Quaderni della Pergola n.7

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Il numero 7 dei Quaderni della Pergola è ispirato all’Amore, ai sentimenti, al movimento delle emozioni. Siamo tornati indietro di un anno, quando nel febbraio 2014 uscì il numero 2 dei Quaderni della Pergola dedicato all’Amore. La pagina accanto riporta la copertina di quel numero, con la lavagna ed il cuore, simbolo che lo lega a questo numero 7. Ancora l’Amore è protagonista, perché il tema amoroso è senza confini, senza limiti, senza fine. È un tema che coinvolge tutti: attori, scrittori, poeti, musicisti, danzatori... Raccontare l’Amore è una sfida, è un viaggio misterioso e delicato. È mettersi a nudo, alla ricerca della verità, del proprio essere, in equilibrio con la propria anima. È un filo colorato che lega ognuno di noi; è un respiro collettivo e singolare. Generoso e rumoroso come un applauso a fine spettacolo. E con amore vi dedichiamo queste pagine vibranti di emozioni..

4. Sandro Lombardi 5. Claudio Bisio 8. Alessio Boni 11. Vinicio Marchioni 15. Rocco Papaleo 19. Passioni a Teatro/Amori di Teatro 28. La parola al pubblico 29. Marco Baliani 30. Tilda Swinton 37. Hanif Kureishi 39. Corrado Augias 42. Dal diario di una giovane spettatrice 43. Dal palcoscenico del Teatro Goldoni 47. La Storia racconta.. 49. Stefano Massini 52. Giorgio Mancini 56. Katia Labèque 58. Museo Ferragamo 61. Dai Quaderni di Orazio Costa


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Attraversando l’amore di Sandro Lombardi

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l fondo del fare dell’attore c’è una sapienza ottenuta attraverso l’amore. Solo grazie all’amore egli può cogliere la bellezza inizialmente inafferrabile dell’ignoto che gli bussa alla porta. L’attore non sa, alle sue prime esperienze, non conosce, non ha le parole per definire quanto sta imparando a fare. Ma può lasciarsi investire da questo non sapere, lasciarsi guidare da questa forza sconosciuta che lo incanta, lo attrae, lo innamora, lo fa suo a poco a poco. In questo modo, facendosi portare, l’attore disseppellisce mano a mano l’ignoto, e lo trasforma in un frammento di sapienza. Se si lascia coinvolgere dalla segreta bellezza del mistero che gli si presenta, col tempo ne svelerà il senso a sé e poi agli altri.

IMMAGINE DALILA CHESSA


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Claudio Bisio

miglior film straniero. Del resto, anche in televisione sono arrivato sempre partendo dal teatro, nel senso che già quando seguivo la scuola teatrale sentivo di avere una doppia anima: la parte più seriosa – che la mattina a scuola studiava Pirandello o Brecht – e quella che di notte frequentava il cabaret al Derby di Milano. È da lì che è arrivato, in un secondo momento, il palcoscenico dello Zelig e della TV. Le nostre erano esibizioni dal vivo con davanti delle di È assecondando la sua passione telecamere; ecco perché dico che il mio Angela Consagra per il teatro che ha cominciato il approccio televisivo proviene dal temestiere di attore? Sì, io nasco con il teatro e, più preci- atro: la performance live, davanti ad samente, ho frequentato la Scuola del un vero pubblico pagante, è sempre Piccolo a Milano, negli anni Settanta. stata una ricerca fondamentale. Già Per un decennio ho lavorato soltanto dai tempi del cabaret del Derby mi in teatro: Comedians, con la regia di piaceva molto vedere la gente che si Gabriele Salvatores, forse è lo spettaco- divertiva e scoprire la bellezza, anche lo che mi ha fatto scoprire la comicità. dal punto di vista scientifico, di una Eravamo al Teatro dell’Elfo, insieme ad risata. Io non sono mai stato uno che raccontava le barzellette al bar o agli “Ogni battuta ha in fondo un suo amici a scuola, ma ho imparato stuspessore drammaturgico: diando ed inventando un mio stile: la prefazione, il racconto, la chiusa della il divertimento è accompagnato storia con la battuta finale… Quando sempre da un momento ero in tournée raccontavo barzellette cambiandole ogni sera. Alla fine ridi riflessione, un breve istante uscivo a sentire quando una battuta di malinconia” funzionava: affrontavo giorno dopo giorno la comicità, anche in base alla artisti come Paolo Rossi e Silvio Orlan- risposta del pubblico. do: un gruppo di persone con cui siamo rimasti sempre molto amici, durante Uno spettacolo è dunque sempre tutti questi anni. È proprio grazie a il risultato del pubblico che lo sta Salvatores che ho iniziato a fare anche guardando? cinema, prima vedevo questo mestiere La presenza del pubblico, per tutti soltanto pensando al teatro. noi che facciamo questo mestiere, è di un’importanza pazzesca. Nonostante i miei trent’anni di carriera, provo semE con il film Mediterraneo di pre una grande emozione prima di inSalvatores è arrivata l’emozione contrare il pubblico. E poi ogni sera è dell’Oscar… In questo avvicinamento verso il irripetibile: magari ti aspetti che parta cinema abbiamo avuto fortuna perché una risata in un certo momento, inveMediterraneo ha vinto l’Oscar come ce non sempre arriva. Dipende dall’e-

L’ALCHIMIA DI UNA RISATA


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nergia che si crea tra te, attore, e lo spettatore che ti sta di fronte. Questo rapporto, così unico, è un sentimento difficile da spiegare. Una preziosa alchimia. FOTO BEPI CAROLI

Siani, l’altro grande protagonista di questi film. Al di là di ogni raziocinio, pur comunicando con dei linguaggi così profondamente diversi, ci siamo compresi. Apparteniamo a luoghi geografici lontani, ma è il sentimento che lega le distanze. Il comico ha una visione della realtà quasi spiazzante perché anticipa alcune cose che risiedono, in modo latente, in tutti noi e che ci appartengono. Ha la capacità di raccogliere l’essenza della realtà per restituircela in termini assurdi, a volte perfino surreali. Ogni battuta ha in fondo un suo spessore drammaturgico: il divertimento è accompagnato sempre da un momento di riflessione, un breve istante di malinconia.

Il cinema e la TV le hanno regalato un’enorme popolarità; che cosa la spinge a ritornare, sempre, al teatro?

“Il comico ha la capacità di raccogliere l’essenza della realtà per restituircela in termini assurdi” La comicità ha un linguaggio universale? Con il film Benvenuti al Sud ed il suo seguito Benvenuti al Nord mi sono relazionato, da milanese, con attori meridionali: uno tra tutti Alessandro

Sicuramente il desiderio di incontrare, dal vivo, il pubblico. Con Zelig, come ho già detto prima, il rapporto diretto con gli spettatori non è mai mancato: ci trovavamo in un teatro vero, non in uno studio televisivo con delle telecamere e basta. Per quindici anni mi sono reinventato un po’ il mestiere di conduttore, e di fatto non esistono scuole per condurre: ho affrontato quel palco da attore, come se fossi un capocomico di una numerosa e variegata compagnia di comici. Adesso in teatro torno a proporre uno spettacolo vero e proprio, Father and Son, ispirato al libro di Michele Serra Gli sdraiati. La riflessione che si può fare in uno spettacolo è differente da quella che implica la TV: una volta i pezzi televisivi di Walter Chiari duravano, per esempio, anche venti minuti e invece oggi difficilmente si riescono a superare i tre minuti…


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Perché ha scelto proprio questo spettacolo? Il testo mi ha entusiasmato subito. È almeno da un paio di anni che tento di analizzare il tema del rapporto padre-figlio. Io stesso ho due figli – di 17 e 19 anni, un maschio e una femmina – e volevo raccontare, attraverso il teatro, proprio il confronto tra diverse generazioni. Ne cercavo il lato comico, a partire dalla singola situazione. È bello

voluto scrivere io: leggo i suoi pensieri su Repubblica e mi ci riconosco. In particolare con questo spettacolo viviamo

“Già dai tempi del cabaret del Derby mi piaceva vedere la gente che si divertiva e scoprire la bellezza, anche dal punto di vista scientifico, di una risata”

FOTO FILIPPO MANZINI

quando la comicità riesce a raccontare qualcosa condividendo con gli altri un comune sentire, pezzi di vita vissuti da tutti. Mentre con il regista Giorgio Gallione lavoravamo su questo argomento, è arrivato il libro Gli sdraiati di Michele Serra che ci ha fatto leggere addirittura in anteprima le bozze. Le sue parole corrispondevano esattamente con quello che stavamo pensando. Serra scrive quasi sempre le stesse cose che avrei

la stessa quotidianità: anche lui ha due figli adolescenti, così come il regista che ne ha uno… Durante le prove, noi padri, ci raccontavamo le reciproche esperienze, un po’ come un gruppo di autocoscienza femminista degli anni Settanta, declinato però tutto al maschile. Emergevano le nostre arrabbiature verso i figli ma anche, naturalmente, tanto amore. È stata una bella esperienza di condivisione e scambio reciproco.


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Alessio Boni CON CORAGGIO, ENERGIA E AMORE In genere ad un attore in Italia vengono offerti spesso personaggi simili… Sì, perché credo che il fattore produttivo e registico tenda a volte a far seguire, per non rischiare, un’unica direzione, mentre all’estero le domande a cui viene chiamato un attore sono molteplici: lo fanno diventare indifferentemente un portiere, un cavallerizzo o anche un assassino… Perché? Si fidano della professionalità dell’attore che viene considerata una professione molto importante che apporta cultura e che può migliorare il Paese; mentre in Italia il mestiere di attore viene considerato differentemente: quando si ha suc-

“L’attore, grazie alla passione che lo anima e alla voglia di mettersi in gioco, non vede l’ora di distanziarsi da se stesso e diventare ciò che nella vita non avrebbe mai potuto essere” cesso con un ruolo, per non rischiare, tendono quasi tutti ad offrirti sempre la stessa parte. Mentre l’attore, grazie alla passione che lo anima e alla voglia di mettersi in gioco, non vede l’ora di distanziarsi da se stesso per entrare nei panni di un personaggio completamente diverso da lui ed essere ciò che nella vita non avrebbe mai potuto essere.

In questo periodo a teatro impersona addirittura Dio. Credo che le carriere non si costruiscano soltanto sui ‘sì’: dopo l’esperienza de La meglio gioventù per alcuni anni tutti mi offrivano sempre lo stesso ruolo del poliziotto e ho detto tanti ‘no’. Alla fine le circostanze della vita di ogni singolo professionista sono veramente sorprendenti perché arrivano anche proposte a cui non avresti mai pensato: il Dio dello spettacolo Il visitatore non è Gesù Cristo, non è San Pietro né Giovanni Battista… Come si fa a dare un volto a Dio? Per interpretarlo sono tornato alla mia fanciullezza, ad un sentimento indefinibile, quel ‘blu’ che cercavo da piccolo… Piano piano mi sono distanziato dalla ricerca di questa interpretazione, che non significa distaccarsene: anzi, vuol dire prendere le distanze da qualcosa che ti ha assorbito. Come ha detto un grande greco: “l’attore comincia a diventare straordinario quando si è stancato di recitare”, nel senso che quando arriva a non crederci così tanto, alla fine riesce a non avvitarsi sul suo personaggio e su se stesso. Questo giusto distacco ti fa agire sul palcoscenico come se fossi nel quotidiano e ti regala spontaneità. Nella vita di tutti i giorni spesso ci distacchiamo e ci muoviamo per automatismo; riproporre questa veridicità sulle assi teatrali è molto più difficile che al cinema, dove si fanno pochi minuti di riprese che vengono ripetuti fino al risultato finale. Il Visitatore è uno spettacolo in cui ho dovuto cercare l’anima del personaggio che mi stava accanto. È un po’ come quando ascolti una canzone: a volte il cantante non ti fa più sentire soltanto delle note, ma è così dentro l’aria della musica che riesce a toccarti fino in fondo e a farti emozionare.


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Per assumere le sembianze di questo Dio narrato da Schmitt, oltre ad un’analisi profonda del testo, quanto è stato importante l’approccio fisico in scena? Per prepararmi al personaggio ho letto tanti testi e fatto training autogeno, cercando di scavare dentro me stesso… Devi ritrovare quel sentimento di meraviglia che avevi da bambino e che durante la vita hai un po’ perso. I codici comportamentali dell’infanzia – strabiliare gli occhi, per esempio – ti

Per diventare attori, oltre ad avere talento, sono importanti anche gli insegnamenti che provengono dalla scuola? Sì, ne sono convinto. Anche se, una volta usciti dall’Accademia, ognuno deve trovare il proprio percorso ed impegnarsi. Per me era un’utopia riuscire

“Per interpretare il ruolo di Dio sono tornato alla mia fanciullezza, a quel ‘blu’ che cercavo da piccolo”

FOTO GIANMARCO CHIEREGATO

rendono libero nei movimenti e richiamano l’immaginifico. E per riuscire ad ottenere questo risultato devo ringraziare, oltre al regista di questo spettacolo Valerio Binasco, soprattutto il mio grande Maestro Orazio Costa Giovangigli e i suoi insegnamenti che, da questo punto di vista, mi hanno dato tantissimo.

a diventare attore. Vengo da un paesino e ho sempre vissuto con modestia le grandi svolte della mia vita: il mio ingresso all’Accademia d’Arte Drammatica con Orazio Costa, così come i provini con Strehler o quello con Marco Tullio Giordana per La meglio gioventù… Einstein, in un suo bellissimo pensiero, afferma che bisogna cercare di diventare


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persone di valore e non per forza di successo in qualsiasi campo si sia scelto. Bisogna dedicarsi al lavoro con amore, appassionandosi e credendo il più possibile in quello che si fa. Noi adesso viviamo come avvolti in una cappa di incredulità, doveri e pragmatismo ma

“Il teatro è una forma di espressione nata più di 3000 anni fa: se ci si pensa bene, il teatro è ancora più antico della Chiesa...”

Il rapporto diretto spettatore/ attore è una forza per il vostro mestiere? Il teatro non morirà mai? Il teatro è una forma di espressione nata più di 3000 anni fa: se ci si pensa bene, il teatro è ancora più antico della Chiesa… Già nelle rappresentazioni greche si rispondeva ad una necessità insita nell’essere umano: l’uomo che si mette a confronto con un altro uomo. Il calore umano e l’energia che si sprigiona in questo scambio reciproco tra atto-

FOTO FILIPPO MANZINI

non si tratta solo di una crisi economica, piuttosto di una crisi etica e che parte almeno da trent’anni a questa parte. Ecco perché ci serve sempre di più una passione, soprattutto adesso, che coinvolga tutti quanti, in questo modo si cambierebbero le sorti del nostro quotidiano.

re e spettatore non si può quantificare: è come l’amore, cambia ogni giorno e non si può razionalizzare. Proviamo a pensare ad un teatro con mille spettatori all’interno e a quanta energia ogni singola persona riesce a sprigionare, un insieme di molecole e pensieri che uniti creano coraggio, energia e amore.


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Vinicio Marchioni CREATORE DI EMOZIONI Lei è stato interprete di Un tram che si chiama desiderio per la regia di Antonio Latella e de La gatta sul tetto che scotta nella versione di Arturo Cirillo. Che cosa la emoziona dei personaggi di Tennessee Williams? Nei testi dei grandi autori i personaggi sono sempre dei pezzi di vita che gli appartengono. Per me è emozionante entrare nella loro mente, andare a ristudiare le biografie per tentare di rintracciare, in qualche maniera, da dove nasce un certo personaggio. Nel caso di Williams si va a scavare veramente in un bisogno di amore poetico che si esprime nella scrittura: i monologhi, per esempio, delle sue figure

È stato Luca Ronconi ad insegnarle come leggere una scrittura, identificando i fili che legano una scena all’altra? Sono un attore fortunato perché ho avuto tanti Maestri e tutti i registi con cui ho lavorato mi hanno insegnato qualcosa. Personalmente Ronconi mi ha indicato il modo di essere autore del mio mestiere e come amare la recitazione, al di sopra di ogni altra cosa al mondo. Ci sono giorni in cui sei soltanto tu con le parole che dovrai recitare, quindi sei veramente autore della tua interpretazione: analizzi, rileggi e decidi le strade che vuoi far intraprendere emotivamente a quel personaggio della storia. Dopo, durante le prove, l’interpretazione sarà filtrata e veicolata dal regista, quindi bisognerà essere bravissimi ad unire queste due diverse letture.

Per entrare nell’emotività di un personaggio quanto è importante il regista?

Direi che è fondamentale comprendere la direzione che il regista ti dà che però non deve ‘mangiare’ mai l’interpretazione di un attore. Il regista costruisce lo spettacolo insieme all’emo“Il regista costruisce lo spettacolo tività, al mood espressivo che un attore porta sempre con sé in scena. Il termine insieme all’emotività, al mood interpretare significa, secondo me, un espressivo che un attore porta lavoro serio ed importante: essere un interprete ti colloca a metà tra un tipo sempre con sé in scena. Interpretare di linguaggio che esisteva già prima significa, per me, un lavoro serio” di te – le parole scritte dall’autore – e il linguaggio voluto dall’impostazione refemminili aprono come dei cieli all’in- gistica che mette insieme lo spettacolo. terno di una realtà stereotipata come Il risultato è ancora un altro linguaggio quella dell’America del Sud. Per capire - quello della scena - che viene affidato un personaggio e coglierne le sfaccet- all’interpretazione dell’attore, in modo tature, lo studio è importante: quando che possa poi veicolarlo al pubblico. Si affronto un ruolo mi piace avere uno assiste ad una trasformazione del linsguardo aperto su tutto quello che co- guaggio e questo fa sì che ogni spettacostituisce l’immaginario di quell’autore. lo sia unico, nel bene e nel male.


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Da questo punto di vista, fondamentale è anche l’alchimia che si crea con gli altri attori in scena? Assolutamente sì. Al di là della singola interpretazione, l’energia che in sala arriva dal palcoscenico si fa con tutti ed è la differenza principale con

di cambiarti lo spettacolo: tu cerchi di tenere il ritmo, assecondare l’emotività e rispettare gli snodi drammaturgici, ma l’influenza del pubblico è talmente forte… Il cinema è diverso, anche se si tratta sempre di una congregazione di esseri umani che si riuniscono, ma è una specie di circo strano: arrivano i camper in un posto, c’è confusione e poi si va via… Il teatro è sicuramente più intimo ma contemporaneamente in grado di sviluppare una potenza unica.

Migliaia di spettatori che guardano una fiction costituiscono una responsabilità per l’attore?

FOTO FILIPPO MANZINI

Spesso faccio finta di dimenticare che una serie come Romanzo Criminale, per esempio, è stata venduta in tutto il mondo oppure che la fiction dedicata a Oriana Fallaci è vista dal pubblico enorme della prima serata Tv. Anche in teatro, sera dopo sera, ti guardano centinaia e centinaia di persone. Nella vita io sono uno che si vergogna quasi di chiedere per strada che ore sono… Però mi hanno insegnato che agli albori del teatro improvvisamente un essere umano è uscito fuori dal coro e ha iniziato a parlare per tutti: è stato il primo protagonista teatrale del mondo. Questa è la più grossa responsabilità, secondo me: sapere che stai parlando anche per qualcuno che questa possibilità non ce l’ha. Non è tanto questione di quanto ci si espone allo sguardo altrui.

il cinema. In teatro l’energia si trasforma, a causa di tanti fattori: dipende da quando arrivano gli attori, da come Qual è l’aspetto più emozionante hanno vissuto quel giorno e soprattutdel mestiere di attore? to dall’incontro con il pubblico. Di sera Tutto è emozionante! È già una forin sera è un’altra vita, un’altra storia, tuna riuscire a farlo questo mestiere… un’altra energia. Il pubblico è come se Anche se credo che in fondo questo lafosse un attore in più in scena, in grado voro non esista per davvero: sei attore


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soltanto mentre lo fai e c’è un pubblico che ti guarda… È il mestiere più precario del mondo e negli anni tanti attori che hanno studiato magari non lavorano: non vieni chiamato da nessuno e in quel momento dunque una parte di te è fru-

“Togliendosi di dosso la sacralità di questo mestiere ti accorgi che essere attore è un po’ come andare in trincea: l’applauso è il momento bellissimo della verità”

Un attore come vive il momento dell’applauso finale? Io ho imparato a prendermelo, l’applauso del pubblico. Come tante altre cose nella vita la consapevolezza è arrivata con il tempo. Le prime volte alla fine rimanevo ancora immerso dentro alla sofferenza dell’attore e allo shock del ritorno alla realtà dopo uno spettacolo. Togliendosi di dosso la sacralità di questo mestiere ti accorgi che essere attore è un po’ come andare in trincea: l’applauso è il momento bellissimo della verità. Se pensi che mentre reciti centinaia di spettatori concentrano la propria energia su quello che stai facendo tu, l’adrenalina è altissima. Credo che questo mestiere abbia a che fare molto con il mondo dell’illusionismo e della magia: noi attori siamo chiamati a far credere agli spettatori che ci troviamo in una foresta, piuttosto che in una camera di appartamento e in una villa del Sud… È un’illusione perché creiamo quello che non c’è. Ma chi ti guarda ci deve credere.

Durante gli applausi sembra trasparire l’emotività degli attori…

FOTO FILIPPO MANZINI

Vinicio Marchioni e Vittoria Puccini durante gli applausi finali de La gatta sul tetto che scotta

strata. Purtroppo ci si sente attori soltanto attraverso il riconoscimento da parte di qualcun’altro. Questo mestiere è un ibrido ed è sempre stato così, fin dai tempi della Commedia dell’Arte, quando gli attori venivano sepolti fuori dalle mura della città.

Ci sono degli attori abilissimi a prendere gli applausi, che magari hanno avuto dei grandi Maestri già anziani che gli hanno insegnato proprio la tecnica: i tempi giusti dell’ingresso sul palco e dell’uscita, come salutare e prolungare l’applauso… Però, da spettatore io stesso che vado a guardare gli altri spettacoli, sono d’accordo: l’applauso è il momento in cui lo spettatore si rende conto di avere davanti un attore che fino ad un secondo prima stava recitando una parte… Anche per questo motivo è bello, secondo me, prendersi gli applausi come essere umano e non da personaggio.


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Rocco Papaleo UN TEATRO DOMESTICO Una piccola impresa meridionale, lo spettacolo che sta portando in tournée, raccoglie una serie di appunti molto personali… La biografia è il punto di partenza per provare a raccontare delle storie creando un clima intimo. Alla fine in scena parliamo di cose forse un po’ romanzate ma tutte con un fondo di verità; quando si comincia a raccontare qualcosa di se FOTO BARBARA LEDDA

stessi, ci si mette a nudo di fronte al pubblico: si crea quella confidenza e quel calore che contribuiscono a caratterizzare lo spettacolo, con una componente fortemente intima. Non parto dalle quinte ma entro direttamente in sala, mentre la gente sta ancora arrivando perché questo aspetto fa parte del tipo di teatro che vogliamo impiantare: noi attori ci mettiamo a disposizione degli spettatori, come se li avessimo invitati a casa. È la nostra idea di entertainment: riuscire a dare al teatro una dimensione domestica. Il teatro in cui recita l’attore in quel momento è anche la sua casa perché lo abita proprio fisicamente: per esempio, può ricevere all’indirizzo dell’edificio teatrale anche la propria posta personale… L’attore dunque accoglie il pubblico che arriva e che si mette a suo agio. Quello che accade nella serata, l’essenza dello spettacolo, vorrei che fosse una sorta di rito laico e dunque cerchiamo in tutti i modi, dal palcoscenico, di essere empatici. C’è bisogno ad un certo punto di asciugare la frivolezza per fare spazio a sentimenti più profondi e cercare l’emozione.

Regalare un sorriso al pubblico è uno dei vostri obiettivi? Sì, l’intento è di essere terapeutici e riuscire a dare sollievo nei confronti di chi viene a guardarti quella sera. Nella vita io amo guardare anche cose più dure o dolorose, ma quando tocca a me proporre qualcosa di mio ricerco sempre l’effetto terapeutico, sia in teatro che nei miei film. Noi attori dobbiamo trovare il livello giusto per accendere quella comunicazione di cui il pubblico ha bisogno.

“Amo il cinema ma ho bisogno del palcoscenico”: sono parole sue. Il teatro non ha rivali nella mia concezione dell’esibizione. È una performance in cui la curva dell’emozione si


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vive in fondo perché il teatro non è mai uguale, anzi cambia nel momento stesso in cui lo si fa. I film una volta finiti è come se non ti appartenessero più. Continuano, per esempio, a ridare in TV i film che ho interpretato anni fa: vorrei cambiare tutto ma non posso… Quando ho girato i miei film, dopo averli scritti e diretti, mi è capitato di non volere uscire più dalla sala di montaggio: starei lì tutta la vita continuando a fare piccole IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Al cinema è uno dei protagonisti de Il nome del figlio, l’ultimo film di Francesca Archibugi. Il nome del figlio è un film teatrale, infatti lo abbiamo girato facendo le prove come in teatro e lavorando sulla parola, soffermandoci su ogni singola battuta. Provavamo nella stessa location del film, un po’ come si fa in teatro dopo che hanno montato le scenografie… Credo che questa lunga preparazione poi si manifesti nella recitazione di noi attori.

Essere guardati nello stesso momento da milioni di persone - come quando, per esempio, ha condotto Sanremo -che tipo di emozione crea? L’Ariston, il luogo dove viene fatto Sanremo, è un teatro, alla fine. Senti la pressione perché per settimane non si parla d’altro ma non si tratta di cose davvero importanti… Per affrontare quel tipo di esperienza ho ragionato come se mi fossi trovato in una serata teatrale, “Quando si comincia a raccontare se non guardando le telecamere che avevo stessi, ci si mette a nudo di fronte al davanti e facendo quello che normalmente propongo in teatro: personaggi pubblico: si crea quella confidenza come quello della foca, per esempio, che e quel calore che contribuiscono a mi servono nel mio spettacolo per sciogliere definitivamente il pubblico ed encaratterizzare lo spettacolo” trare in comunione reciproca. L’applauso del pubblico che ti colpisce in maniera modifiche, ma ad un certo punto te lo diretta in teatro può essere veramente levano il film perché deve uscire nelle una droga, anche se mi imbarazza semsale cinematografiche. È difficile per un pre un po’ stare lì a riceverlo… Non c’è autore licenziare un suo film ma biso- niente da fare, non mi ci sono ancora gna farlo, anche perché non è detto che abituato fino in fondo. stando un mese in più al montaggio il risultato poi migliori… Nella realizzaLa valigia dell’attore… Che cosa zione di un film non c’è un momento in deve contenere, secondo Lei? cui hai la certezza di aver raggiunto il Sono in una fase in cui più passa il massimo: guardi i dialoghi e non sem- tempo, necessito sempre di meno cose… pre hai la possibilità di cambiarli se non Qualche medicina in più, l’iPad e il comti piacciono… Alla fine però non sono puter per lavorare, pochi vestiti… Diciacosì scontento dei film che ho fatto! mo che mi piace fare il ‘barbone di lusso’!


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Se dovessi fare un collage del tuo amore Metterei una soglia di baci ardenti una finestra rotta e un passero che canta sul balcone non c’era niente dentro il nostro amore c’era soltanto un intero universo

25 gennaio 2003

Alda Merini


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PASSIONI A TEATRO AMORI DI TEATRO Declinazioni del cuore dietro le quinte Essere saggio e amare eccede le capacità dell’uomo (William Shakespeare)


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La massima testimonianza di Venere in Terra La vita e gli amori (molti) di Lina Cavalieri di Riccardo Ventrella

Lina Cavalieri

I

l Vate D’Annunzio, che se non di politica o letteratura almeno di donne s’intendeva, vergò in un suo onore la frase citata nel titolo a mo’ di dedica su una copia del Piacere. E davvero Natalina Cavalieri detta Lina, nata a Viterbo oppure a Roma, fu tra le donne più belle della sua epoca, la leggendaria Belle Époque, e fece morir d’amore intere schiere di uomini adoranti. Visse gran parte della sua esistenza corteggiata e nel lusso più sfrenato, lei che di umili origini aveva lavorato da bambina come fioraia, sarta e piegatrice di giornali in una tipografia. Nella biografia della Cavalieri realtà e leggenda s’intrecciano fino a confondersi. C’è chi dice che fu la madre a notare la bella voce della figlia, e la spinse a farle frequentare le lezioni gratuite di canto del maestro Arrigo Molfetta; altri sostengono che l’abitudine della fanciulla a gorgheggiare durante il lavoro la fece notare al maestro medesimo.

Sia come sia, la Cavalieri iniziò a esibirsi in un povero teatro di piazza Navona, quindi al Teatro Orfeo e poi al Diocleziano: subito giunsero i primi contratti, e con loro il grande successo. La Cavalieri mostra subito presenza scenica, grandi capacità canore e un innato magnetismo che fa strage tra gli uomini. Dalla Roma umbertina degli esordi approda nel regno italiano dei cafè-chantant, Napoli. Si esibisce al Salone Margherita, il tempio del genere, dove furoreggia con Funiculì funiculà. Sull’onda del successo sbarca a Parigi, per trionfare alle Folies Bérgères con un repertorio di canzoni napoletane accompagnate da un’orchestra completamente femminile.


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L’Ottocento declina, e per Lina Cavalieri si apre un’altra fruttuosa carriera, quella di cantante lirica. Il 4 marzo del 1900 debutta con Bohème al San Carlo di Napoli. Breve è da lì il salto verso quello che allora era il paradiso della vera fama canora, ovvero gli Stati Uniti. Nel 1906 il pubblico americano riempie i teatri per vederla, più che ascoltarla. La sua straordinaria bellezza, l’eleganza del portamento, la sensualità e le monumentali acconciature sontuose la eleggono Diva assoluta. Canta per la Metropolitan Opera Company e la Manhattan Opera Company, e lavora con Enrico Caruso e Francesco Tamagno. Proprio l’interpretazione a fianco di Caruso della Fedora, a New York, la fissa per sempre nell’immaginario collettivo: i due danno vita a un lungo, appassionato e un tantino scandaloso bacio, e per la stampa la Cavalieri è The Kissing Primadonna. Assai più leggendaria di quella artistica fu però la vita sentimentale di Lina Cavalieri: oltre ottocento, secondo la vulgata, le domande di matrimonio ricevute di cui quattro accettate. La prima dal principe Alessandro Bariatinskij sposato a San Pietroburgo, e munifico donatore di una collana che, nonostante i tre giri attorno al collo, continuava a ricadere verso il basso. Fu liquidato e lasciato nella più “Leggendaria fu la vita sentimentale nera disperazione dopo averle chiesto di di Lina Cavalieri: oltre ottocento le lasciare il palcoscenico. La seconda dal miliardario americano Robert E.Chan- domande di matrimonio ricevute” dler, scaricato dopo soli otto giorni di matrimonio e un ricco indennizzo. La terza dal tenore francese Luciano Pietro Muratore, col quale lavorò a lungo negli anni della Prima Guerra Mondiale. La quarta, e ultima, dal corridore automobilistico Giuseppe Campari. Fu un connubio duraturo per gli standard della Cavalieri, e fu interrotto solo quando Campari si uccise a Monza nel 1933 slittando su una macchia d’olio e rovesciandosi in un fossato, nella stessa tragica giornata in cui perì anche Bacunìn Borzacchini. La Cavalieri, che si era già ritirata dalle scene, chiuse nel 1936 anche il fiorente istituto di bellezza che dirigeva a Parigi e si trasferì prima a Roma, in una villa sulla Nomentana, e poi a Firenze sulle pendici del Poggio Imperiale. Qui il 7 febbraio del 1944 una bomba la sorprese nel sonno. Anche sulla sua morte fiorirono le storie più disparate, da quella del cannoneggiamento tedesco sbagliato a quella dell’attentato partigiano per punire la diva di presunte frequentazioni con gerarchi fascisti. Furono però le follie degli uomini a rendere unica la vita di Lina Cavalieri. Ebbe spasimanti illustri, da Trilussa che scrisse in suo onore i versi fior d’orchidea/il bacio dato sulla bocca tua/lo paragono al bacio di una dea, il baritono Mattia Battistini, Tito Schipa e persino Guglielmo Marconi. Per Davide Campari, rampollo della celebre dinastia di fabbricanti di liquori, fu facile simulare la necessità di recarsi spesso all’estero per lavoro, e seguire in realtà i numerosi spostamenti della bella Lina. La cosa pare aver fruttato qualche buon contratto, ma nessun convegno amoroso. La stessa sorte toccò a un focoso duca siciliano che per due mesi le fece da autista e servitore, fino a desistere stremato col lamentoso grido: è follia sperare di essere amato da voi, che non pensate e non vivete adesso che per la vostra arte. I muliebri capricci di Lina Cavalieri, amatissima primadonna di un’era leggendaria.


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Io, te e la Zombitudine La vita e l’arte di Frosini / Timpano di Matteo Brighenti

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na coppia è un modo che si fa mondo nello sguardo. Affinità più differenze, uno di due, rette parallele unite da un percorso comune, come le sponde di un fiume da un ponte o il giorno e la notte dal respiro. Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono incontrati con il teatro. “È un’esperienza totale – dice Daniele – non riusciremmo a stare in piedi come compagnia se non fossimo una coppia di vita e arte, sia come economie e distribuzione del lavoro, che come sensibilità dell’uno che integra l’altra.” Poco più che quarantenni, entrambi romani, si sono riconosciuti nel rifiuto delle scorciatoie della ‘ricerca’ fine a se stessa e delle etichette della critica di lotta e di sistema. La prima volta insieme risale al 2008-2009 con Sì l’ammore no, spettacolo contro i cliché del rapporto uomo-donna, più in generale della cultura romantica e ‘maschiocentrica’. “Sulle immagini stereotipate della donna – interviene Elvira – si tende a non vedere l’individualità, ma solo il ruolo sociale. Succede anche a noi e infatti lottiamo sempre contro l’essere considerati come ‘Timpano e sua moglie’. Quel lavoro, però, era un po’ anche un esorcismo nostro.” Si sposavano per finta, poi l’hanno fatto per davvero. Da allora il palcoscenico si è intrecciato con la realtà, ne è diventato il rovescio, il doppio. “C’è questo travaso – ammette Elvira – poi le cose che ci accadono le modifichiamo, ma non sempre riusciamo a tenere tutto separato. Sei d’accordo?” Daniele: “È un problema complessivo, la vita non riesci a tenerla separata dal lavoro. Insieme stiamo sempre a fare quello e insieme si parla di quello.” Se Sì l’ammore no era nato come il tentativo spensierato e gioioso di far convergere sulla scena due linguaggi, tendenzialmente diversi, ma con una somiglianza di fondo nel modo di vedere e pensare, nell’ultimo incontro del 2014-2015, Zombitudine, c’è la progettualità di una coppia cambiata dentro e fuori, che ha coscienza della bellezza di sé e della decadenza del mondo. Un uomo e una donna, un marito e una moglie, un attore e un’attrice, si rifugiano in te-


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atro perché fuori è in atto l’invasione degli zombi, i non morti dell’immaginazione al potere (teatrale), gli esodati del cambiamento che nulla cambia. “Quella di Sì l’ammore no era una coppia divertita e sospesa nel tempo – confessa Elvira – in Zombitudine c’è una maggiore unione, la coppia è più forte ed è immersa nel tempo, sa che il tempo passa.” Daniele: “Oggi siamo molto più scocciati, incazzati di sei anni fa, con un senso di margine e di sofferenza nei confronti del mondo del teatro. Se prima la sovrastavamo, adesso siamo soccombenti alla realtà.” Queste ‘due’ coppie hanno alle spalle i cadaveri eccellenti di Mussolini, Mazzini e Moro, attraverso cui Daniele Timpano ha raccontato la ‘storia cadaverica d’Italia’, una trilogia formata da Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo Morto, poi c’è

Elvira Frosini e Daniele Timpano nello spettacolo Zombitudine

FOTO GIANLUCA ZONZA

la Marilyn di Digerseltz con cui Elvira “Una coppia è un modo che si fa Frosini ha tracciato i sacrifici degli attori mondo nello sguardo. Affinità sull’altare del pubblico. E lui ha dato a lei un’attenzione nuova alla scrittura. E lei più differenze, due rette parallele, ha dato a lui un rinnovato interesse alla unite da un percorso comune” spazialità del corpo. Parole in movimento per andare incontro al proprio destino. “Il confronto con il grande mostro te lo fai da solo – conclude Elvira – però il tentare di stare insieme a qualcuno è un’immagine di speranza forte che dà Zombitudine.” L’amore, allora, per Daniele Timpano ed Elvira Frosini è la ricerca di questa possibilità. Un matrimonio da fare, disfare, rifare ancora, rifare sempre. Finché la morte non cali l’ultimo sipario.


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LaVia del teatro porta a Goldoni Gabriele, Lorenzo e Il vero amico

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n padre e un figlio. Un maestro e un allievo. Un figlio deve la vita al padre, un allievo deve la conoscenza al Maestro. Quando il padre e il Maestro sono Gabriele Lavia, la vita si conosce in teatro e in teatro si vive la conoscenza. “Il teatro è il mondo in cui sono cresciuto – dice Lorenzo Lavia – il ‘fuoco sacro’, il ‘richiamo’ del palcoscenico è stato un percorso maturato nella realtà di ogni giorno.” La passione non è sorta dal nulla, da chissà quale illuminazione, è stata allevata, nutrita da una partecipazione quotidiana: “Ho sempre seguito mio padre dietro le quinte – ricorda – ho chiara memoria di tutti i suoi spettacoli. Quello che so, al di là delle esperienze con registi come Maccarinelli, Patroni Griffi o Missiroli, me l’ha insegnato lui.”

Al centro Lorenzo Lavia con il cast de Il vero amico, in scena al Teatro Goldoni

FOTO FEDERICO RIVA

Ed è proprio su sua richiesta che il teatro Lorenzo comincia a farlo e non più solo a guardarlo. È il 1989, ha 17 anni e lo spettacolo è Riccardo III, diretto e interpretato da Gabriele Lavia. Da allora hanno condiviso il palco altre quattro volte, ne Il Misantropo, Edipo re, L’avaro, Misura per misura, e come attore l’uno e regista l’altro ne L’uomo, la bestia e la virtù e Molto rumore per nulla. Il principio guida è sempre stato quello di


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imparare, imparare, imparare. “Io so quello che non bisogna fare in palcoscenico – precisa Lorenzo – è una cosa che ti possono solo insegnare. Poi, il lavoro è personale e ognuno porta in scena se stesso: un attore non sarà mai simile a un altro.” Precisione, attenzione e resistenza alla fatica (“io provo otto ore al giorno, per me è normale”) Lorenzo Lavia le ha messe nella sua valigia d’attore per affrontare il viaggio del debutto alla regia con Il vero amico di Goldoni, in stagione anche al Teatro Goldoni di Firenze. “L’ho scelto perché fa ridere – spiega – il che non vuol dire strizzare l’occhio al pubblico, ma raccontare una storia con idee e onestà: il riso è l’effetto di una profonda e intima ironia sui sentimenti e le inquietudini morali.” Un cammino sulle orme della storia di famiglia, come un discorso lasciato e poi ripreso. Nel luglio ’78, due mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, Gabriele Lavia debutta come regista e interprete dello stesso testo di Goldoni. In scena c’è anche la madre di Lorenzo, Annarita Bartolomei. “Ho riletto il copione di papà – ricorda – e ho cominciato a ridere da solo. È proprio l’intreccio che è molto divertente, all’interno di una storia fatta di equivoci.” Florindo si innamora di Rosaura, promessa sposa di Lelio, suo amico fraterno, e da lei è ricambiato. Lelio, a sua volta, sembra amare più la dote che Rosaura, peraltro fin troppo spregiudicata per i gusti di Florindo. In questa allegra confusione d’animi Goldoni inserisce Ottavio, il padre di Rosaura, uno spilorcio con il grande problema della cassetta, come Arpagone ne L’avaro. “Diderot, incolpato di aver preso spunto “Un figlio deve la vita al padre, un da Goldoni per II figlio naturale, accusò a sua volta il veneziano di aver copiato allievo deve la conoscenza al Molière – puntualizza Lorenzo – parten- Maestro. Quando il padre e do da questo ho aggiunto alcune battute prese da L’avaro, nella versione usata da il Maestro sono Gabriele Lavia, mio padre, che traducono e tradiscono il la vita si conosce in teatro e testo originale, ma ne rivelano l’anima in teatro si vive la conoscenza ” più nascosta, cupa, dark.” Florindo, alla fine, rinuncia al suo amore in nome dell’amicizia per Lelio. La lealtà pare prevalere sulla passione amorosa. Di Gabriele Lavia si può dire che sia un vero amico? “No, non lo direi di mio padre – risponde Lorenzo – perché è mio padre, come mia madre è mia madre. Però, non gli racconto più che testi voglio fare, sennò lui mi fa già la regia.” Un padre e un figlio. Il maestro e l’allievo, ormai, non si distinguono quasi più. “Lui è più grande di me – conclude – ma anch’io comincio a essere vecchio e stanco.” (M.B.)


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Il mastro di chiavi Otello Margheri, custode della Pergola

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nno 1965, alla Pergola è di scena il Maggio Musicale Fiorentino. La prosa era in quegli anni una presenza ricorrente, e il 24 maggio debutta una sontuosa edizione della Lupa di Verga, diretta da Franco Zeffirelli con un cast sontuoso: Anna Magnani, Anna Maria Guarnieri, Giancarlo Giannini, Ave Ninchi, Osvaldo Ruggeri e i costumi della mai dimenticata Anna Anni. Un fotografo scatta un’istantanea subito dopo la fine dello spettacolo. Si vedono Zeffirelli e la Magnani dietro le quinte, vicino all’ingresso del palcoscenico, esattamente sotto alla cabina. Tra gli uomini che applaudono ce n’è uno molto elegante sulla sinistra, i capelli candidi sapientemente ondulati. Il suo nome non figura in nessun compendio di storia del teatro; non è un attore, né un drammaturgo e neppure un regista. Eppure è stato ammirato e rispettato da almeno due generazioni di teatranti perché era un uomo-chiave del palcoscenico: mai definizione fu più appropriata, in quanto il suo mestiere era quello di custode del Teatro della Pergola.

Chi è il custode di un teatro? Forse tra tutti è quello che più è legato ad esso, che più ama quell’insieme di legno, stucco, velluto e umanità varia. Perché lo apre e lo chiude amorevolmente, ne conosce ogni anfratto, ogni serratura, ogni porta se“Il custode di un teatro greta. Gira indisturbato tra i corridoi sembra il personaggio di un vuoti, parla con i numerosi fantasmi; racconto di Edgar Allan Poe, diventa lentamente parte integrante dell’edificio stesso. Sembra il personagimperturbabile e silente gio di un racconto di Edgar Allan Poe, tenutario di una tradizione” imperturbabile e silente tenutario di una tradizione: forse quel mastro di chiavi identificato da una certa letteratura fantasy come il custode del regno dei morti, e in teatro, invece, destinato a vegliare su un mondo di finzione che è al limite tra sogno e trapasso. Torniamo al nostro uomo della foto, elegante e plaudente. La storia minima che non si scriverà mai su un libro ci tramanda il suo nome, Otello Margheri. Come sovente accade, Otello Margheri era figlio del custode della Pergola. Aveva studiato, e per lui si apriva un promettente futuro di impiegato in banca. Ma alla morte del genitore fu troppo forte l’attrazione per quel luogo magico, e Otello si ritrovò ben presto col grande mazzo delle chiavi della Pergola in mano. All’epoca il custode


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aveva una sua abitazione all’interno del teatro, e non lo abbandonava mai, se non per cause eccezionali. Essendo sempre il primo ad arrivare, e l’ultimo ad andarsene, è quasi sottinteso che il custode diventi un po’ il re del piccolo mondo del palcoscenico. Otello Margheri seppe interpretare al meglio il ruolo che la vita gli aveva offerto. Divenne amico di tutti: ogni attore che arrivava lo omaggiava, perché con le sue chiavi gli dischiudeva il camerino che avrebbe ospitato i suoi successi. Alfonso Spadoni lo considerava uno dei suoi primi collaboratori, la persona su cui contare sempre e comunque. Era lì, Otello Margheri, quando l’acqua dell’Arno arrivò a lambire la Pergola, sommergendo per fortuna il solo atrio d’ingresso e i locali a livello della strada. E alla sua morte, giunta prematuramente nel 1968, scrisse un lungo e commosso addio del quale è obbligatorio riportare: “Ora che Otello se ne è andato (silenziosamente, di mattino presto, per non turbare con un evento triste la vita operosa del suo vecchio teatro) ora che va a riposare lontano da questi suoi muri, dei quali riusciva a sentire l’antico e misterioso respiro, lontano da queste cose che amava perché gli erano figlie e madri - ora che Otello non ci è più vicino allegro buono orgoglioso e saggio sentiamo che la Pergola ha veramente perduto qualcosa della sua anima, e non sappiamo se domani la riconosceremo ancora”. I quotidiani lo celebrarono come una stella del palcoscenico nel massimo del fulgore. Altri vennero dopo di lui: l’arcigno Dino col suo fedele cane e il borbottio perenne, l’affettuosa e onnipresente Silvana, Marcello con l’hobby della musica, l’ordinato e silenzioso Carlo, oggi Daniele, Dario e Samuele. Forse il tempo ha tolto un briciolo di sacralità a questa figura, ma resta sempre l’emozione delle chiavi che tintinnano, delle porte che si schiudono sulla magia del teatro. (R.V.)

Anna Magnani e Franco Zeffirelli dietro le quinte del Teatro della Pergola. Otello Margheri è il primo da sinistra.


La parola al pubblico Appesi di Alice Nidito

C’è uno spazio tra me e te un confine delineato dal tempo silenzi profondi interrotti da parole sfuggenti.

Segreta è la promessa

Le nostre anime si sono riconosciute l’Una nell’Altra e nelle maree di luna piena si rincorrono, s’intrecciano, si nascondono.

Quanto tempo ci è dato?

ancora e ancora bocca contro bocca sogno dentro sogno

A.


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Gli interpreti raccontano

L’EMOZIONE DEL DEBUTTO di Marco Baliani

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

È

andata! Di colpo, seduto in uno dei palchetti del Teatro della Pergola, lontano dal palco come mai ero stato in tutti questi giorni, sono diventato spettatore, rendendomi conto con stupore che la creatura era lì e stava vivendo senza di me, senza possibilità di alzarmi e interrompere l’azione con una indicazione registica, assistevo a qualcosa che avrei dovuto conoscere nei minimi particolari e che era invece del tutto nuova e inaspettata. È che nel teatro gremito fin su alla piccionaia, adesso nasceva una nuova drammaturgia ancora non sperimentata, ora le reazioni degli spettatori, le risate, gli improvvisi battimani, i sussulti, i silenzi, l’attenzione e l’ascolto insomma stavano imprimendo un altro Tempo allo spettacolo e questo era meraviglioso. Lo avrei dovuto sapere, certo, ma solo quando accade lo riscopri ogni volta come cosa nuova. E gli attori non hanno fatto altro che surfare sull’onda emotiva da loro stessi generata e adattarsi con stupore a questo novello sentire. Boccaccio era lì, seduto in quarta fila, sgranocchiando lupini, e rideva sgangherato più di tutti gli altri, che pure per lui le sue novelle rivelavano qualcosa di totalmente inaspettato.


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Tilda Swinton IL SENSO DI TILDA PER LA VITA Your performance The Cloakroom presented at the Saloncino of Pergola Theatre as part of the Expression of Pitti Immagine involves the exchange, between you and the public, of their coats that belong and are important to very different people. According to what particular emotion are these clothes identified and worn? The performance is entirely interactive - meaning that the audience that comes and the pieces of clothing

FOTO GIOVANNI GIANNONI

that they choose to offer are an integral element of what happens. Each performance is, therefore, unique, depending on who is there and what they bring. In many ways, the performance has

La sua performance The Cloakroom presentata al Saloncino del Teatro della Pergola nell’ambito della Manifestazione di Pitti Immagine prevede lo scambio, con il pubblico, dei loro soprabiti che appartengono e sono importanti per persone molto diverse tra loro. Secondo quale particolare emozione vengono individuati ed indossati questi indumenti? La performance è totalmente interattiva – significa che il pubblico che arriva e gli abiti che scelgono di offrire sono elementi fondamentali di ciò che avviene. Ogni performance è, quindi, unica perché dipende da chi è presente e da ciò che porta con sé. Sotto molti aspetti la performance ha più a che fare con le relazioni piuttosto che con le caratteristiche degli oggetti stessi: tutti noi sappiamo che certi abiti suscitano dei collegamenti, molto spesso anche un attaccamento passionale, sempre sommamente personale. Direi che l’aspetto più interessante di un indumento, anche il più esotico, è che le persone vivono al suo interno… Questa pièce si basa essenzialmente sull’attenzione a questo fatto, sullo ‘spirito’ dei vestiti con i quali noi viviamo ogni giorno – e il dialogo nel quale essi ci impegnano. Ciascuno scambio è un incontro tra cose viventi – me e l’oggetto, ed è interamente composto di gesti istintivi suggeriti da questa relazione.


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more to do with relationship than the particular characteristics of the objects themselves: we all know that certain pieces of clothing elicit connection, very often passionate attachment, always supremely personal. I would suggest that the most interesting thing about even the most exotic object of clothing is that people live in them… This pièce is about attention to this fact, to the ‘spirit’ of the clothes with which we live closely each day - and the dialogue they engage us in. Each encounter is a meeting between ‘living’ things - me and the object. It is entirely made up of intuitive gestures suggested by this relationship.

Fin dai tempi di Orlando - dove il suo personaggio transitava dal genere maschile al femminile - Lei ha detto che la trasformazione, nelle storie che si trova a rappresentare, è fondamentale. Indossare un abito diverso dietro l’altro - entrando in contatto con tante identità - comporta comunque una trasformazione?

Since the days of Orlando where your character changed and transited from masculine to feminine – you said that the transformation, especially in stories that like actress you have to represent, is crucial. Wearing a different outfit after another - getting in touch with so many identities, the most heterogeneous - however, involves a transformation? Well, in Cloakroom I ‘get in touch with’, as you say, but I do not ever wear the clothes. It is important that there is a disconnect in this space between the object’s usual ‘life’ and this particular ‘relationship’ with me. I often think of taking my animals to the vet, lifting them onto the table for the examination of the veterinarian, when performing this piece. So, in that light, I suppose that transformation (once again) is a key: the transformation of a piece of clothing made for and usually engaged in one purpose, here transformed into a different matter, illiciting fresh responses. The cloakroom attendant

FOTO GIOVANNI GIANNONI

In Cloakroom io ‘entro in contatto’ , come hai detto prima, ma non indosso mai gli abiti. È importante che ci sia una disconnessione in questo spazio tra ‘la vita quotidiana’ dell’oggetto e la


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is somehow divested of the program that dictates how a coat or a scarf may be customarily used: like a pair of new eyes - as if from another planet - she assesses each garment not for its usually evaluated properties, but according to a different scale - maybe something like a barometer that measures the stories it carries and maybe the essence of its bond with its ‘owner/partner’.

You are used to alternate your films with artistic performances that make you travel around the world (one of all The Maybe, where you are exposed, as a dormant figure, for hours in a glass case). Which particular kind of expectation does a performance create? And how it is lived from the point of view of dramaturgy? I am more and more interested in the concept of presence and absence and of the real, lived experience as opposed to - and also in harmony with - the mediated trace. The performances Olivier and I have created over the past three years (The Impossible Wardrobe, Eternity Dress and, now, Cloakroom) have had at their heart the subject of the ephemeral, the examination of matter. They have all been presented without much explicit explanation or front-loading of expectation. The Maybe, at MoMA in 2013, was presented in the museum without any prior announcement and, only after it’s appearance, was accompanied by the briefest of descriptive statements and no photographs. The piece appears, unannounced, on random, unscheduled days in unexpected parts of the museum. Now you see it, now you don’t. It has never been attributed a specific schedule, nor will it. What runs through all these works,

particolare ‘relazione’ con me. Quando recito in questa performance, penso spesso a quando porto i miei animali dal veterinario e li metto sul tavolo per un controllo. Quindi, sotto questa luce, credo che la trasformazione (ancora una volta) sia una chiave: la trasformazione di un abito fatto e solitamente utilizzato per uno scopo, viene trasformato in una materia diversa e autorizza nuove risposte. L’addetta al guardaroba è in qualche modo spogliata della sua funzione che detta il modo in cui un cappotto o una sciarpa possano essere solitamente utilizzati: con un paio di occhi nuovi – come se provenissero da un altro pianeta – lei valuta ogni capo non per il loro scopo usuale, ma in accordo con un diverso metro di giudizio – come un barometro che misura le storie che porta e forse l’essenza del legame con il suo ‘proprietario/partner’.

Lei è abituata ad alternare I suoi film con performance artistiche che porta in giro per tutto il mondo (una fra tutte The Maybe, dove si espone come dormiente, per ore in una teca di cristallo). Una performance che tipo di aspettativa crea? E come viene vissuta drammaturgicamente? Sono sempre più interessata al concetto di presenza-assenza e all’esperienza reale e vissuta, in opposizione – e anche in armonia – con la traccia mediata. Le performances che io e Oliver abbiamo creato negli ultimi tre anni (The Impossible Wardrobe, Eternity Dress e, ora, Cloakroom) hanno avuto, nel cuore, il tema dell’effimero e l’ispezione della materia. Sono state tutte presentate senza una spiegazione esplicita o una grande preparazione. The Maybe, al MoMa nel 2013, è stata presentata in quel museo senza nes-


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for my part, is a crucial weighing of actual, unrepeatable, authentic, lived experience and the essence of kinetic energy and shared time.

You have started the job of actress in the London theater avanguard to land, finally, to the cinema. What have these two forms of expression given you? Did your arrival in Hollywood mark a transformation of your job compared to an original European training?

suno annuncio precedente; solo dopo il debutto questa performance è stata accompagnata da una spiegazione brevissima e senza nessuna fotografia. La pièce avviene, non annunciata, in giorni casuali e non programmati, in luoghi inaspettati del museo. Ora la vedi, ora non la vedi. Non è mai stato dato un orario definito, e non lo sarà. Ciò che attraversa tutte queste opere, secondo me, è il fondamentale peso del reale: quell’irripetibile, autentica esperienza vissuta, così come l’essenza dell’energia cinetica e del tempo condiviso. FOTO GIOVANNI GIANNONI

I have a longstanding curiosity about live performance - music, dance, performance art - that runs alongside my engagement with film. See above... although my relationship with the ‘legitimate’ theatre is more complicated.. I have, candidly, no real attachment to the theatre, in fact, I never had. My work in the theatre in the early years of my working life was actually purely

“Sono sempre più interessata al concetto di presenza e di assenza e all’esperienza reale e vissuta, in opposizione - e anche in armonia con la traccia mediata”


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a stop on the road. I have never had a desire to be an actor - I still don’t. I was always a writer. My passion for cinema was always - and still is - the passion of a cinema fan. When I started working in film, with Derek Jarman in 1985, I was preparing to stop performing altogether, having worked in the theatre for two years and realizing that I was not inspired by what I found.

Ha iniziato il mestiere di attrice nell’avanguardia teatrale londinese per approdare poi definitivamente al cinema. Questi due linguaggi espressivi che cosa le hanno dato? L’arrivo ad Hollywood ha segnato una trasformazione, rispetto ad un’iniziale impostazione europea, del suo mestiere di attrice?

FOTO GIOVANNI GIANNONI

Tilda Swinton con Olivier Saillard, Direttore del Palais Galliera di Parigi

With Derek I was able to develop, over nine years and seven films, a way of being a performer that meant I could bring myself with me, a way that felt authentic and engaged my sense of authorship in a way that being an interpretative actor in the theatre had never been able to fulfil. As for my ‘arrival in Hollywood’, and my ‘European training’, I would have to declare that I have achieved neither…I am entirely untrained as a performer and I visit

Ho una curiosità, di lunga data, per le performance dal vivo – musica, danza, arte performativa – che va di pari passo con il mio impegno nel cinema. Sebbene la mia relazione con il teatro ‘legittimo’ sia più complicata… Non ho, onestamente, una vera passione per il teatro, in effetti non l’ho mai avuta. Il lavoro in teatro nei primi anni della mia vita lavorativa è stato uno stop per me. Non ho mai avuto il desiderio di essere un attrice – e tuttora non ce l’ho. Sono sempre


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Hollywood only rarely, briefly and always with a tourist’s sense of wonder and holiday spirit, never anything like arrival.

Winning many awards, especially the Oscar, which is perhaps the award prizes for an actress... Have you ever felt to a point of arrival? The helpful fact is that pretty much none of the destinations I have passed through during my life did I actively aim for… I am permanently in a state of having been blown off-course… It’s a great feeling... no arrivals, always passing through…

In addition to the role of the actress, with the film by Luca Guadagnino’s I am Love, you have also experienced the job of producer. The film was preceded by the project Tilda Swinton: The Love Factory where you and the director talked about different themes of love. What did convince you of this project? And, more generally, after these long thoughts what have you understood about the Feeling of Love? I am love was inspired very precisely by our experience of making The love factory - a film portrait based on a conversation in which we discuss, amongst other things, the nature of true love… we hit upon a sense of love as an instigation to revolution: to absolute (witnessed and supported) self-determination. It is a sense that I have only become more convinced of in the time that has passed since… that the best company, the most properly loving, is respectful of our innate (shared) solitariness. Those that

stata una scrittrice. La mia passione per il cinema è sempre stata – e lo è ancora – la passione di una fan del cinema. Quando ho cominciato a lavorare nel cinema, con Derek Jarman nel 1985, stavo per fermarmi del tutto, dopo aver lavorato in teatro per due anni e avere realizzato che non ero stata ispirata da ciò che avevo trovato. Con Derek sono stata capace di sviluppare, duran-

“Quasi nessuna delle destinazioni cui sono arrivata e da cui sono passata nella mia vita erano qualcosa a cui puntavo... Sono costantemente come ‘soffiata via’ dal percorso intrapreso... È una sensazione bellissima... nessun approdo, sempre passaggi da attraversare...” te nove anni e sette film, un modo di essere performer che ha significato di potere far emergere la vera me stessa, un modo che ho percepito autentico e che mi ha permesso di intraprendere la mia professione di scrittrice in un modo che come attrice interpretativa in teatro non ero mai stata capace di soddisfare. Per quanto riguarda il mio ‘arrivo a Hollywood’, e il mio ‘training europeo’, devo confessare di non aver raggiunto nulla... Sono completamente ‘priva di addestramento’ come performer e vado a Hollywood raramente, brevemente e sempre con un senso di meraviglia e spirito di vacanza propri del turista. Non c’è mai stato un arrivo definitivo, in questo senso.

Vincere tanti premi, soprattutto l’Oscar, che forse per un’attrice rappresenta il premio dei premi... Ci si sente mai ad un punto di arrivo?


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know what I mean by this may agree that this constitutes a departure from the generally marketed concept of ‘oneness’ in which the romantic ideal describes a loss of self, in fact. To be able to show oneself, truly, to another soul, and to know oneself to be accepted - acceptable! - is a practical miracle every day. It’s something we humans are actually capable of. And it’s worth setting one’s course for... IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il fatto positivo è che quasi nessuna delle destinazioni a cui sono arrivata e da cui sono passata nella mia vita erano qualcosa a cui puntavo… Sono costantemente come ‘soffiata via’ dal percorso intrapreso… È una sensazione bellissima… Nessun approdo, sempre passaggi da attraversare…

Oltre al ruolo di attrice, con il film di Luca Guadagnino I am love ha sperimentato anche il mestiere di produttrice. Il film era preceduto dal progetto Tilda Swinton: The Love Factory dove Lei e il regista conversavate sui vari temi dell’amore. Che cosa l’ha convinta di questo progetto? E, più in generale, dopo queste lunghe riflessioni che cosa ha capito del sentimento amoroso? I am love è stato ispirato dalla nostra esperienza mentre giravamo The love factory – un film-ritratto basato su una conversazione, nella quale io e il regista discutiamo, tra le altre cose, sulla natura del vero amore… Abbiamo voluto insistere sul senso dell’amore come istigazione alla rivoluzione: all’assoluta (assistita e supportata) autodeterminazione. E’ un qualcosa di cui sono divenuta sempre più convinta nel tempo… La migliore compagnia, l’amante più appropriato, è rispettoso della nostra innata (e condivisa) solitudine. Coloro che capiscono cosa intendo possono essere d’accordo che ciò costituisce la partenza dal concetto generalmente ‘commercializzato’ di ‘unità’ nel quale l’ideale romantico descrive una perdita di sé, in effetti. Essere capaci di mostrarsi, veramente, ad un’altra anima e saperci accettati – accettabili! – è un miracolo che avviene tutti i giorni. È qualcosa di cui noi esseri umani siamo capaci e per cui vale la pena adattare la propria strada.


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Hanif Kureishi OLTRE I LIMITI Tutti i suoi libri mantengono, oltre ad una riflessione sulla società, una capacità di raccontare le emozioni e i desideri che risiedono nella parte più intima di ognuno di noi. Scrivere può essere un modo per riuscire a raccontare ed indagare le relazioni tra le persone, anche le più complesse? Il linguaggio ha una forza molto potente, in grado di costruire o decostruire un rapporto: attraverso un uso della lingua piuttosto che un altro si possono valorizzare oppure far affondare i personaggi. E questa caratteristica non appartiene soltanto agli scrittori, anzi ognuno di noi può utilizzare il linguaggio in maniera creativa: per costruire

“Vedo la sessualità come qualcosa di altamente destabilizzante: non si può fare a meno di seguire il desiderio, anche al di là della propria volontà o della razionalità” noi stessi o per stabilire le relazioni con le altre persone. Non c‘è cosa peggiore del silenzio, che fa spesso rima con rabbia, insoddisfazione, regimi dittatoriali… Invece il linguaggio, e più in particolare la scrittura, può esprimere molta forza ed ha la possibilità di descrivere qualsiasi cosa.

Quando scrive, soprattutto soffermandosi sui sentimenti, si pone mai dei limiti morali? Ognuno di noi conosce i limiti che è bene non oltrepassare, ce lo hanno insegnato fin da bambini: ci sono cose che non si possono dire o fare… Piano piano crescendo ogni tanto adoriamo varcare quei limiti, per mettere alla prova chi ci circonda. Credo che se non ci si mette mai alla prova, anche arrivando a violare i propri limiti e spingendosi fino all’estremo, non si potrà mai capire il senso di sé. Esiste un equilibrio perpetuo tra quello che può essere detto e quello che invece è vietato. In particolare un artista è fortunato quando riesce ad andare al di là di certi limiti. Scrivendo io non amo pormi limiti, soltanto così trovo che possa emergere l’essenza. Come già detto prima, il silenzio è sempre negativo, per cui cerco ad ogni costo di arrivare alla verità, perfino arrivando a far male agli altri o offendendone la sensibilità. Io sono anche un insegnante di letteratura creativa e spesso i miei studenti mi dicono di avere avuto un’idea per scrivere una storia ma di non poterla raccontare per paura di ferire i propri genitori, esattamente come accade ai bambini. C’è una lotta interna in ognuno di noi, per riuscire a scoprire fino a che punto ci si possa spingere e capire cosa realmente gli altri possano arrivare a tollerare… A chi vuole diventare scrittore io dico sempre di spingersi fino ai margini quasi della follia, di superare tutti i limiti, perché soltanto così il gioco si fa interessante. Dostoevskij, Shakespeare, Kafka sono autori che hanno scritto cose molto audaci. La letteratura non è una cosa tiepida, deve anzi contenere molto coraggio, ed è un’audacia che può diventare quasi pericolosa perché riesce a portarti oltre l’inimmaginabile.


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La passione e il sesso sono tematiche assolutamente decisive nei suoi libri. Sono cresciuto negli anni Cinquanta, in un’epoca in cui tutto taceva sul fronte della sessualità. Il sesso era un tabù assoluto: non se ne parlava, non se ne scriveva e le persone rimanevano

quanto la sessualità entri in campo con la politica, per esempio, o più in generale con il potere. Il sesso spesso trascina le persone e crea problemi. Vedo la sessualità come qualcosa di altamente destabilizzante, nel senso che non si può fare a meno di seguire il desiderio, anche al di là della propria volontà o della razionalità. Come scrittore mi sono sempre trovato bene a giocare sulla sessualità, la metto al centro dei miei romanzi perché trovo che sia un enigma, è una parte importante ed imprescindibile della nostra esistenza.

Il principio del piacere provoca nei suoi personaggi anche un senso di colpa o di espiazione?

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sposate per tutta la vita. Le cose hanno cominciato a surriscaldarsi negli anni Sessanta, per poi scatenarsi negli anni Settanta. La collocazione della sessualità nella nostra vita, le pulsioni più intime: sono temi che mi hanno sempre intrigato. Basta aprire la cronaca di qualsiasi giornale per rendersi conto

Sarei veramente scioccato se scoprissi che i personaggi dei miei romanzi non si sentissero almeno un po’ in colpa. Il piacere correlato al sesso costituisce sicuramente un momento di grande godimento e gioia, ma è seguito sempre da una certa sofferenza. Il piacere si basa sulla trasgressione ed è questo a renderlo intrigante. Andare oltre la proibizione comporta poi un’autopunizione. È la punizione stessa che diventa piacere e lo spingersi oltre i limiti enfatizza il piacere.


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Corrado Augias IL CUORE DI UNA STORIA Il suo ultimo libro si intitola Il lato oscuro del cuore ed è innegabile che la parola cuore sia un termine carico di tanti significati… L’idea iniziale era di indagare il lato oscuro della mente, però in un secondo momento è stata scelta la parola cuore proprio per il fascino che contiene in sé. Il cuore è la sede degli affetti, laddove la mente è la sede del giudizio. Abbiamo scelto il cuore per raccontare la storia della protagonista Clara: quello che lei fa nel libro ci porta a riflettere su quel momento bellissimo della storia della medicina in cui ci si chinò, per la prima volta in maniera sistematica, ad indagare sui misteri della mente umana. Siamo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, anche se i misteri della mente erano già noti ai greci. Non dimentichiamoci che i greci indagavano su tutto.

“l’IO non è padrone” ed è una frase che ci dice bene come stanno realmente le cose nella nostra parte più recondita.

Per spiegare l’essenza della psicanalisi, Lei ha preso in prestito la frase latina odi et amo. È un’espressione che emerge dal libro. Wanda, l’altra protagonista, è piena di risentimento e odio nei confronti di questi due uomini che, ognuno per suo conto, le hanno rovinato la vita. Però nello stesso tempo lei ne è soggiogata perché l’odio e l’amore sono due facce complementari della stessa cosa. E questo spiega anche la facilità con cui l’amore può diventare odio: quante coppie che si sono amate in tutti i sensi, sia dal punto di vista affettivo che

Il cuore è parente anche dell’inconscio, il lato oscuro che viene ricercato nel libro? Certo, questo può essere un aspetto della spiegazione della parola cuore. L’inconscio conserva tutto il nostro rimosso, quei ricordi e quelle esperienze traumatiche che vengono rimosse e da cui scaturisce la nevrosi. Non sappiamo di avere questi sentimenti dentro di noi perché sono nascosti all’interno del nostro animo. Freud diceva che

della sensualità, poi rompono e trasformano l’amore in un rapporto conflittuale e terribile, che a volte sfocia addirittura nel delitto. L’amore e l’odio sono due facce opposte di uno stesso


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trasporto forte e perfino violento. Del resto l’amore è un sentimento violento. Pensiamo a quando capita che un bambino inconsapevole veda i propri genitori che fanno l’amore: la scena viene scambiata per un momento di aggressione…

tani, nel tempo in cui facevo il cronista. Allora intervistai una prostituta che mi raccontò la sua storia, che in parte assomiglia a quella che nel mio libro vive Wanda. La storia mi colpì perché era fortissima e triste: quella donna si era trovata a fare questo mestiere

Per raccontare i meandri più profondi del cuore e della mente ha sentito la necessità di abbandonare la forma saggistica e di ritornare al romanzo?

difficilissimo quasi senza rendersene conto, ed è quello che succede anche a Wanda. Uno degli scopi che ho sempre perseguito nella mia vita è stato quello di raccontare storie. Di recente ho letto un testo di Massimo Recalcati, L’ora di lezione, che è un libretto piccolo e prezioso. Mi sono ritrovato nelle sue parole: per essere credibili e suscitare attenzione bisogna credere nella storia che si racconta, proprio come deve fare il bravo insegnante che deve credere e avere fiducia in quello che sta comunicando ai suoi allievi. Ecco che io, quando racconto una storia, mi im-

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In realtà io volevo scrivere un saggio, però mi sono reso conto che su questo argomento esistono già dei saggi magnifici che ho letto con grande profitto. Ho pensato che fosse inutile che un profano come me si mettesse a competere, in forma teorica, su questo terreno psicanalitico. Ho preferito inventarmi una storia e per scriverla ho pescato in alcuni miei ricordi più lon-


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medesimo fortemente nella vicenda ed è bello perché vedo che le persone stanno attente e mi ascoltano.

Quando racconta una storia, il suo obiettivo è quello di arrivare a suscitare un’emozione? L’essere umano ha sempre vissuto raccontando ed ascoltando storie. Già Omero, quando scriveva l’Odissea, voleva raccontare il viaggio di un uomo: le avventure dell’eroe che ritorna dopo una lunga guerra verso casa. L’Odissea è un romanzo di avventure belliche: ci sono litigi, assassini e vendette al suo interno che inchiodano il lettore e lo spronano a scoprire la fine di questa interminabile storia. Forster, il grande scrittore inglese, descrive l’arte della narrazione: quando la tribù si riuniva la sera intorno al fuoco, lo stregone cominciava a raccontare una storia. Si parlava delle vicende della tribù stessa o di quella vicina, e tutti stavano a sentire. Se si annoiavano, magari prendevano un bastone e cominciavano ad ammazzare proprio la persona che stava raccontando. Il narratore doveva quindi avvincerli con la sua storia, per rimanere vivo. Adesso, ai giorni nostri, la vicenda è sempre la stessa: c’è chi ti racconta una storia e tu stai lì a bocca aperta ad ascoltare come va a finire… Proprio come quando da bambini sentivamo le favole: è in questo particolare sentimento che sta tutta la forza della narrazione.

La narrazione è dunque anche l’essenza del teatro, il tentativo di riuscire a trasmettere una storia agli spettatori? Ho scritto tanto teatro da giovane, ma ha una struttura diversa rispetto alla pura narrazione. Il teatro funziona sulla molla della dialettica: una storia teatrale deve vivere su una contrappo-

sizione. Nel caso del dramma la contrapposizione è netta e visibile, dichiarata apertamente tra le due parti. Quando questa diviene fatale, dunque inconciliabile, si arriva a quella particolare specie di dramma che è la tragedia. Sono due

“Il cuore è la sede degli affetti, laddove la mente è la sede del giudizio ”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

posizioni inconciliabili che si scontrano: Antigone, per esempio, deve sottostare alla legge di Creonte che le impedisce di seppellire il fratello o piuttosto seguire i dettami dell’umanità che impongono di dare ai morti la giusta sepoltura?

Una sua definizione di scrittura. La scrittura è la voglia di dire o di ascoltare una storia. Poi l’uso che si fa di questa storia può essere molteplice. Ovviamente ciascuno sceglie il suo e questo può significare tante cose: per esempio, si apprende una storia e si decide di buttarla subito via…


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Dal diario di una giovane spettatrice...

Una grande magia di Caterina Baronti

IMMAGINE DALILA CHESSA

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l teatro è fatto di tante realtà in cui ognuno trova la propria. È un segreto legame che si crea fra l’attore e ognuno dei suoi spettatori, come fa un padre con i suoi figli; ci prende per mano e ci conduce al termine. Dunque penso che il teatro sia come la vita dell’uomo. Con un inizio, uno svolgimento più o meno lungo ma inesorabilmente una fine. Tragedia e commedia legate, unite insieme. E penso sia proprio questo ciò che ci fa scegliere uno spettacolo invece che un altro. Inconsciamente il nostro vacillante pendolo cadrà proprio su quel titolo che è la rappresentazione delle nostre più segrete passioni, dei nostri inarrivabili desideri e delle nostre irrazionali paure. Tutto ciò è il teatro, il mettersi comodi e aspettare. Aspettare di guardare con lapsus e improvvisazioni, unici momenti e istanti che non capiteranno mai più, se non come copia di un tempo che fu. Se il Teatro riesce, ancora, ad emozionare è buon segno. Significa che avete scelto lo spettacolo giusto per sfiorare le sottilissime corde dell’animo umano, del vostro animo così oscuro e personale. Oscure come le quinte, nere, profonde, capaci di proteggere con la loro impenetrabilità l’attore e la scena. E la scena non è che la faccia, la faccia sotto la maschera che ogni giorno ci allacciamo. Il teatro però non dorme mai, ma continua a riecheggiare eternamente antiche canzoni, lontane parole urlate, ridacchiate, sussurrate alle orecchie degli spettatori. Il teatro è una grande magia in cui non c’è mago ma la sola razionale possibilità di credere nell’impossibile. Il teatro è, dunque, tutto ciò che vuoi, spettatore, attendi solo che si abbassino le luci e si alzi il sipario della tua esistenza.


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Dal palcoscenico del Teatro Goldoni

Gli innamorati di Andrée Ruth Shammah

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more. Come posso io parlare di amore senza parlare di amore per il teatro? E cosa mi può fare amare, vedere e fare il teatro se non l’amore per la vita? Nel mio spettacolo tutti i personaggi che ruotano intorno ai due Innamorati riflettono sulla vita, in un gioco di rimbalzi dove insieme agli attori nel gioco d’amore passa anche il mio (e il nostro) amore per il teatro. Amare il teatro è amare la vita. Il teatro, come la vita, accade. E sorprende. Ed è accaduto a me e ai miei attori e con Firenze, con Goldoni e con la Pergola. A Firenze mentre alla sera recitavano il Don Giovanni di Filippo Timi, gli attori della compagnia si sono ritrovati intorno a questo nuovo testo, ed è accaduto che proprio lì a Firenze abbiamo trovato dentro alla grazia della pergolina la grazia delle prime prove in piedi, la carne un corpo e un frammento di anima. Le chimiche che nutrono il teatro e che lo fanno accadere sono imprevedibili e inspiegabili come nella vita. Ora si chiude un ciclo proprio al Goldoni di Firenze ma dal Goldoni di Firenze ci siamo promessi una nuova tournée e un nuovo appuntamento. Grazie agli organizzatori del teatro che con il loro caloroso abbraccio, ci fanno sentire ogni volta accolti in una bellissima casa.


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La Storia racconta...

Mazzi di violette, fazzoletti ricamati e guanti bianchi... di Adela Gjata

William Hogarth, The laughing audience, incisione del 1733

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in dal Settecento il teatro è luogo privilegiato di incontri amorosi, non solo concertati ma anche fortuiti. La noncuranza per lo spettacolo e il conseguente disordine della sala sono un topos della descrizione del pubblico teatrale che perdura anche nell’Ottocento. Il marchese De Sade scriveva nel 1775, riferendosi ai teatri lirici fiorentini, che “i palchi sono grandi: vi si gioca, vi si cena e, grazie a una tela che si abbassa sottraendo agli sguardi degli spettatori, vi si può far di peggio, se si vuole”. Sedi privilegiate di corteggiamenti e appuntamenti galanti sono soprattutto i palchi, quasi dei prolungamenti naturali dei salotti nobiliari, dove si fanno nuove conoscenze, si riceve e si conversa, si gioca a scacchi, si sgranocchiano dolciumi e si sorseggiano sorbetti. L’intimità di questi luoghi è stimolata dalla struttura stessa del teatro all’italiana con i palchi completamento divisi l’uno dall’altro, differenti, ad esempio, dai palchi dei teatri francesi che sono separati da tramezzi parziali. Per cui mentre in Francia “vi si recita la commedia dell’amore, in Italia vi si fa all’amore” per dirla con le parole di Georges Banu. Visto dalla parte del pubblico, il teatro può essere osservato come attraverso un congegno ottico che ribalta le prospettive, rigettando la rappresentazione sullo sfondo e privilegiando gli aspetti legati alla vita degli spettatori. Luoghi come lo scalone d’ingresso, il foyer e la sala diventano una scena parallela a quella ufficiale, ribalte della rappresentazione di sé, dove sfoggiare abiti alla moda e vistose toilette, catturare sguardi o spiare ammiccanti da dietro un binocolo. Il teatro è non solo luogo del riconoscimento sociale, ma anche regno delle emozioni e del desiderio. Il potere di coinvolgimento emotivo o di richiamo erotico del palcoscenico determina talvolta l’esistenza stessa degli spettatori. Per i giovani amanti dei romanzi ottocenteschi il teatro è il luogo più idoneo alla visione della donna amata come su un palcoscenico. È a teatro che Pietro Brusio, protagonista di Una peccatrice di Verga, segue ogni movimento di Narcisa, che fino ad allora aveva adorato da lontano. La seduzione della toletta delle signore, il fascino e la complicità dell’ambiente teatrale fungono da catalizzatore dell’immaginario passionale. In un altro romanzo sentimentale di Verga, Eva, prima di


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restare ammaliato dalla ballerina omonima, Enrico osserva la sala della Pergola dal suo posto in platea: “I palchetti si andavano popolando di belle signore; avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle.” Il protagonista del racconto Novembre di Flaubert è invece inebriato dall’aria che si respira in teatro “profumata di un caldo odore di donna ben vestita, qualcosa che sapeva di mazzi di violette, di guanti bianchi, di fazzoletti ricamati”. Il tema del teatro come luogo di iniziazione amorosa e libertà dei costumi è, del resto, una costante che attraversa le epoche. È nel parigino Opéra Comique che Armand conosce la splendida Marguerite Gautier, la Signora delle camelie, il cui irresistibile fascino accresce in presenza del binocolo, del cartoccio di dolci e delle sue camelie. Il corteggiamento delle quattro sorelle della pirandelliana Leonora,addio! (1910) avviene durante le feste, i balli e soprattutto in teatro. Quest’ultimo non è tuttavia solo luogo di incontri, ma anche sede di svolte sentimentali, intrighi e rivelazioni. In Tigre reale di Verga, proprio durante un’opera lirica alla Pergola, Nata concede a Giorgio La Ferlita un bacio inaspettato.

L’effet du mélodramme, dipinto di Léopold-Louis Boilly, 1820, Versailles, Musée lambinet

Il mondo di cartapesta della scena diventa il fondale in cui le protagoniste dei romanzi ottocenteschi, soprattutto le fanciulle che si affacciano alla vita, proiettano amplificati i loro desideri vaghi e segreti. Se passioni latenti e desideri di trasgressione sconvolgono l’apparente sicurezza delle spettatrici aristocratiche, le borghesi e le ragazze del popolo vedono nel palcoscenico lo specchio su cui proiettare le aspirazioni a una vita ideale che le elevi al di sopra della mediocrità quotidiana. La protagonista de L’attrice di Antonio Piazza ricorda così la sua prima serata teatrale: “Sono uscita dal teatro colla testa piena di idee, colla memoria piena di versi e col core mosso da vari affetti.” La prima serata a teatro, che per le fanciulle del XIX secolo corrisponde all’entrata in società, è un momento magico di turbamento. In termini di sinestetico inebriamento racconta la prima volta all’Opéra la ragazza incontrata dal protagonista di Notti bianche (1848) di Dostoevskij. Le impressioni sullo spettacolo si sovrappongono alla presenza del giovane di cui si innamora. La suggestione del teatro rapiva sovente le fanciulle e i galantuomini del secolo del Romanticismo e lo fa tuttora con i romantici del XXI secolo, sollevandoli a fantasticare sopra le nuvole e a ballare tra gli angeli e i fiori dei soffitti affrescati. Il fascino del teatro risiede, ora come allora, nell’intrigante atmosfera, che evoca le antiche associazioni fra la scena e i piaceri di Venere.


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I mestieri del teatro il Dramaturg

Stefano Massini

PAROLE IN MOVIMENTO Nei suoi testi teatrali si parte da un’attenzione verso la realtà ma si finisce sempre per focalizzarsi sulla parte più umana delle vicende che entrano in gioco nel racconto. Nel momento in cui comincio a scrivere ho la necessità di capire quale potrebbe essere la posizione di lettura di chi accoglierà l’opera e ciò significa che spesso opto per delle tematiche di carattere civile perché su certi argomenti scatta immediatamente una posizione molto diretta e non mediata da pretese intellettualistiche, addirittura spesso viscerale. In genere, viziati da tutta una serie di pessima fiction televisiva, noi oggi tendiamo sempre a schierarci in un racconto dalla parte del più debo-

“Scrivo di donne soprattutto perché credo che la scrittura teatrale non debba mai immedesimarsi troppo con il suo autore” le. Generalmente la trama è sempre la stessa: c’è un omicidio e qualcuno che viene accusato; di solito inizialmente si tratta di un tossicodipendente o un immigrato, una persona ‘diversa’, e durante la puntata si scoprirà che in realtà lui è innocente e il vero respon-

sabile invece è un individuo di buona famiglia, una persona insospettabile. Nel caso di 7 minuti, il mio spettacolo su un gruppo di operaie che rischiano di perdere il proprio posto di lavoro con protagonista Ottavia Piccolo, il meccanismo drammaturgico è totalmente opposto: arrivano in scena le dieci operaie che sono terrorizzate di perdere lo stipendio e poi entra Ottavia dicendo che questo non accadrà se accetteranno di rinunciare a sette minuti dei quindici della loro pausa pranzo… Le operaie, e con loro tutto il pubblico, propendono per accettare questo patto, mentre Ottavia è l’unica a dire: “In questa condizione qualcosa non mi convince” e la sua posizione, pur essendo la protagonista, è di minoranza. Questo è un input drammaturgico, secondo me, veramente pieno di opportunità narrative.

Con Ottavia Piccolo, così come con Amanda Sandrelli o Isabella Ragonese, avete collaborato più volte… Quando scrive un nuovo testo ha già in mente l’artista che lo interpreterà? Di solito sì, per lo meno mi serve pensarlo, indipendentemente dal fatto che poi lo sia realmente… In generale la scrittura teatrale non è mai strettamente legata alla realtà di quello che accadrà fisicamente di quel testo perché tende, a mio avviso, a peccare troppo di letterarietà. La mia idea di teatro è invece molto concreta e non ti nascondo che a volte, mentre scrivevo uno spettacolo, sono arrivato a costruirmi mentalmente una possibile scenografia.


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Oltre ad essere un drammaturgo, è stato anche regista di tanti spettacoli. Questo aspetto registico è stato importante anche nella fase di scrittura di un testo? Certamente sì; dico spesso che scrivo andando in scena… E ne ho una riprova concreta: se mi metto davanti ad un computer a scrivere in genere il

movimento e lo stesso tipo di andamento, secondo me, si riflette nella scrittura... Soprattutto le battute nascono già a voce alta ed è una condizione diversa dalle parole destinate alla pagina scritta: in teatro le parole devono andare a finire sulla voce.

Ha affermato che sono le storie che vengono a cercarla… È vero, mi è accaduto spesso di avere avuto la sensazione di una storia, uno stimolo creativo forte, ma di non averlo assecondato subito. A distanza, anche di anni, quella storia continua a tormentarmi e torna ciclicamente a bussarmi alla porta. Ad un certo punto non puoi fare a meno di scriverla.

In Italia non esiste la figura del drammaturgo: pochi scrivono di teatro e, in particolare, mettendo spesso le donne al centro del racconto.

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risultato è brutto e se invece vado, per esempio, in bicicletta – faccio tutti i giorni svariati chilometri – dico le battute a voce alta pedalando, le correggo e mi fermo a registrarle. Quando torno a casa sbobino e scrivo partendo da queste registrazioni estemporanee: le parole sono state create mentre faccio del

Io scrivo di donne soprattutto per una ragione tecnica: fondamentalmente credo che la scrittura teatrale non debba mai immedesimarsi troppo con il suo autore. Non riuscirei mai a scrivere un testo in prima persona, ho anzi la necessità di perseguire un tipo di scrittura che sia profondamente ‘diaframmata’ da quello che sono. Scrivo di qualcosa che è ‘altro da me’, per non entrare in una forma totale di autobiografia. Questo è il motivo per cui scrivo spesso dei testi che hanno come protagonisti personaggi che appartengono all’altro sesso: donne che sono diverse da me, su cui devo fare uno sforzo per assumere il loro punto di vista che dichiaratamente non può essere il mio. È un tipo di ricerca molto forte e davvero interessante per me. Per quanto riguarda invece la figura del Dramaturg in Italia, prima di tutto bisogna ragionare


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all’interno di quale tipo di sistema teatrale ci troviamo. Io ho avuto la fortuna di partire dalla dimensione di piccoli teatri, limitrofi alla ricerca: per anni i miei spettacoli, per esempio, sono stati in scena a Santarcangelo… In un secondo momento ho vissuto la stagione del teatro più commerciale, legato alle grandi compagnie di tradizione, e adesso sono in una dimensione completamente diversa che è quella del teatro pubblico per antonomasia, il Piccolo di Milano. Con lo spettacolo Lehman Trilogy per la regia di Luca Ronconi ho potuto lavorare allo stesso modo del Dramaturg in Germania: una figura intermedia tra autore e regista, che è la direzione con cui ho collaborato insieme a Ronconi, stando dieci mesi fianco a fianco con lui senza riscrivere il mio testo ma trasformandolo in vista di una messa in scena.

Con il Maestro Luca Ronconi avete un rapporto di collaborazione davvero bello… Gli voglio molto bene; abbiamo 41 anni di differenza, che non sono pochi… Ho una profonda stima nei suoi confronti perché trovo che sia una delle menti più fresche e giovani che ci siano in Italia. È una persona curiosa che non ha mai fatto del proprio stile una gabbia, anzi l’ha resa una potenzialità che, nel corso del tempo, lo ha fatto diventare uno straordinario analista di testi. Lui sa come lavorare su una drammaturgia.

Secondo un attore e regista come Elio De Capitani, la ricerca di uno stile unico è la morte per un teatrante. Negli anni Settanta un altro fantastico teatrante come Leo De Berardinis scriveva: “Io ho bisogno, ogni volta che finisce uno spettacolo, di azzerare completamente la tavola per ricominciare da

zero”. Credo che queste parole siano ancora più straordinariamente necessarie oggi, in una società in cui, diversamente dagli anni Settanta, qualsiasi fenomeno è già comunicativamente concluso, nel momento stesso in cui avviene. La velocità di propagazione di una notizia è decuplicata rispetto ad anni fa, grazie ad internet e ai social. E lo stesso vale per i

“Le battute nascono già a voce alta ed è una condizione diversa dalla pagina scritta: in teatro le parole vanno a finire sulla voce ” fenomeni artistici: prima per riconoscere uno spettacolo occorrevano almeno quattro stagioni perché doveva girare in tutta Italia… Invece se consideriamo che Lehman Trilogy, uno spettacolo che ha debuttato da poco tempo, ha già totalizzato alcune centinaia di migliaia di connessioni internet ed è conosciuto in tempo record dal Nord al Sud Italia, così come in Europa… Penso che oggi più che mai abbiamo il dovere di modificare continuamente quello che facciamo e di azzerare la tela già tracciata in precedenza. Altrimenti si diventa vecchi, ancora prima di rendersene conto.

Se dovesse dare una sua definizione di scrittura… Io mi occupo di scrittura teatrale e il teatro è il rito laico più antico che ci sia, antico quanto il genere umano. Peter Brook, con cui ho avuto la fortuna di collaborare, ripeteva sempre che fondamentalmente esistono al mondo i riti religiosi e il rito laico del teatro. I primi servono per capire qualcosa che sta oltre la realtà, mentre il teatro riesce a farti comprendere la realtà che ti circonda. La scrittura, secondo me, segue questa direzione.


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I mestieri del teatro il Coreografo

Giorgio Mancini

DANZANDO L’ANIMA Una delle sue ultime coreografie racconta una storia d’amore: è il passo a due di Tristano e Isotta con la musica di Wagner, presentato in prima assoluta sul palcoscenico dell’Opera di Firenze.

In effetti sono stato educato alla musica operistica da mio padre: ricordo che la domenica mattina ascoltava spesso autori come Wagner o Beethoven. E poi il mio Maestro Maurice Béjart era un grande appassionato di Wagner: in diversi balletti ha utilizzato parti del Parsifal o delle Valchirie. Insieme abbiamo creato un balletto

“Immaginare un balletto e poi vederlo sulla scena, vedere fino a che punto un danzatore può ispirare un coreografo: è l’intero processo creativo che costituisce il fulcro della mia ricerca” per Der Ring des Nibelungen, uno dei quattro drammi musicali di Wagner: cinque minuti di danza con tre mesi di prove e questa musica che mi è entrata dentro… Abbiamo debuttato a Berlino, proprio nel periodo della caduta del Muro: si respirava un vento nuovo e la danza celebrava questa gioia. Wagner

ha continuato a non abbandonarmi: un giorno a Ginevra ho ascoltato Tristano e Isotta ed è cominciata l’idea di rendere questo soggetto per la danza. Dopo uno studio coreografico fatto nel 2011 nel cortile di Palazzo Strozzi a Firenze che si basava essenzialmente sulla morte d’amore di Isotta, ho avuto l’idea di compiere una sintesi di quest’opera concentrandomi solo sui due amanti, Tristano e Isotta.

I ballerini che interpretano questo balletto sono due étoile dell’Opera di Parigi: Dorothée Gilbert e Mathieu Ganio… Avevo bisogno di due ballerini dalla grande capacità tecnica e dotati di una grande maturità artistica. Mi hanno colpito subito, già da quando mi erano stati presentati anni fa tra più di cento ballerini in un concorso all’Opera, proprio per la loro capacità di trasmettere emozione. All’epoca si esibirono in una variazione molto corta, ma si avverte subito quando esiste la vera presenza scenica. Sono stati felici che io abbia pensato a loro perché, nonostante siano degli étoile, alberga sempre in loro l’insicurezza di non piacere tipica del danzatore. Purtroppo il ballerino è strettamente collegato al gusto del creatore: tanti ballerini bravissimi magari non vengono scelti perché non ispirano il coreografo.

La danza riesce a descrivere l’amore? Certo, secondo me è l’arte che meglio può esprimere le emozioni. Il movimento e la fisicità, insieme allo sguardo: la


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danza racchiude in sé il corpo con l’anima. Ed esprime il ‘non detto’: quello che viene sottinteso, e che vive nel più profondo dell’anima. In particolare in Tristano e Isotta i movimenti coreografici sono accompagnati dalla proiezione di un film di James Bort che si sofferma sui dettagli della coppia di ballerini: ho voluto che il pubblico avesse la possibilità di scrutare, come in un microscopio, la pelle, il tatto, lo sguardo di questi amanti. In questo modo la sensualità e il romanticismo, così come la vicenda che avviene sulla scena: tutto viene amplificato.

ografo, ma un artigiano che faceva delle regie. Negli anni di lavoro con lui mi sono rimasti molti ricordi: una tournée bellissima dove abbiamo ballato in mezzo alle Piramidi nel deserto, per esemFOTO FILIPPO MANZINI

Non è la prima volta che mette in scena l’amore: nel 2005 aveva creato per la Compagnia di MaggioDanza Giulietta e Romeo, il suo primo balletto narrativo. La mia visione di coreografo è essenzialmente quella di riuscire a trasportare l’emozione sulla scena. Più che al raggiungimento di prodezze fisiche o al virtuosismo tecnico, l’obiettivo che perseguo sono i sentimenti. Deve arrivare l’emozione al pubblico, questo è un aspetto da cui non si può prescindere. A volte, anche coreograficamente, divento volutamente molto semplice e minimalista: voglio che l’emozione esca anche attraverso un semplice movimento. Quello su cui mi interessa focalizzarmi è una narrazione emotiva: sul palcoscenico emergono l’emozione tra i personaggi della storia, vissuta in quel preciso momento dagli interpreti.

I suoi balletti hanno volutamente un carattere teatrale? Sì, anche perché in effetti mi rendo sempre più conto dell’influenza che ha avuto Béjart su di me. Oltre al linguaggio coreografico, il suo ascendente è stato dal punto di vista della messinscena: lui stesso diceva di non essere un core-

pio… La danza, insieme all’arte della musica, ha un linguaggio universale. È vero che ogni Paese recepisce in un suo modo originale lo stesso balletto, ma il nocciolo, l’essenza della danza è sempre intesa da tutti. Ed il lavoro del creatore, ovvero il mestiere di coreografo, deve mirare proprio alla comprensione.

Letizia Giuliani e Antonio Guadagno in Giulietta e Romeo


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Nel cortile del Palazzo Strozzi a Firenze ha presentato i suoi studi coreografici in mezzo ad un pubblico eterogeneo: oltre agli appassionati del balletto, anche molti turisti e visitatori di quello spazio espositivo. In questo modo

questo anche quando ballavo, prima di diventare un coreografo - è sempre stata la creazione. Immaginare un balletto e poi vederlo sulla scena, vedere fino a che punto un danzatore può ispirare un coreografo: è l’intero processo creativo che costituisce il fulcro della mia ricerca.

molte persone si sono avvicinate per la prima volta alla danza?

Un ballerino avverte la presenza del pubblico?

FOTO JAMES BORT

Sopra e nella pagina accanto: Dorothée Gilbert e Mathieu Ganio in Tristano e Isotta

L’idea era di proporre uno studio di danza all’aperto. In pochi conoscono il duro lavoro che sta dietro ad ogni creazione, sia da parte del coreografo che del ballerino. Tutti vedono soltanto il risultato che deve essere sempre piacevole e grazioso, senza mostrare nessuno sforzo. Invece con questa operazione ho voluto dare l’occasione a tutto il pubblico, anche a quello che non conosce la danza, di entrare nel processo creativo che richiede un grande lavoro. Per me la parte più interessante di questo mestiere - e

Sì, anche se non lo vede perché ci sono le luci che impediscono di vedere chi ti sta davanti. Un ballerino ne sente però la presenza e ne viene stimolato: lo sguardo del pubblico gli dà adrenalina e lo fa sentire al centro della visione. È quello di cui ha bisogno per dare il massimo.

Essere un ballerino e poi diventare un coreografo: in questo passaggio come cambia il rapporto con la danza?


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Il coreografo deve avere la grande capacità di mettersi a nudo, nel senso che un ballerino può sempre proteggersi, in qualche modo, perché può interpretare un ruolo senza viverlo realmente e come un attore può celarsi dietro il suo personaggio. Il coreografo

invece non può mentire, deve calarsi profondamente, con tutto se stesso, per arrivare ad organizzare la storia da rappresentare. Durante la fase della creazione diventi anche molto suscettibile: emotivamente sei fragile perché senza protezioni.

FOTO JAMES BORT


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Speciale Musica

Katia Labèque

IMPREVEDIBILI EMOZIONI Come nasce l’idea del concerto presentato nell’ambito della stagione concertistica degli Amici della Musica di Firenze dove si assiste all’unione tra il suo pianoforte e il violino di Viktoria Mullova? Io e Viktoria ci conosciamo da tanto tempo, ma non c’è stata una pianificazione vera e propria da parte nostra.

avevo mai suonato con una violinista, di condividere il palcoscenico con Viktoria: il suo modo di suonare è molto moderno ed aperto alle contaminazioni. I nostri concerti infatti ambiscono a spingere il pubblico a fare accostamenti imprevedibili dal punto di vista musicale.

Nel programma dei vostri concerti in genere una parte è dominata dai classici con autori come Mozart o Schuman, mentre una parte è riservata al versante novecentesco e alla sperimentazione.

L’unione, con qualcuno che ammiri e ami, ti dà forza sulla scena. Non potrei mai suonare con qualcuno che IMMAGINE DALILA CHESSA non mi piace. La nostra passione musicale ci porta a sviluppare nuove idee; è lo stesso tipo di percorso che ricerco, da sempre, insieme a mia sorella Marielle: cerchiamo di commissionare nuovi autori che scrivano per noi, in modo da ingrandire il nostro repertorio. Ciò vale sia per un’esecuzione pianistica a “Ogni concerto è fatto, prima di tutto, quattro mani oppure per inedite spedi emozione e di concentrazione” rimentazioni legate all’elettronica, alla Un giorno Viktoria mi ha chiesto di batteria, alla voce dei cantanti… Io stesfare un concerto insieme: è sempre lei sa, per esempio, ho collaborato all’album ad organizzare il programma e io sono Shape of my Heart di Sting. Tutte queste felicissima di seguirla. È nato tutto per possibilità espressive rappresentano un amore della musica e per un sentimen- modo per raggiungere, con la musica to di amicizia; sono felice, anche se non classica, un pubblico sempre diverso.


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Durante un concerto una musicista che rapporto ha con il pubblico che ascolta in sala? Ogni pubblico ha la propria sensibilità, ma personalmente mi piace riflettere su un punto: gli spettatori arrivano ad un concerto mossi dalle più svariate motivazioni – c’è chi adora Schubert, chi ha letto il programma su un giornale o chi raggiunge il teatro perché gli è stato regalato un biglietto – ma non importa davvero il perché si scelga di assistere ad un concerto. La cosa più importante è la musica, che è in grado di riunire tanta gente differente. Questo è l’aspetto più affascinante, secondo me, e anche con Domitilla Baldeschi, direttrice artistica degli Amici della Musica, ne parliamo spesso: pensiamo a nuovi programmi futuri, in modo da aprire più la musica classica ai bambini e agli adolescenti. Magari una Sonata di Mozart non è la cosa più facile per iniziare i bambini alla musica, ecco perché bisogna preoccuparsi della formazione di nuovo pubblico: è una ricerca da cui non si può prescindere.

divertirsi. E del resto io e mia sorella ci vogliamo molto bene: per noi la musica non può essere altro che divertimento.

Una musicista, mentre suona, si dimentica del pubblico? Non è così, anzi è il contrario. È come entrare in un cerchio: dal palco noi sprigioniamo energia che arriva al pubblico; a sua volta, dalla platea gli

Dal punto di vista dell’emozione, suonare da solista oppure insieme ad altri musicisti cambia l’interpretazione? Sì, sono modi di suonare proprio diversi, anche se l’interpretazione è sempre coinvolgente. Con mia sorella Marielle affronteremo a Torino nella Scuola di Alessandro Baricco per la prima volta la Sagra della Primavera di Stravinskij nella trascrizione per due pianoforti ed è un lavoro difficilissimo, una musica forte ed intensa. Stiamo studiando come pazze. E poi Philip Glass ha scritto il suo primo concerto per due pianoforti apposta per noi: un concerto per piano e orchestra che vede sul podio a Los Angeles il venezuelano Gustav Dudamel. C’è da

FOTO FILIPPO MANZINI

spettatori rimandano indietro la loro energia. Ogni concerto è fatto, prima di tutto, di emozione e concentrazione. Ed è questo tipo di sentimento che crea la magia.

Che cos’è la musica per Lei? La mia vita. E soprattutto la mia passione.


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Firenze contemporanea Museo Ferragamo

Stefania Ricci

COME UN FUNAMBOLO Equilibrium è l’ultimo progetto espositivo del Museo Salvatore Ferragamo di Firenze; da dove parte l’idea di questa esposizione? Tutte le nostre mostre nascono sempre da un argomento che riguarda la storia di Salvatore Ferragamo e delle calzature che ha ideato: si parte da un suo pensiero, da un episodio della vita o concentrandosi su una delle sue clienti del mondo del cinema come,

Viatica, 2012-2013 Décolleté in vernice rossa, 22x11 cm. Rielaborazione contemporanea del modello originale realizzato da Salvatore Ferragamo per Marilyn Monroe. Firenze, Museo Salvatore Ferragamo.

sati sull’analisi dell’anatomia del piede e sulla ricerca dell’equilibrio del corpo umano. Quello che diceva Ferragamo sull’importanza del camminare è molto simile, per esempio, al pensiero di Balzac: l’uomo si preoccupa di andare sulla luna e non di curare forse l’aspetto più importante per il sostegno della vita – il camminare, appunto – che sta alla base dell’evoluzione umana. Ferragamo era affascinato da come si sviluppasse l’arco del piede che lui arrivava a paragonare all’arco di un portale di una chiesa medievale. Insieme a Sergio Risaliti, l’altro curatore della mostra, abbiamo cercato di sviluppare questo tema coinvolgendo una serie di studiosi nei vari campi: dalla filosofia alla danza, dall’arte antica a quella contemporanea. Tutta la scultura antica elabora questo discorso del passo e dell’equilibrio, così come con la nascita della fotografia gli artisti avvertono l’esigenza di fermare in un’istantanea ‘il passo’: il momento esatto in cui l’uomo camminando sta per perdere l’equilibrio e poi subito lo riacquista. Fino ad arrivare all’uso estremo del movimento e della ricerca dell’equilibrio con il lavoro del funambolo.

Espressioni artistiche come la danza e il circo hanno un ampio spazio nella mostra…

per esempio, Marylin Monroe o Audrey Hepburn. In questo caso, per la mostra Equilibrium, ci siamo riallacciati al cuore degli studi di Ferragamo ba-

La danza, per sua stessa natura, è indissolubilmente legata alla dinamica dell’equilibrio e della postura: il danzatore cerca l’elevazione ma sempre mantenendo un rapporto con la terra. E in particolare la danza moderna, partendo da Pina Bausch, amplifica il discorso: i


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ballerini danzano a piedi nudi, cercando il contatto con la terra. Anche il mondo del circo, con il mestiere dell’acrobata, si inserisce in questo tipo di ricerca.

ti colpiscono fortemente lo spettatore: in Equilibrium sono presenti alcune interviste video – dalla stella della danza Eleonora Abbagnato al funambolo Phi-

Quindi in Equilibrium viene esplorato il senso dell’equilibrio non soltanto dal punto di vista fisico, ma anche in chiave metaforica? Sì, ecco perché è molto importante anche l’intervento in mostra dei cosiddetti opinion leader: abbiamo scelto dei personaggi noti che potessero parlare, attraverso dei video, dell’argomento-equilibrio per riportare questa riflessione dalla storia dell’arte ai giorni nostri. C’è un’intervista video, per esempio, a Messner che racconta la fase in cui faceva tutte quelle famose scalate: oltre all’esperienza di un raggiungimento, anche in condizioni estreme, di un equilibrio fisico, il suo è stato un desiderio continuo di superare sempre se stesso. Così come le traversate che ha compiuto nei deserti o nei ghiacciai, completamente da solo: la ricerca dell’equilibrio diventa allora un rapporto con se stesso, con la propria solitudine di essere umano.

I video sono fondamentali in tutte le Mostre del Museo Ferragamo? Oggi siamo abituati ai video e alle immagini dei computer, quindi i filma-

“Quello che ricerchiamo sempre, in ognuna delle nostre esposizioni, è l’emozione. Una persona deve entrare in una mostra ed emozionarsi” lippe Petit – che raccontano l’equilibrio dal punto di vista artistico. In tutti i nostri video, in genere, il tipo di ricerca è profondamente emotiva. In un filmato della performer Marina Abramović, per esempio, il camminare metaforico si sposa con il senso del ricongiungimento e della distanza amorosa: quest’artista e suo marito hanno deciso di lasciarsi e il video riprende il lungo viaggio intrapreso da soli, il loro ritrovarsi per poi perdersi di nuovo…

Foto storica scattata all’Open Gate Club, in occasione della serata in onore di Sophia Loren offerta da Salvatore Ferragamo, Roma, 25 febbraio 1955. Salvatore Ferragamo prova una scarpa in merletto a Sophia Loren.


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Le vostre mostre sono dunque sempre aperte all’arte contemporanea?

Roberto Barni, Impresa, 2010 Bronzo patinato rosso, 56 x 22 x 12,5 cm Firenze, collezione dell’artista

In genere spaziamo nel tempo e cerchiamo di mettere insieme l’opera classica con l’arte contemporanea, anche perché la scelta artistica segue un po’ quello che è il riflesso dell’azienda: il marchio Ferragamo appartiene alla modernità e fa moda oggi, ma basandosi sulla tradizione e su una struttura storica molto

municare… Bisogna ricordarsi di quella mostra e non dimenticarsela più.

Nel Museo Ferragamo si parte dalla calzatura che diventa il simbolo di tante cose: passione, cultura, sogno, sguardo rivolto sempre in avanti e verso il futuro… Le scarpe prodotte da Ferragamo erano tutte artigianali: spesso un modello è pensato solo per quella persona in particolare, come nel caso delle scarpe per Marylin Monroe o Judy Garland… Queste calzature costituiscono, già di per sé, delle opere d’arte: c’è l’invenzione, sia nella costruzione che nell’uso del materiale. Le possibilità artistiche, a partire da una calzatura, sono infinite. E del resto il linguaggio dell’arte è universale, proprio come la moda. Certe storie, come quella di Ferragamo, vanno raccontate, soprattutto ai giovani, perché si parla di successo ma anche di tanta fatica superata grazie al sogno e alla propria passione. Lui è andato avanti nel corso della storia – attraversando perfino il fallimento e la guerra – e non si è abbattuto, anche perché aveva quello che gli americani chiamano self confidence: lui era consapevole di avere qualcosa da dire. In Italia ci sono tante storie come quella di Ferragamo da raccontare e credo che possano regalare una speranza.

Che cos’è per Lei l’arte?

“Senza arte non siamo uomini, è la parte migliore che ci sopravvive” forte. Quello che ricerchiamo sempre, in ognuna delle nostre esposizioni, è l’emozione. Una persona deve entrare in una mostra ed emozionarsi. Deve sentire la passione di chi ci ha lavorato, la passione del messaggio che si vuole co-

L’arte abbraccia un campo molto vasto dell’esperienza umana e aiuta a vivere. Senza arte non siamo uomini: è la parte migliore di noi, quella che ci sopravvive. Parlo di arte intesa come cultura, in senso lato. L’arte regala bellezza, ed è una bellezza morale, non soltanto estetica. Io non potrei vivere senza arte e come dice l’antiquario Bellini “l’arte è quasi una malattia”. Perché è una passione che ti consuma.


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Dai Quaderni di Orazio Costa

Dalla poesia Trappola di Orazio Costa, 1989

..riduci, riduci, il vasto, il grande, l’immenso… rimane immensurabile se lo rechi alla tua misura e poi ancora lo riduci a quella d’una vertebra, d’una rotula, d’un aliosso, e ne fai un minuscolo aggeggio che non perderà valore e prezzo se si fa un anello una borchia un chiodo un “cip” un gioiello da porgere su una palma o fra due dita… (ricordi l’insetto rosso sul picco dell’indice? giunto all’orlo dell’unghia volò via, aquila angelo amore). Le proporzioni sono la libertà. IMMAGINE DALILA CHESSA


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Fondazione Teatro della Toscana Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com

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Quaderni della Pergola La parte redazionale è a cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini La parte monografica Passioni a Teatro / Amori a Teatro è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella

Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Raffaello Napoleone, Duccio Traina, Stefania Ippoliti, Maurizio Frittelli Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti

Le interviste sono di Angela Consagra Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli La fotografia della copertina; la fotografia dell’editoriale; l’album fotografico della rubrica Dal palcoscenico del Teatro Goldoni – Gli Innamorati; la fotografia a pag. 17 e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini L’immagine a pag. 22 è di Dalila Chessa L’immagine a pag. 25 è di Clara Bianucci Per la copertina si ringraziano Orsola e Carlo per l’amichevole collaborazione Hanno collaborato a questo numero: Clara Bianucci, Elena Capaccioli, Dalila Chessa, Raffaello Gaggio, Adela Gjata, Gabriele Guagni, Orsola Lejeune, Simona Mammoli L’introduzione ai Quaderni a pag. 4 di Sandro Lombardi è tratta da Vero Teatro! in corso di pubblicazione presso Cue Press, Imola La traduzione dell’intervista a Tilda Swinton è a cura di Raffaello Gaggio Si ringrazia Elisabetta Basilici Menini di Pitti Immagine per la gentile collaborazione L’intervista a Hanif Kureishi è stata ispirata dall’incontro con lo scrittore nell’ambito del Festival Pordenonelegge a cura del giornalista Giorgio Zanchini Dedichiamo questo numero dei Quaderni della Pergola con tutto il cuore alla nostra amica Elisabetta De Fazio

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ispira le copertine dei Quaderni della Pergola.


Il mio cuore, come il mare, non ha limiti... William Shakespeare


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