e inizia la guerra di tutti contro tutti. Una guerra che assume aspetti disumani: violenze, stupri di massa, torture, tiri al bersaglio su civili, esecuzioni sommarie, fosse comuni, in un crescendo di efferatezza che richiamava alla mente i peggiori genocidi del passato. Stragi e deportazioni si abbattono soprattutto sui musulmani, ma anche le altre etnie subiscono a turno le più crudeli persecuzioni. I serbi mirano ad attuare la cosiddetta “pulizia etnica” delle zone dove essi sono in maggioranza, scacciandone o sterminandone la minoranze musulmane. Ma questa pratica - occorre dire - è adottata pure dai croati e dai musulmani, ogni qual volta se ne dia la possibilità. In ogni caso, la “pulizia etnica” imponeva alle parti in lotta di distruggere nei territori occupati ogni traccia dell’esistenza del gruppo etnico o religioso avversario3. In altre parole, nella 3

Già il 18 dicembre 1992 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in riferimento alla guerra di Bosnia da poco iniziata, parlava di una “politica esecrabile di pulizia etnica che è una forma di genocidio”.

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lunga guerra di Bosnia (durata 43 mesi e costata oltre 200 mila morti), serbi, croati e musulmani si trovano ad essere tutti e tre al tempo stesso vittima e carnefici. Ad aggravare il quadro, nell’agosto del 1993 la comunità croata proclamava a sua volta, nei territori sotto suo controllo, la Repubblica croata di Bosnia, sotto la guida dell’ultranazionalista Franjo Tudjman (nella foto), che nel giugno ’91 aveva proclamato l’indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia. Genocidio di Srebrenica Nel contesto dei fatti, che per grandi linee abbiamo tratteggiato, si staglia, in particolare, un feroce massacro ai danni della inerme popolazione musulmana di Srebrenica. La città di Srebrenica, situata in una zona montuosa nella parte orientale della BosniaErzegovina (nella cartina), fu teatro di una sanguionosa strage già agli inizi della primavere del 1993. Pare, anzi, che gli eccidi di Srebrenica (18 aprile ’93) abbiamo rappresentato in quel momento - nell’ambito di una guerra alimentata da odi implacabili, più etnici e religiosi che idiologici o politici - il culmine dell’orrore. Non a caso, il 6 maggio 1993 il Consiglio di sicurezza dell’Onu dichiarava Srebrenica “zona protetta”(United Nation Safe Area), assieme alla capitale Sarajevo e ad altre piccole enclavi musulmane della Bosnia: Gorazde, Bihac , Tuzla e Zepa. La demilitarizzazione di tali zone, sotto controllo dell’Onu, fu voluta dalle forze bosniache a tutela e difesa della popolazione civile bosniaca, quasi completamente musulmana, costretta a fuggire dal circostante territorio, ormai occupato dall’esercito serbo-bosniaco. Nella zona protetta di Srebrenica , in particolar , decine di migliaia di profughi vi cercarono rifugio. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, aggiungiamo, con successiva risoluzione aveva dichiarato che gli aiuti umanitari e la difesa delle zone protette sarebbero state da garantire all’occorrenza anche con uso della forza, utilizzando soldati della “Forza di protezione” delle Nazioni Unite, i cosiddetti Caschi blu. Ciò non solo non impedì che anche per tutto il 1994 continuassero le stragi tra le fazioni, in alcune città si consumarono addirittura guerre fratricide tra musulmani di opposta tendenza, ma le stesse due risoluzioni dell’Onu sopra indicate furono siste-

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maticamente violate: a febbraio i serbi bombardarono la piazza del mercato a Sarajevo, provocando 68 morti e circa 200 feriti4; in aprile Gorazde, la piccola enclave musulmana della Bosnia orientale, venne investita da una nuova offensiva serba e a novembre fu la volta della “zona protetta” della sacca di Bihac. In quanto, poi, a garantire gli aiuti umanitari, i serbi ne imposero il blocco per Sarajevo, così come costrinsero l’Unprofor, la “forza di protezione” dell’Onu, ad annullare la visita nella capitale del papa. Per l’Onu il 1994, si può senz’altro dire, fu l’anno della resa: a giugno alzò bandiera bianca e venne sostituita nelle trattative dal “Gruppo di contatto” (Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia). Fu in questo scenario di disfatta della diplomazia e di impotenza dell’Onu, da una parte, e del trionfo, dall’altra, del disegno della formazione di una Grande Serbia (i serbi con la forza si sono già impadroniti del 70% della Bosnia) che a luglio del 1995, dopo un lungo assedio, Radovan Karadzic (foto a destra) presidente dei serbi di Bosnia, ordinò di conquistare l’enclave musulmana di Srebrenica. L’esercito serbobosniaco attaccò la “zona protetta” e il territorio circostante e, dopo un’offensiva durata alcuni giorni, nella notte tra l’11 e il 12 luglio entrò definitivamente a Srebrenica, mentre i caschi blu olandesi si rifugiavano nella vicina base di Potocari. La popolazione, terrorizzata, cercò di trovare una via di fuga: migliaia di persone scapparono per le montagne (foto a sinistra), sperando di far perdere le loro tracce attraverso i boschi5, altre si diressero in massa verso la base olandese, nei pressi dell’isolato villaggio di Potocari, chiedendo protezione.

4 La mattina del 5 febbraio ’94 nel centralissimo mercato all’aperto di Sarajevo un proiettile di mortaio di grosso calibro, sparato dagli assedianti serbi, semina morte tra la folla che si accalca nella stretta piazza in cerca di cibo. Le immagini di decine di cadaveri straziati fanno il giro del mondo suscitando indignazione. Mentre il leader serbo Karadzic si fa beffa delle sue vittime, spiegando in tv come quei corpi altro non sono che “manichini sporchi di vernice rossa”. 5 Molti di loro vengono uccisi dai cecchini serbi che sparano a vista, altri sono tratti in inganno dalle divise dei caschi blu indossate dai miliziani serbi.

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Ma il giorno dopo l’armata serba disarma i caschi blu e prende possesso della base. Davanti alla minaccia e allo spiegamento di forze di Ratko Mladic (nella foto), i soldati olandesi decidono di collaborare a separare la gente del luogo tra vecchi, donne e uomini che, divisi in gruppi di centinaia, vengono trasportati a bordo di camion in zone periferiche e massacrati. Così come a Srebrenica, dove i miliziani di Mladic, penetrati nella città, separano gli uomini dalle donne con la promessa di trasferirli incolumi nella zona musulmana di Tuzla. Quindi trasportano tutti i maschi alla periferia della cittadina dove, a sangue freddo, con ferocia e crudeltà, iniziarono le esecuzioni. Nessuna pietà fu mostrata dalla soldataglia serba né per giovani né per anziani (foto sotto). I miliziani serbi li massacrarono a raffiche di mitraglia gettandoli in decine di fosse comuni scavate in fretta dai bulldozer. Le esecuzioni andarono avanti per sette giorni, dall’11 al 17 luglio, durante i quali furono sterminati circa ottomila musulmani di Bosnia (uomini e ragazzi), sebbene alcune associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime affermino che furono oltre diecimila. I terribili fatti avvenuti a Srebrenica in quei giorni sono considerati tra i più orribili e controversi della storia europea recente e diedero una svolta decisiva al successivo andamento della guerra in 6 Jugoslavia .

6 Ci riferiamo al fatto che quegli eccidi, compiuti dalle truppe di Mladic nei villaggi di Srebrenica nel luglio ’95, costituirono l’episodio che (preceduto, in ordine di tempo, dalla strage alla piazza del mercato a Sarajevo e dalla clamorosa cattura, giugno 1995, di alcune centinaia di caschi blu tenuti come ostaggio dalle milizie serbe) spinse, e fece decidere, la comunità internazionale a mettere in atto l’azione militare delle forze Nato. Fu solo allora, infatti, che il presidente americano Clinton decise l’intervento militare degli Stati Uniti, condotto sotto l’egida della Nato con una serie di bombardamenti contro le posizioni dei Serbo-Bosniaci; un’iniziativa che a ottobre portò a un “cessate il fuoco” e quindi all’accordo di pace di Dayton (Ohio, novembre ’95).

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Il non intervento dell’Onu Abbiamo già accennato, relativamente al 1994, all’impotenza e, più propriamente, alla resa dell’Onu. Quell’anno, infatti, si concluse con le polemiche tra Nazioni Unite e Nato per un possibile ritiro dei caschi blu. In realtà fu l’intero bilancio dell’operato politico e militare dell’Onu ad essere fallimentare. In particolare, durante i fatti di Srebrenica, i caschi blu dell’Onu, le tre compagnie olandesi Dutchbat I, II e III, non intervennero per impedire, o tentare di impedire, la carneficina. Ciò fu da subito motivo di polemiche e di pesanti accuse rivolte ai soldati olandesi, ma soprattutto ai responsabili politici e militari. La posizione ufficiale è che le truppe Onu fossero scarsamente armate e non potessero far fronte da sole alle forze di Mladic. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione tra Srebrenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali, causando ritardi e intoppi nelle decisioni. Quando i serbi si avvicinarono all’enclave di Srebrenica, il comandante olandese, tenente-colonnello Tom Karremans (foto a destra), responsabile per l’enclave di Srebrenica, diede l’allarme e chiese un intervento aereo di supporto il 6 e l’8 luglio 1995, oltre ad altre due volte nel fatidico 11 luglio. Le prime due volte Cees Nicolaï (foto a sinistra), il generale olandese alla guida dei caschi blu Onu a Sarajevo, rifiutò di inoltrare le richieste al generale francese delle truppe Onu, Bernard Janvier, nel quartier generale a Zagabria, perché esse non erano conformi agli accordi sulle richieste di intervento aereo. Non si trattava ancora, infatti, di atti di guerra con battaglie a fuoco. L’11 luglio, quando i carri armati serbi erano penetrati nella città, Nicolai inoltrò la domanda di rinforzi a Bernard Janvier (foto a destra), che inizialmente rifiutò.7 La seconda

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Pare che Janvier, in realtà si sia disinteressato della tutela dei territori delle enclavi, tra cui Srebrenica, e che addirittura ai primi di giugno del 1995 abbia confidato segretamente a Mladic che non avrebbe richiesto l’intervento della Nato contro le milizie serbe.

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richiesta dell’11 luglio fu onorata, ma gli aerei (F-16), che stavano già circolando da ore in attesa dell’ordine di attaccare, avevano nel frattempo ricevuto ordine di tornare alle loro basi in Italia per potersi rifornire di carburante. Alla fine, solo due F-16 olandesi procedettero ad un attacco aereo, praticamente senza alcun effetto. Nel frattempo l’enclave era già caduta e l’attacco aereo fu cancellato per ordine dell’Onu, su richiesta del ministro della difesa olandese Voorhoeve, perché i militari serbi minacciavano di massacrare i caschi blu dell’Onu di Dutchbat. La condanna dell’Onu per il mancato intervento nelle guerre di Jugoslavia e, in particolare, nel massacro di Srebrenica, è stato pressoché unanime da parte di diverse personalità politiche e diplomatiche. Nel 2000 Kofi Annan, allora segretario generale dell’Onu, ammise che “Srebrenica costituisce un’onta perenne per le Nazioni Unite”. Nel 2005, in occasione del 10° anniversario di quel massacro, Richard Holbrooke, il diplomatico americano che negoziò la pace di Dayton, disse che “Srebrenica è il fallimento della Nato, dell’Occidente, delle missioni di pace e delle Nazioni Unite”. Gli fece eco Javier Solana, responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea, che dichiarò: “Le vittime si sono fidate della comunità internazionale. Ma noi le abbiamo abbandonate. Questo è un colossale, collettivo, vergognoso fallimento”. Il ministro degli Esteri inglese Jack Straw sottolineò, invece, che: “Quello che successe è anche colpa della divisione dell’Europa”. In merito a tali polemiche sulle responsabilità per i fatti di Srebrenica esternate l’ 11 luglio 2005 in occasione della commemorazione del massacro (nel corso della quale una grande folla commossa ha ricordato il genocidio dei musulmani bosniaci dando sepoltura ai resti di 600 persone ritrovate in fosse comuni), riportiamo quasi interamente l’intervento di Sergio Romano scritto sul Corriere della sera in rispo-

Il memoriale di Potocari, dove sono sepolte le vittime del genocidio finora riconosciute (foto di Luca Leone)

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sta a un lettore: «Quanto alle responsabilità, ho l’impressione che le commemorazioni degli scorsi giorni abbiano reso semplice e lineare una vicenda molto complicata. Ho riletto le pagine su Srebrenica del libro di Owen (“Balkan Odissey”), apparso a Londra nell’anno stesso del massacro. La colpa delle milizie serbobosniache è evidente, ma gli errori commessi da tutti i maggiori attori internazionali nella fase che precedette la strage formano una matassa maledettamente imbrogliata. Ne ho trovato conferma in un articolo di William Montgomery, pubblicato dall’International Herald Tribune del 12 luglio. Montgomery non è un semplice osservatore. E’ stato rappresentante di Clinton per l’attuazione della pace in Bosnia dal ’96 al ’97, ambasciatore americano in Croazia dal ’98 al 2000 e ambasciatore in Serbia fino al 2004. Nel suo articolo ricorda che Boutros-Ghali, segretario generale dell’Onu, aveva chiesto, per assicurare la protezione di cinque “aree sicure”, 35.000 uomini. Ne ebbe soltanto 4.000. Per Srebrenica, in particolare, aveva chiesto un contingente di 5.000 caschi blu, ma ebbe soltanto 500 uomini dotati di armi leggere. Quando i Serbi cominciarono ad attaccare non esisteva sul terreno una forza capace di resistere. Era stato promesso che vi sarebbe stato, all’occorrenza, un appoggio aereo. Vi furono, secondo Owen, due azioni dall’aria contro i carri armati serbi nel pomeriggio del 11 luglio. Ma i raid vennero interrotti non appena il generale Javier, comandante di Unprofor (la forza dell’Onu), e il governo dell’Aja, preoccupati per la sorte dei soldati olandesi presi in ostaggio, ne chiesero l’interruzione. Secondo Montgomery - continua Sergio Romano - anche le forze musulmane bosniache, in una fase precedente, si erano servite dell’ “area sicura” per lanciare attacchi contro i villaggi serbi8; […] è evidente per Montgomery che vi furono crimini di guerra, uccisioni, maltrattamenti e pulizie etniche. Quegli attacchi, che il battaglione di Unprofor non volle o non potè impedire, furono secondo l’osservatore americano “l’equivalente di un drappo rosso sventolato di fronte a un toro”. […] una grande commissione d’inchiesta - conclude Romano - avrebbe potuto restituirci una verità meno parziale di quella che si è imposta alla pubblica opinione nelle commemorazioni degli scorsi giorni».9

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I fatti qui accennati da S. Romano fanno riferimento alle truppe musulmano bosniache sotto il comando di Naser Oric (foto sopra), alle quali era stato permesso di tenere le armi all’interno della zona protetta, contrariamente alle condizioni stabilite nel patto col quale si conveniva il “cessate il fuoco”. Oric avrebbe approfittato della situazione per condurre attacchi notturni contro villaggi serbi nei dintorni. Il caso più clamoroso fu quello di Kravica, attaccato nella notte del 7 gennaio, il Natale ortodosso. Queste azioni militari prendevano la forma di pulizia etnica e rappresaglie contro i Serbi. Centinaia furono torturati, feriti e brutalmente uccisi durante questi attacchi. Nel 1994 il governo serbo fece istanza all’Onu, fornendo una lista di 371 serbi uccisi nell’area. I media serbi, da allora, hanno riportato numeri molto più alti, fino a 3287. Non è attualmente chiaro quanti di questi fossero civili. 9 Sergio Romano, Srebrenica 1995: pochi imputati, molti responsabili, “ Corriere della sera” , 18 luglio 2005.

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La sentenza dell’Aja: “fu genocidio” Lunedì 26 febbraio 2007 la Corte di giustizia internazionale dell’Aja si è pronunciata sul ricorso della Bosnia contro la Serbia. Confermando la sentenza di primo grado del 2 agosto 2001 ha riconosciuto che il massacro della popolazione civile di Srebrenica, nel luglio ’95, fu genocidio. La Corte ha però precisato e stabilito che quello che avvenne a Srebrenica fu un genocidio ad opera di singole persone e che lo Stato serbo non può essere ritenuto direttamente responsabile per genocidio e complicità per i fatti accaduti nella guerra civile di Bosnia-Erzegovina dal 1992 al 1995, tra i quali rientra la strage di Srebrenica. Il fatto è riconosciuto come genocidio poiché “l’azione commessa a Srebrenica venne condotta con li’intento di distruggere in parte la comunità bosniaco-musulmana della Bosnia e di conseguenza si trattò di atti di genocidio commessi dai serbo bosniaci”. La Serbia, però, precisa la sentenza, non fu responsabile di genocidio perché “non vi sono prove di un ordine inviato esplicitamente da Belgrado” né di complicità perché non vi sono prove che “l’intenzione di commettere atto di genocidio fosse stata portata all’attenzione delle autorità di Belgrado”, anche se viene riconosciuto che Radovan Karad ic (nella foto)10 e Ratko Mladic dipendessero da Belgrado, che forniva assistenza finanziaria e militare ed esercitava un’influenza sul leader politico serbo-bosniaco e sul capo militare. Tuttavia, afferma altresì la sentenza, si può rimproverare la Serbia “di non aver fatto nulla per rispettare i suoi obblighi di prevenire e punire i responsabili” della strage. Insomma, moralmente condannata, la Serbia, nell’impossibilità di accertare “un suo ordine diretto” è politicamente salvata. Una beffa per i familiari delle vittime i quali, in mancanza di un vero colpevole, sanno che nessuno potrà risarcirli né chiedere scusa.

10 Primo dei ricercati nella lista nera del Tribunale penale internazionale dell’Aja, l’ex leader serbobosniaco Karad ic (nato nel 1945) è stato arrestato, dopo 13 anni di latitanza, il 21 luglio 2008. Nella foto l’immagine di Karad ic al momento della cattura. Quando lo hanno arrestato, a Belgrado, si chiamava Dragan David Dabic. Una lunga barba da professore e un’identità di tutto rispetto: specialista in bionergia. Karad ic il 26 ottobre 2009 avrebbe dovuto comparire alla sbarra del suddetto Tribunale con l’accusa di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il processo, però, è stato rinviato ulteriormente a causa della volontà dell’imputato di non presentarsi di fronte ad un Corte che non riconosce.

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Due commenti a margine della sentenza dell’Aja Riportiamo alcuni stralci degli interventi di due commentatori sulla sentenza della Corte di giustizia dell’Aja. Il primo è di Antonio Cassese11, l’altro del giornalista Guido Rampoldi. «Anche se è positivo - scrive Cassese - che per la prima volta un tribunale internazionale si pronunci sulla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio, la sentenza resa dalla Corte internazionale di giustizia su Srebrenica è di quelle che danno un contentino a tutti e lasciano le cose come stanno […] La Corte, dopo aver “assolto” la Serbia dall’illecito principale, dà però qualche contentino alla Bosnia. Afferma che l’eccidio di Srebrenica ha i caratteri del genocidio. Niente di nuovo - osserva Cassese - perché l’aveva già detto più volte il Tribunale per l’ex Jugoslavia12 […] Questa sentenza dà un colpo al cerchio ed uno alla botte. Per farlo, deve avvalersi del formalismo giuridico. Per decidere se Mladic, quando ha pianificato e fatto eseguire il genocidio, agiva di fatto per conto di Belgrado, la Corte ha richiesto che venisse provato che Belgrado gli “inviasse istruzioni” specifiche di commettere quel genocidio. E’ ovvio che quelle istruzioni non verranno mai trovate. Non bastava provare che la leadership militare serbo-bosniaca era pagata e finanziata da Belgrado, nonché legata a filo doppio alla dirigenza politico-militare della Serbia? Un’altra cosa - prosegue Cassese - lascia poi perplessi: si afferma che la Serbia è responsabile di non aver prevenuto il genocidio, perché era al corrente del rischio altissimo di atti di genocidio e non ha fatto nulla per impedirli. Poi però si esclude che Belgrado fosse responsabile di complicità, perché “non è stato provato” che l’intenzione di commettere atti di genocidio a Srebrenica “fosse stata portata all’attenzione delle autorità di Belgrado”. Quest’affermazione è sorpren-

11 Docente di diritto internazionale, Cassese ha maturato una lunga esperienza (in qualità di presidente, sin dalla sua istituzione) al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. 12 Riteniamo utile chiarire che il Tribunale per l’ex Jugoslavia e la Corte di giustizia dell’Onu sono entrambi organismi del diritto internazionale, ma con profili e compiti den diversi. Il primo è un tribunale speciale istituito il 25 maggio 1993, sulla base della risoluzione 872 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; ha sede all’Aja, in Olanda, e ha il compito di perseguire e giudicare quanti, dopo il primo gennaio 1991, si sono macchiati del reato di genocidio, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commesi nelle guerre combattute in Croazia (1991-95), in Bosnia-Erzegovina (1992-95) nonché in Kosovo (1998-99). La Corte internazionale di giustizia è, invece, un organo delle Nazioni Unite, di cui costituisce il massimo organismo giudiziario. Istituito nel 1946 è composto di quindici giudici, eletti dall’Assembla generale, ed ha sede all’Aja. A differenza del Tribunale per l’ex Jugoslavia – che accerta la responsabilità penale di specifici individui – la Corte dell'Onu ha il compito soprattutto di dirimere controversie tra Stati.

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dente […]. Si può pensare che le autorità di Belgrado fossero rimaste all’oscuro, quando la notizia dell’eccidio in corso era su tutti i giornali del mondo? Sembra più plausibile che Milosevic fosse al corrente di quel che avveniva, così come sembra ovvio che l’assistenza militare, finanziaria e politica a Mladic non fosse stata interrotta neanche in quei giorni. E comunque- conclude il giurista - si può essere complici di un illecito anche se chi si limita a non muovere un dito, quando si ha invece il dovere e il potere di bloccare l’illecito, e invece, attraverso l’inazione, si contribuisce in maniera determinante a creare le condizioni perché esso si verifichi”.13 Guido Rampoldi rileva, nella sentenza della Corte dell’Onu, una tesi paradossale: la Serbia non è responsabile né complice del massacro, anche se ha aiutato in ogni modo (con armi, denaro e l’invio di reparti regolari) i massacratori. “Chi cercasse la spiegazione di questo paradosso - scrive Rampolli - non la troverà nelle vicende occorse in Bosnia durante la guerra, quanto nella composizione della Corte internazionale di giustizia. […] I suoi quindici giudici sono nominati dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea delle Nazioni Unite, insomma rappresentano governi che in maggioranza non praticano lo Stato di diritto liberale, oppure, se lo praticano, hanno motivi per temere una giustizia planetaria. Inoltre si può immaginare che in camera di consiglio abbiano pesato anche preoccupazioni estranee alla giurisdizione. Magari sensate. Stampare con lettera di fuoco la parola “ genocida” sullo stemma della Serbia non avrebbe aiutato quella nazione a trovare un suo posto in Europa. Soprattutto, Belgrado avrebbe dovuto pagare per decenni risarcimenti iperbolici al governo bosniaco… Affogata nei debiti, isolata dalla sua colpa, bollata dall’ Onu, condannata la miseria, la Serbia avrebbe ripreso a incubare la sua malattia storica, un vittimismo omicida. […] Qualcuno potrebbe ricavarne- osserva il giornalista di Repubblica- che ancora una volta il più tenace sterminatore del Novecento, che non fu il terrorismo ma lo Stato, l’ha fatta franca. Di sicuro il maggior massacro compiuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale non può essere liquidato come il crimine di una milizia paramilitare. Semmai fu il risultato di un piano spartitorio che Belgrado e Zagabria conducevano alla luce del sole. Ma concorsero tanto l’ignavia dei caschi blu quanto i calcoli di molti europei. Pur potendo impiegare l’aviazione della Nato, l’Onu rifiutò di fermare l’avanzata serba su Srebrenica. Questa passività colpevole forse fu il prezzo pagato ai serbi per la liberazione d’un centinaio di caschi blu presi in ostaggio; certamente si rispacchiava nella volontà dei governi occidentali, cui pare-

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Antonio Cassese, Chi non fermò gli eccidi è comunque colpevole, "la Repubblica", 27 febbraio 2007.

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va che la caduta di Srebrenica avrebbe facilitato la spartizione del territorio bosniaco, dunque la fine della guerra (con la vittoria degli aggressori). Non si può direconclude Rampoldi- che la sentenza di ieri riscatti l’immagine che l’Onu lasciò di sé a Srebrenica”.14 A proposito delle responsabilità dell’Onu, crediamo di poter concludere, forzando probabilmente il punto di vista espresso da Sergio Romano, dicendo che a Srebrenica si è assistito, come alcuni sostengono, al collasso collettivo dell’Onu, degli Usa, dell’Europa, dei caschi blu olandesi, del governo bosniaco e degli stessi difensori musulmano-bosniaci della città. Un fatto appare certo: la rapida caduta di Srebrenica rimane uno dei misteri più controversi della guerra di Bosnia.

Alunni del Liceo classico che hanno partecipato alla ricostruzione storica dei genocidi.

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Guido Rampoldi, Il male casuale, “La Repubblica”, 27 febbraio 2007.

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Alunni delle Scuole Medie “D. Alighieri” e “L. Pirandello” che hanno prodotto riflessioni sui film.

Il gruppo di alunni che ha prodotto riflessioni sui film.

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Il film come testimonianza Valeria Fiscella

In occasione della Giornata della memoria, nell’anno scolastico 2008/2009, il nostro Liceo ha proposto, con il patrocinio del Comune, una serie di film per stimolare una riflessione sui principali genocidi, nella consapevolezza che “coltivare la memoria” sia un atto necessario per sconfiggere l’indifferenza che dalla lontananza spazio-temporale dei vari eventi può scaturire, per far acquisire ai giovani l’etica della responsabilità, per cambiare in meglio la società. Per cercare di avvicinarci il più possibile a questi obiettivi, noi docenti del Liceo “Fratelli Testa” abbiamo puntato non solo su ricerche storiche relative a quattro genocidi (quello degli ebrei, degli armeni, dei bosniaci e dei ruandesi), ma anche sull’analisi critica di film riguardanti proprio quei massacri, nella convinzione che il potere di penetrazione comunicativa e di coinvolgimento emotivo del linguaggio visivo potesse fornire un approccio innovativo alle informazioni, in quanto più aderente alla struttura e alla logica di apprendimento dei giovani, e più adatto a scuotere e segnare le coscienze individuali, mantenendo ugualmente un forte valore educativo in quanto integra al meglio le conoscenze e i saperi acquisiti sui libri ed offre spunti di riflessione e di approfondimento. Il cinema, infatti, è riuscito a descrivere eventi storici, culture e sentimenti sia attraverso il realismo documentario, sia tramite il racconto di finzione, conservando una capacità di sintesi adatta all’educazione e all’insegnamento.

Il cinema insegna in un lampo e può rappresentare un ottimo fattore di documentazione storica. D.W. Griffith

Nel nuovo contesto globale, in cui l’evento bellico determina i destini di molti paesi del mondo, il cinema presenta senz’altro una lettura particolare non solo per

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quanto riguarda le guerre odierne, ma anche per ciò che concerne un passato non ancora elaborato del tutto. Grandi registi, infatti, spinti dal desiderio di immediatezza e di verità, dall’attenzione per la realtà della vita, dall’assenza di rigidi schemi ideologici, hanno raccontato - o meglio rivelato, registrato e documentato - in modo magistrale, realistico, verosimigliante, lontano da ogni mistificazione, calligrafismo e artificio, i vari genocidi offrendo una chiave di lettura per questi incomprensibili eventi e portando sul grande schermo i momenti difficili di tanti popoli duramente provati dalla crudeltà degli oppressori. Ma difficilmente i giovani si accostano spontaneamente a film di questo genere, che raccontano le sofferenze dei popoli costretti a sfollare, a sfuggire alla morte; pertanto un cineforum su questa tematica è stato un’occasione per analizzare diverse realtà geopolitiche del mondo attuale e per comprendere come il genocidio da evento straordinario sia diventato per molta gente quasi elemento quotidiano della vita. I film scelti da noi, perché ritenuti più rappresentativi, sono stati: Il diario di Anna Frank, Jona che visse nella balena, Hotel Rwanda e La masseria delle allodole. Le prime due proiezioni sono state riservate ai ragazzi delle scuole medie e dei bienni, mentre tutte e quattro le proiezioni sono state proposte ai giovani dei trienni; tutte sono state precedute da interventi delle professoresse Fiscella Valeria, Li Volsi Maria Luisa e Fiore Vilma, che hanno spiegato sinteticamente ai ragazzi le finalità dei film in visione e il perché di quelle scelte. I giovani liceali che hanno aderito al progetto hanno svolto un’analisi critica delle opere visionate, preparato schede tecniche di approfondimento per guidare le discussioni e coinvolgere in incontri-dibattito gli spettatori. Dopo ogni film sono stati somministrati ai ragazzi dei questionari per stimolarne la percezione emotiva e la riflessione. E così dall’impressione emotiva, che ha permesso durante la proiezione di cogliere la relazione tra le immagini e il vissuto, si è passati ad una discussione critica sui contenuti esistenziali, sociali, politici e all’analisi del linguaggio usato dal regista. I giovani spettatori sono stati, poi, sollecitati a produrre un elaborato personale in varie forme di espressione: dalla recensione all’intervista, dalla poesia al saggio e al disegno. L’aver organizzato un Cineforum - esteso, di mattina, agli alunni del nostro Liceo e dei due Istituti Comprensivi “Dante Alighieri” e “Luigi Pirandello” e, di pomeriggio, ai genitori degli allievi e al pubblico - è stato un modo nuovo per andare oltre la contingenza della commemorazione stessa e per fare conoscere questi agghiaccianti pezzi di storia ad un pubblico più ampio possibile. Agli spettatori è stata data la possibilità di “leggere” più testi visivi, di paragonare i massacri, di mettere in relazione gli eventi, cercando di capire che cosa potesse portare a un genocidio, di criticare, di partecipare, di esprimersi. I film scelti sono stati senz’altro occasione di reazione emotiva, in quanto sono riusciti a trasmettere messaggi e significati che hanno coinvolto gli studenti in

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maniera totale, favorendo l’identificazione e costringendo a reagire. Hanno, inoltre, suscitato in tutti una riflessione profonda ed hanno condotto gli spettatori a comprendere le condizioni di vita difficili, le sofferenze e i sacrifici di tanta gente che è stata ed è ancora così lontana dalla libertà e dal benessere. Sappiamo bene che non è facile coniugare il pathos dei momenti in cui condividiamo la sofferenza altrui con l’ethos, perché l’etica va costruita con un paziente lavoro di educazione e formazione delle coscienze individuali, all’interno delle quali devono sedimentare a poco a poco i valori. Tuttavia noi abbiamo cercato di aprire spazi di riflessione, mettendo i giovani in grado di fare delle comparazioni con altri avvenimenti, di individuare nuove ingiustizie e strani legami tra le persecuzioni passate e i nuovi meccanismi dell’intolleranza, di aprire gli occhi sulla condizione umana, di stimolare anche la loro sensibilità sulla lezione che queste memorie impartiscono ad un presente ancora gravido di violenza, pregiudizio e discriminazione nei confronti della diversità, della differenza, dei più deboli. Ad attestare, comunque, la partecipazione affettiva, la condivisione di sentimenti, l’identificazione con i protagonisti dei film da parte di tutti gli spettatori, sono le riflessioni, le recensioni, le interviste, le poesie, i commenti, i disegni che hanno, per così dire, “fotografato” momenti drammatici e unici e che abbiamo voluto conservare in questo quaderno.

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Il diario di Anna Frank Titolo originale: The Diary of Anna Frank Soggetto: Dal libro Anne Frank, The Diary of Young Girl Sceneggiatura: Francis Goodrich, Albert Hackett (dal loro testo teatrale) Fotografia: William C. Mellor (bianco/nero) Interpreti: Millie Perkins (Anna Frank), Joseph Schildkraut (Otto Frank), Shelley Winters (Petronella Van Daan), Richard Beymer (Peter Van Daan), Gusti Huber (Edith Frank), Lou Jacobi (sig. Van Daane), Diane Baker(Margot Frank), Ed Wynn(sig. Dussel) Produzione: George Stevens per Twentieth Century Fox Durata: 146’ Origine: USA, 1959 Trama Amsterdam, 1948: Otto Frank, un ebreo sopravvissuto (unico della sua famiglia) al campo di concentramento nazista in cui era internato, ritorna nella città olandese. Arrivato nella soffitta, dove pochi anni prima si era nascosto insieme alle figlie Anna e Margot, alla moglie Edith, ai coniugi van Daan con il loro figlio Peter ed al dottor Dussel (anch’essi di confessione ebraica), per sfuggire alla deportazione e trovare scampo all’arresto delle SS, ritrova il diario che egli aveva regalato ad Anna nel giorno del suo compleanno e sul quale la ragazza aveva scritto ogni suo pensiero. Mentre lo sfoglia, i ricordi di quel periodo si riaffacciano alla sua mente. Alle prime seguenze riguardanti il giorno in cui le due famiglie fuggiasche avevano preso possesso dell’alloggio clandestino, seguono quelle relative ai due anni vissuti fra terrore, stenti, speranze, rallegrati solo dalle visite quotidiane di due amici che li avevano nascosti fino alla sequenza finale in cui le SS fanno irruzione nel nascondiglio sfondando la porta e deportando tutti gli inquilini della soffitta nei lager nazisti, dove tutti, tranne Otto Frank, troveranno la morte.

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Commento Il diario di Anna Frank è un film che rappresenta una delle più importanti testimonianze delle atrocità subite per mano dei nazisti dagli ebrei, nel disperato tentativo di sfuggire alle pesanti leggi naziste, basate su deliranti pretese di superiorità razziale. Ecco perché Anna, una ragazzina perseguitata e deportata in un campo di concentramento nazista, è diventata il simbolo di tutti i perseguitati, i vinti, gli esclusi della Shoah. Il film costituisce una testimonianza delle privazioni, delle umiliazioni, delle sofferenze, dei patimenti che gli Ebrei dovettero subire a causa dell’odio razzista della Germania hitleriana. Tra le quattro mura dell’appartamento in cui rimane reclusa, Anna - una ragazza dolce, intelligente, innocente e piena di vitalità che ha dovuto sospendere gli studi (così come la sorella maggiore Margot e il giovane Peter) - scrive, con considerevole talento, ogni giorno la cronaca di quella prigionia. Attingendo a piene mani dal diario della ragazza, il regista ha saputo ricreare la meravigliosa spontaneità di questa adolescente con i suoi difetti, la sua vanità, le sue piccole manie, il suo carattere scontroso, le sue paure causate dal vivere in clandestinità, i suoi sogni, le sue aspirazioni, gli entusiasmi, i sentimenti per Peter, le incomprensioni con la madre, il difficile rapporto con la sorella, il suo desiderio di vivere una vita normale. Emerge il carattere di questa tredicenne, costret59


ta a confrontarsi ogni giorno con persone di età differente che la conduce a piccoli grandi conflitti con gli altri coinquilini (i litigi per l’utilizzo degli spazi comuni con il dottor Dussell, l’incidente della pelliccia macchiata della signora Van Daan), a condividere timori e fobie di un’imminente fine, a mano a mano che il tempo trascorre e si allontana l’ipotesi di una liberazione, a dividere la propria intimità con altre sette persone in un luogo di pochi metri quadrati. Lo spettatore percepisce chiaramente che la crescita di Anna è frustrata, priva com’è di una possibilità legittima e coerente di sviluppo: la sua amica del cuore (è il dottor Dussell a comunicarlo) è stata deportata, l’affetto della famiglia è suscettibile di trasformarsi in apprensione, data la scarsa disponibilità di superfici in cui far emergere la propria individualità. Ma, lentamente, quasi insensibilmente, in quelle lunghe giornate monotone e apparentemente senza storia, mentre gli adulti sono tutti presi dai loro piccoli interessi, dalle loro meschine beghe, Anna comincia a capire. Cessa di essere una bambina per divenire una donna in tutti i sensi. Non solo nel senso fisiologico del termine - anche se questo “trapasso” è determinante e davvero stupende sono le scene in cui mette in luce la sua trepidazione di fronte al fatto nuovo e sconvolgente - ma anche e soprattutto nel significato ben più decisivo di una sua presa di coscienza. La sua intelligenza senza dubbio eccezionale e la sua anima straordinariamente sensibile, messe di fronte alla crudele spaventosa tragedia della realtà, reagiscono nel modo migliore. Grazie alla sua capacità di sognare Anna riesce a sconfinare oltre la disagevole soffitta, oltre il lucernario infranto dai bombardamenti alleati, in mezzo a quelle nuvole candide che può solo osservare da un nascondiglio e non apprezzare nella pienezza delle sensazioni e delle emozioni. E così anche l’amore sbocciato per Peter - dopo due anni di coabitazione forza-

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ta - assume i connotati dell’ultimo momento illusorio prima della tragica fine, dell’esperienza necessaria per completare la propria sensibile formazione prima di dire addio definitivamente alla vita. Decisa a non lasciarsi sopraffare, a combattere una sua battaglia, fiduciosa nella sostanziale bontà degli uomini, la ragazza pensa con fermezza al suo avvenire ed esprime il desiderio di inserirsi validamente nella società come scrittrice e di far udire la propria voce. Tuttavia, se nel romanzo questa presa di coscienza è esplicita, nel film è relegata in secondo piano, mentre prendono rilievo le macchiette che compongono il singolare gruppo che popola l’appartamento clandestino. Per dare il senso del terribile dramma umano che quella piccola comunità vive nella continua alternativa tra interrogativi e riflessioni, tra terrore e speranza, il regista si avvale della “suspense”, come si nota nella scena in cui, mentre un ladro sta muovendosi furtivamente negli uffici sottostanti e gli inquilini della soffitta cercano di evitare qualsiasi rumore, il gatto fa cadere un imbuto. Il film sa dare molte emozioni, e pur essendo privo di scene di violenza, risulta straziante, perché lo spettatore percepisce che l’ infanzia di Anna è stata piegata dall’odio razzista della Germania hitleriana e avverte la tragedia che sta per spezzare la vita di Anna. Non basta a rassicurarlo il rintanarsi illusorio di Anna nella speranza che l’odio termini e che gli alleati americani giungano nel cuore dell’Europa prima che in quella angusta soffitta arrivino i nazisti. E quella sensazione si trasforma in realtà nel momento in cui la Grüne Polizei, in seguito ad una soffiata di un informatore, irrompe nell’alloggio segreto dove trovano gli ebrei pronti a seguirli: non c’è più spavento nei loro occhi, ma solo la speranza di poter sopravvivere.

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Riflessioni sul film Il diario di Anna Frank Mi sono rivista nella protagonista del film, perché anch’io, come lei, alterno momenti di gioia e di tristezza, tipici della età adolescenziale, ma, vivendo in un clima assolutamente diverso, che mi consente di vivere le tappe fondamentali della mia età con serenità e piacevolezza, ho apprezzato di più la mia condizione di creatura libera… A causa dell’angoscia, della tristezza, dell’incertezza, della paura di cadere da un momento all’altro nelle mani dei Tedeschi, Anna viene privata delle emozioni più belle dell’età adolescenziale, non può viverle fino in fondo e con assoluta serenità, è costretta a stare nascosta e segregata in locali piccolissimi, scomodi e molto freddi, ad affrontare discussioni sul cibo, sull’uso del bagno, a provare noia e tutte quelle insofferenze che insorgono tra persone costrette a vivere troppo vicine, senza mai allontanarsi dal nascondiglio per trascorrere qualche ora con gli amici, senza mai frequentare luoghi e locali pubblici, senza mai fare una spensierata passeggiata per le vie della città o partecipare ad una festa o godere del successo scolastico. È triste pensare che una ragazzina come me non abbia potuto vivere appieno la vita che le spettava di diritto, solo perché di razza diversa rispetto a quella tedesca, ma è confortante pensare che il razzismo della Germania hitleriana, nonostante abbia costretto una giovane ragazza a rinunciare ad una fondamentale tappa della sua vita, a diventare adulta prima del tempo, non sia riuscito a spezzare la gioia di vivere della protagonista, a piegarla. Anna, infatti, è una ragazza che ama molto leggere e sognare, che è fornita di un’intelligenza penetrante e precoce, di un occhio critico a cui non sfugge nulla (nemmeno se stessa), ha il dono dell’ironia e la facoltà di raccontare le cose nella loro sostanza, in modo straordinariamente efficace, e che in assenza di libertà, riesce a trovare una compensazione nelle pagine del suo amato diario, in cui racconta le sue gioie, i suoi dolori, i suoi dissapori, le sue speranze… senza smettere mai di avere fiducia negli uomini. Una fiducia condivisibile, se si considera che questo sentimento costituisce per Anna la forza per poter andare avanti, per alimentare la speranza di riuscire a salvarsi, e se si pensa al fatto che non si può colpevolizzare tutto il genere umano a causa di un solo popolo, quello tedesco, che si è reso responsabile di persecuzioni, atrocità e orrori nei confronti degli Ebrei. Sabrina Beritelli (I B Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Il Giorno della Memoria, per noi ragazzi, è un’occasione grazie alla quale possiamo conoscere ciò che è capitato agli ebrei e riflettere sugli errori e sugli orrori compiuti nel passato, per non dimenticarli e per non ripeterli. La persecuzione razziale (di cui una vittima è stata Anna Frank) e l’eliminazio-

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ne fisica di masse umane sono state frutto di menti distorte, di una cultura malvagia che ha fatto, della distruzione, una bandiera e un obiettivo da raggiungere. Devastare, eliminare, distruggere sono l’inverso esatto di ciò che l’uomo dovrebbe fare. Eppure non siamo stati creati per viver come “bruti”, ma “per seguir vertute e canoscenza”. Non diamo voce alla bestia che si annida subdola nell’animo umano! Lottiamo piuttosto, perché si possa vivere in un mondo più umano e più retto possibile. Clorinda Cacciato (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”) *** Un verso di una canzone di Fabrizio De Andrè recita “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” che, pur riferito ad un contesto diverso, può adattarsi alle testimonianze di Anna Frank o di Louise Jacobson conservate l’ una nel suo diario e l’altra nelle sue lettere, in quanto, oltre a darci uno spaccato reale della vita dei perseguitati di quel triste periodo, trasmettono sentimenti e speranze di due adolescenti fiduciose che nel mondo possa ancora esistere un’umanità pronta a reagire al male. Le loro opere “fiori nati dal letame” alimentano una debole fiammella che altri, confidando solo nella forza e nella brutalità, cercano di spegnere. Alain Calò ( III C Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Ciò che mi ha colpito nel vedere il film “Il Diario di Anna Frank” è stato il fatto che la ragazza, pur cosciente di quello che le stava accadendo, ha cercato di crearsi una vita “normale” all’interno del nascondiglio, mitigando così la dura realtà che era costretta a vivere. E’ stato sorprendente costatare come una ragazzina, alla quale avevano tolto tutte le gioie della vita di un’adolescente, pur stando per due anni in una soffitta senza poter respirare aria fresca e limitandosi di tanto in tanto a guardare di nascosto dalla finestra la desolazione causata dalla guerra, sia riuscita lo stesso a sorridere, ad amare, a sognare, ad affidare le proprie confidenze ad un diario. Molte ragazze della mia età, anche oggi, ricorrono ad un diario per descrivere le loro avventure e tutto quello che sentono dentro: gioie, speranze, paure, dubbi…ma nel diario della protagonista c’è molto di più. Un abissale divario separa le nostre esperienze e le tristi vicissitudini di Anna, costretta ad abbandonare la scuola, gli amici, il vivere “agiato”, a sacrificare la sua gioventù fra gli stenti e le paure e ad essere, infine, privata del naturale bisogno di poter godere della presenza dei propri genitori e delle persone che amava. Chissà come si sarà sentita quella povera ragazza, quando, deportata nel campo di concentramento, fu strappata dalle braccia dei genitori e da Peter sapendo che non li avrebbe mai più rivisti! E ciò che più mi fa rabbia è il fatto che mancava pochissimo alla

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fine della guerra. Bastavano, infatti, solo alcuni giorni perché Anna fosse definitivamente libera. Patrizia Campione ( I A Liceo Classico “F.lli Testa” ) *** Anna, poco prima della scoperta del rifugio, scrive sul suo diario: “ É un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze…Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”. Non sa che proprio alcuni uomini le faranno perdere ogni speranza, ogni ricordo, ogni progetto per il futuro, e la stessa vita. Io non riesco a condividere questo pensiero: le menti folli e cattive esistono e non ci si può aspettare che, da un momento all’altro, da lupi diventeranno agnelli; non si possono e non si devono dimenticare le atrocità e il male che l’uomo è capace di fare. Rispetto la vitalità e la positività di Anna, ma, a differenza sua, guardo le cose con occhi più critici e realistici. L’uomo può essere una creatura intelligente, dotata di ragione, l’essere più perfetto di tutti, ma il male di cui è capace è anche il più doloroso di tutti. Il perdono è senz’altro un atto generoso, ma come si può perdonare uno scempio del genere? Come definire “uomini” proprio quelli che hanno commesso crimini contro l’intera umanità? Nicoletta Candurra (I A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Anche un film, come Il Diario di Anna Frank - testimonianza e simbolo dell’orrore nazista - serve a non dimenticare, a non rimuovere con troppa fretta il passato, ad acquisire quella sottile consapevolezza che ci consente di non ripetere gli errori di chi ci ha preceduto. D’altronde, visto che apparteniamo tutti alla stessa razza umana, sarebbe così difficile aiutarci l’un l’altro, invece di odiarci e cercare di sopraffarci, spinti solo dalla sete di denaro e di potere? Anna Catania (IV B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”) *** Il messaggio che il film veicola è, credo, l’eccezionale spirito di sopravvivenza di Anna, la più giovane tra i partecipanti a questo squallido gioco di vita o di morte, che ha trovato il modo di reagire, senza abbandonarsi alla noiosa monotonia di quella vita claustrofobica e senza mai smettere di sperare. Infatti, dopo aver visto il film mi sono detta: “Io al suo posto non ce l’avrei mai fatto a vivere così, con la paura di essere scoperta o con il pensiero che ogni giorno sarebbe sempre potuto essere l’ultimo. Come avrei potuto trovare il coraggio di dimenticare i momenti di terrore, quando con occhi sgranati e pieni di angoscia,

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afferravo le mani del compagno vicino per trasmettere comprensione o finta tranquillità?” Eppure questo pensiero sfuggiva alla protagonista che, invece, riusciva sempre a ritrovare il coraggio dettato dall’immensa voglia di vivere e di ricostruire una nuova vita. Purtroppo noi giovani non riusciremo mai, per nostra colpa o per semplice e incondizionata realtà dei fatti, a identificare pienamente il nostro pensiero con quello di Anna. Per ogni ragazzo risulta difficile trascorrere anche un solo giorno chiuso in casa, calcolando ogni movimento, calibrando il timbro della voce, non potendo beneficiare delle fonti primarie di sostentamento, quali cibi, vestiti o altro e ridurre all’indispensabile o al nulla ogni sorta di diritto. Sarebbe “impossibile” condurre una vita come quella condotta dalla protagonista, soprattutto oggi che non si fa altro che crogiolarsi nei vizi e negli sfizi derivati dalla sfrenata opulenza e dall’eccessiva mancanza di autocontrollo di ciascun individuo. Dovremmo metterci più spesso nei panni di Anna Frank, per comprendere che si impara ad apprezzare la vita solo quando ci si rende conto che tutto è relativo alle circostanze, tutto è fugace, tutto è precario. E allora sì che capiremmo cosa vuol dire vivere, sopra ogni cosa, vivere godendo di ogni singolo attimo, vivere trovando forza in un minimo respiro, vivere ringraziando Dio del grande, fantastico, sublime e pur sempre sottovalutato dono della vita. Solo così, dunque, un po’ tutti capiremmo cosa significhi vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, senza mai perdere la speranza del cambiamento, la fiducia nel fratello e la bellezza di perdersi nei sogni per alleviare le sofferenze che ci riserva un fato incomprensibile, ma pur sempre ineluttabile. Irene Conticello (IA Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Io penso che la tragedia di Anna debba essere conosciuta non solo perché ci dà una testimonianza del periodo nazista, ma anche perché, grazie al suo diario, possiamo immedesimarci nella condizione di una ragazza come noi che, privata di una vita normale, piacevole e comoda, è costretta a vivere per due anni nascosta in una soffitta per sfuggire alla cattura dei nazisti, dovendosi accontentare di un semplice diario per fermare i pochi ricordi del passato e tutti i suoi pensieri, problemi, desideri e sogni. Comprendiamo bene che la sua crescita è stata frustrata e ci stupisce il suo considerare la drammatica esperienza addirittura una fortuna perché, grazie ad essa, è riuscita a maturare e a diventare più saggia. Le frasi pronunciate da Anna dovrebbero portarci a credere che la sua infanzia non è stata spezzata, ma io, ripensando al film, faccio fatica a ricordare scene dove lei sia del tutto felice, mentre ricordo meglio quelle scene dove lei si sente soffocata dalla mancanza di libertà, dalla monotonia dei discorsi noiosi degli adulti, dalle incomprensioni con la madre, dalla paura. Non a caso le scene che ricordo meglio sono due: la prima è quella in cui

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Anna e gli altri inquilini del nascondiglio, sentendo rumore e capendo che sotto di loro c’è qualcuno, credono che siano le guardie che li hanno scoperti e stanno in ansia fino al giorno successivo finché non ricevono dai loro benefattori la notizia che si era trattato solo di un ladro. Di questa scena mi sono rimasti impressi gli occhi atterriti di tutti che, chini sul pavimento per ascoltare, si guardano l’uno con l’altro per darsi sicurezza. L’altra scena è quella in cui Anna e gli altri, ormai scoperti e costretti a lasciare il loro nascondiglio, raccattano le loro cose guardandosi sgomenti. A conclusione del film mi sono chiesta come mi sarei sentita se avessi dovuto vivere come una carcerata, anzi peggio, e se poi, dopo tante privazioni all’improvviso qualcuno mi avesse costretto a salire su un treno e a dimenticare di aver vissuto, diventando così un numero tra milioni di numeri. Di certo so che non avrei avuto mai la forza di Anna, ma sarei stata subito assalita da ansia, paura, angoscia, non sarei mai riuscita a confidarmi con nessuno, neanche con un diario ma, soprattutto, non avrei avuto, al contrario di Anna, fiducia negli uomini e capacità di perdonare. Nadia Corallo (III B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”) *** Il diario è stato per Anna “un gran sostegno”, per noi è una testimonianza e un simbolo dell’orrore, ma soprattutto è un invito ad adoperarci affinché tali soprusi, umiliazioni e violenze non si verifichino mai più… Forte è l’impatto psicologico che scaturisce dal testo che fa sì che ogni persona, condizionata dall’esistenza della «testimonianza» resaci da Anna Frank, accetti la verità dell’olocausto come un dato di fatto e soprattutto sia consapevole dei momenti più tragici della storia dell’umanità, evitando di ricadere nello stesso ineguagliabile errore. Conoscere la storia è un modo per diventare più coscienti della propria esistenza, per dare un senso alla vita e per contribuire a costruire un mondo migliore, dove regni l’amore, la solidarietà, l’uguaglianza e la pace. Ilaria D’Amico (I B Liceo classico “F.lli Testa”) *** Quante emozioni ho provato durante la proiezione di questo film! Mentre tutti stavano con le orecchie tese, incollati alla radio che dava annunci rassicuranti, ho sperato, insieme ad Anna, che tutto finisse presto, che lei potesse tornare a sorridere e ad uscire per la città in assoluta libertà, che potesse trascorrere, insomma, la normale vita di tutti i giorni... Quando tutti gli inquilini della soffitta distesi a terra s’imponevano vicendevolmente con gli sguardi di non fiatare, mentre un ladro si muoveva al piano di sotto, ho tremato di paura; mi sono sentita confortata nel vedere membri della famiglia ospitante che portavano ai rifugiati cibo e notizie; ho gioito con Anna mentre festeggiava il Natale; ho inseguito con commozione i suoi sogni,

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condiviso le confidenze fatte a Peter ed ho avvertito un colpo al cuore quando i soldati tedeschi hanno sfondato la porta… E per la prima volta mi sono sentita infinitamente fortunata nel rendermi conto, a conclusione del film, che la guerra e le persecuzioni sono lontane dal mio vissuto di ragazza del duemilanove, libera di uscire, di divertirmi con gli amici, di andare a scuola, di vivere una vita agiata e serena. Maria Pina Di Narda (I A Liceo classico “F.lli Testa”) *** È disumano non prestare attenzione a questo avvenimento vissuto da un’adolescente, così come da altri milioni di persone. Forse noi giovani non riusciamo a cogliere l’importanza di quanto è accaduto, perchè poniamo nel passato quell’evento, senza considerare che si tratta, invece, di una realtà che continua a ripresentarsi nel nostro tempo. Ma proviamo ad immaginare di vivere una vita da rifugiati per due anni, di essere scoperti dalla polizia, di essere strappati dal proprio presente, dalle proprie abitudini, di dimenticare di aver vissuto per diventare un numero, nonostante non si sia commessa alcuna colpa, di non contare più niente. Ci accorgeremo che è davvero impensabile dover perdere la propria identità… Loredana Di Pasquale (II B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”) *** Anna, pur apparendo ottimista e piena di vita e non dimostrando la sua angoscia e tristezza, in effetti incosciamente ha introiettato le ansie e le paure determinate dalla realtà che la circondava, tanto è vero che esse riemergono nel sogno. Una notte, infatti, Anna è preda di un incubo che la sconvolge a tal punto da indurla ad urlare. Quello che mi ha colpito è stata la reazione dei familiari e degli altri inquilini della soffitta, i quali appaiono meno solleciti nel tranquillizzarla e consolarla e più preoccupati che il suo urlo, udito dai vicini o dalle pattuglie di polizia, potesse mettere a repentaglio la loro sicurezza. Ilenia Faro (IV B Liceo S.P.P. “F.lli Testa”) *** Se ripenso al film che ho visto a scuola, proprio sulla storia di Anna Frank, mi prende una specie di magone e ammetto che non so bene come trattare questo argomento, un evento così terribile, lontano da me e dalla mia vita. In realtà, penso che, alla fine, il punto sia solo uno: c’è, da parte mia, l’impossibilità di credere che l’umanità possa avere degli “angoli” così malvagi. E non sto parlando solo dei Tedeschi - o, meglio, dei nazisti - ma dell’umanità nella sua figurazione più ampia. Io posso anche capire che ci possa essere una mentalità in base alla quale si ritiene la propria cultura superiore alle altre, però, qualunque siano le motivazioni, mi risul-

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ta molto difficile comprendere che ci siano persone pronte a sterminarne altre. Suppongo che i militari al servizio di Hitler fossero convinti dell’ideologia che quest’uomo folle stava pubblicizzando, ma, anche accettando ciò, non capisco come, davanti ad una madre, ad una nonna, ad un bambino, a un semplice uomo, potessero, con sangue freddo, premere un grilletto. Ecco quale è stato uno dei grandi orrori dei nazisti: hanno ucciso metà dei deportati e hanno lasciato che l’altra metà, che è riuscita a rimanere in vita, provasse costantemente una sensazione di morte. Mi sorprende che ora ci sia gente che vada a dire che l’olocausto è stata solo una finzione... Ma come ragioniamo? Come possono dire che una simile catastrofe, che ha causato un genocidio di tali dimensioni, che ha lasciato tanti sopravvissuti con sull’avambraccio numeri che suonano come una condanna a morte, siano solo frutto di una finzione? È già orribile parlare di persone come se fossero dei numeri. Se ancora ripenso a questo film provo tanta rabbia e disprezzo per coloro che, senza un briciolo di cuore, hanno privato una ragazzina della propria adolescenza, facendole vivere una traumatica esperienza di clausura e terrore proprio negli anni più importanti e belli dell’esistenza di ciascuno, e che per lei, invece, furono gli ultimi. Purtroppo niente ci assicura che un simile orrore non possa ricapitare ancora .... E se ricapitasse? Il mondo sarebbe così stupido da ripetere lo stesso errore due volte? Penso proprio di sì, anche se spero davvero, con tutto il cuore, che ci possa essere ancora uno spiraglio di bene su questa terra. Virginia Fascetta (I A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Sono rimasto colpito da una riflessione di Anna Frank: “Il mondo va alla rovescia, le persone rispettabili sono spedite in campi di concentramento, in prigione e in celle isolate, mentre i peggiori governano su ricchi e poveri, giovani e vecchi”. Come possono poche persone decidere del destino di tanti altri uomini, che hanno come unica colpa quella di appartenere ad un’altra razza? Pochi decidono, molti subiscono; ma purtroppo a decidere sono spesso i peggiori, spinti, nelle loro determinazioni, dal senso di onnipotenza, dalla sete di dominio. Non sappiamo cosa ci attende domani. Spero solo che il mondo possa andare avanti nella giusta direzione e non ancora “alla rovescia”. Loris Grasso (III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello) *** Molte sono le scene alle quali lo spettatore si accosta con commossa partecipazione, riuscendo quasi a provare la stessa trepidazione che prova la piccola Frank nell’abbandonarsi alle emozioni con compostezza e senza mai cadere in sentimentalismi. Basti pensare alla scena dell’incontro con Peter, figlio della coppia dei Van

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Daan, che le permette di vivere l’emozione del primo bacio. Quale, se non questa scena, trasmette una nota di struggente tristezza nella consapevolezza che un drammatico destino attende i due giovani? Essa, però, è come uno squarcio di luce in una realtà dai toni drammatici nella quale la suspence gioca un ruolo importante e diventa quasi ineliminabile nella quotidianità. Molteplici sono, infatti, le scene in cui lo spettatore resta con il fiato sospeso e il cuore galoppante in gola, sentendosi emotivamente vicino agli avvenimenti che turbano gli animi dei protagonisti, mettendoli spesso in gioco contro un nemico che riesce ad essere il più tiranno degli avversari: il destino. Particolarmente frustranti ed intense sono le scene delle incursioni delle S.S. e di tutti gli stratagemmi a cui i protagonisti devono pensare per superare prove in cui è in gioco la loro stessa vita. Si ritrovano così a contenere ogni minimo movimento, a ridurre ad un lieve sibilo ogni singolo respiro, a cercare di frenare anche il battito cardiaco per evitare errori e non mettere a repentaglio se stessi e la sicurezza altrui. Lo spettatore che assiste a simili scene arriva addirittura ad immedesimarsi nei personaggi e ad ammirare la loro prudente determinazione e la loro voglia di farcela, la loro speranza di continuare a rivestire un ruolo nella società. Ma la fortuna gioca loro un brutto e definitivo scherzo. Scoperti durante un’incursione inaspettata delle SS, sono costretti a salire su un treno, augurandosi solo di aver salva la vita, rimpiangendo quegli anni di carcere forzato che perlomeno permetteva loro di continuare a sperare e, anche se in maniera del tutto inusuale, a vivere. Grazia Li Volsi (I A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Personaggi del film sono otto fuggiaschi, murati vivi in una soffitta e costretti a vivere in un alloggio segreto in pochissimi metri quadrati. Nel corso di questa “clausura” forzata, li vediamo litigare, pregare, imprecare, tremare ai bombardamenti, trasalire ad ogni minimo rumore, sperare e angosciarsi, ma, soprattutto, veniamo captati dalla vivacità, dall’allegria, dall’ironia e dall’ottimismo di Anna, una ragazza più adulta della sua età. Si percepisce che in lei convivono un’esuberante, allegra tendenza a prendere tutto alla leggera ed una sensibilità delicata, profonda, che mostra solo a Kitty, il diario in cui racconta le proprie esperienze quotidiane e a cui confida le sue gioie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi sentimenti, l’amore per Peter, le incomprensioni con la madre, il rapporto conflittuale con la sorella maggiore Margot. Intenso è stato il mio coinvolgimento nel corso di tutto il film, ma forte l’emozione nel vedere spezzati i sogni di Anna nel momento in cui gli agenti della Grüne Polizei hanno fatto irruzione nell’alloggio segreto e tutti sono stati deportati nei campi di concentramento di Auschwitz e di Bergen-Belsen, dove sappiamo (sin dall’inizio del film) che Anna è morta.

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Il film mi ha portato a riflettere sulla crudeltà di un uomo che, arrogandosi il diritto di scegliere cosa sarà della vita di altri esseri umani, in nome di una presunta superiorità della razza ariana, ha privato della libertà, della dignità, dei progetti, della vita stessa, altri esseri umani del tutto simili a lui. Marta Lo Gioco (I A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Penso che la storia raccontata nel film “Il diario di Anna Frank” debba essere conosciuta da tutti per interrogarsi sul vero senso della vita, per capire quanto noi siamo fortunati a vivere in questo mondo che, se pure imperfetto, ci permette la tranquillità, l’agiatezza, ma, soprattutto, la libertà di cui Anna era stata privata. Quel mondo disumano ha spezzato la vita di una ragazza dolce, intelligente, innocente e colma di spirito vivo, l’ha costretta a nascondersi, a vivere nell’oscurità. Ma Anna, nonostante tutto, ha saputo affrontare la vita nel migliore dei modi, riuscendo sempre a sdrammatizzare le situazioni opprimenti che laceravano il suo cuore, a trovare la forza di credere nella fondamentale bontà degli uomini. È veramente ammirevole come una ragazza che abbia subìto tali limitazioni e atrocità non riesca a provare odio contro coloro che le hanno spezzato la vita. La piccola Anna è davvero una ragazzina da prendere come esempio, mi è entrata nel cuore e non solo mi ha dato la possibilità di riflettere su come avrei reagito se mi fossi trovata al suo posto, ma mi ha fatto provare una profonda vergogna nell’appartenere al genere umano, capace anche di attuare crimini spietati come questo. Mi chiedo come abbiano potuto farlo e non riesco ad accettare che persone come Anna, solo per la loro origine ebrea, siano morte come legna da ardere a causa di uomini senza un briciolo di cuore. Ilenia Modica (I A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Come adolescente mi rivedo nella protagonista del film, soprattutto nelle incomprensioni e nei conflitti con gli adulti, nei sogni, nelle illusioni e nelle emozioni provate in quel delicato periodo della vita. Ammiro Anna per la sua tenacia, per il suo carattere ribelle e anche per la capacità di rendersi conto degli sbagli, ma soprattutto la ammiro per la sua solarità e la sua forza nell’andare avanti senza abbattersi, nell’infondere coraggio agli altri, nell’affrontare i problemi di una ragazzina che cresce e che si trasforma. Ma, soprattutto, la ammiro per la fiducia che continua a nutrire nei confronti dell’uomo, nonostante siano stati spezzati i suoi progetti di adolescente che si affaccia alla vita. Cristina Pezzino (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

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*** Oggi non sono molti i ragazzi che tengono un diario in cui annotare i grandi ed i piccoli avvenimenti della propria vita, o le sensazioni e le riflessioni di ogni giorno, però molti scrivono ai giornali, alle riviste, su internet, esponendo i loro problemi. Anna al suo diario affida anche i sogni di adolescente precoce e critica, le sue sofferenze per i sistemi educativi dei genitori, i problemi di comunicazione con la madre, il forte desiderio di essere compresa, nonché la volontà di migliorare ogni giorno. Tutti problemi che mi accomunano a lei e che mi fanno capire che il mio modo - spesso critico - di vedere i miei genitori è un’esperienza frequente, e forse inevitabile, per ogni generazione negli anni dell’adolescenza. Ma questa ragazza, che non è un’inquieta adolescente di oggi, non ha né agi né sicurezza ed è costretta a “crescere” troppo in fretta tra gli orrori della guerra, dimostrando la maturità di una donna. Di fronte alle tristezze, ai patimenti, alle sofferenze, Anna pensa che il mondo potrebbe essere assai diverso, prospero, pacifico, felice, ed incolpa gli uomini per il loro impulso alla violenza, alla distruzione… ma subito dopo, per uno slancio di generosità, per quella speranza nel futuro che non può mai abbandonare i giovani (insegnamento valido per tutte le generazioni), afferma che bella è la natura, buona la gente che ha intorno, che la liberazione si avvicina, che l’isolamento nel rifugio di Amsterdam è solo un’interessante avventura. Anna è animata solo dalla volontà di vivere e dal desiderio di amare. C’è sempre una parola piccola piccola sulla bocca della nostra eroina: “Poi”. Quanti sogni sono legati a questo “poi ”! Sogni che fanno pensare alla libertà, alla guerra finita, al cessare dell’incubo della paura. Anche io vivo col “poi”, un “poi” fatto di sogni: una splendida carriera, un bel ragazzo, dei veri amici, una vita felice e serena. Certo, sogni molto diversi da quelli della ragazzina chiusa in una soffitta, perché ebrea, ma pur sempre sogni, calati nella mia realtà. Questa speranza, questa fiducia nell’avvenire appaiono a noi, che ben sappiamo quale sarebbe stato il futuro della giovinetta, infondate e prive di prospettiva. In tutte le scene del film, purtroppo, noi avvertiamo l’ombra sinistra della guerra, l’eco degli avvenimenti in cui gli uomini misurano la loro barbarie, percepiamo che Anna è un’ anonima vittima di eventi più grandi di lei, che passa in silenzio sul mondo e che dovrà piegarsi davanti al triste destino. Il film è la testimonianza di un’epoca buia e terribile ed un tremendo atto di accusa contro il nazismo e contro la guerra. Evento che reca, purtroppo, infiniti mali, e non ultimo quello di spegnere anzitempo la giovinezza, di proporre drammaticamente ai ragazzi problemi che più si adatterebbero ad altra età, ad altro tempo dell’esistenza. Lavinia Pirrone (I A Liceo classico “F.lli Testa”)

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*** I canti intonati insieme ad altri ragazzi, i film visionati sul tema dell’olocausto mi hanno suscitato profondi interrogativi: “Perché l’essere umano, lungo tutta la storia, ha quasi sempre preferito la guerra alla pace, l’aggressione al dialogo, la violenza alla collaborazione?” Ho sempre pensato che l’uomo fosse programmato per perseguire il bene. Infatti, con la sua intelligenza, egli è capace di realizzare opere meravigliose, conquistare lo spazio, inventare nuove tecnologie, forse anche fermare il tempo, ma poi finisce col compiere scelte sbagliate, finalizzate a scopi distruttivi. Ho sempre pensato che l’uomo fosse generato per amore, quindi, per sua stessa natura, incline a dare e ricevere amore, a tendere la mano all’altro, a perdonare, a dialogare, a credere nei suoi simili. Ma la storia mi ha insegnato che forse sbagliavo. Forse, nell’indole umana convivono un impulso a far del bene e un altro, uguale e contrario, tendente al male, alla violenza, alla guerra, alla strage. Ma, mi chiedo, qual è la vittoria del male, della sopraffazione e della morte? Davide Turco (III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello”) *** Il film Il diario di Anna Frank mette in evidenza le difficili condizioni di vita dei componenti di due famiglie di ebrei costretti a rifugiarsi in una soffitta per ben due anni durante le persecuzioni naziste. Nessuno di loro poteva immaginare che lo Stato di cui erano cittadini come tutti gli altri, potesse privarli di diritti faticosamente acquisiti ed inoltre considerarli stranieri da spingere fuori dei confini della patria e nemici da estinguere. Nessuno di loro poteva aspettarsi che il vicino di casa con cui tutti i giorni scambiava chiacchiere potesse denunciarlo e magari cercasse di comperare per un piatto di lenticchie il suo appartamento prima che gli venisse requisito. Eppure questi otto ebrei videro la loro vita progressivamente limitata, sopraffatta, annientata, ed infine videro la loro identità cancellata. Il film non si sofferma solo sulla superficie di questa dolente pagina della storia tedesca, limitandosi ad una fredda cronaca di quanto accaduto, ma scende in profondità tracciando un ritratto vivo di Anna, ragazza coraggiosa e sensibile, e degli altri inquilini della casa, facendo trasparire tutte le loro incertezze, le loro debolezze e le loro preoccupazioni. Commuove ed emoziona questa nostra coetanea che, con la sua disarmante semplicità, il suo sorriso e i suoi sogni riesce a far volare in alto il nostro cuore, a darci il coraggio necessario per superare le paure della nostra età. Ma, se solo pensiamo a quanti giovani sono state tarpate le ali, a quanti sono stati privati della loro giovinezza e dei loro sogni, del loro aspetto fisico e dei loro sentimenti e spesso della loro vita, ci vengono i brividi e continuiamo a non capire come si possa

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arrivare a fare tutto ciò a delle persone inermi. La visione del film e la messa a confronto della nostra vita con quella della protagonista, una ragazzina della nostra stessa età ma vissuta al tempo delle persecuzioni, hanno avuto come effetto di farci apprezzare di più la nostra condizione basata sulla libertà, sull’ agiatezza, sulla tranquillità, sulla possibilità di respirare all’aria aperta e di farci capire quanto siamo fortunate. Abbiamo immaginato, per alcuni attimi, di vivere nella realtà di quel tempo: andare a scuola, divertirci con gli amici, essere innamorate e, all’ improvviso…, essere costrette da animali con delle divise a salire su un treno e a dimenticare di aver vissuto... diventando solo stupidi numeri tra milioni di numeri. Ma come si fa a chiamare uomini individui siffatti che hanno spezzato, troncato tante giovani vite? Giusy Manerchia, Roberta Prestifilippo, Angelica Rotondo, Giusy Rotondo, Fabiana Sangiuliano (I B Liceo S.P.P.“F.lli Testa”)

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Intervista immaginaria rivolta ad una famiglia ebrea riuscita a sopravvivere al campo di concentramento di Auschwitz (a cura della classe III A Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) A quel tempo conoscevate il destino che vi sarebbe toccato se foste stati catturati dai Tedeschi? No, sapevamo che eravamo noi ad essere ricercati, però non conoscevamo né il perché, né quale destino ci sarebbe toccato se fossimo stati catturati. Perché non avete pensato di andare via? Non volevamo lasciare i nostri affetti, i nostri amici, la terra dove avevamo sempre vissuto e non volevamo costringere i nostri figli a dover lasciare tutto, ad abbandonare la loro scuola, gli amici, la vita che ormai avevano creato. Sapevamo che non sarebbe stato facile per loro iniziare a vivere in un posto nuovo, che non conoscevano: con una lingua diversa, con usi diversi e con un modo di pensare diverso. Come siete riusciti a nascondervi? Avevamo trovato una famiglia tedesca che, non condividendo il pensiero di Hitler, ci aveva fatto sistemare in un sottotetto e ci portava i pasti. Ma la vita non era più la stessa: i nostri figli non potevano andare a scuola, noi non potevamo lavorare, non potevamo uscire, non potevamo parlare, non potevamo fare rumore, non potevamo accendere la luce o la radio in determinate ore della giornata … non potevamo vivere. Era una vita infernale, insopportabile. Era come stare in carcere! Quando siete stati trovati ed arrestati dalle SS? Il 16 ottobre 1943 i soldati entrarono in casa e frugarono dappertutto, finché non ci trovarono; ci puntarono fucili addosso, fummo costretti ad uscire e a salire su dei grandi camion insieme ad altri ebrei. Non sapevamo dove ci stessero portando e quale sarebbe stato il nostro destino. Quale fu la più dura tortura che siete stati costretti a subire? La tortura peggiore era capire che ormai non eravamo più considerate persone, ma solo numeri pronti ad essere cancellati per sempre. Che cosa avete provato quando i Russi hanno aperto i cancelli del campo di concentramento? Non è facile spiegare le emozioni che abbiamo provato, sicuramente il momento più bello è stato tornare a casa; lì un senso di libertà ci ha avvolti e l’unico pensiero era quello di cominciare una nuova vita, lasciandoci dietro quella terribile esperienza.

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Intervista rivolta agli alunni della classe IV A Ginnasio* Pensate che la tragedia raccontata da Anna debba essere conosciuta oppure ritenete sia un evento che appartiene al passato? Crediamo che questa sia una domanda retorica perché chiunque possieda un cuore deve custodire nella sua mente ciò che è successo. Non si deve ricordare solo per quel breve arco di tempo chiamato “giorno della memoria”, ma i terribili avvenimenti accaduti in passato devono rimanere sempre vivi nelle nostre menti, affinché non siano più ripetuti gli stessi errori e sia garantito un futuro migliore. In che senso la crescita di Anna è stata frustrata? A soli tredici anni dovette nascondersi con la sua famiglia in un piccolo spazio a due piani, passando le sue giornate con la paura che i nazisti potessero trovare lei e la sua famiglia e condurli in un campo di concentramento. Questa è la realtà che Anna visse, una realtà non facile da capire per noi, ragazzi quindicenni, che viviamo, oggi, condizioni di vita molto differenti. L’adolescenza della piccola Frank si differenzia da quella delle sue coetanee perché forzata a evolversi precocemente in una maturità innaturale, a causa della difficoltà di essere in quell’epoca “ebrei”. Anna Frank è divenuta il simbolo della Shoah sia per i suoi diari scritti nel periodo in cui la sua famiglia si nascondeva alla persecuzione nazista, sia per la sua tragica morte, allorché rinchiusa nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, vi morì all’età di soli sedici anni. Riesce l’odio razzista della Germania hitleriana a piegare l’infanzia di Anna? Noi crediamo che Anna sia stata una ragazza molto coraggiosa e soprattutto animata da una grande gioia di vivere. L’odio razzista indubbiamente l’ha cambiata, dato che ha dovuto crescere in fretta. Ma siamo quasi sicuri che l’odio razzista non l’ha piegata perché lei ha capito che la vita è troppo bella per poter essere distrutta da stupide idee. Ha scoperto la vita in tutte le sue sfaccettature, ha scoperto forse troppo presto la cattiveria degli uomini, ma è anche riuscita a trovare la gioia nelle piccole cose: l’amore per la natura e per la vita. Senza dubbio la sua vita è stata difficile, ma lei ha tenuto duro con quel forte carattere di cui era dotata. Riflettendo sul film, dite quali sono le scene che vi sono rimaste particolarmente impresse e spiegatene il motivo. Il diario di Anna Frank è uno dei film che, più di ogni altro, ci ha maggiormente * Ciascun allievo ha espresso liberamente le sue idee sul film “Il diario di Anna Frank” e successivamente i singoli contributi, o meglio quelli condivisi dalla maggioranza, sono stati sintetizzati e sono confluiti in risposte uniche.

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commosso. Le scene che ci sono rimaste particolarmente impresse sono quelle in cui le famiglie scherzano e ridono, pur vivendo con la paura che, prima o poi, sarebbero state scoperte dai nazisti e condotte ad Auschwitz, ma siamo stati colpiti da tutto il film perché, nonostante le durissime condizioni di vita, la piccola Anna riesce a vivere momenti di spensieratezza e a trovare la forza di affidare alle pagine del suo diario i suoi pensieri. Come adolescenti vi rivedete nella protagonista del film che vive le paure, i conflitti, le incomprensioni, gli amori, le illusioni, gli entusiasmi tipici della vostra età? Nella vita di Anna Frank rivediamo alcuni aspetti di quella che è la nostra adolescenza, aspetti tipici di questo periodo così conflittuale e delicato: tristezza, gioia, insoddisfazione, voglia di distaccarsi, voglia di spazi propri e ribellione agli schemi familiari; ma il contesto è completamente diverso e non paragonabile. Noi, nonostante i continui litigi sia con i nostri familiari che con nostri amici, conduciamo una vita serena da tutti i punti di vista, invece Anna è stata costretta a vivere tra paure e sofferenze in uno spazio angusto e soffocante. Considerando ciò, riesciamo oggi più di ieri a minimizzare i problemi di tutti i giorni e ci rendiamo conto che il nostro contesto, per quanto a volte problematico e combattuto, è un contesto sereno e affettuoso che dobbiamo imparare ad apprezzare di più. Mettendo a confronto la vostra vita con quella di Anna, una ragazzina della stessa età ma vissuta al tempo delle persecuzioni naziste, come considerate la vostra condizione? Oggi nel XXI secolo ci troviamo a combattere delle guerre e ad affrontare certe situazioni che ai nostri occhi di quindicenni appaiono insormontabili, ma, nonostante tutto, non si tratta delle stesse difficoltà che ha dovuto affrontare Anna. Infatti, noi oggi siamo liberi di vivere la nostra vita, guardando la luce del sole, cosa che Anna non ha potuto permettersi, costretta a vivere chiusa in una soffitta per non essere catturata dai nazisti. È per questo che consideriamo la nostra condizione più fortunata di quella di Anna. Provate ad immaginare di vivere nella realtà di quel tempo. Immaginare di vivere nella realtà di quel tempo andando a scuola, divertendoci con gli amici e, all’improvviso, essere costretti a salire su un treno e dimenticare tutto, crediamo che per noi sia una cosa impossibile. E ancor di più sarebbe per noi insostenibile perdere la nostra identità per diventare solamente un numero, essere considerati esseri inferiori, subire maltrattamenti, sevizie, massacranti torture.

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POESIE La mia tavolozza

Una vita non più tua

La mia tavolozza ha tanti colori

Il proprio nome dimenticato,

il rosso del mio cuore

la propria origine annichilita.

e per farlo ci vuole amore

Forti spari nell’aria,

il giallo del grande sole

riportano ad una vita non più tua.

che gioisce con una canzone

Nel vento gelido

il bianco della candida neve

l’eco di urla e latrati,

perché anche questa serve

voci e lamenti

ed alla fine per un tocco da maestro

di uomini annientati.

faccio i contorni tutti di nero.

Bimbi spaventati e infreddoliti cercano le dita della mamma,

Che bel quadro può far la mia mano

trovano colpi di frusta.

con un tocco qua e un tocco là

Le lacrime fredde

e così e tutto fatto

si mescolano al fango.

e così avrò un quadro perfetto

Nel cuore la nostalgia

solo se i colori unisco.

della propria famiglia, della propria casa,

O uomini siate come i colori

della propria vita.

unitevi per un quadro datevi la mano e capolavoro sarà fatto.

Giorgia Maira (III B Istituto Comprensivo “Luigi Pirandello”)

Alain Calò (III C Istituto Comprensivo “D. Alighieri”)

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POESIE Olocausto

Ali spezzate

Bimbi innocenti

Fuori dalla storia,

trascinati in una realtà

fuori da ogni realtà,

incomprensibile.

ho immaginato di vivere l’incubo,

Madri

ho trovato il coraggio

lacerate nel cuore,

di raccontarlo.

le cui lacrime non lavano l’eterno dolore. Assurdi e irrazionali disegni di pulizia etnica.

Non ho occhi per guardare corpi arsi nei forni, non ho orecchie per udire il pianto di gente che muore, non ho mani per toccare altre mani gelide e vuote. Ma ho la mente per abbattere

Sogni bruciati

quel recinto mortale.

in un forno

Chi erano veramente

e volati in cielo

quei numeri vaganti, senza nome

in una nuvola

e senza più amore?

di fumo nero.

Povere vittime senza voglia di vivere.

Sofia Lo Sauro

Poveri passeri dalle ali spezzate.

(III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

Rossana Emanuele (III B Istituto Comprensivo “L. Pirandello”)

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Nen se pò… di Francesca Fascetta Bonomo* Nen se pò rrömpö n’ala a n’occeddëttö che d-à pighjè ö volö. Nen se pò privè na fantinëtta dö› prièsgetö de deventè mama. Nen se pò privè n vieghjö, de spirè nô sò ddieitö, n pasgiö cö› Signörö. Omö! Tu nen puoë, pe davera, desiè ste malë cosë, pe tu stissö. Mieghjö che scömpariscë dâ fazzö dâ Terra, chjötostö de semenè ancöra dannë ô möndö möndö. Non si può … Non si può spezzare un’ala ad un uccellino, / che deve iniziare a volare. / Non si può privare una giovinetta della gioia / di diventare mamma. / Non si può privare un vecchio / di morire nel suo letto, / in pace con Dio. / Uomo! Tu non puoi, in verità, / desiderare queste brutte cose / per te stesso. Meglio che sparisci / dalla faccia della Terra, / piuttosto che spargere / ancora sofferenze per il mondo. * Francesca Fascetta nasce a Catania il 29 agosto 1951. Vive a Nicosia, dove insegna Materie letterarie presso l’Istituto Comprensivo “Dante Alighieri”. Da sempre appassionata di una poesia capace di rispondere alle più diverse sollecitazioni (dalla natura ai sentimenti; dalle problematiche giovanili alle più tradizionali ricerche sull’esistenza dell’uomo) e profondamente legata alla cultura galloitalica, ha fatto del dialetto lo strumento privilegiato d’espressione anche nella composizione di testi teatrali. Di prossima pubblicazione è la sua prima raccolta di poesie in dialetto galloitalico: “Così, per gioco …”. Questa poesia e quella della pagina seguente - espressione immediata dei sentimenti della Fascetta, all'indomani delle proiezioni cinematografiche sulla Shoah - sono contrassegnate da un profondo pathos. Di fronte all'ingiusta sofferenza che trafigge gli esseri umani, la poetessa non solo dà voce ad una pienezza sentimentale che la porta ad esprimere la sua tenerezza, la sua commozione, il suo sdegno civile, ma anche coglie lembi di vita mettendo a nudo le azioni buone e cattive, i punti di forza e le debolezze degli uomini, per concludere che nessuno può rinunciare alla pace e alla libertà.

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Rregordando ö 27 Iënnaro … di Francesca Fascetta Bonomo* Ghj’anö staitö omë ch’anö faitö parrè de dëë pe cosë böë; autë pe cosë tristë, che, ancöra, autë omë, se podëŸssönö, volëŸssönö cancellè dâ fazzö de sta Terra. Omë che s’anö daitö “a fazzö ê spinë spinë” pe campè a famighja; omë, che ô cöntrariö, anö trövaitö a tàvöla già cönzada e omë, che d-ana fadighè sölö pe rrespirè. Omë che rridönö già quandö se rrevëŸghjönö e omë, che nen ddëŸntönö de ciàngiö de quandö nàsciönö;

e autë, che ô contrariö, càmpanö n ta pagöra. Omë che comö carösgëtë, vuönö na man pe caminè pe nen se sderrupè; omë che tutö puonö e tutö anö; omë che nen anö mancö a balia pe campè. Omë privaë dö› nomö e dö› rrispettö; omë che perdöŸnönö e omë che cöstödìsciönö rregordë sölamentö. Tantë sö l omë n ta stö möndö; spairë tra de döë, ma tute omë, che semprö e semprö chjù d’accordö, a na söla cosa nen ponö rrenunziè: a pasgiö e a libertà.

Ricordando il 27 gennaio Ci sono stati uomini / che hanno fatto parlare / di loro per azioni buone; / altri, per cose cattive, / che, ancora, altri uomini, / se potessero, / vorrebbero cancellare / dalla faccia della Terra. / Uomini che hanno affrontato qualsiasi difficoltà / pur di far sopravvivere la famiglia; / uomini che, al contrario, / non hanno dovuto faticare / e uomini che devono lavorare duramente, / soltanto per respirare. / Uomini che sono felici / già quando aprono gli occhi / e uomini che non smettono di piangere / da quando vengono al mondo; / uomini che non conoscono la paura / e altri che, al contrario, convivono con essa. / Uomini, che come bambini, / vogliono qualcuno che li aiuti a fare i primi passi per non cadere; / uomini che possono tutto e possiedono tutto; / uomini, che non hanno neppure la forza di andare avanti. / Uomini privati del nome e del rispetto; / uomini che perdonano / e uomini, che custodiscono soltanto ricordi. / Tanti sono gli uomini in questo mondo, / diversi tra di loro, ma tutti uomini, / che insieme e sempre più d’accordo, / ad una cosa solamente non possono rinunciare: / alla pace e alla libertà. 80


JONA CHE VISSE NELLA BALENA Cast: Juliet Aubrey, Luke Petterson, Djoko Rosic Regia: Roberto Faenza Sceneggiatura: Roberto Faenza, Hugh Fleetwood, Joelle Mnouchkine, Filippo Ottoni Fotografia: Janos Kende Musiche: Ennio Morriconi Montaggio: Nino Baragli Soggetto: tratto dal romanzo “Anni di infanzia” di Jona Oberski Scenografia: Laszlo Gardonyi, Maria Ivanova Data di uscita: 1993 Genere: Drammatico Interpreti: Jean-Hugues Anglade (Max), Juliet Aubrey (Hanna), Francesca De Sapio (Signora Daniel), Jenner Del Vecchio (Jona a 7 anni), Luke Petterson (Jona a 4 anni), Djoko Rosic (Signor Daniel) Produzione: Elda Ferri, Jean Vigo International French Production - Focus Film in associazione con Raiuno Origine: Francia, Italia Durata: 90’ Trama Il film racconta la storia di Jona Oberski, un bambino di 4 anni che vive ad Amsterdam durante la Seconda guerra mondiale con i genitori ebrei Max e Hanna. Quando la storia comincia, il mondo non è ancora caduto nelle mani dei cattivi: il piccolo Jona, adorato dai genitori, cresce tranquillo in una signorile casa di Amsterdam, circondato dalle attenzioni dei genitori. Un giorno il piccolo viene portato via dai nazisti insieme alla madre, che tuttavia riesce a farsi liberare, esibendo un visto per la Palestina. La vita riprende tranquilla, interrotta solamente dai comportamenti discriminatori di alcuni abitanti del quartiere, ma la maggior parte del suo tempo resta dedicata al gioco spensierato. Poco tempo dopo, a causa dell’occupazione nazista della città, le cose volgono al peggio. La speranza di poter emigrare in Palestina si rivela infondata. Dopo una breve permanenza in un campo di smistamento tedesco di Westerbrock, si parte di nuovo, ma invece che in Palestina,

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come tutti pensano, si va a Bergen-Belsen, un campo di transito in Germania, dove gli ebrei vengono rinchiusi per essere poi scambiati con prigionieri germanici. A 7 anni, Jona ha già subíto freddo, fame, paure e sofferenze: sempre insieme per sua fortuna ai genitori (in baracche comunque diverse), il bambino è obbligato a farsi un mondo suo, subendo anche momenti umilianti e angherie da parte degli altri ragazzi, abituandosi al filo spinato e alle voci minacciose. Lasciato con la madre, Jona potrà rivedere il padre solo due volte: in occasione di un incontro furtivo tra i genitori (un medico si lascia corrompere con una scatola di sigari) e il giorno della sua morte. Poco dopo sopraggiunge la malattia della madre, che, curata in un ospedale sovietico, viene assistita da una ragazza a cui la donna morente affida Jona. Infine, nel 1945, il bambino sarà accolto dalla generosa accoglienza dei Daniel, una matura coppia abitante ad Amsterdam. Commento Il film, diretto da Roberto Faenza e tratto dal romanzo autobiografico dello scrittore fisico nucleare olandese Jona Oberski intitolato “Anni d’infanzia. Un bambino nei lager.”(1977), è un importante film italiano sul dramma dell’Olocausto, che ha ottenuto nel 1993 il premio David di Donatello per “Miglior regia”, “Migliore musicista”, “Migliore costumista” ed il premio Efebo d’oro di Agrigento. Tratta il tema dell’antisemitismo e della shoah da un punto di vista molto particolare: quello del suo piccolo protagonista, Jona, che divenuto adulto ricorda alcuni momenti della sua infanzia e gli anni trascorsi nel campo di concentramento. I fatti di cinquant’anni fa diventano cinema attraverso lo sguardo di Jona, ma questo sguardo, a sua volta, è filtrato dalla memoria. Egli ricorda, narra, si sofferma molto spesso su cose minute: il cibo, il sonno, i carcerieri visti sempre all’altezza degli stivali, le baracche, la gente pietosa (come l’anziano cuoco di un lager e il medico del-

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l’ambulatorio), qualche rimprovero, qualche momento di solidarietà. Il personaggio è contraddistinto da una visione della realtà che tende alla rimozione o alla rielaborazione fantastica degli eventi attraverso l’immaginazione. Nella prima parte del film, caratterizzato da un tono fiabesco che costituisce il filtro attraverso cui il personaggio percepisce gli eventi, emerge la sua visione del mondo: quella di chi è sensibile al dolce incanto di una nevicata. Ha appena quattro anni quando le sirene di allarme si mettono a suonare minacciosamente e i tedeschi irrompono nella sua casa urlando. Jona si rende conto delle apprensioni del padre all’arrivo di strani uomini in divisa, che parlano una lingua sconosciuta, ma viene protetto e rassicurato dal calore della sua famiglia. Jona vede e sente, ma non comprende il vero significato degli eventi che si svolgono intorno a lui. Come quando un ragazzo più grande distrugge i suoi giochi, o quando gli viene cucita sulla giacca un’enorme stella di cartone giallo o, ancora, quando la mamma litiga col verduriere che non vuole venderle gli ortaggi, perché ebrea. Ma è proprio attraverso questa originale percezione che i comportamenti e le azioni discriminanti e violente nei confronti degli ebrei sono avvolti in un’atmosfera che li rende ancora più assurdi e privi di senso. Come nella scena di ingresso nel campo di Bergen-Belsen, in cui dei signori vestiti tutti allo stesso modo li accolgono manovrando delle strane macchine (si tratta delle cineprese con cui i tedeschi riprendono i deportati ebrei, per fornire materiale cinematografico alla propaganda interna). Rinchiuso nel suddetto campo di concentramento, strappato al suo mondo di giochi, gettato con violenza tra i reticolati del lager, Jona vive il proprio percorso di formazione e compie le sue prime esperienze d’amore, di dolore, di rapporti sociali, di capacità di sopravvivere. Paradossalmente il Lager nazista diventa per lui un ambiente quasi normale, il solo mondo che conosce. Per lui è normale pescare di nascosto sul fondo di grosse 83


pentole i resti del pasto delle SS; per lui è normale essere separato dal padre, per lui è normale essere frustato da una guardiana per un nonnulla. Impara a vivere e a guardare con lo sgomento attonito di chi è stato costretto dalla vita a diventare grande troppo in fretta. All’età di sette anni deve immaginare che cosa stiano facendo la mamma e il papà, delle cui figure vede soltanto una piccola porzione, all’interno dell’infermeria dove si sono rinchiusi da molto tempo per un incontro amoroso. Oppure deve confrontarsi, con i pochi mezzi d’interpretazione di cui dispone, con la morte del padre che avviene proprio nel letto accanto al suo, dopo essersi dimenticato di avvisare la madre della gravità delle condizioni del genitore. Nei giorni successivi a questo evento, dovrà affrontare una vera e propria prova d’iniziazione. È costretto dai suoi amichetti a entrare nel luogo in cui sono ammassati sotto le lenzuola i cadaveri dei deportati. Terrorizzato, Jona rompe un vetro e si dà alla fuga, ma il suo coraggio viene apprezzato dai compagni di gioco. Assecondando la curiosità tipica dell’infanzia, ogni angolo del campo diventa per il personaggio un’occasione per realizzare delle scoperte che stanno a metà tra la stramberia e la meraviglia. Sono ammirevoli la delicatezza, la profondità e l’attenzione del regista (pure autore della sceneggiatura insieme con Filippo Ottoni) nel raccontare le esperienze di un bambino al quale viene sottratta l’infanzia, che perde i genitori, che acquista la cognizione del dolore e della morte, ma che non si lascia vincere dalla tentazione dell’odio, trovando il coraggio di mantenersi ben più in alto delle cose orribili che tuttavia, con dolore, vede e mostra. “Guarda sempre in alto e non odiare mai nessuno”: così dice a Jona la madre. Glielo dice una prima volta, ad Amsterdam, quando intorno a loro il cerchio dell’odio comincia a stringersi, e glielo ripete quando quel cerchio è stato spezzato dal crollo del nazismo. Il campo di concentramento è l’ambiente in cui Jona vive il proprio percorso di 84


formazione, diventando, com’è tipico dell’infanzia, il centro dell’universo. In una tale prospettiva, questo luogo abitualmente rappresentato come mostruoso e abnorme, acquista la forma della consuetudine e della normalità. Jona cresce costretto a cercare da sé le risposte alle cose strane che si pongono sul proprio cammino, come quando comincia a trovare sbarrata la strada che porta all’ospedale dove si trova sua madre. O come quando, affidato a un’anziana coppia dopo la fine della guerra, deve ricorrere all’immaginazione per ritrovare la voglia di vivere nella nuova casa. Nell’incontro fantastico con il padre che scrive a macchina, materializzazione di un lontano ricordo, Jona trova lo stimolo per affrontare la sua nuova condizione. Nel finale - del tutto visionario - il padre morto riappare al bambino afflitto e prostrato come una presenza dolce e lontana, troppo presto perduta, un fantasma vitale che non condanna Jona nella prigione della memoria, ma gli indica la strada che conduce appunto alla vita. Dalla balena/lager il bimbo rientra nel mondo in cui è nato e diventa scienziato. Il film mostra, semplicemente, la banalità del male vista dagli occhi di un bambino innocente e non si dimentica più. Riesce a coinvolgere, specie là dove l’occhio del bambino che, guardando e ricordando, ci rappresenta in modo del tutto soggettivo quegli orrori quotidiani cui ha assistito senza arrivare sempre a considerarli come tali, ma solo come inciampi di una vita destinata all’inizio al gioco e agli affetti familiari. Jona che visse nella balena è un film insieme dolcissimo e lancinante, che si segue con pena infinita, ma i suoi toni sono sempre contenuti, le sue accuse sono sempre sussurrate. Non ci sono accuse che non siano implicite, che non nascano dalle immagini e dall’impatto dello spettatore con esse. La macchina da presa non si sofferma sul lato mostruoso della macchina-lager, degli uomini e delle donne che funzionano come ingranaggi. Tuttavia, nonostante la

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vicenda non si svolga in un campo di sterminio, ma in un luogo in cui i carcerati ebrei, provvisti di un visto per emigrare in Palestina, attendevano lì la fine del conflitto, pronti, in qualche caso, ad essere scambiati con dei tedeschi prigionieri degli alleati ed in qualche modo venivano trattati in modo meno bestiale, si percepiscono ugualmente i patimenti e gli stenti di tutti i prigionieri - donne, uomini e bambini- tenuti segregati, esposti al freddo, alle malattie e alle angherie dei secondini, e deportati senza alcuna colpa. Certo i patimenti erano meno crudeli, nell’infermeria potevano esserci lenzuola nei letti, in cucina il cuoco poteva permettere ai bambini di raschiare il cibo rimasto sul fondo delle pentole e i prigionieri indossavano i propri abiti e non la divisa rigata, ma “meno bestiale”, infatti, non significa “più umano”. Pertanto il film parla con pudore e insieme con efficacia dell’Olocausto senza indulgere a voyeurismi di sorta, senza soffermarsi su scene di orrore. Eppure, pur non presentando nello sfondo nessuna scena cruenta e nessuna camera a gas, lascia un’inquietudine strana, dolorosa, proprio perché il nostro sguardo consapevole contrasta con quello inconsapevole di Jona, che dell’atroce realtà che lo circonda coglie soltanto alcuni particolari. Alla nostra pietà non occorrono SS urlanti e plateali. Essa vive dello smarrimento di Jona, si alimenta del nostro dolore atterrito di fronte alla sua normalità. Per Jona, il lager non è l’irruzione dell’assurdo nella vita: è proprio la vita, l’unica che conosca, a parte i primissimi anni lontani, nella bella casa di Amsterdam. Per lui, dunque, la vita e l’assurdo sono la stessa cosa. Ma questa normalità viene da noi, naturalmente, rifiutata, perché non è normale per noi la sua infanzia derubata; non è normale la sua familiarità con la morte: una morte vissuta con spaventosa immediatezza, non ritualizzata, non integrata culturalmente nella vita; non è normale che i suoi giochi di bambino debbano inventarsi impossibili spazi nell’orizzonte del filo spinato. Abbiamo sempre pensato che i Lager fossero mostruosi, aberranti, abnormi: quindi fuori di noi, irripetibili. É questa la cornice culturale in cui sono sempre stati

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inquadrati, anche nella stessa letteratura di Primo Levi: ma oggi basta vedere le immagini della violenza esercitata sull’infanzia, di quanto è accaduto nell’ex Jugoslavia, per capire che non è vero, che il mondo dello sterminio non è inumano ma ci appartiene. Jona che visse nella balena è un film fedele al romanzo, realizzato con grande intensità e con impeccabile accuratezza e recitato da un protagonista bambino di straordinaria bravura (Jenner Del Vecchio) e da attori ben scelti. La fotografia è bellissima in quanto evidenzia la capacità dell’ungherese Janos Kende di condensare sentimenti nelle diverse parti della storia: i toni bruno-dorati e caldi della pittura olandese, infatti, sono usati per rievocare la magia della prima infanzia felice del protagonista nella casa di Amsterdam con i giovani genitori; il bianco abbagliante della neve domina nel campo di concentramento in cui il bambino impara a soffrire e a sopravvivere, a beffeggiare i tedeschi, a cercare di farsi accettare dagli altri bambini ed in cui vede morire suo padre; i colori misti evocano l’allegria che caratterizza il momento dell’uscita dal Lager; mentre colori umbratili prevalgono nelle immagini che ritraggono la morte della madre impazzita e i momenti in cui il bambino disperato rifiuta la vita per poi riprenderla lentamente ed accettarla. Riflessioni sul film “Jona che visse nella balena” Il film Jona che visse nella balena è uno dei film più significativi che io abbia mai visto, non tanto per la tematica, che sicuramente non è da sottovalutare, ma per la forza d’animo e il coraggio del piccolo protagonista. Queste sue caratteristiche sono sicuramente l’effetto dell’educazione ricevuta da parte dei suoi genitori, in modo particolare dalla madre, che nei momenti di sconforto e di paura del piccolo, gli cantava una canzone il cui protagonista era il profeta Jonah, uscito dal ventre della balena fortificato e maturato dall’esperienza negativa. Parimenti al profeta, il piccolo protagonista del film compie il suo percorso formativo nella balena, chiara metafora del campo di concentramento, in cui acquisisce gli strumenti necessari per affrontare le avversità, i soprusi e, soprattutto, la cattiveria altrui. Queste esperienze che potrebbero portare chiunque a covare nell’animo sentimenti di rabbia, di odio e di vendetta, non sortiranno verosimilmente tale effetto perché riecheggeranno nella mente di Jona le parole della madre: “ Ricordati sempre di guardare il cielo e di non odiare nessuno”. Importante sottolineare che tale invito ad amare non costituisce un semplice precetto verbale, ma affonda le radici nell’infanzia del bambino, trascorsa in un’atmosfera profondamente intrisa di concreti esempi di amore. Sabrina Billone (V A Ginnasio “F.lli Testa”)

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*** La balena, cui fa accenno il titolo del film, può considerarsi metafora dell’umanità che non sente la compassione e non prova dolore. Il campo di concentramento, in cui è costretto a vivere il piccolo Jona, è privo di vita, squallido, infìdo, spregevole, così come il ventre del pesce è buio, umido, sconosciuto e immenso. Alessia Bottari (III A Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) Il titolo del film “Jona che visse nella balena” può considerarsi un’ espressione metaforica per indicare il campo di concentramento in cui avviene la maturazione di un bambino che conosce, ancora inesperto della vita e del dolore, un mondo duro e senza pietà. La crudeltà e la barbarie naziste hanno completamente distrutto l’infanzia di Jona, colpevole solo di essere un ebreo. Questo odio razzista, che ha fatto sì che si considerassero nemici tutti gli ebrei che si avevano vicino, è stato il peggior male della società tedesca di allora. Milioni di persone, in particolare bambini, sono stati, con cattiveria immotivata, umiliati, offesi e privati dei più elementari diritti. Se tutto ciò è senza dubbio abominevole quando la vittima è una persona adulta, lo è ancor di più se è un bambino a pagare le conseguenze di questa folle ideologia nazista. In tal caso si tocca veramente il fondo della disumanità, ed è impossibile offrire il perdono a persone che si sono macchiate di simili obbrobri. Beatrice Carbonaro (V A Ginnasio “F.lli Testa”) *** “Jona che visse nella balena” è un film bellissimo, che impregna il cuore di sensi di colpa. Il film, che si basa su testimonianze, dettagli, frammenti di ricordi, si configura come uno scorrere di immagini non cruente che, tuttavia, esprimono ugualmente la devastazione dei campi di concentramento ed il profondo disagio di chi quell’esperienza l’ha vissuta in prima persona. La sceneggiatura e l’impeccabile regia di Roberto Faenza narrano la condizione inaccettabile dei prigionieri dei campi di concentramento e la “nuova esistenza” di Jona e dei suoi genitori, privati di tutto, ma soprattutto della dignità di esseri umani. Maria Michela D’Amico (III D Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Il titolo del film ricorda il celebre racconto di Collodi e l’esperienza del profeta Jonah, entrambi usciti modificati dal ventre della balena. L’esperienza - fantastica e irreale per Pinocchio e Jonah, terribile e assurda per il piccolo Jona - può considerarsi per tutti un percorso di crescita necessario per uscire dai momenti difficili. Giusy De Francisci (I B Liceo Classico “F.lli Testa”)

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*** La prima parte del film ci presenta un bambino felice che trascorre sereno le sue giornate tra affetti e giochi, mentre la seconda parte è focalizzata sulla vita “dura” di Jona nel lager. Secondo me, i due momenti potrebbero considerarsi metafora della vita dei bambini nel mondo contemporaneo: cioè, da un lato, bambini felici che trascorrono serenamente la loro infanzia e, dall’altro, bambini infelici, vittime della violenza, della pedofilia, dello sfruttamento, dell’abbandono, della guerra, dell’ignoranza e delle incomprensibili logiche degli adulti. Vincenzo Di Gregorio (III B Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Dopo la visione del film “Jona che visse nella balena” il vuoto è disceso nel mio cuore pensando alla solitudine di Jona e a come possa essere distrutta o finire in fretta una vita… Un senso di colpa mi è scivolato dentro e penso sia giusto ci rimanga. Il film denuncia, anche se indirettamente, i crimini nazisti e contribuisce senz’altro a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze di un evento che ha distrutto le esistenze di migliaia di persone e che ha lasciato una pesante eredità anche a creature indifese ed innocenti, a cui è stata negata l’infanzia. Alessandra Failla (III B Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Avevo sempre guardato alla stella di Davide come ad un’immagine piacevole, quasi poetica, una stella a cinque punte, che da piccola avevo imparato a disegnare tra i banchi di scuola, con una tecnica rapida, e mi divertivo a riprodurla, colorarla ed attaccarla sul diario. Poi ho rivisto, in un film sconvolgente, la stella cucita sulla giacca di Jona e degli altri ebrei, ed ho capito che la mia stella veniva usata come un marchio che rivelava qualcosa di sconosciuto, prima da me ignorato. Ho capito che anche una stella può essere utilizzata come segno di qualcosa d’ignobile, oscuro, che era meglio non mostrare, qualcosa di cui doversi vergognare: l’appartenenza alla propria razza. Federica Gaglione (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello) *** Il film “Jona che visse nella balena” racchiude la memoria di un bambino che ricorda la tragedia dei lager e la follia dei nazisti. Jona, il protagonista, impara a vivere e guardare il mondo con sgomento attonito, di chi è stato costretto dalla vita a diventare grande troppo in fretta; egli infatti viene strappato al mondo dei giochi. La parte più commovente, a mio parere, è stata quella in cui Jona, molto piccolo,

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viene picchiato da un ragazzo tedesco; un’altra scena molto commovente è quella in cui il bambino ricorda il padre seduto alla scrivania mentre batte sulla macchina da scrivere il nome del figlio. Questi due episodi mi hanno colpito perché mettono in evidenza l’ingenuità e la voglia di sognare dei bambini, che nella maggior parte dei casi non riescono a capire come va il mondo e quindi lo interpretano come una favola in cui esistono i cattivi e i buoni. Loris Antonino Grasso (III B Istituto Comprensivo “L.Pirandello”) *** Protagonista di questo film documentario è Jona, un bambino ebreo che fu deportato insieme alla sua famiglia in un campo di concentramento. Lì egli dovette affrontare molte avversità, imparare a lavorare e sopravvivere agli stenti ed ai soprusi perpetrati dai Tedeschi, essere staccato dal padre, rivederlo solo poco prima della morte, essere sottoposto dai ragazzi più grandi ad una tremenda prova di coraggio, (entrare nel capannone che ospitava i cadaveri dei deportati, che non avevano retto alla sofferenza). Tutte esperienze che lo fecero maturare e diventare grande… Ma io mi chiedo: “Come si può diventare grandi a nove anni? Che diritto abbiamo, noi, di togliere ai bambini il gioco, la spensieratezza, la fanciullezza? Come si può privare un bambino del sostegno di un padre e di una madre?” Dopo aver visto il film mi è tornata alla mente la poesia Se questo è un uomo di Primo Levi (che è diventata il simbolo della “Shoah” e dell’orrore della seconda guerra mondiale) in quanto a me pare che le parole rispecchino in qualche modo le fasi di questo film. I primi versi, infatti, Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e i visi amici: Considerate se questo è un uomo ricordano l’infanzia felice di Jona che, prima dell’avvento del nazismo, gioca felice con la sua famiglia nella serenità di quel focolare domestico, che ben presto gli verrà sottratto. I versi successivi Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per un pezzo di pane Che muore per un si o per un no

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rimandano alla vita dei detenuti nel campo di concentramento, agli espedienti cui ricorrere anche per procurarsi un po’ di cibo e agli stenti patiti che, infine, hanno portato alla morte anche il padre di Jona. I seguenti versi Considerate se questa è una donna Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno fanno ritornare alla mente la scena del film nella quale la madre di Jona, a causa del dolore che ha dovuto sopportare, cade in una devastante pazzia che la conduce all’isolamento e alla morte. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa, andando per via, Coricandovi, alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. L’ammonimento che Primo Levi rivolge a noi tutti (“Vi comando…”) è l’imperativo a tenere viva la memoria di quanto successo nei campi di concentramento, affinché simili orrori non debbano ripetersi più. Ma a me sembra che l’uomo non abbia imparato a sufficienza dalla storia; basti pensare al genocidio del Ruanda, allo sterminio dei Serbi e dei Croati, alla guerra del Golfo, in cui moltissimi furono i bambini trucidati dai colpi di mortaio. Ancora oggi ci sono altri Jona nel mondo: bambini che soffrono la perdita dei cari, la perdita della propria libertà e della propria dignità. Ho letto con commozione la lettera di un bambino curdo, Islam Yuksel, che ora vive in Italia, e mi chiedo quanti altri Jona ci saranno, prima che gli uomini capiscano che l’orrore di una guerra lascia per sempre delle cicatrici indelebili nei cuori di un popolo. “Mi chiamo Islam Yuksel. Sono nato nel 1990 in un villaggio dell’ex Kurdistan chiamato Mardin, ai confini con l’Iraq. Nel mio paese c’è, da tanti anni, la guerra; una crudele guerra di conquista, con cui la Turchia vuole appropriarsi delle nostre terre. In questa guerra ho perso delle persone della mia famiglia. Poi, la morte di mio padre, la fame, la disperazione ci hanno spinto a fuggire via dai luoghi che amavamo e a cui sono legati i miei primi giochi. Come ci divertivamo! Giocavamo a nascondino, a conquistare posizioni nei quadrati disegnati col gesso, in cui scagliavamo le nostre pietre… Tutto è finito nel momento in cui siamo dovuti fuggire.

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Avevo sette anni. I miei ricordi sono un po’ lontani, ma ancora vivi, nella tristezza delle immagini che rivedo nella mente. Con mia mamma e il resto della mia famiglia (due sorelle e un fratello, oltre a me) siamo arrivati, tra tante disavventure, ad Istanbul e lì ci siamo imbarcati su un’enorme nave chiamata “Ararat”, come il famoso monte dell’Armenia. In questa nave vecchia e scassata, eravamo ammucchiati insieme ad altre 800 e più persone; tutte disperate come noi; alla ricerca della speranza per il futuro. Il viaggio su questa nave è stato un vero incubo. Mi dicevano che era tenuta a galla da uno strato di vestiti sistemati sul fondo dello scafo. Tutti avevano paura e gridavano ad ogni suo sussulto. Mia sorella ha avuto tanta paura. Si stringeva a mia madre ogni volta che la navigazione diventava più pericolosa; ogni volta che la nave sembrava dovesse affondare e sparire tra le onde. Il 17 dicembre 1997, la nave Ararat si è arenata sulla spiaggia di Soverato, in Calabria. A Soverato abbiamo ricevuto i primi soccorsi. Poi siamo stati trasferiti a Gagliato. Qui ci hanno accolto bene; ci hanno dato da mangiare; ci hanno dato dei vestiti. Io ero scalzo, mi hanno dato le scarpe; sono stati generosi. Hanno fatto curare quelli di noi che non stavano bene, tra cui mia sorella, che ha incominciato a sentirsi male tre giorni dopo lo sbarco in Calabria; da allora non si è più ripresa. Ci hanno spiegato che ha subìto un trauma durante il viaggio su quella maledetta nave……… Fa rabbrividire la lettura di questo brano, perché non trovo giusto che delle persone, soprattutto bambini, debbano assistere a determinate sofferenze e subirle. L’uomo è una creatura che si distingue dagli animali per la ragione, ma, quando cade nel “sonno della ragione” e commette certe barbarie, è di gran lunga peggiore della peggiore specie animale. Roberto Li Volsi ( III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”) *** Il titolo del film, che fa riferimento all’esperienza di Jona all’interno di una balena (chiara metafora del campo di concentramento), ha richiamato alla mia memoria altri due personaggi che hanno provato anch’essi l’esperienza di vivere nel ventre di una balena: il profeta Jonah e Pinocchio. Per entrambi, però, la balena rappresenta una prigione usata per punirli della loro ingratitudine, infatti Jonah disubbidendo ad un ordine di Dio si era rifiutato di andare a predicare a Ninive (città dell’Assiria) e per questo, durante una terribile tempesta, fu inghiottito dal cetaceo e Pinocchio ebbe la stessa sorte per aver disobbedito al padre Geppetto. Ma, a differenza dei due noti personaggi, nessuna colpa grava sul piccolo Jona. Tuttavia per tutti e tre l’esperienza nel ventre della balena rappresenta un viag-

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gio iniziatico che li porterà a trasformare la propria coscienza. Il profeta Jonah, dopo aver pianto tanto e chiesto perdono a Dio, va a predicare a Ninive e la converte scoprendo il significato e le responsabilità che comporta essere uomini; Pinocchio impara dalle esperienze e dagli errori di valutazione della realtà a comportarsi in modo più ragionevole e dalla fase di spensieratezza e fantasticheria entra nel mondo pieno di responsabilità degli adulti; il piccolo Jona vivrà il triste gioco della vita e, se inizialmente mostrerà uno sguardo innocente e inconsapevole proprio dell’infanzia, e coglierà dell’atroce realtà che lo circonda soltanto alcuni particolari, nella seconda parte del film il suo sguardo si fa più adulto ed egli assume pian piano consapevolezza del valore della vita. Roberta Maiuzzo (I B Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Essere amati, avere l’affetto dei genitori, una casa in cui vivere e una scuola in cui imparare sono alcuni tra i diritti fondamentali che dovrebbero caratterizzare ogni società civile, ma che furono negati a Jona, un bambino innocente, vittima della ideologia antisemita nazista, il quale, dopo essere stato esposto alla paura, all’abbandono, alla malnutrizione, alla fame, ai soprusi, resta orfano ed assiste a cose terribili alle quali nessuno dovrebbe mai assistere. A otto anni avrebbe avuto bisogno di giocare, divertirsi, muoversi, seguendo un percorso formativo che lo facesse gradualmente diventare un ragazzo e poi un uomo. Ma la cruda realtà lo fa diventare adulto anzitempo, colmandolo di responsabilità e pressioni. Ogni suo diritto viene violato: il diritto alla libertà, il diritto ad avere un’infanzia e una famiglia, il diritto di fare normali esperienze di apprendimento e socializzazione, esperienze necessarie a sviluppare la sua personalità. Ma a me pare che parlare di diritti in una società come quella nazista sia stato solo un miraggio così come lo è, purtroppo, ancora oggi presso tanti popoli del mondo. Silvio Martello (III D Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Di questo film mi è rimasta impressa una scena in cui la madre di Jona regala al marito, nel giorno del suo compleanno, una patata con un po’ di carne e un sigaro. È un gesto indimenticabile che mi ha commosso perché, pur nella sua semplicità, è pieno di amore e dolcezza. È un gesto umano che va al di là delle parole, il gesto di chi ha sperimentato su di sé la fame, lo sconforto, l’allontanamento delle persone care, la solitudine, e di chi, condividendo fino in fondo quella terribile esperienza nel campo di concentra93


mento, è disposto a privarsi anche del cibo necessario per la sua sopravvivenza, pur di lenire quelle sofferenze all’uomo che ama, di fargli dimenticare - anche se momentaneamente - i soprusi e le umiliazioni cui è quotidianamente sottoposto e offrirgli attimi di felicità e di affetto. Emanuela Projetto (III C Istituto Comprensivo “D. Alighieri”) *** Jona, un bambino ebreo confinato in un ghetto, imprigionato in uno squallido campo di concentramento, ha dovuto subire una celere trasformazione, che di sicuro non avrebbe mai voluto subìre: non come crisalide, che protetta dal calore di un bozzolo ne esce farfalla gioiosa, ma come essere umano che perde la sua infanzia e diventa adulto attraverso la disperazione e la conoscenza della morte e del dolore. Giulio Russo (III A Istituto Comprensivo “L. Pirandello”) *** Per un bambino è fondamentale un abbraccio, un sorriso che, espressione dell’affetto degli adulti, gli danno la gioia e la felicità dello stare insieme con le persone che si amano. Ma l’esperienza di Jona ci fa capire quanto sia traumatico per un bambino la preoccupazione di perdere le persone che gli stanno accanto ogni giorno e senza le quali sarebbe impossibile sorridere e continuare a vivere. Ma ancora più doloroso è sapere che quelle persone sono vicine a lui, ma che qualcuno gli impedisce di vederle, di toccarle o semplicemente di sentire il calore che ogni giorno gli danno con un abbraccio. Per noi è impossibile capire davvero cosa significhi vivere nella paura, addormentarsi senza avere la certezza di risvegliarsi, non mangiare e bere per giorni e giorni o essere picchiato solo perché si lascia cadere inavvertitamente una scarpa. Ma in quel contesto tali esperienze caratterizzavano quotidianamente la sua vita, che tuttavia Jona accettava come “normale”. Quando, però, a tutto questo si aggiunge la perdita definitiva delle persone che più lo amano, non gli bastano le lacrime o le grida per esprimere tutto il dolore che spezza il suo cuore, annulla i suoi sentimenti e lo riporta ad una vita che sembra non essere più la sua. La vita di Jona andrà avanti, grazie all’ amorevole accoglienza dei Daniel, ma nessuno potrà mai rimpiazzare nel suo cuore la mamma o il papà. Mery Salamone (V A Ginnasio “F.lli Testa”)

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LA MASSERIA DELLE ALLODOLE Regia: Paolo e Vittorio Taviani Soggetto: “La masseria delle allodole” (Antonia Arslan, premio Campiello 2004) Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani Produttore: Stefano Dammicco, Gianfranco Pierantoni Distribuzione (Italia): 01 Distribution Fotografia: Giuseppe Lanci Montaggio: Roberto Perpignani Effetti speciali: Enrico Pieracciani Scenografia: Andrea Crisanti Costumi: Lina Nerli Taviani Paese: Italia/Bulgaria/Francia/Regno Unito, Spagna Anno: 2007 Durata: 122’ Genere: drammatico Interpreti e personaggi Paz Vega: Nunik Moritz Bleibtreu: Ferzan Alessandro Preziosi: Egon Ángela Molina: Ismene Arsinée Khanjian: Armineh Mohammed Bakri: Nazim Tchéky Karyo: Aram

Trama Turchia, 1915. In una piccola città della Turchia la guerra sembra lontana, lontane le persecuzioni contro la minoranza armena. E armena è la famiglia Avakian, che apre la sua bella casa per il funerale del suo patriarca. Anche il colonnello Arkan, rappresentante dell’autorità turca, viene a rendere omaggio. «Grazie di questo gesto di pace», gli mormora Aram, a nome della famiglia. È il segno di un rapporto, se non di amicizia, di tolleranza, di reciproco rispetto tra le due comunità. La morte del padre fa rinascere in Assadour - il figlio maggiore degli Avakian, trasferitosi in Italia giovanissimo, che ora esercita a Padova la professione di medico - la voglia di ritor95


nare a vedere, dopo molti anni, il paese natale. A lui il padre ha lasciato la vecchia “masseria delle allodole”. Mentre fervono i preparativi per la partenza in Italia, Aram (che è un rinomato farmacista) sta facendo restaurare la casa antica di famiglia sulle colline, per accogliere il fratello nel miglior modo possibile. Tutti questi preparativi risultano però vani, poiché all’ingresso dell’Italia in guerra le frontiere vengono chiuse e la macchina del genocidio comincia a muoversi. Poco dopo il funerale, infatti, inizia l’incubo per la famiglia Avakian e per tutta la comunità armena. I Giovani Turchi hanno già pronto un piano per creare la Grande Turchia in cui non ci sarà posto per i ricchi e ‘traditori’ Armeni. Nessuna mediazione si rivela possibile. Egon, un ufficiale turco che fa la corte a Nunik, la sorella di Aram e di Assadour, le propone di sposarlo e di scappare via insieme, perché sa che qualcosa sta per succedere. Nunik sorpresa, inizialmente si dichiara pronta a seguirlo. In realtà ciò non avverrà, perché la chiacchierata tra Nunik ed Egon non è sfuggita al mendicante Nazim, il quale racconta ciò che ha visto al governatore, che a sua volta decide di mandare Egon lontano. E’ ormai il maggio 1915, e l’ora del massacro si avvicina. Un giorno si presenta alla porta degli Avakian il medico di famiglia, che racconta che tutti gli uomini sono convocati in prefettura nel pomeriggio, ma non si sa il perché. Memori delle stragi del 1896, Aram e il medico decidono che è più prudente rifugiarsi per una giornata alla Masseria delle Allodole. Mentre in città aumenta il panico, la moglie di Aram decide di raggiungere il marito insieme a tutta la sua famiglia e ad alcuni amici. Un gruppo di soldati si accorge, però, di questo spostamento e raggiunge la casa di campagna degli Avakian. Sapendo la fine che è prevista per gli armeni e vedendo una casa così ricca (sperando quindi in un lauto bottino), il gruppo irrompe nella masseria e uccide tutti i maschi, compresi i bambini, tranne il piccolo Nubar, che portava un vestitino da femmina. Avvisato da alcune donne, arriva nella masseria anche il colonnello Arkan, amico di Aram, che vedendo il massacro e non sapendo la vera fine che è ormai decisa per gli armeni, richiama duramente i soldati assassini. La famiglia Avakian viene smembrata e per di più viene deciso che le donne armene rimaste devono andarsene dalla città, per venire accompagnate dai soldati in un posto non meglio precisato. Inizia così un viaggio terribile che porta il gruppo fino ad Aleppo, il cui scopo è in realtà ricavare tutta la ricchezza possibile dalle prigioniere e violentarle o ucciderle. Le sopravvissute, tra cui Armineh e Nunik, e le altre donne conoscono l’umiliazione del tremendo viaggio nel deserto, sottoposte a fame e a torture inenarrabili. Ismene, una lamentatrice greca, e il mendicante Nazim, le hanno seguito e cercano un modo per aiutarle. Ad Aleppo i due riescono a trovare un ambasciatore francese amico della famiglia Avakian e, corrompendo alcune guardie, riescono a portar via Armineh e i suoi tre figli ancora in vita e a nasconderli fino

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a che non potranno essere portati in Italia da Assadour al sicuro. A nulla varrà, per Nunik, l’affetto che prova per lei Youssuf, un ufficiale turco meno crudele degli altri. La giovane e vitale Nunik si farà da lui uccidere a un passo dalla liberazione, per permettere alla cognata e ai suoi nipotini di non essere scoperti mentre vengono fatti scappare. Commento Paolo e Vittorio Taviani hanno trasformato una storia vera, raccontata anche nell’omonimo romanzo di Antonia Arslan, in qualcosa di vivo e coinvolgente. Il film, che propone la storia molto toccante di un gruppo di armeni, gli Avakian, che vissero in Anatolia (attuale Turchia) e che furono vittime dei rastrellamenti organizzati dal governo turco, è nato dalla necessità, avvertita fortemente dai fratelli Taviani, di fare conoscere la dimensione di un orrore avvolto in una sorta di silenzio e favorito dalla contemporaneità della Prima guerra mondiale. Una nebbia, alimentata fra l’altro dalla Turchia che, desiderosa di entrare nel 2010 con tutti gli onori nell’Unione Europea, continua nella propria opera negazionista. A questo sterminio di massa avvenuto in nome della “grande Turchia” la storia, il cinema e la letteratura non hanno mai offerto molta attenzione, tanto che i superstiti ed i loro eredi stanno ancora aspettando una giustizia ed una riconoscibilità nel ricordo. Si tratta di un film didascalico che colma una lacuna su un genocidio, quello dei turchi verso oltre un milione di armeni, che può considerarsi una tremenda prova generale dell’ Olocausto. Il film, infatti, richiama lo stesso tipo di intolleranza e pregiudizio, simile per qualità se non per quantità a quella che avrebbe decimato il popolo ebraico. L’eccidio del popolo armeno suscita tante emozioni e risulta talora crudo, così come può essere cruda la guerra, ma i registi sono molto sensibili e attenti nel cogliere gli aspetti più profondi dell’animo umano. Il

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film, nella prima parte, appare brioso, specie quando descrive la vita quotidiana di questa grande famiglia, che incarna i valori e la cultura del popolo armeno, come l’intraprendenza mercantile, la religiosità tollerante, l’ospitalità festosa. Nel momento, infatti, in cui si diffonde nella famiglia Avakian la notizia che sta per arrivare il fratello maggiore, un’euforica frenesia pervade tutti. Si organizza la festa di benvenuto, si invitano amici e parenti a prendervi parte, si rimette a nuovo la Masseria, e, per completare l’opera, viene perfino ordinato da Vienna un pianoforte a mezza coda. Inoltre lo scorrere quieto dei giorni è vivacizzato dai sogni d’amore di Nunik per l’ufficiale turco e dalla festosa confusione dei bambini, tanto che lo spettatore non fa fatica a sentirsi ospite all’interno di quella meravigliosa famiglia. L’unica sequenza che sembra anticipare il dramma è quella in cui il nonno, il grande patriarca, prima di spirare, trasmette una visione di morte al nipotino: un getto di sangue scarlatto su una porta bianca. Premonizione che il bambino non può comprendere, perché non può sapere a quali atrocità e orrori è stato destinato il suo popolo e la sua famiglia. Subito dopo, la barbarie, la morte entra all’improvviso, con prepotenza e senza avviso, nella masseria delle allodole: “.. nessun maschio dovrà rimanere vivo, potrebbe un giorno vendicarsi...” Scene raccapriccianti si susseguono, specie quando i turchi assaltano la masseria. Aram viene decapitato e la sua testa, mozzata con un colpo di sciabola, cade nel grembo della moglie. Un bambino nascosto sotto un tavolo viene tirato fuori per un piede, e infilzato. Il medico viene crudelmente evirato. Per le donne armene, poi, inizia un’odissea segnata da marce forzate e campi di prigionia, fame e sete, umiliazioni e crudeltà, infatti sono costrette a camminare per giorni e giorni senza cibo e a compiere un lungo viaggio di morte verso il nulla fatto di stenti e fatica. Madri, figlie e sorelle si aggrappano disperatamente all’esistenza e tengono accesa la fiamma della

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speranza, ma le più deboli si accasciano per strada e i soldati le “finiscono”, così come avviene alla zia ottantenne di Nunik, che prima di morire raccoglie le ultime forze che le rimangono, si alza e con orgoglio mostra il volto fiero e il corpo avvolto dal bel vestito. La seconda parte del film ha momenti di violenza fortissima, che prendono alla gola. Basti pensare alla scena della soppressione del neonato, che è da brividi. A una mamma che ha partorito un maschio viene concesso di essere lei a ucciderlo; la donna, dopo averlo messo sulle spalle in un sacchetto, chiama un’amica, poi le due donne si stringono dorso a dorso e premono sino a soffocare il neonato. Terribile è anche la scena in cui Nunik viene denudata e ammazzata, per sottrarla alle atroci torture, proprio dal soldato turco che si era innamorato di lei e che aveva espresso la sua disillusione e la sua vergogna nel far parte di quel popolo che gli aveva assegnato un indegno servizio. Dopo aver visto questo film, ci si sente diversi. Si sa qualcosa di più sulla «banalità del male» di cui parlò Hannah Arendt a proposito del boia Eichmann; e si conoscono nuovi boia, non nazisti ma altrettanto feroci. Si tratta di un film che dà una un senso e una dignità ai tanti caduti e che non lascia indifferenti gli animi sensibili, un film che trasporta lo spettatore nella realtà dell’inizio secolo e che riporta alla memoria racconti ascoltati dai nostri anziani, che, con orgoglio e rassegnazione, ricordavano i loro cari caduti nella “grande guerra”. Interessante è anche riflettere sul destino dei due fratelli che con le loro scelte differenti hanno forgiato per se stessi e per i loro figli due destini tragicamente opposti, di vita e di morte. Grazie all’avventuroso intervento di amici fedeli, che rifiutano di farsi complice della violenza, per i figli di Aram si apre in extremis una via di fuga e così riusciranno a salvarsi e a raggiungere lo zio in Italia. E sarà lui a garantire per loro un futuro e a custodire

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le “memorie oscure”. Il film, teso come un thriller ed emozionante come una storia d’amore, fa rivivere in qualche modo, attraverso immagini atroci e toccanti, la tragedia del genocidio che coinvolse l’intera comunità armena durante i primi anni del Novecento. La masseria delle allodole è un film solidamente basato sulla storia, su una realtà che non ha bisogno di metafore in quanto continua ad accadere anche oggi, in diverse parti del pianeta. Per questo il racconto di uno dei tanti episodi dell’orrore umano ferisce come nessun horror classico riuscirebbe a fare, coinvolge emotivamente e tocca nel profondo. La crudezza di certe scene colpisce e spaventa maggiormente rispetto ad un film horror, forse perché si sa che le trame di tali film non possono accadere nella realtà, mentre il genocidio degli armeni è avvenuto sul serio.

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Riflessioni sul film “La masseria delle allodole” *** Il film “La masseria delle allodole” ha provocato in me un profondo turbamento e una partecipazione emotiva, oltre ad offrirmi significative informazioni circa le persone, i loro modi di vita e le circostanze sociali. Grazie alle immagini, alla affascinante sintesi tra musica e recitazione, è riuscito a trasmettere messaggi e significati che mi hanno coinvolto in maniera totale, favorendo la mia identificazione con alcuni personaggi e costringendomi a reagire. Giovanna Bonelli (II A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Questa opera cinematografica riporta alla memoria una delle più grandi e vergognose tragedie del XX secolo: la cancellazione di un popolo da parte di un altro. Un genocidio di cui si sente parlare, ancora oggi, assai poco. Eppure anch’esso, al pari dell’Olocausto ebraico, ha dato luogo a una diaspora, a una cultura da ricostruire, a un’identità da ricercare, dinanzi al quale l’Europa, a lungo, è rimasta sorda e inerte. Anika Fiorenza (II A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Il film “La masseria delle allodole”, che può considerasi un documento della tragedia armena - ancora bruciante e, per certi versi, incomprensibile - è veramente avvincente, pur indulgendo a momenti di crudo realismo, ha saputo trasmettermi intense emozioni e mi ha fatto riflettere sul senso della vita. E sinceramente credo che film come questo, contribuendo al sommovimento delle coscienze, possano non solo far crescere la conoscenza e rafforzare la memoria storica, ma anche insegnare all’uomo la strada giusta per evitare gli orrori della guerra con il suo prossimo. Martino Gentile (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Questo film mi ha ricordato il “Giardino dei Finzi Contini”, infatti sia il giardino che la masseria sono dei luoghi ideali, che portano in sé una fallace forma di sicurezza destinata ad essere spazzata via dalla violenza degli uomini, dai massacri degli uomini armeni e dalle “marce della morte” riservate alle donne. Quello che è davvero importante è che la “Masseria delle allodole” mi ha portato a conoscere uno degli eventi più drammatici del Novecento, un crimine in passato “rimosso”, troppo spesso, da considerazioni politiche ed ideologiche. Il ricordo di questa “pagina nera” è doveroso e serve a coprire, almeno in parte, un vuoto d’interesse durato praticamente un secolo. Federica Greco (II A Liceo classico “F.lli Testa”) 101


*** Come le poesie di Ungaretti e Montale, o i romanzi di Lussu e Rigoni Stern, ci ricordano il dolore straziante delle due principali guerre mondiali e ci aiutano a riflettere sull’importanza della vita e sulla spesso difficile coesistenza pacifica fra uomini, così anche il film “La masseria delle allodole” scardina le invisibili porte delle nostre certezze per riportarci all’incredibile genocidio armeno, inducendoci a ribadire l’esigenza del ricordo e dell’insegnamento di fronte ai continui e tragici errori umani. Margherita Grippaldi (II A Liceo classico “F.lli Testa”) *** Il film La masseria delle allodole dei fratelli Taviani descrive in maniera vivida e a tratti cruenta il genocidio degli Armeni avvenuto in Turchia nel 1915. Attraverso le vicende della famiglia Avakian vediamo rapporti di amicizia o, quantomeno, di pacifica convivenza trasformarsi in rapporti tra vittima e carnefice. Il nazionalismo fanatico dei Giovani Turchi dipinge tutti gli Armeni come “nemici interni” e traditori da eliminare per il bene della “grande Turchia”. Nonostante ciò nel film vi sono alcuni Turchi che, a causa di rapporti d’amicizia o d’amore con alcuni Armeni, non riescono a mettere da parte la loro umanità, pur contribuendo alla perpetrazione del genocidio: è il caso di Egon, del colonnello Arkam, di Nazim e di Youssouf. Quest’ultimo, alla fine della guerra, decide infatti di denunciare i crimini commessi da lui stesso e dai suoi commilitoni. Tuttavia quello che più colpisce nel film sono alcune immagini che riescono a rendere l’atrocità di questa tragedia: la testa mozzata di Aram, la scena corale delle donne armene che piangono i loro uomini, l’uccisione del neonato, l’uccisione di Nunik… Annalisa Lembo (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Ho notato che nella descrizione degli armeni il film trascura quasi del tutto la dimensione religiosa che caratterizza profondamente quel popolo. Mi ha colpito, però, un gesto dell’attrice Angela Molina che fa un segno di croce prima dell’uccisione del bambino, un gesto proprio di chi confida nel perdono di Dio. Inoltre la parola «amore» è l’ultima parola del film pronunciata da Youssuf durante il processo, ad indicare il sentimento che provava per Nunik, la persona da lui amata che ha dovuto uccidere per non venir meno alla promessa fatta alla donna. La parola «amore», che conclude La masseria delle allodole, può considerarsi il sentimento “vincente” che rende veramente nobile l’animo umano, anche quando l’odio imperversa, e può rappresentare una speranza che permette di alzare lo sguardo oltre gli orrori della morte, oltre l’odio che abita il cuore dell’uomo. Giuseppe Maggio (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) 102


*** La masseria delle allodole è un film che turba e inquieta profondamente l’animo dello spettatore. Le immagini sono forti, sanguinose e strazianti e mettono in luce lati oscuri dell’animo umano, capace di concepire orrori come quello che il film racconta. Al centro della vicenda un episodio rimosso della storia recente: il massacro degli armeni da parte dell’esercito turco, avvenuto nel 1915. Il film parte lento e stentato per approdare poi ad un indiscutibile impianto teatrale, per cui da una situazione familiare si giunge ad una dimensione corale - nel senso della tragedia greca - attraverso le scene del funerale, della festa, della comunità armena spaventata, dello strazio delle donne sui corpi dei maschi trucidati, fino al canto nazionalista dei Giovani Turchi contrapposto al canto armeno che le deportate non possono intonare. E’ un film che non si dimentica e non si può, né si deve dimenticare, dinanzi al quale non si può restare impassibili o indifferenti. L’articolarsi delle scene lascia sgomento lo spettatore e trasforma un fatto storico nella sua versione cinematografica in qualcosa di vivo e coinvolgente, in un’emozione personale e collettiva nello stesso tempo. Alla visione di un medico evirato a carne viva, di un neonato soffocato, di un bambino infilzato, di una donna nuda trascinata e violentata dinanzi ad occhi attoniti non si può restare indifferenti. L’insofferenza e la rabbia aumentano al pensiero che l’odio degli uomini si scaglia con inaudita ferocia verso chi è più debole ed indifeso. La ribellione è d’obbligo anche se, purtroppo, non possiamo che assistere inorriditi al trionfo della violenza. L’unica speranza che rimane è che film come questo sensibilizzino gli uomini, affinché non diventino mai più autori di tanta crudeltà. Mi è sembrato che i Taviani abbiano voluto ricordare tutti gli innocenti perseguitati ed uccisi per motivi inesistenti, l’assurdità di qualsiasi persecuzione razziale, che fa sì che persone che intrattengono rapporti amichevoli e cordiali, nel giro di poche settimane, possano trasformarsi in orribili persecutori ed in straziati perseguitati. Chiara Montaperto (I B Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Di fronte alla indicibilità del genocidio armeno, ritengo che l’approccio cinematografico, anche se inevitabilmente viziato dalle tecniche soggettive di ripresa e di montaggio, sia il più adeguato per rappresentare così tanta efferatezza. I fratelli Taviani facendo ricorso a immagini forti, raccapriccianti hanno offerto con “La masseria delle allodole” un documento il più possibile fedele alla realtà senza offendere la memoria delle vittime, anzi si sono impegnati a trasmettere la memoria di quei fatti alle generazioni future fornendo una testimonianza filmata, che ha il pregio di possedere un’incredibile forza emotiva e di scuotere la nostra coscienza. Santi Paride Nasello (II A Liceo classico “F.lli Testa”) 103


*** Questo film così forte e straziante racconta, attraverso il dolore e la paura dei protagonisti, il terrore sconvolgente della guerra e richiama tutte quelle guerre, dal Kosovo al Ruanda, dove il fratello uccide l’altro fratello. Guerre dove una madre, per non far uccidere da un soldato il proprio figlio maschio, neonato, è costretta a soffocarlo, dove gli uomini vengono evirati o massacrati e le donne violentate, deportate e lasciate morire, nel deserto, di fame e stenti; guerre che ci ricordano che la cattiveria è in ogni uomo, in ogni popolo, in ogni epoca storica... e che un genocidio si può ripetere anche a distanza di decine e di centinaia di anni e che la storia in questo senso non insegna proprio un bel niente ed è molto lontana dall’essere magistra vitae. Enrico Pidone (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Il cinema, ed in particolare il cinema di finzione, può essere fonte attendibile di riproduzione storica? Possono le immagini rendere visibile ciò che, di per sé, è umanamente inimmaginabile? E’ legittimo, senza offendere la memoria di milioni di morti, rappresentare la storia attraverso un film? Queste le domande che mi sono posta alla fine della proiezione del film La masseria delle allodole che ha rappresentato una tragedia di così grande portata, quale è stata lo sterminio degli Armeni. Ho cercato di darmi della risposte e mi sono convinta che il cinema può essere fonte di testimonianza storica autentica e può far cogliere una chiave di lettura di eventi incomprensibili come questo. Silvia Scriffignano (II A Liceo Classico “F.lli Testa”)

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La masseria delle allodole di Graziella Di Salvo Barbera* Sullo schermo gigante scorrono immagini di violenze inaudite, armeni trucidati, e violentate donne da turchi imbestialiti dalla guerra. Occhi sbarrati di bimbi impauriti si chiedono il perché di tanto orrore. Sangue versato di fratelli inermi bagna la terra e sporca fa la storia. E in me che guardo senza aver vissuto ciò che è stata una cruda realtà nasce la vergogna di far parte di quella stessa razza che impropriamente chiamiamo umanità. Abbiamo perso l’impronta originale per cui Dio ci ha fatti a somiglianza sua, ma nell’atto sublimato dall’amore, lo stesso Dio, fattosi uomo in mezzo a noi, ci salva dall’eterna perdizione. E da una croce diventata trono ci offre ancora oggi il suo perdono.

* Graziella Di Salvo Barbera nasce a Palermo da genitori mistrettesi e vive la sua giovinezza a Mistretta. Dopo il matrimonio si trasferisce a Nicosia, dove attualmente vive insieme ai figli. Autrice di numerose raccolte poetiche (Io, Graziella; Il melograno; Scarpisannu sti strati; A me’ casciaforti) ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti in concorsi di poesia a livello nazionale. In questi versi la poetessa - che ha partecipato alle proiezioni pomeridiane del cineforum, aperto al pubblico - ha espresso, nella forma che le è più congeniale per esprimere le proprie esperienze ed emozioni, il suo punto di vista, il suo giudizio sul genocidio armeno, evidenziando una profonda partecipazione e riflessione morale e dimostrando come il film l’abbia fatta entrare in un mondo emozionale, consentendole di percepire la vita di frustrazione e sofferenza del popolo armeno e di ritrovare la propria posizione nei confronti delle ingiustizie e delle violenze che vi sono rappresentate.

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In gioco la vita di Graziella Di Salvo Barbera Dalle rovine usciti malconci con gli occhi gonfi dal pianto, macchiati i vestiti di sangue, vacillanti i ginocchi; umani relitti aggrappati alla vita per ricominciare con un mattone sull’altro, il piccone e la vanga fra le mani ferite, vibrando i colpi con rabbia per gli anni perduti lottando l’uno contro l’altro armati, mentre era in gioco la vita. E vedere con stupore rifiorire l’orto, le donne curve al telaio cantare, e gli uomini, quelli ritornati dal fronte, asciugarsi il sudore per una fatica immane, prezzo per una fetta di pane, a volte raffermo, rinascita lenta, stentata, sofferta. Ed era sempre in gioco la vita. Ora tutto sembra cambiato, una patina d’oro ricopre le arcate sfiancate, le colonne portanti corrose, le piante maligne nel frattempo allignate che infestano il mondo, dove ora, più che mai, è in gioco la vita. Inutile stare inerti a guardare, inveire o piangere sul latte versato. Bisogna abbattere muri cadenti, eliminare barriere, spianare dislivelli. E ricostruire con le sole forze delle mani a costo di giocarsi la vita. 106


HOTEL RWANDA Regia: Terry George Produzione: Can/GB/Ita/Rsa - Dramm. Durata: 121’ Interpreti: Don Cheadle, Djimon Hounsou, Sophie Okonedo, Nick Nolte, Joaquin Phoenix, Desmond Dube, David O’Hara, Cara Seymour, Roberto Citran Sceneggiatura: Keir Pearson - Terry George Fotografia: Robert Fraisse Scenografia: Johnny Breed- Tony Burrough Montaggio: Naomi Geraghty Costumi: Ruy Filipe Musiche: Rupert Gregson - Williams

Trama Ruanda, 1994. Paul Rusesabagina (Don Cheable) è il direttore del lussuoso Hotel Mille Collines di Kigali, appartenente alla catena Sabena, che vive come un manager occidentale. Sa navigare nella vita, sa adulare la persona giusta al momento giusto e pagare la tangente necessaria per avere le bevande e i cibi migliori da offrire alla clientela internazionale del lussuoso Hotel che dirige, frequentato dai turisti e dai papaveri locali. Paul crede nella civiltà: ha studiato in Belgio, conosce le lingue, è vestito in modo inappuntabile e sa essere discreto. Ma, una sera, quando vede alcuni suoi vicini di casa indossare delle uniformi, armarsi di pistola ed uccidere altri loro vicini, quando vede gli estremisti dell’etnia hutu aizzati dalla stazione radiofonica Rtml, sterminare a colpi di macete non solo i tutsi, ribattezzati “scarafaggi”, ma anche gli hutu moderati, il suo mondo di sicurezze va a pezzi. Paul è un Hutu, ma è sposato a una Tutsi (Sophie Onekedo), sicché la moglie e i figli sono in pericolo. E’ a questo punto che Paul smette gli abiti del neo-borghese individualista e compila da eroe la propria Schindler’s list e, usando coraggio, astuzia e intelligenza, si adopera per dare rifugio non solo alla propria famiglia, ma a migliaia di tutsi che tentano di sottrarsi a una morte sicura. Così, mentre in pochi giorni i massacri trasformano Kigali in un enorme cimitero a cielo aperto (in soli cento giorni muoiono un milione di persone), Paul, mostrando un altruismo che gli impedisce di veder morire la gente senza far nulla, compra a colpi di dollari i suoi “scarafaggi”, protegge nel

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suo albergo (di proprietà belga), camuffati come clienti, 1268 persone sfuggite alle pulizie etniche, trasformando l’Hotel in un rifugio per tutti (uomini, donne e bambini, orfani e religiosi), procura loro del cibo e stanze pulite, lotta con i denti per la loro sicurezza, minaccia l’esercito hutu, sfrutta la sua rete di conoscenze sviluppate in anni di impeccabile servizio - complice qualche bottiglia di ottimo whisky, pregiati sigari cubani da 10 mila franchi e le laute mance lasciate dai facoltosi clienti dell’albergo - per nascondere e proteggere una frotta di disperati dai reiterati assalti delle milizie Hutu pronte a fare a pezzi “ogni scarafaggio Tutsi” con i machete. Rischia anche la propria vita dimostrando che, a volte, basta davvero un uomo solo per fare la differenza. E così riesce a salvare il salvabile. Lo aiutano alcune persone di buona volontà, soprattutto bianchi super-idealisti e qualche nero più corrompibile e alcolizzato, mentre Citran fugge come una lepre abbandonando i suoi fedeli. Un giornalista, Jack (Joaquin Phoenix), violando le direttive della televisione per cui lavora, riesce a documentare la strage che insanguina il Rwanda. Gli basta andare poco oltre il muro che circonda l’Hotel, a Kigali, e con la sua telecamera raccoglie le immagini di donne, uomini e bambini tutsi uccisi dai machete della “milizia” hutu. Poi, manda alla sua emittente quelle immagini e il mondo le vede. Ora può esserne orgoglioso. Ma quando Paul Rusesabagina tenta di ringraziarlo, Jack è duro e amaro. “Certo -commenta gli spettatori saranno inorriditi, e avranno interrotto la cena. Ma poi, esaurita la pietà, altrettanto certamente saranno tornati al loro piatto, tranquilli”. Nonostante questi sforzi, un milione di Tutsi viene massacrato senza che la comunità internazionale faccia nulla, se non lasciare a poche forze dell’Onu il compito di un intervento di scarsa efficacia. Infatti le Nazioni Unite riducono il contingente di pace a un manipolo sparuto (da 2.500 a 270 soldati) sotto il comando del colonnello Oliver (Nick Nolte) che non ha il per-

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messo di usare le armi. Nel frattempo un migliaio di militari si limita a recuperare i propri compatrioti per poi abbandonare il paese. Commento Il regista irlandese Terry George affronta questo genocidio, prima rimosso e poi dimenticato, in un film dal forte impatto emotivo, grazie all’identificazione dello spettatore coi personaggi. Il film, infatti, ci coinvolge, ci indigna e ci commuove, riesce a parlare alla coscienza di noi spettatori, innalzando il protagonista a emblema di coraggio e di dignità umana e dà forza e speranza alla gente insistendo, soprattutto, su quegli avvenimenti che hanno portato al trionfo di Paul Rusesabagina, il vero protagonista di questa inquietante storia. Il personaggio è molto simile a quell’Oskar Schindler che tutti abbiamo imparato a conoscere con il film di Spielberg, un uomo assolutamente normale e tranquillo che, davanti all’eccezionalità dell’orrore, riesce a mettere in campo una forza e un coraggio che lui stesso non sa di possedere, contrapponendo alla tragedia e al caos le armi della competenza professionale e della coscienza. Infatti, come Schindler, utilizza la sua esperienza di uomo d’affari per salvare tante vite e, come lui, scende a patti con persone della sua stessa stirpe, in questo caso gli Hutu, che fanno strage dell’etnia Tutsi a colpi di machete. La storia di Paul Rusesabagina sarebbe potuta essere quella stessa di Gregoire (Tony Kgoroge), il portiere del suo Hotel che lo denuncia alla milizia. Entrambi, infatti, sono Hutu ed entrambi vivono una tranquilla normalità. Ma a fare di Gregoire un complice dei persecutori e degli assassini e di Paul un eroe è stato l’ atteggiamento nei confronti della vita propria e degli altri. Gregoire non vede e non sente i singoli uomini e le singole donne che chiama, nel loro insieme, tutsi. Per lui, come per gli altri persecutori, sono tutti scarafaggi. È un misero uomo, pago della sua tranquilla normalità che rimarrebbe tale se qualcuno, a

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scopo di potere e di guadagno, non lanciasse le parole d’ordine dell’etnia scatenando l’odio e facendo sì che la abulica normalità si trasformi in normalità omicida. Anche Paul è hutu, anche lui non è un moralista o un idealista, anche attorno a lui l’odio spinge a uccidere, ma la sua storia personale va in direzione opposta a quella di Gregoire e finisce per trasformarlo in eroe. Egli, guardando gli uomini e le donne che gli chiedono aiuto, li vede come uomini e donne e, di fronte alla necessità di decidere se chiudersi nella normalità e nell’abulia del suo proprio “interesse” o aprirsi alla richiesta d’aiuto e al rischio, non sente neppure il bisogno di porsi la questione. Per lui, si tratta immediatamente e semplicemente di non lasciar morire e di non lasciar uccidere. Il film, efficacissimo nel ricostruire come in un thriller la tensione psicologica e il terrore a cui erano sottoposti i rifugiati, non cede mai alla tentazione di mostrare l’orrore del sangue e delle mutilazioni neppure nei momenti più truci in cui sarebbe bastato un nulla per cadere nell’eccesso. Rientra forse nella scelta estetica del regista George il lasciare fuori campo gran parte della violenza, per rimarcare il ruolo di “oasi felice” dell’Hotel e per non cadere nella trappola del reportage scioccante che strappa solo qualche “Oh!” fra una forchettata e l’altra dei paesi “sviluppati”. Per suscitare l’indignazione, egli fa con lo spettatore ciò che Rusesabagina, da ingegnoso negoziatore qual è, fa con Reno, l’unico contatto influente della catena belga di alberghi che gli resta in occidente: lasciarlo appeso al “filo” fino a farlo arrossire di vergogna, né più né meno di quanto è arrossito il protagonista nel momento in cui, da prototipo dell’acculturato occidentale, si rende conto di non essere mai stato considerato un pari. Difatti, tranne un paio di sequenze piuttosto forti ma necessarie (come la traversata in jeep fra mucchi di cadaveri che rivela agli occhi del protagonista e degli spet-

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tatori la carneficina, mentre all’alba si alza la nebbia), il regista si affida ai volti traumatizzati e sconvolti dei protagonisti per trasmettere l’orrore delle varie situazioni. Il grido d’aiuto delle vittime resta stampato nei loro sguardi spaesati in due scene speculari: i Tutsi nascosti in casa e gli orfani nella stanza d’albergo. Le perfette inquadrature non inducono al macabro, ma l’effetto che producono sono qualcosa di più di un pugno nello stomaco e, combinate come sono alle fantastiche musiche di Andrea Guerra e Harry Gregson Williams, strappano il cuore. Teso, appassionante, avvincente senza un attimo di tregua, il film racconta, senza retorica, senza patetismi né particolari ricerche di stile, la paura e la violenza, i compromessi e l’indifferenza internazionale che permisero le terribili stragi, intrecciando magistralmente l’atroce storia con l’amore e il coraggio della coppia protagonista, che, mentre il massacro infuria e l’odore del sangue si fa sempre più acre, giunge persino a pianificare, in una palpitante scena, il suicidio. Candidato a tre Golden Globe e tre Oscar Hotel Rwanda è il primo film che ha squarciato il velo su un avvenimento poco noto, facendo conoscere al pubblico di tutto il mondo eventi drammatici sconosciuti o dimenticati, una storia che i nostri media hanno cancellato, probabilmente perché non sembrava loro interessante, o perché volevano evitare di evidenziare l’intreccio di complicità e indifferenza che portò a scrivere una pagina violentissima della storia africana. Il regista, a distanza di dieci anni dal terribile genocidio, sceglie coraggiosamente di riproporcelo facendo sì che il film diventi una denuncia, un preciso atto d’accusa senza sconti nei confronti del mondo occidentale, colpevole sia di aver introdotto durante il colonialismo la assurda distinzione fra Hutu e Tutsi fra i ruandesi, e sia per non essere intervenuti quando l’odio seminato è esploso. Grazie al film, una storia che si voleva seppellire è tornata a galla e l’attenzione sui problemi dell’Africa è di molto cresciuta. Si è capito che dietro quel genocidio durato cento giorni (dal 9 aprile al 19 luglio 1994) c’è l’importante problematica del

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colonialismo, che in tutta l’Africa ha fatto dei danni notevoli. Nonostante, infatti, si voglia liquidare il problema sostenendo che la polveriera sia da rinvenire nell’atavico odio etnico, sono stati i coloni belgi, tra il 1918 e il 1962, a creare questa forma di apartheid e a coltivare la contrapposizione fra le “etnie” hutu e tutsi, per governare la loro colonia, sicchè, finita l’occupazione, in Rwanda gli Hutu hanno visto nei Tutsi quello che i Belgi avevano voluto che vedessero: un gruppo contrapposto, un gruppo da odiare, e alla fine un gruppo da eliminare. E, dopo aver creato animosità tra i due gruppi, hanno abbandonato il Paese senza tentare alcuna riconciliazione. L’Onu sapeva dei massacri che stavano cancellando un milione di cittadini dal Ruanda, ma, nonostante le pressanti richieste del generale canadese Dallaire (rappresentato nel film di George da Nick Nolte), decise di diminuire il contingente di pace delle Nazioni Unite, limitandosi a far evacuare gli europei in zona e abbandonando le popolazioni africane al loro destino. L’occidente, dal canto suo, non intervenne sapendo bene, da centinaia di anni, che finanziare e armare mercenari neri (non solo bianchi) è la migliore strategia coloniale e neocoloniale che si conosca per tenere l’intero continente africano sotto il suo tallone. La vicenda vera raccontata da Hotel Rwanda, è infatti la prova di quanto le vite degli africani, di per sé, sullo scacchiere internazionale contino meno di nulla. A rimarcare il disinteresse generale del mondo sono le parole che, nel film, l’ufficiale canadese a capo di un contingente Onu rivolge a Paul Rusesabagina: «Per l’Occidente, per le Nazioni Unite voi siete spazzatura. Non resteremo, non fermeremo questa carneficina. E tu non sei neanche un negro, sei un africano». Il motivo dell’orrore raccontato da Hotel Ruanda sta proprio in questo disinteresse dei governi, che, lasciando mano libera agli assassini, nulla hanno fatto per impedire quel massacro. Dopo dieci anni da quel genocidio i politici di tutto il mondo, professandosi indignati difensori della libertà e della democrazia, hanno chiesto scusa, sono corsi in pellegrinaggio in Ruanda per farsi perdonare dai sopravvissuti e hanno ripetuto, come sempre, che una cosa del genere non dovrà più accadere. Ritorna alla mente quel “Mai più”, che la comunità occidentale si era ripromessa dopo la Shoah; purtroppo, però, a dispetto delle promesse dei politici, i genocidi, dalla fine della seconda guerra mondiale, non si sono esauriti continuano a riproporsi. Le guerre e i massacri mobilitano le prime pagine, le copertine e i servizi di apertura dei media nel lasso di tempo che separa una tragedia dall’altra. Il film, fornendo materia di riflessione sul colonialismo, sulla necessità di un intervento del mondo per dirimere questioni difficili, può a buon diritto considerarsi una interessante lezione di storia. Pertanto se vogliamo che quel “mai più” possa diventare una realtà, non basta commuoversi dinanzi a un film infernale, bisogna che i potenti di turno imparino la lezione, cercando di creare un dialogo tra i vinci-

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tori, che oggi hanno in mano il potere, e gli sconfitti, che restano intimiditi, affinché si possa ricostruire insieme una convivenza tra etnie diverse. Compito, poi, dei mezzi di informazione deve essere quello di veicolare le notizie che toccano paesi diversi dai propri, offrendo una viva testimonianza di ciò che accade nel mondo perché ci si possa sentire vicini ai problemi di popoli che, pur lontani da noi, sono uomini come noi che meritano il nostro aiuto, il nostro rispetto e la nostra solidarietà.

Riflessioni sul film “Hotel Rwanda” L’indifferenza dell’Occidente si affiancava all’inconsapevolezza dei Ruandesi: lo stesso Paul Rusesabagina, l’uomo su cui è fondata l’intera vicenda del film, in una intervista a cura di Alberto Cassani, pronunciò queste parole: “All’inizio mi preoccupavo, soprattutto, per la mia famiglia […] Credo di essere stato molto ingenuo perché non mi rendevo conto di cosa stesse accadendo. Per lo meno fino alla notte del 7 Aprile, quando vidi alcuni dei miei vicini di casa […] uccidere altri nostri vicini.” Clarissa Cacciato (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Hotel Rwanda non si limita solo a fare un resoconto del genocidio, ma lancia delle accuse contro l’Occidente, colpevole per ben due volte: prima perché i coloni tedeschi e belgi accentuarono la divisione della popolazione tra Tutsi, Hutu e Twa, ritenendo i Tutsi (o Watussi) più intelligenti e adatti a gestire il potere e sottomettendo così gli Hutu e i Twa; la seconda volta quando, durante i “100 giorni di sangue”, aiutarono gli europei a tornare nelle loro patrie, inviando in Rwanda solo un contingente di 2500 militari, divenuti poi 270, appartenenti all’Unamir. Egle La Porta, Clarissa Cacciato (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Ho provato una pietà profonda nel vedere le immagini del film e mi sono rattristata nel vedere una bambina di colore tutta sola in mezzo a mucchi di cadaveri. Ho pensato così di poterne adottare una a distanza. Samantha Cocuzza (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Dopo la visione del film “Hotel Rwanda” mi sono resa conto che quel massacro raccapricciante, che costò la vita a quasi un milione di persone - in maggioranza appartenenti all’etnia Tutsi - e che venne liquidato con la definizione di guerra civile, frutto di “un atavico odio etnico”, è stato in realtà fiancheggiato dalla Francia,

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trascurato dalle Nazioni Unite e nascosto nella cassaforte dell’indifferenza da molti Paesi che avrebbero dovuto avere il dovere di proteggere la “provata” nazione africana. Ma come mai - mi sono chiesta - gli americani, che si sentono i paladini del mondo, che intervengono anche dove sarebbe meglio non intervenire, hanno ignorato il genocidio ruandese, evitando l’obbligo previsto dal diritto internazionale di fermare questo tipo di crimine? Non sarà per caso che ci si preoccupa di portare pace e democrazie solo in paesi che sono “petroliferi” come l’Afghanistan e l’Iraq e non in quelli privi di rilevanza economica o strategica? Michela D’Amico (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Il film “Hotel Rwanda” racconta non solo una vicenda umana tratta da una storia realmente accaduta, fattore questo che ne fa anche una testimonianza preziosa del secolo scorso, un monito per non dimenticare mai, ma è anche un’aspra critica politica al comportamento degli Stati colpevoli, secondo l’opinione pubblica più attenta e informata, di essersi disinteressati della causa ruandese, rifiutandosi di sostenere le ingenti spese necessarie al mantenimento operativo degli squadroni di bombardieri in Ruanda. Luigi Fascetta (I A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Del film “Hotel Rwanda” mi sono rimasti impressi lo sbigottimento del protagonista Paul Rusesabagina davanti al distacco che i bianchi dimostravano, la sua incredulità di fronte al fuggi-fuggi degli Occidentali, il senso di abbandono dinanzi a tutti coloro che, prima, si rivolgevano a lui come se fosse una persona e, poi, l’hanno trattato come un oggetto ormai inutile; infine, mi hanno colpito la sua impotenza e disperazione di fronte a quell’eccidio furibondo. Tutti sentimenti ed emozioni che come spettatore ho provato anch’io nel vedere un massacro così crudo di esseri umani tali e quali a noi, provvisti (ma solo sulla carta), secondo il il diritto internazionale, degli stessi diritti inviolabili. Luca La Giglia (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) Il film estremamente realistico e sconvolgente, con il suo ritmo incalzante e con le sue immagini crude, ha suscitato in me emozioni molto forti: ansia, angoscia ma anche rabbia e frustrazione. Inoltre ha mantenuto desta la mia attenzione fino all’ultimo, costringendomi a pensare a come possa esistere tanta crudeltà al mondo, a come un uomo possa fare del male, in modo così atroce, ad altri simili, senza nessuna giustificazione. Il messaggio che ho ricevuto è che sarà impossibile fermare la spirale di violenza finché non si smetterà di far parlare le armi invece della ragione. Deborah Leonardi (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) 114


*** Il film “Hotel Rwanda“ evidenzia l’impotenza sia dei Paesi occidentali, sia dell’ONU, che continuava a “balbettare”, inerte e frustrato dinnanzi a quell’eccidio. Per ripercorrere il tema caldo del genocidio ruandese viene utilizzato un lungometraggio costruito condensando fatti e situazioni realmente accadute senza eccedere, riuscendo a raggruppare l’intera storia di sopravvivenza e di eroismo in 121 minuti che riescono a strappare il cuore allo spettatore. Il film “Hotel Rwanda” è uno dei modi migliori per descrivere e raccontare, a coloro che hanno avuto la possibilità di starne alla larga (per fortuna!), quello che è stato il genocidio ruandese. Cito una massima francese, che si addice all’importanza da attribuire alla pellicola: “Raconter pour ne pas oublier” (Raccontare per non dimenticare). Il film deve portare ogni uomo che sta comodamente seduto sulla poltrona di casa propria, a riguardare questo crimine, così atroce, ma così incompreso e mascherato. La libertà che ognuno possiede deve essere apprezzata ed elogiata e deve essere trasmessa ed insegnata a coloro che la vedono solo come un miraggio. Ogni uomo non può tacere o restare inerme dinnanzi a questi crimini, bensì deve cercare di meditare a riguardo, per poter comprendere quanto sia importante la libertà di ogni essere vivente. Affiora nella mia mente una frase di Ernesto Guevara riguardo la libertà: “Nessuna persona nell’intero mondo può sentirsi libera se c’è una sola persona in catene”. Giovanni Occhipinti (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Durante la proiezione del film “Hotel Rwanda” mi hanno impressionato le urla rimaste nella gola del popolo massacrato, quasi sterminato, ridotto alla schiavitù fisica e all’annullamento e, soprattutto, quelle dei bambini che la telecamera riprendeva con tecnica tutta documentaristica fra le macerie, nei villaggi, le mani premute sulle orecchie, per non sentire il fragore dei machete, gli occhi spalancati in una espressione di terrore e impotenza… e mi sono vergognata pensando che quelle urla non sono state udite… Silenzio è quello che è rimasto intorno ad una tragedia del tutto ignorata, sottovalutata, scomoda. Elisa Pagana (II A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Dicono che “sbagliando s’impara”, che commesso una volta un errore non si ripeta più. Eppure quello del genocidio, continua a ripetersi. Mi chiedo allora dove sia l’umanità dell’uomo, dove sia la tanto elogiata intelligenza, la tolleranza. Un 115


uomo che stermina una stirpe per una diversa caratteristica fisica (occhi, pelle) o culturale (religione), non è umano, tanto meno tollerante. Angela Pescetti (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Il film non indugia su scene cruente, bensì esprime il concetto di guerra e di sfruttamento tramite un clima di terrore e confusione. Trovo poi che sia espressione “disgustosa” di razzismo il fatto che gli Hutu definissero “scarafaggi” i Tutsi, perché il paragone tradisce un sentimento di profondo disprezzo dell’uomo nei confronti di un altro uomo. Il film è stato ideato per far sì che l’uomo possa rendersi conto di ciò che è accaduto poco tempo fa in Rwanda e per ricordare a tutti noi che anche ai nostri giorni avvengono episodi di questo tipo. Lavinia Pettinato (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Seguendo il film ho provato compassione nel vedere lo sguardo di quei bambini, uno sguardo reso più acuto dal dolore, dal desiderio di sopravvivere, dallo sgomento di fronte a ciò che non riescono a capire. Il genocidio è stato un orrore che ha coinvolto migliaia di persone e noi non dobbiamo dimenticare tutto quello che è successo, dobbiamo conservare i ricordi, tenerli sempre e ovunque in mente, perché la memoria è la sola, anche se labile, speranza che possa costituire un antidoto contro i possibili carnefici del futuro. Maria Michela Pitronaci (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Non una parola, non un mormorio durante la proiezione del film “Hotel Rwanda”, non un applauso, ma neanche fischi quando si riaccendono le luci. Ed è in un silenzio glaciale che mi alzo, attraverso la sala e mi avvio per raggiungere i compagni che hanno organizzato il dibattito che segue alla proiezione. Le prime reazioni sono di stupore, d’incredulità. È impensabile che un popolo civile sia responsabile di simili orrori! Lucia Rizzo (I A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** “Mai più”: questo si era ripromessa la comunità occidentale dopo l’Olocausto; purtroppo, però, i genocidi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non si sono esauriti, ed in alcuni casi (come il genocidio in Ruanda del 1994, che ha visto la 116


morte di oltre un milione di persone) i potenti hanno chiuso gli occhi proprio nel momento in cui bisognava aprirli. A riaprire questa ferita ancora fresca in molte coscienze è Terry George che con il suo “Hotel Rwanda” ci riporta a quei terribili eventi, raccontandoci da vicino la storia di un grande uomo che in quei giorni accese una speranza: Paul Rusesabagina, il direttore di un albergo a quattro stelle, che rischia la vita per mettere in salvo non solo i suoi familiari, ma anche centinaia di rifugiati, aprendo loro le porte del suo hotel. È difficile, per me, dover parlare di un film quando tutto quello che ti rimane dopo la visione è un groppo alla gola per drammi che vanno al di là della durata dello stesso film. Allo stesso modo, è difficile, per un regista rendere il senso di un dolore che oltrepassa ogni logica. Terry George, tuttavia, incentrando la sua attenzione su un massacro dimenticato troppo presto e trascurato anche dalle televisioni (perché, come è noto, se non passano in tv le guerre non esistono), è riuscito ad emozionare lo spettatore e a rendere drammaticamente palpabile quel massacro riportando alla luce, con coraggio, un’atrocità dimenticata da tutti, anche da quelli che potevano fare qualcosa per modificare il corso degli eventi. In Ruanda, infatti, la pulizia etnica avrebbe potuto essere evitata. Oggi che i potenti sono diventati buoni e fanno le guerre per far sì che nel mondo ci sia la democrazia, (anzi, scusate, solo nei paesi in cui c’è il petrolio); oggi che tutti hanno fatto bene a invadere un Paese che non aveva neanche un’ arma per lo sterminio di massa; oggi che ha vinto la “giustizia”, siamo tutti più felici. Oggi è così, ma undici anni fa, dove stavano questi angelici potenti - o chi per loro - che fanno di tutto per rendere il mondo migliore? Insomma quello che mi ha impressionato di più è stata la scarsità di reazioni. Faccio fatica a pensare che uno Stato Europeo, quale è il Belgio, Stato tra i paesi fondatori dell’Unione Europea, con una tradizione culturale e giuridica importante, possa essere rimasto inerte di fronte a tanto orrore. Faccio fatica a pensarlo, ma ancor più faccio fatica a comprendere il perché del suo comportamento indifferente, direi “assonnato”, se non complice. Non è questione di parte: si può essere di destra o di sinistra, di centro o apolitici, ma non è accettabile che un paese storicamente sostenitore dei diritti umani possa averli disattesi in maniera così scandalosa ed esecrabile. Non sarà che il vero motivo di questo comportamento si cela dietro la logica colonialista, che ha fatto danni notevoli in tutta l’Africa? È stato proprio il Belgio che, invece di cercare di amalgamare le due etnie, ha sempre incitato alle rivalità, per poterle manovrare politicamente.

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Comunque anche l’Europa è colpevole per non aver saputo gestire il problema “Africa”, infatti buona parte del benessere del nostro continente deriva dallo sfruttamento di quel Paese, operato dai coloni degli ultimi due secoli e non c’è dubbio che il mondo occidentale ha un enorme debito nei confronti dell’Africa. “Hotel Rwanda” è una sorta di “Schindler africano” poiché il protagonista è un uomo qualunque che, in una situazione di grave emergenza, trova la forza di non accettare facili compromessi. La forza del film sta nell’impatto tra un contesto generale di orrore e di follia e una storia individuale che, da sola, restituisce dignità all’essere umano. È una pagina violentissima della storia africana che il regista sceglie di proporci evitando molti degli aspetti più efferati, se si escludono alcune sequenze forti, ma necessarie, come la traversata in jeep tra i cadaveri. Il film, di grande successo, ha mostrato al mondo eventi drammatici, sconosciuti o dimenticati a cui un occidentale non può non dare peso, se quel “mai più” vuole diventare realtà. La storia raccontata ha profondamente fatto centro nella mia sensibilità. Non potrò mai dimenticare i bellissimi colori dell’Africa e i sorrisi di bambini spensierati e innocenti delle prime scene, a cui subito dopo - senza averne nessuna colpa vengono infranti i sogni e spenti i sorrisi. Ciò che distingue noi uomini dagli animali è prima di tutto la razionalità, quindi non capisco come degli uomini degni di questo nome siano potuti arrivare a tanto e, ancor meno, non riesco a concepire con quale coraggio queste tragedie disumane dovrebbero o potrebbero ripetersi. Rosy Russo Papo (I A Liceo Classico “F.lli Testa”) *** Difficile da sostenere è il clima teso che la guerra porta a vivere; a colpirmi è stata una domanda di una bambina rivolta al padre: - “ Dove andiamo papà?” - “ In un posto sicuro! ” Ma dov’è un posto del genere, dov’è la sicurezza, la certezza, la tranquillità, la pace, la vita? Niente è dato per certo, né la morte né la vita, il destino dovrà scegliere chi si salverà e chi morirà. Prima o poi tutti dobbiamo morire, ma è completamente ingiusto morire perché si è nati con la pelle più chiara o più scura o perché si è di religione diversa, o più ricchi o di etnia diversa. La diversità distinque un carattere dell’altro, il colore dei capelli, degli occhi, della pelle, ma tutti siamo uguali davanti al proprio Dio, davanti alla legge e tutti, soprattutto, abbiamo gli stessi diritti quale la vita e la liber-

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tà, libertà di vita, di pensiero, di stampa. Negare la libertà è ingiusto. “Hotel Rwanda” ha il merito di raccontarci una storia che la nostra coscienza e i nostri media hanno cancellato, probabilmente perché non sembrava loro interessante. Il film, inoltre, ci fa riflettere sui nostri mezzi di informazione che ci bombardano di notizie, soprattutto in questo momento e nel nostro Paese, laddove siano coinvolti cittadini europei. Irene Stansù (V B Ginnasio “F.lli Testa”) *** Il film s’incentra sul razzismo, particolarmente acceso in Rwanda nel 1994 quando abbastanza forte era l’odio degli Hutu contro i Tutsi che avevano ricevuto benefici dai coloni, prima tedeschi e poi belgi. Decenni di servilismo, oppressione, povertà estrema hanno poi fatto il resto, dando origine ad un forte nazionalismo che è alla base del genocidio avvenuto proprio in quell’anno. Gli Hutu, decisi a vendicare i torti subiti nel corso delle dominazioni coloniali, fecero ricorso al mezzo più feroce: lo sterminio dei Tutsi, la razza inferiore, gli “scarafaggi” del Rwanda. Il mondo attraversava una fase di transizione, infatti era da poco uscito da un cinquantennio di Guerra Fredda, che lo aveva diviso in due sfere, ed era ancora in atto la decolonizzazione, anche se il più era già stato fatto. In quel periodo, dunque, era quasi azzardato schierarsi dall’una o dall’altra parte in un conflitto che avveniva molto lontano sia geograficamente, sia dal punto di vista dei rapporti commerciali. Le antiche potenze coloniali, però, avevano lasciato in molte regioni eredità ancora vive della colonizzazione (a volte anche lo stesso esercito), e continuavano ad esercitare profonde influenze sia nei conflitti nazionali e regionali, sia nelle decisioni internazionali. Con i francesi alleati degli Hutu e i belgi dei Tutsi, sarebbe risultato impossibile il raggiungimento dell’intesa e della pace… “Hotel Rwanda” è un modo per dar voce a chi non ha voce, per dimostrare che i fatti narrati non debbono mai più divenire realtà, che l’odio genera soltanto altra povertà e peggiora la situazione, che tutte le persone - anche coloro che ritengono di poterne fare a meno - hanno un’anima. Sebastiano Testa (V B Ginnasio “F.lli Testa”) ***

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Giornata della Memoria 2008

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CONCLUSIONI

Cous - Cous al Mc Donald Vilma Fiore* Una riflessione sul tema della memoria non scade mai in vuota retorica se è vero che nella memoria affondano le radici del nostro presente e gli stimoli per il nostro futuro, nel quale episodi come quello della shoah non devono più verificarsi. Riflettere sugli stermini del secolo scorso e sugli eccidi del presente è imperativo morale categorico per ciascuno di noi. Infatti, solo attraverso il ricordo di ciò che è stato possiamo evitare che l’egoismo e l’odio crescano fino a generare sofferenza e morte. Inevitabilmente il ricordo del passato pone l’accento sul mondo attuale. Nel XIX secolo si affermò a livello ideologico, per approdare poi ai ben noti risvolti pratici, un nazionalismo esasperato e falso che attecchì facilmente in un clima di rapido mutamento sociale, durante il quale gli ebrei furono spesso accusati di esercitare un’influenza sproporzionata rispetto al loro numero. L’antisemitismo si configura così, già da allora, come un fenomeno più socio-politico ed economico che religioso o razziale. Nel XX secolo, il nazionalismo tedesco “sfruttò” tali idee come base pseudo - scientifica che permettesse di distinguere tra le cosiddette razze pure o ariane e quelle presunte inferiori, come quella ebraica. L’estremismo tedesco, per di più, fu aggravato dagli esiti del I conflitto mondiale e dalle condizioni umilianti a cui la Germania fu sottoposta dagli stati vincitori. Le spinte nazionalistiche divennero allora una soluzione possibile ai problemi di un Paese che ambiva al riscatto. Una nazione germanica forte e unita, dominata dalla razza pura, quella ariana a cui i tedeschi vantavano di appartenere. Lo Stato nel quale tali posizioni si identificarono negò ogni criterio di bene morale, si arrogò valori assoluti e decise di sterminare il popolo ebraico. La Shoah è il risultato di un regime moderno ottuso e feroce. Il ricordo di ciò che è stato pone oggi l’accento su un problema quanto mai attuale che è quello del razzismo, di ciò che, con un eufemismo dal sapore dotto, chiamiamo xenofobia, dell’emarginazione di chi è diverso da noi e non solo perché,

* Docente di Italiano e Latino del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia

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come per gli antichi Romani, parla una lingua diversa, barbara appunto, ma perché lontano dal nostro modo di vedere le cose, perché legato a realtà diverse dalla nostra, perché mangia cous-cous tutti i giorni e non il globalizzato Big mec, perché indossa lo chador e usa la kefia in testa e non al collo, perché ha il colore della pelle diverso dal nostro, perché prega Bhudda o Allah con fede sincera e non s’isterilisce in formule fittizie, perché vive nelle baraccopoli ai margini delle nostre città consumistiche, perché batte i marciapiedi di tangenziali metropolitane, perché offre mercanzia al suono di vu cumprà, perché vive, sconfitto dalla vita, da clochard sui marciapiedi affollati da gente che corre... Il germe che porta a diffidare dello straniero o del “diverso” è sempre esistito nell’uomo di ogni tempo, ma é quando esso assume l’aspetto organico di un’ideologia, di un sistema di pensiero codificato, di una leadership che confonde la maggioranza elettorale con l’assolutismo politico, che il rischio che si corre è davvero imponente. Normalmente, la diffidenza é controbilanciata da altri sentimenti come quello della fratellanza, del rispetto della dignità, dal concetto di democrazia e di libertà. Ma se tale diffidenza viene esaltata fino alle estreme conseguenze, se di essa se ne fa un “ideale” o, peggio ancora, uno strumento politico che fa leva sul sentimento di molti, allora sì che essa diventa davvero pericolosa e può portare, nel peggiore dei casi, ad un sistema politico fondato sull’intolleranza, sull’esclusione, sulla violenza, sulla paura, sulla repressione di chiunque appare “diverso”. Con ciò non intendo dire che la libertà può interferire con il rispetto delle leggi di uno stato. É certo, però, che esse devono fondarsi su basi e principi democratici. La nostra storia ha conosciuto episodi terribili non solo sotto i regimi nazista e fascista - basti ricordare il massacro degli Armeni, le vittime della guerra serbocroata e la tragedia dei Balcani, il genocidio degli zingari, le vittime del regime sovietico, cinese, cambogiano - e ancora oggi in un paese democratico come il nostro si discute di “ronde” speciali che garantiscano l’incolumità dei cittadini, di emarginazione di gay e di trans, di barboni, che nessuno tutela, che prendono fuoco come torce. Ci preoccupa uno stato che intende modificare le leggi costituzionali e utilizzare l’immunità parlamentare per impedire alla giustizia di fare il suo corso, che intende far leva sul sentimento di diffidenza collettiva per ottenere consensi, che vuole, in una società in cui la retorica è la disciplina prevalente nella comunicazione di massa, monopolizzare l’informazione per evitare confronti democratici. Primo Levi, che ci ha lasciato una delle più lucide testimonianze dello sterminio nazista, nell’appendice all’edizione di “ Se questo è un uomo” del 1976 scriveva: Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dei. Erano capi carismatici, possedevano un segreto potere di seduzione [...]. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse e in gene-

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rale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli non erano aguzzini nati, non erano, salvo poche eccezioni, dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Hoss comandante di Auschwitz, come i militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam”. Ciò significa che bisogna fare attenzione a chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, a non affidare ad altri la nostra capacità di giudizio e di scelta, a diffidare di capi carismatici e di quanti diffondono falsi miti e certezze toutcourt. Per questo la scuola ricorda e ammonisce: lo studio, il dialogo, il confronto e la memoria, oggi più che mai, possono evitare tristi epiloghi e il ritorno di ideologie estremiste che, ahimè, sono sempre attuali.

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Verso un mondo migliore … Maria Luisa Li Volsi*

L’olocausto e altri genocidi hanno ispirato molti film: alcuni tratti da libri celebri che hanno per protagonisti gli adolescenti (quali “Il diario di Anna Frank” e “ Jona che visse nella balena”) ed altri che raccontano - in chiave realistica (come “La tregua” e “ Il Pianista”), umoristica (“ La vita è bella”) o documentaria (“Hotel Rwanda” e “La masseria delle allodole”) - l’orrore di cui l’uomo è protagonista. Perché il ricordo di questi precisi momenti storici non venga solo denunciato e dimenticato si è cercato di coinvolgere, con la visione di alcuni film, gli alunni del nostro Istituto e degli Istituti Comprensivi di Nicosia, stimolandoli ad esprimere le loro riflessioni e considerazioni. Da esse è emersa una singolare sensibilità, una certa maturità e presa di coscienza di quanto accaduto in vari periodi storici. Ma, oltre a questa consapevolezza, alcuni discenti sono andati oltre, con constatazioni alquanto amare, affermando che il razzismo e la violenza esistono ancora nel mondo. In effetti la storia dell’umanità è costellata da un susseguirsi di guerre, di stragi, di estenuanti lotte per il predominio di popoli su altri popoli, di comportamenti prepotenti e dispotici. Purtroppo gli uomini, così facendo, continuano a ripetere gli stessi errori, non rispettando, disattendendo e calpestando i diritti fondamentali. Sentiamo ripetere ogni giorno frasi del tipo “L’uomo è un essere libero”, “Tutti gli uomini sono uguali fra loro”, ma spesso questi principi non sono riconosciuti, come constatiamo ogni giorno scorrendo le pagine dei giornali, zeppe di fatti di violenza che avvelenano la nostra esistenza. Certamente, però, ci sono stati e ci sono ancora uomini che pongono la loro vita al servizio del prossimo, che si prodigano per la pace, per la libertà, per la non violenza nella speranza che il mondo cambi e che diventi migliore. Sono quindi convinta che tutti noi, con il nostro lavoro, con il nostro impegno quotidiano a scuola, possiamo far crescere questa speranza a dispetto di quanti vorrebbero affossare i valori universali della libertà, della solidarietà e del rispetto reciproco, perché operando bene possiamo essere noi stessi i promotori della nuova storia, di un’era di pace e di fratellanza in cui i diritti umani, anziché essere calpestati, vengano esaltati.

*Docente di Italiano e Latino del Liceo Pedagogico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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Genocidi prima e dopo il “Genocidio” Valeria Fiscella e Luigi Gagliano*

Non è difficile prevedere, né tanto meno ci stupisce, che il lettore, giunto alla conclusione del libro “Shoah e… genocidi rimossi”, ne rilevi l’incompletezza e forse anche l’uso improprio del termine “genocidio”, in quanto – come parte della dottrina suggerisce - alcune situazioni, che ripropongono la logica dell’annientamento fisico di esseri umani, non sono etichettabili come genocidi veri e propri, dal momento che alla loro base non c’è stata la radicalità del progetto di sterminio come nella Shoah, cioè l’intenzione politica di uno Stato di riuscire ad uccidere tutti gli ebrei indipendentemente dal luogo in cui si trovassero. Tuttavia non abbiamo voluto fermarci di fronte alle diverse sfumature dei termini: genocidio, eccidio, pulizia etnica.., riconoscendo che si tratta comunque di crimini contro l’umanità, di crimini - sistematici e su larga scala - che vìolano continuamente i diritti umani e in cui è la popolazione civile al centro di una guerra o vittima di massacri di proporzioni immani, eseguiti non soltanto con le guerre e le persecuzioni che sono senz’altro espressione di brutale violenza, ma anche in vari altri modi, più subdoli e silenziosi ( tortura, arresto e detenzione arbitrarie, esecuzioni, stupro, ghettizzazione della popolazione civile, rimozione forzata, dispersione e deportazione, attacchi militari deliberati…). E sostenuti dall’etimologia del termine “genocidio”, abbiamo scelto di avvalerci di esso per definire ogni forma di violenza che si indirizza verso un gruppo di persone non per ciò che fa, ma per ciò che è: vale a dire per la sua origine nazionale, per la sua cultura o per la sua religione. La storia non ha di certo aspettato che fosse coniato il termine (cosa avvenuta solo alla fine della seconda guerra mondiale) perché venissero compiuti massacri di massa rivolti non solo ai combattenti, ma a tutto un popolo, bambini e donne compresi, per annientarlo. Anzi, parafrasando una celebre frase di Popper, potremmo dire che “la strada della storia è lastricata di genocidi”. Per non andare molto indietro nel tempo, ricordiamo il genocidio attuato dai conquistatori spagnoli sulle popolazioni indigene americane (i Pellirosse), ed ancora, gli stermini di massa sulle popolazioni dell’Asia e dell’Africa in seguito all’ulteriore espansione coloniale europea, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; stermini che, per il numero delle vittime e, soprattutto, per le modalità delle uccisioni, assumono anch’essi le caratteristiche del genocidio. Pensiamo, in particolare, al massacro dei

*Docenti di Italiano-Latino e di Storia-Filosofia del Liceo Classico “Fratelli Testa” di Nicosia.

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Boeri, in Sudafrica, ad opera degli Inglesi, o a quello degli Herero, gruppo etnico dell’Africa sud-occidentale (attuale Namibia), la cui sistematica distruzione ad opera dei Tedeschi negli anni 1904-’05 costituì probabilmente, ancor prima di quello degli Armeni, il primo genocidio del XX secolo. Nel Novecento, poi, quando la pratica dei massacri di massa si estese all’Europa, si registrò la terribile esperienza della Shoah, con le camere a gas, i forni crematori e i campi di sterminio. E anche se dopo la scoperta degli immani orrori attuati dalla Germania nazista ai danni degli ebrei sia stato dichiarato solennemente: “Mai più un’altra Auschwitz”, in realtà altri popoli successivamente sono stati perseguitati, deportati e uccisi per la loro nazionalità, la loro religione, la loro cultura. È successo nella Russia di Stalin, in Cambogia, in Darfur, nel Biafra, nel Kurdistan, nell’ex Iugoslavia, in Cecenia e così via. E allora perché - potrebbe essere la legittima obiezione del lettore - focalizzare l’attenzione solo su tre genocidi “rimossi”? Con una battuta si potrebbe rispondere: “Perché insegnare è scegliere”. Non escludiamo che in un futuro prossimo la nostra attività di educatori preveda interventi didattici mirati a riportare alla luce, con pazienti ricerche e adeguati approfondimenti, altri genocidi della storia recente. Intanto, a parziale “riparazione” della oggettiva, quanto inevitabile, incompletezza del nostro lavoro, abbiamo realizzato, in occasione della “Giornata della memoria 2009”, un DVD (allegato al presente quaderno) grazie anche alla collaborazione di tre alunni del 2° anno del Liceo Classico (Deborah Leonardi, Giuseppe Maggio e Santi Paride Nasello), che ne hanno curato la documentazione, il montaggio e l’adattamento della colonna sonora. Si tratta di rapidi flash, relativi ad altri massacri e stermini di massa accaduti nel recente passato, che integrano il nostro testo con eloquenti e sconvolgenti immagini di guerra e di violenza e che, ci auguriamo, possano costituire utili spunti di riflessione.

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INDICE

Presentazione del Dirigente Scolastico Giuseppe Chiavetta…………...... Pag Ragioni di un impegno di Valeria Fiscella e Luigi Gagliano…………....

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I PARTE La memoria…oltre le barriere dell’indifferenza di Luigi Gagliano…...… Shoah Prime disposizioni contro gli ebrei……………………………………..... Le leggi di Norimberga…………………………………………………... Altre leggi contro gli ebrei……………………………………………….. Notte dei cristalli ……………………………………………………….... Conferenza di Wannsee ………………………………………………...... Sterminio degli ebrei o shoah? …………………………………………... La legislazione fascista contro gli ebrei………………………………….. 1938: l’anno dell’ignominia ……………………………………………... Il Fascismo diventa razzista ……………………………………………... Genocidio degli Armeni Un po’ di storia…………………………………………………………... Il genocidio………………………………………………………………. Le ammissioni di colpevolezza ………………………………………….. Usa e questione armena …………………………………………………. Conclusioni……………………………………………………………….. Genocidio in Ruanda Posizione geografica del Ruanda ……………………………………........ Ruanda: un rapido sguardo alla storia……………………………………. I cento giorni di sangue ………………………………………………….. L’indifferenza del mondo ………………………………………………... Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ………………………... Genocidio di Srebrenica La disgregazione dello Stato iugoslavo………………………………….. Bosnia: guerra di tutti contro tutti………………………………………... Genocidio di Srebrenica ………………………………………………..... Il non intervento dell’ONU………………………………………………. La sentenza dell’Aja: “fu genocidio”…………………………………….. Due commenti a margine della sentenza dell’Aja ……………………….

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II PARTE Il film come testimonianza di Valeria Fiscella ……………...………….. Pag Il diario di Anna Frank Trama ……………………………………………………………………. Commento …..................………………………………………………… Riflessioni degli alunni…………………………………………………... Intervista immaginaria …………………………………………………… Intervista ………………………………………………………………….. Poesie ……………………………………………………………………. Jona che visse nella balena Trama ……………………………………………………………………. Commento …..................………………………………………………… Riflessioni degli alunni…………………………………………………... La masseria delle allodole Trama ……………………………………………………………………. Commento ……………...................……………………………………… Riflessioni degli alunni…………………………………………………... Poesie ……………………………………………………………………. Hotel Rwanda Trama ……………………………………………………………………. Commento ….................…………………………………………………. Riflessioni degli alunni……………………………………………………

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CONCLUSIONI Cous-cous al Mc Donald di Vilma Fiore ……………..…………………. Verso un mondo migliore di M. Luisa Li Volsi…………………………... Genocidi prima e dopo il “Genocidio” di Valeria Fiscella e Luigi Gagliano

Finito di stampare nel mese di gennaio 2010 presso

Arti Grafiche NovaGraf s.n.c. C.da Piano di Corte, 18 Assoro (EN) Tel. 0935 667864 - Fax 0935 620507 www.novagraf.it

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