Sul Romanzo - Anno I n. 3 - Lug-Ago 2010

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uSommario

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L’editoriale

di Morgan Palmas

Il mestiere dell’editore

Un incontro con Marcos y Marcos di Deborah Pirrera

Racconti dal retrobottega

Gli uomini da Marte e le donne in libreria di Geraldine Meyer

Gerbido raccolto

Un incontro con Alice Di Stefano di Alessia Colognesi

Gentili riscontri

Dietro le quinte di Alberto Stigliano

Prospettiva fantasy George R. R. Martin di Marcello Marinisi

I libri che ti cambiano la vita Pretacci di Marta Traverso

Vetrioli sparsi

La libidine di potere del borioso analfabeta di Emanuele Romeres

Puglia style

Puglia: è finita la controra di Chiara Dell’Acqua

Vita standard di uno scribacchino provvisorio

Arte del ricamo, pollo al curry e nudismo in balcone di Giovanni Ragonesi

I (rin)tracciati

Fénéon e il silenzio disatteso di Alessandro Puglisi

Ostruiti esordi

Sulle difficoltà dell’esordire di Silvia Mango e Michela Polito

Sul Romanzo • 2010

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Cinematura

Robin Hood tra cinema, letteratura e mito di Claudia Verardi

La metà oscura del mondo

Nichilismo e Metafisica di Vittorio Possenti di Maria Antonietta Pinna

Pensiero antico e identità europea Sentimenti umani e virtù etiche di Adriana Pedicini

Editori: il catalogo qual è? Ancora del mediterraneo di Paolo Melissi

Meridione d’inchiostro

Nicola Lagioia, lo sguardo del sopravvissuto di Giovanni Turi

French connection

Quando un lavoro non è un mestiere e vice-versa di Angelica Gherardi

Cantautori: per rispetto chiamati artisti Rino Gaetano. Il senso del nonsense di Annalisa Castronovo

Cronache defilate

A.A.A. Cercasi futuro a Nordest di Alberto Carollo

Socretinate

Un incontro con Emanuele Pettener di Morgan Palmas

Poesia e racconto del mese

su Rapporto fra Nord e Sud in Italia  Romana Pincitore – Spiagge  Elio Capriati – I ragazzi della Pensione Parioli


uL’editoriale di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it nel 1778, gotthold lessing, poeta e drammaturgo tedesco, scriveva: «non la verità di cui un uomo è o si crede in possesso, ma il sincero sforzo per giungervi determina il valore del singolo. infatti le sue forze conseguono un miglioramento non in virtù del possesso della verità, ma della sua ricerca, e soltanto in questo consiste il sempre crescente perfezionamento umano». facciamoci ispirare da queste parole, rivolte a chi, nonostante le solenni delusioni della vita e gli ingovernabili imprevisti, vorrebbe procedere innanzi grazie a un passo fiducioso; si comprende con facilità che per abbandonare mistificazioni e grossolanità non rimane che un sincero sforzo di ricerca, ognuno con i propri mezzi, ognuno tentando di dedicare ai vicini e ai lontani una voce convinta, umile e appassionata. ecco la risposta a una mail che ci è giunta, nella quale ci è stato chiesto a che cosa serva un’altra rivista online. serve per appartenere a coloro che si lanciano in tale ricerca; serve a confrontare idee e opinioni; serve a creare scintille; serve ad affrancare spiriti desiderosi di parola. a noi non sembra poco. Più che pensare a che cosa serva una rivista siamo concentrati nella scrittura, nei contenuti da proporre, nelle collaborazioni da generare.

anima, no, questo no. giacché circa un anno fa esisteva solo un piccolo e anonimo blog personale, ora, oltre al blog collettivo con una redazione di circa quaranta persone, vi sono iniziative e progetti in corso d’opera, inclusa la webzine. senza un euro di finanziamento, senza santi in paradiso, senza sostegno da qualsivoglia istituzione o ente, se non è la passione per la letteratura che sprigiona quanto citato, dove dobbiamo cercare le ragioni di quanto sta accadendo all’interno di sul romanzo? e a testimonianza ulteriore della scia, questo numero ospita nuove rubriche e altrettanti collaboratori che dal blog saltano entusiasti anche nella webzine, aumentando le scintille appunto. non siamo interessati a produrre il magma lamentandoci, bensì a scendere a valle con la lava, con un eccesso di spensieratezza e un desiderio di raffronto genuino e autentico. Vogliamo, fra le altre cose, farvi conoscere ancor più il mondo editoriale, parlando con gli addetti ai lavori. Vi lasciamo quindi la curiosità di leggerci, ci auguriamo che il percorso intrapreso incontri sempre più il vostro apprezzamento.■

se qualcuno desidera biasimarci su qualcosa, ci critichi legittimamente, le nostre orecchie saranno vigili e ricettive, però non sia messa in discussione la passione che ci

Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura letteraria Anno I • n. 3 • luglio-agosto 2010 Progetto editoriale: Morgan Palmas

citazioni: Wikiquote

art director: Marcello Marinisi

note legali: “sul romanzo - rivista elettronica di informazione e cultura letteraria” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e gli aggiornamenti dei contenuti avvengono senza nessuna periodicità. non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 2001. gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli.

Progetto grafico e iMPaginazione: annalisa castronovo e Marcello Marinisi (comunicazione@marcellomarinisi.com) Hanno collaborato a questo nuMero: alberto carollo • annalisa castronovo • alessia colognesi • chiara dell’acqua • angelica gherardi • silvia Mango • Marcello Marinisi • Paolo Melissi • geraldine Meyer • Morgan Palmas • adriana Pedicini • Maria antonietta Pinna • deborah Pirrera • alessandro Puglisi • giovanni ragonesi • emanuele romeres • alberto stigliano • Marta traverso • giovanni turi • claudia Verardi.

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si ringraziano: elio capriati • stefano de Matteis • alice di stefano • danilo giovanelli • emanuele Pettener • romana Pincitore. Per inforMazioni: sulromanzo@libero.it Web: http://sulromanzo.blogspot.com foto e iMMagini: cesanale.com • flickr • Wikimedia commons.

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uLa vignetta

di Danilo Giovanelli


uIl mestiere dell’editore

Un incontro con Marcos y Marcos si era alla fine degli anni ’70 e Marco zapparoli e Marco franza, allora studenti universitari, conobbero un poeta cileno di quelli che vendevano oggettini davanti alla satale, il quale, intenerito dal progetto ambizioso dei due ragazzi convinti di voler fondare una casa editrice di “nicchia”, quando riuscì a pubblicare il suo primo libro di poesie lo dedicò a loro, para Marcos y Marcos, ai due “Marchi”: Marcos y Marcos, appunto.

di Deborah Pirrera - apedex@tiscali.it all’inizio era poco più che un sogno di due ragazzi ventenni, Marco zapparoli e Marco franza, oggi questo sogno si chiama Marcos y Marcos ed è una realtà editoriale ben consolidata con quasi trent’anni di vita alle spalle. nell’ultimo anno, facendola in barba alla crisi in generale e a quella della carta stampata in particolare che purtroppo ha fatto chiudere piccole realtà editoriali e librerie schiacciate dalla concorrenza, la casa editrice milanese ha visto aumentare il suo fatturato del 25%: una crescita assai significativa e forse uno dei più importanti risultati che la Marcos y Marcos abbia raggiunto negli ultimi anni. accade che chi lavori nella “nicchia” possa essere anticiclico, quasi insensibile al trend che caratterizza il mercato generale, la media, trend effettivo che lascia i suoi segnali negativi penalizzando le vendite veloci che si spostano ai centri commerciali e alle grandi librerie. È lecito immaginare che i lettori forti rinuncino ad altri beni ma non al libro, considerato un bene primario, cosa che invece accade al lettore debole, il quale compra saltuariamente libri: questa è proprio la fascia più colpita oggi dalla crisi. il calo di vendite si registra soprattutto tra quanti seguono piuttosto i fenomeni letterari del momento, lo scrittore di culto per una stagione che sia il personaggio di spettacolo o televisivo. si presume che chi acquista un libro Marcos y Marcos appartenga alla fascia del lettore forte, quanti hanno più voglia di investire e di avventurarsi in nuove scoperte. ed ecco il perché di tanto successo, anche se il calo di vendita dei libri, di qualunque libro, toccando le librerie non può non toccare una casa editrice quindi, indirettamente, anche la Marcos y Marcos. Ma facciamo un passo indietro.

Marco franza si è tirato indietro molto presto dal progetto iniziale: era piuttosto un teorico, un intellettuale, come dire un sognatore della letteratura; ha preferito fare l’impiegato di un’azienda piuttosto che vedere l’attività intellettuale e il suo amore per i libri contaminati dal commercio e dalle leggi di mercato. ora coltiva privatamente la sua passione per i libri. al suo posto, qualche anno dopo, è subentrata claudia tarolo, dalla cui voce ho raccolto queste testimonianze. claudia tarolo e Marco zapparoli si conoscevano già da studenti e poi si erano persi di vista seguendo ognuno la propria strada; dodici anni fa si sono ritrovati, nella vita e sul lavoro. claudia ha rinunciato con non poco coraggio alla propria carriera, “facevo tutt’altro” per diventare una coppia fortissima dell’editoria e una coppia di fatto nella vita. “certamente parliamo non dico sempre ma quasi sempre di lavoro, c’è una coincidenza molto forte fra il lavoro e la passione e viviamo giorno dopo giorno la fortuna di poter fare il mestiere di editori come lo vogliamo fare, fortuna che ci conquistiamo giorno dopo giorno e che è partita dal nulla. ci mettiamo tutta la nostra passione, cosa che è facile quando si fa quello che ti piace:

claudia tarolo e Marco zapparoli

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entrambi amiamo lavorare sporcandoci le mani con la materia libro. non esiste la componente competitiva perché siamo abbastanza complementari nella vita come sul lavoro. È difficile che ci siano delle zone di frizione, lui cura tutti gli aspetti commerciali, esterni, promozionali. io mi occupo di talent scouting, editing, mentre sulla grafica, sul testo, sulle produzioni le scelte fondamentali le facciamo sempre insieme”.

l’idea iniziale di Marco zapparoli, che non è troppo mutata nel tempo, era quella di una casa editrice che amasse in primo luogo l’oggetto libro vedendolo come un oggetto quasi artigianale, infatti i primissimi libri della Marcos y Marcos erano piegati a mano, edizioni numerate in carta pregiata, cosa che trent’anni fa ancora non esisteva, anche se oggi il mercato è saturo di questo genere di iniziative editoriali. Marco e Marco andavano personalmente a fornire le librerie e i librai, piuttosto incuriositi, offrivano loro qualche spazio ospitandone alcune copie.

la casa editrice fa il proprio punto di forza nella scoperta di autori italiani venuti dal nulla, non che non abbia concorso al giusto riconoscimento in italia di autori stranieri altrove conosciuti e premiati, ma in quel caso si trattava di scrittori che già nei loro paesi godevano di grandi fortune. il mestiere claudia e Marco lo hanno imparato strada facendo, misurandosi di volta in volta con problemi nuovi e affinando gli strumenti per superarli; magari un tempo si vendevano meno libri ma la concorrenza era di certo meno agguerrita.

il loro fiore all’occhiello, lo scrittore si può dire di cui vadano più fieri, è cristiano cavina, ora conteso da molte grosse case editrici: «lo abbiamo preso da piccolo e poi la nostra è diventata una specie di alleanza, una sintonia su come fare questo lavoro. anche lui, in pieno accordo con la nostra politica, non vuole venire a compromessi con case editrici che possano avere più potere, vuole semplicemente essere conosciuto solo per le sue doti, per un talento che c’è o non c’è attraverso una risposta che deve arrivare dai lettori senza pressioni Parlando di spazi la prima esterne, considerando sede della casa editrice l’attività di scrittore come era in via settala, sempre un’avventura, una a Milano, vicino alla conquista vera, autentica, stazione centrale, una legata all’esposizione in mansarda piccolissima Marco zapparoli e cristiano cavina prima persona, non calata che in realtà era anche la dall’alto ma raggiunta con casa di Marco zapparoli. fatica e puntando alla Poi la Marcos y Marcos si qualità. Mentre per vivere è spostata rimanendo in continua a fare le pizze, via settala ma in uno spazio più grande. dieci anni fa il anche se comincia ad avere solo ora qualche provente salto negli ampi locali di via Padova, redazione e derivato dalle vendite dei libri». dopo aver parlato di magazzino tutto insieme “con colonne molto suggestive di passato e di presente azzardiamo un’ipotesi sul futuro: libri sparse un po’ovunque”. e infine la sede attuale, in via cosa sarà della Marcos y Marcos negli anni che vedranno ozanam a due passi dal centro, facilmente raggiungibile prepotentemente affermarsi l’editoria online e l’e-book? con la metro, sede che, a dire il vero, ricorda ancora molto bisognerà continuare a sperare che almeno per la narrativa la mansarda iniziale se non per dimensioni quantomeno il libro, oggetto comodo, “lettibile” (da leggere a letto e da per la predominanza del legno chiaro. non è difficile tenere sul comodino) autosufficiente, quasi indistruttibile, immaginare che non sia neanche l’ultimo dei traslochi rimanga imbattibile. Per altri generi letterari, dalla vedendo come libri e scatoloni si stiano ancora manualistica al saggio «la Marcos non teme la crescita pericolosamente ammassando, sebbene il magazzino e la dell’era online, certo ci sarà da attrezzarsi, ma già un buon redazione non condividano più gli stessi spazi. punto di partenza è pensare a questa evoluzione come una grossa opportunità, come in realtà è. la cosa bella oggi alla Marcos y Marcos sono in sette a lavorare, in un potrebbe essere, essendoci anche una crisi mondiale della silenzio che in pieno centro di Milano risulta quasi surreale, carta su cui vale la pena fermarsi a ragionare, che si e oggi come allora la casa editrice si basa esclusivamente continuino a stampare solo i libri che vale la pena di sui proventi della vendita dei libri, registrando in assoluto il stampare e di leggere. noi cerchiamo di farlo di già, oggi suo primato di vendite con il libro Una banda di idioti di come allora: pubblicare libri che abbiano il diritto di restare John Kennedy toole, lo scrittore morto suicida nel 1969 a nel tempo».■ poco più di trent’anni.

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Il vero best seller, quello che si vende veramente tanto, ha sempre una qualche qualitĂ intrinseca che l'editore deve saper riconoscere e valorizzare, dando visibilitĂ al libro. Giuseppe Laterza

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uRacconti dal retrobottega

Gli uomini le

di Geraldine Meyer - geraldine.meyer@virgilio.it alcune sere fa ho tenuto una lezione sulla scrittura femminile. nei giorni precedenti mi sono posta alcune domande su questa definizione. Ma ho provato a spostare l'attenzione dal perché una donna scrive al come una donna scrive. Perché e come non solo partono da due presupposti diversi, ma costringono a due diversi percorsi. il perché è qualcosa di insondabile e privato, il come è qualcosa che può essere condiviso diventando un modo. durante il viaggio in macchina da Milano a cremona, sede dell'incontro di quella sera, l'amico con cui sto facendo una formazione neurolinguistica mi ha chiesto se ero in grado di dire che differenza ci fosse, nel momento in cui entrano in libreria, tra le richieste di una donna e quelle di un uomo. allora ho cominciato a riflettere e ho spostato la domanda dalla scrittura alla richiesta di un libro. quindi “come entra in libreria una donna?”. forse può sembrare una domanda oziosa ma vi assicuro che dopo tanti anni in bottega, trovare altri appigli per vincere la stanchezza, e a volte la noia, è una strategia di sopravvivenza irrinunciabile. del resto un negozio è un punto di osservazione privilegiato su tipologie umane varie ed eventuali. e la libreria, per sua stessa natura, suscita reazioni forse ancora più interessanti. le persone non sono mai del tutto rilassate nei confronti dei libri e oscillano dal timore reverenziale all'esibizione di una disinvoltura spesso sopra le righe. bisogna dire che ogni persona ha un suo modo di avvicinarsi all'acquisto dell'oggetto libro. È però innegabile che alcuni atteggiamenti siano più tipici di un sesso piuttosto che dell'altro. intanto l'atto stesso di entrare in libreria è più femminile che maschile. nel senso che sono

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molto più le donne a varcare la soglia di una libreria, ad acquistare e, presumibilmente, anche a leggere. sento già in sottofondo il commento di qualche troglodita attribuire questa evidenza al fatto che gli uomini hanno altre mille cose da fare. non starò a perdere neanche un centesimo di secondo per ribattere a questa sottile e intelligentissima analisi. le donne leggono di più. questo è un fatto. Punto. e regalano anche più libri, ragion per cui entrano più spesso tra le pareti di quel luogo ai più sconosciuto, che si chiama libreria. Possiamo chiamarlo anche negozio di libri se questo aiuta ad avvicinarsi con minor timore. c'è una differenza tra gli argomenti prescelti: la maggior parte dei libri di saggistica attirano l'attenzione degli uomini, le donne hanno una indubbia preferenza per la narrativa. cercano storie e lo dichiarano anche dal modo con cui chiedono a noi librai di consigliarle. “Mi suggerisce una bella storia?” è la formula tipica di una richiesta femminile. in più in forma interrogativa. e la domanda, si sa, è un gancio formidabile. È una richiesta che dichiara fin dall'inizio il desiderio di un ascolto, di una relazione con i personaggi di un libro. la donna chiede, chiede, chiede. e sollecita un confronto tra sé e il libraio, tra sé e gli altri libri letti. “Mi dia un buon libro” è il modo maschile di chiedere. Porrei l'attenzione su alcuni elementi linguistici. intanto quel “mi dia” così soave e gentile, così ben predisponente verso l’interlocutore chiamato a servirglielo con solerzia. c'è tutto un mondo dietro le parole che usiamo. Poi ci si concentra sul libro, non sulla storia. difficilmente un uomo esprime preferenze sul genere; giallo, thriller, noir, romanzo sono


i da Marte e donne in libreria

categorie da strappargli di bocca. giusto per capire verso cosa orientare il nostro consiglio. e poi i titoli. l'esperienza dimostra che le donne li ricordano di più. gli uomini entrano spesso con un appunto di giornale o con un foglietto su cui hanno vergato a mano le indicazioni di cui necessitano. e questo mi ha sempre fatto pensare che forse si può fare un piccolo sforzo per tenere a mente qualcosa che si presume ci abbia incuriosito. Vi sta sembrando un po' di parte questo articolo vero? beh,

è quell'abuso linguistico e concettuale a cui facciamo ricorso per poter parlare. se ci si dovesse fermare ogni volta che si vuol marcare un'eccezione non riusciremmo neanche a iniziare un discorso. Però è vero che alcune cose ricorrono con maggior frequenza nel linguaggio femminile e altre in quello maschile. una visita in libreria non rimescola completamente le carte della differenza di genere. cosa causi questo differente modo di esprimersi anche nel semplice atto dell'acquisto di un libro io non lo so. Mi limito ad osservare e registrare queste differenze. se è vero che una donna è più predisposta al consiglio è altrettanto vero che questa predisposizione ha un rovescio della medaglia. sono meno le donne che si prendono la briga di leggere qualche riga della quarta di copertina per cercare di farsi un'idea da sole di quello che hanno tra le mani. e certo la cieca fiducia nel libraio solletica l'orgoglio professionale ma espone a rischi di manipolazione l'inerme acquirente. un uomo è indubbiamente più diffidente, più autonomo nelle sue scelte. si aggira tra gli scaffali e sfoglia. legge le prime righe, poi salta qualche pagina, ne legge altre, in una manovra di avvicinamento alla preda. deve dimostrare sicurezza anche nell'acquisto di un libro. al limite quando arriva alla cassa accenna ad un tirato “com'è questo?”, lasciando sottinteso il termine libro che viene sostituito da un accenno del mento verso l'oggetto cartaceo in questione.

forse lo è. dopo anni di onorata carriera voglio concedermi il lusso di dire come io percepisco le cose. Ma sono però altrettanto rigorosa nell'ammettere che stiamo parlando per generalizzazioni. la generalizzazione

stiamo giocando naturalmente. consapevoli però che poche cose sono serie come il gioco. e che ci sono poche cose attente come gli sguardi quasi distratti e scherzosi che si lanciano a ciò che ci sta attorno. lo sguardo laterale di cui parlava de bono arriva quasi come una carezza, di lato. Ma coglie. e io i miei clienti li ho colti così.■

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uGerbido raccolto

Un incontro con Alice Di Stefano

di Alessia Colognesi - alessiacolognesi@libero.it …«Mia madre aveva sempre desiderato scrivere un libro. La malattia in questo senso le ha dato il coraggio e la voglia di realizzare un progetto troppo a lungo vaneggiato».

È così che alice di stefano, responsabile della narrativa italiana per fazi ed editor di cesarina Vighy, descrive in quest’intensa intervista la forza salvifica, elegante e ironica della scrittura della Vighy, premio campiello 2009 e autrice del recente Scendo. Buon Proseguimento. senza più voce cesarina ha saputo imprimere nello spazio intimo delle pagine dei suoi libri se stessa, intensa e vitale, obbligando il lettore a fermarsi e pensare.

Buongiorno Alice, ci racconta com’è arrivata al suo lavoro? Per caso. lavoravo all’università (dove insegnavo letteratura come professore a contratto dopo una laurea su Manzoni, un dottorato sulle favole del settecento e un assegno di ricerca su Moravia), avevo scritto un libro (barboso, di critica letteraria) e cercavo un editore…

Lei oltre a essere responsabile della narrativa italiana per Fazi

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è stata pure l’editor di Cesarina Vighy, sua madre e premio Campiello 2009. Quanto ha influito la passione per la scrittura di sua madre sulle sue scelte di vita professionali? a pensarci adesso moltissimo. Per anni, mi sono adolescenzialmente opposta a mia madre che accusavo di essere una coltissima ma fredda signora snob, ben poco mamma. i suoi discorsi sul cinema, la letteratura, la poesia, mi infastidivano, pensavo non mi volesse bene: spesso la provocavo dicendole di voler diventare infermiera, idraulico o autista, tutto insomma fuorché un’intellettuale (come lei). Poi, istintivamente, ho iniziato a seguire le sue orme, prima all’università e poi, appunto, con il lavoro in casa editrice. ora la ringrazio. È stata un modello senza mai intervenire: un esempio di stile, anche nell’amore.

Nella sua attività di responsabile della narrativa italiana per Fazi come seleziona i manoscritti da pubblicare? alla fazi arrivano circa 40 nuovi manoscritti a settimana. leggerli tutti è quasi impossibile ma lo facciamo. spesso si tratta solo di un’occhiata, poche pagine bastano a farsi un’idea, anche perché il livello medio di quello che arriva è molto basso. Ho una lettrice fidatissima e due colleghi con cui lavoro bene. le decisioni le prendiamo insieme, siamo una squadra. in più, per alcuni testi facciamo fare delle letture esterne.


ogni mia curiosità o dubbio nati in proposito. Per quel che mi riguarda, sono tuttora ammirata per la bellezza delle mail, così universali, profonde e sempre spiritose nonostante le condizioni in cui erano state scritte. la lingua poi è ricchissima, precisa e puntuale: un esempio di stile per un libro, almeno per me, da conservare e meditare nel tempo.

Tra le mail che compongono Scendo. Buon proseguimento ce n’è una indirizzata a lei che mi ha particolarmente colpito, dice così: «Tu hai fatto un grosso lavoro sul testo, anche troppo, segnando non solo le parole, i concetti ripetuti, gli errori materiali, le allusioni veramente oscure, ma anche un sacco di cose che appartengono alla mia espressività e che se tolte castrano il testo».

cesarina Vighy

Lei svolge normalmente l’attività di editing o l’ha fatto solo per Cesarina? Quanto ha influito il legame intimo e affettivo sull’editing di Scendo. Buon proseguimento? Ho iniziato a svolgere attività di editing già a partire dal 2007 e solo quest’anno ho lavorato a cinque testi per le nostre collane. Per Scendo. Buon proseguimento, mi sono limitata a copiare la casella di posta di mia madre, tagliando i passi più intimi e meno comprensibili a un vasto pubblico. Per il resto, si è trattato di una ricomposizione di pezzi diversi di un unico puzzle. Ho spostato (limitatamente) qualche data, corretto/cambiato i nomi dei corrispondenti, cucito insieme mail diverse, cercando di dare al testo un ritmo più narrativo. un lavoro impegnativo soprattutto per quanto riguardava il recupero di materiale elettronico e la creazione di “dialoghi” che potessero essere interessanti. così com’è, il libro è parte di me e di editing non parlerei affatto, l’editing è un’altra cosa.

Ci racconta del vostro rapporto professionale, riesce a ricordare un aneddoto accaduto durante quest’ultimo lavoro? ricordo di quando mia madre vide le mail raccolte tutte insieme e si meravigliò della loro tenuta e qualità quasi non le avesse scritte lei nel corso degli ultimi anni. Poi ricordo alcuni scambi a proposito di citazioni o passi che a me risultavano oscuri: con pazienza, ha cercato di sciogliere

Quanto secondo lei è importante che la scrittura rispecchi lo stile dell’autore e fino a che punto un editor deve intervenire sul testo? la frase si riferisce al lavoro fatto sull’ultima estate. Mia madre, che nella mail sembra infastidita per via dei troppi consigli ricevuti, in realtà non si è fatta toccare una virgola del romanzo. insieme, ne abbiamo discusso, abbiamo riletto le parti più dubbie, abbiamo ragionato a proposito di certe esclusioni nei personaggi, ecc. ma il libro è stato interamente opera sua, senza interferenza alcuna. l’editor bravo (se ha senso parlare di editing – che è una parola che odio) dovrebbe, secondo me, semplicemente far riflettere l’autore, fargli da specchio, per evidenziare gli eventuali dislivelli nella narrazione, gli aspetti poco credibili della storia, le incongruenze. la reazione da parte degli autori di fronte a obiezioni e osservazioni è inevitabile. in genere dura poco ma non manca mai e così è stato anche nel caso di mia madre.

Nell’ultimo periodo Cesarina non poteva più parlare e a causa della sua malattia le mancavano le forze per dedicarsi totalmente alla scrittura, come facevate a comunicare per il vostro lavoro? Quanto sono state importanti le parole scritte nel lavoro di questi mesi e nel vostro rapporto tra madre e figlia? nell’ultimo anno soprattutto, il mezzo della posta elettronica è stato fondamentale non solo per il lavoro sul libro ma anche per la comunicazione quotidiana tra di noi. grazie al computer, potevo sempre avere una parola da mia madre, che scriveva ogni volta che le forze glielo permettevano. non potendo svolgere nessun’altra attività (persino leggere le risultava più faticoso) passava ore e ore - da sola - davanti al computer. la malattia la costringeva

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a vivere in una dimensione rallentata, silenziosa, in cui ogni gesto era enorme e il rapporto con gli altri difficoltoso.

Mentre leggevo «L’ultima estate» più volte mi sono trovata a ridere e a commuovermi insieme, le emozioni che la scrittura di sua madre aveva saputo suscitare in me mi avevano fatto sentire vicina a Cesarina come un’amica che piano, piano imparavo a conoscere. Cos’era per sua madre la scrittura? E nel periodo della malattia cos’ha rappresentato per lei? Mia madre aveva sempre desiderato scrivere un libro. negli anni, aveva composto numerose poesie, qualche racconto e molti scritti critici, soprattutto sul cinema, ma mai un romanzo. la malattia in questo senso le ha dato il coraggio e la voglia di realizzare un progetto troppo a lungo vagheggiato. la mia determinazione a farle portare a

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termine il lavoro nel momento in cui ho saputo che aveva i giorni contati e che la fine era certa, poi, ha contribuito a far sì che il tutto si potesse realizzare, e bene. un grande senso di libertà, dato dalla condizione disperata in cui si trovava, ha contribuito senz’altro al tono, intenso e incisivo, dell’ultima estate.

Scendo. Buon proseguimento è una raccolta di mail e poesie che creano un testo armonioso e ricco di personalità in cui sullo sfondo della malattia si legge la vita. Cos’era la poesia per sua madre? Come mai raccogliere insieme registri di scrittura così diversi? in origine, il libro delle mail non esisteva. con elido, avevamo pensato di pubblicare una piccola raccolta di poesie, più alcuni racconti inediti, che avrebbero dovuto costituire un omaggio a mia madre, in difficoltà a scrivere un nuovo romanzo. Ma la sua casella di posta nascondeva


un tale tesoro di pensieri, sogni, riflessioni che non poteva essere trascurato. grazie all’unico mezzo che le era rimasto per comunicare con l’esterno e tenersi viva in un corpo bloccato, pagando così anche la scelta di non voler più ricevere nessuno, neanche gli amici più cari, lei, in realtà, aveva già scritto un secondo libro, più autentico, forse, e più forte dell’ultima estate. fra le mail di scendo. buon proseguimento ho voluto lasciare qualche componimento in versi (lei ci teneva moltissimo, diceva sempre che sarebbe stata un poeta postumo come la sua amata emily dickinson) per attestare la sua grande passione per la poesia.

Dopo la morte di sua madre so che ha preso parte a varie manifestazioni dedicate alla SLA, la sindrome che aveva colpito Cesarina, come ha vissuto questi momenti? Pochi giorni fa ho assistito al concerto di solidarietà di battiato per l’associazione W la vita di cui faceva parte anche mia madre. sono stata contenta nel constatare che sempre più gente si stia accostando, senza paura, a una malattia devastante, sempre meno rara, per la quale non c’è cura, che costituisce un rischio (oltre che un grave problema) per familiari e amici. questo tipo di malati infatti ha bisogno di attenzioni continue e, senza aiuti da parte della sanità o dei servizi sociali e soprattutto senza soldi, è quasi impossibile far fronte alla situazione. dal momento che, purtroppo, la sla si sta diffondendo sempre di più, occorre riflettere sugli aiuti che lo stato può e dovrebbe fornire.

Crede che la scrittura anche se intimistica possa avere un valore sociale? certo. un libro contiene sempre un messaggio e una morale, anche se minimi. nel caso dei libri di mia madre,

che non sono sulla malattia, non sono cupi, non sono pesanti ma costringono a riflettere, comunque scavano nel profondo, affrontano temi difficili e in genere accantonati dai più, oltre al contenuto esplicito, a emergere indirettamente è la figura dell’autrice, vero e proprio modello di stoicismo, esempio di coraggio e coerenza estrema a tutti i principi anche estetici difesi per una vita. dalle mail di scendo, ad esempio, traspaiono una grande eleganza e una grandissima forza d’animo - che a tratti hanno stupito anche me nell’affrontare un momento tragico con l’ironia, la signorilità e il distacco emotivo di una donna pacificata rispetto al suo destino.

alice di stefano

Scendo. Buon proseguimento è il verso di una poesia di Giorgio Caproni, perché questo titolo? Che rapporto ha Alice con la poesia e Cesarina? Mia madre amava molto la poesia e caproni era fra i suoi autori preferiti. il titolo in ogni caso non lo ha scelto lei che però lo ha approvato e trovato molto bello. scendo. buon proseguimento, dal congedo del viaggiatore cerimonioso, ci sembrava un verso appropriato, data la sua condizione, e giusto, visto il suo atteggiamento, ormai quasi sereno (e stoico), rispetto all’idea della morte. Mia madre infatti odiava la malattia e la sua condizione di malata (lei nella vita così libera, indipendente, allegra) ma aveva un enorme rispetto della morte.

Quali sono i suoi progetti per il futuro? a brevissimo sposarmi – come è annunciato anche in Scendo, poi si vedrà. senz’altro, insieme e grazie al futuro marito, pubblicare tanti buoni romanzi.

La ringrazio di cuore Alice e le auguro buon lavoro.■

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uGentili riscontri

Dietro le quinte di Alberto Stigliano - albestigli@gmail.com

Lo leggeranno. No, lo lasceranno a marcire nei loro archivi per i prossimi sette secoli. Lo bruceranno. Me lo pubblicheranno e diventerò uno scrittore. Mi daranno il famoso “cortese cenno di riscontro”, nulla più.

a seconda della percentuale di pessimismo che si ha nel sangue e – soprattutto – del livello di conoscenza e consapevolezza della realtà editoriale, l’esordiente che propone in lettura il proprio dattiloscritto predice il proprio futuro ipotizzando uno di questi scenari. Ma cosa succede davvero una volta che il vostro testo valica le porte di accesso di una casa editrice affermata a livello nazionale? e quanti libri arrivano in lettura? e di che tipo? È tutta una cricca anche lì, vanno avanti i raccomandati? lavoro da diversi anni nella redazione di un importante gruppo editoriale italiano e qualche cosa ve la posso raccontare, magari servirà a fare un po’ di chiarezza, potrò togliervi qualche curiosità. Vorrei solo fare una premessa non interessata. scrivere è una delle attività più nobili e nobilitanti che siano concesse all’uomo, ma, a livello non professionale, è un atto gratuito, cioè non richiesto. in altri termini: chiunque ha il diritto di scrivere, nessuno ha il dovere di leggere. tanto meno in una casa editrice. tutto pronto. cominciamo a seguire da vicino il percorso del vostro dattiloscritto o, per usare un termine che vi rende subito un po’ più professionali, della vostra proposta. ne esistono diversi tipi, esaminiamoli da vicino.

tipologia 1 individua il gruppo più numeroso, composto dalle opere di scrittori che desiderano esordire o che hanno esperienze editoriali circoscritte a piccolissime realtà, spesso – ahimé

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– a pagamento. esperienze che non fanno curriculum, insomma. È il gruppo più nutrito perché comprende le cosiddette spedizioni “alla cieca”: finisco il mio romanzo, faccio un bell’elenco delle case editrici a cui posso mandarlo e spedisco. busta, francobollo e inizio a sognare. non sottovalutate questo “busta e francobollo”, ci ritorneremo. e vorrei ritornare anche sul sogno (senza retorica: perché il mestiere di scrittore seduce e affascina tante persone, di tutte le età? Perché la scrittura e non la pittura, l’architettura, la botanica? Mi piacerebbe rifletterci insieme a voi). Ma per ora non divaghiamo e torniamo alla nostra proposta in rampa di lancio. l’atteggiamento del “non ho nulla da perdere” è l’unico praticabile di fronte al fatto che, come dicevo prima, non abbiamo scritto su commissione di nessuno. su questo siamo d’accordo. c’è però una cosa che potete fare per non perdere tempo e soldi, abbattere meno alberi e non ingolfare i nostri armadietti: una pianificazione ragionata dell’invio – cosa che, peraltro, contribuisce ad aumentare il grado medio di consapevolezza del panorama editoriale nazionale, quindi utile il doppio. esempio: se una casa editrice pubblica narrativa e non poesia, non è il caso di inviare la mia raccolta di endecasillabi; se un’altra pubblica solo narrativa di genere (esempio: fantasy), perché inviare in lettura il mio hard boiled? oltre alla specificità della produzione letteraria, c’è un altro fattore molto importante da tenere presente in fase di selezione della casa editrice, vale a dire le sue dimensioni.

a chi non piacerebbe esordire nel barcellona, o nei Red Devils di Manchester, magari in una finale di champions league, e appoggiare in porta il pallone della vittoria? sfido chiunque ad alzare la mano. Purtroppo, però, non a tutti è data questa gloria immediata. Più facile, per un giovane di belle speranze, partire dal basso, da una squadra medio-piccola, farsi le ossa per poi eventualmente approdare in una grande squadra. dico “eventualmente” proprio perché non è scontato che ce la


faccia. deve per questo rinunciare alla sua passione? e perché mai. non tutti possono essere fuoriclasse... ... così come non tutti possono essere grandi scrittori (ma anche grandi cantanti, grandi attori, grandi politici), essere baciati dal successo al loro esordio. devono per questo rinunciare a inseguirlo? niente affatto. devono però sapere che una grande casa editrice è come un grande club calcistico: quanti esordienti può lanciare nella mischia ogni anno? un paio, due, tre, quattro, a seconda anche del benessere di cui gode, non di più. il grande club deve vincere, la grande casa editrice deve raggiungere un fatturato considerevole: per entrambi, l’esordiente è una scommessa. la programmazione editoriale, come l’allestimento di una squadra di calcio, è frutto del giusto mix tra “senatori” e nuove leve. tutto questo per dire che i margini di successo, quando inviate un dattiloscritto in lettura a una grande casa editrice, sono molto ridotti. le aspettative in termini di ritorno sul mercato sono alte, la voglia di rischiare minima. Per un motivo molto banale che è quello commerciale. quante volte un editor si avventura nell’ufficio marketing caldeggiando una pubblicazione e riceve un vigoroso niet? capita. quante volte un editor si avventura nell’ufficio marketing proponendo una tiratura che viene immediatamente decurtata di un terzo o peggio? quasi sempre. Ma allora la qualità non conta, decide tutto il marketing? non è vero neppure questo. e più avanti capiremo perché. intanto nessun rancore indiscriminato, concentriamoci sulle possibili alternative ai grandi gruppi editoriali. Parlo di case editrici medie, che però siano di qualità. realtà minori (per dimensioni) che hanno maggiori possibilità di porsi come

laboratori, di sperimentare il nuovo: non devono fatturare milioni di euro alla fine dell’anno, quindi possono scommettere di più. non è un caso che abbia parlato di medie e non piccole, perché queste ultime si muovono con prospettive ancora diverse e, nel migliore dei casi, devono fare i conti con problemi di distribuzione; nel peggiore, di sopravvivenza. Mentre in una casa editrice generalista può trovare spazio di tutto, le medie e piccole presentano spesso un più elevato grado di specializzazione, quindi sarà ancora più importante studiare il terreno. cosa vuol dire poi “di qualità”? be’, è la storia più o meno lunga di un marchio a venirvi incontro (esempio: pubblicava le opere dello scrittore X prima che questi facesse il grande salto, ha scoperto tizio e caio, vi lavora un editor che stimate), e anche un po’ il vostro istinto. ora che abbiamo ristretto la rosa dei possibili destinatari, l’a chi, siamo pronti per il secondo passo: cosa ci mettiamo nella busta?

nel prossimo numero cercherò di spiegarvi i piccoli accorgimenti che possono migliorare la presentazione del vostro lavoro e proseguirò la rassegna delle tipologie di proposta. la ricchezza di sul romanzo è il frutto delle idee di tutti – lettori, autori, simpatizzanti – e soprattutto della loro curiosità. Per quanto possibile, mi piacerebbe approfondire, toccare o dibattere aspetti e temi che potete segnalarmi scrivendo ad albestigli@gmail.com■


uProspettiva fantasy

George R. R. Martin di Marcello Marinisi - marcello@marcellomarinisi.com sporco, maleodorante, violento, oscuro. così doveva apparire il medioevo a un visitatore venuto dai giorni nostri. una sorta di fogna a cielo aperto in cui si rischiava di essere uccisi o di morire ogni giorno per malattie che oggi sembrano soltanto un tremendo ricordo. così george r. r. Martin (bayonne, 20 settembre 1948) disegna il suo personalissimo medioevo, quello che emerge con prepotenza dalla sue Cronache del Ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire, edito in italia da Mondadori e tradotto da sergio altieri). george r.r. Martin è uno degli scrittori di fantasy di maggior successo e senza dubbio il più fervido, le sue Cronache sono state tradotte in decine di lingue in tutto il mondo, dall'italiano al francese, al polacco, al giapponese e persino in esperanto. Le Cronache del ghiaccio e del fuoco sono un’opera monumentale composta, al momento, da quattro volumi (suddivisi, per il mercato italiano, in 9 libri nella versione Mondadori e in cinque nella edizione economica urania) e in continua crescita. Martin, infatti, sta lavorando al quinto libro (A Dance with Dragons) e ha in programma l'uscita di almeno altri due volumi (The Winds of Winter e il conclusivo A Dream of Spring, entrambi titoli provvisori). Le Cronache del ghiaccio e del fuoco narra le vicende di un mondo popolato da uomini votati alla guerra, una genìa sanguinaria che lotta per la supremazia e il dominio dei sette regni. un mondo in cui la magia ha un ruolo secondario, quasi marginale, e in cui a farla da padrona sono gli intrighi, i sotterfugi, le macchinazioni, i tradimenti, le cospirazioni. uomini e donne pronte a tutto per difendere se stessi e la loro dinastia, una saga in cui i veri protagonisti

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non sono le persone, bensì le famiglie e il loro potere. non ci sono ideali, né onore né gloria, soltanto la morte e la conquista del trono di spade. Martin è stato in grado di realizzare un’opera complessa e articolata, uno sforzo creativo che ha portato alla proliferazione di fatti e personaggi, un percorso che non permette distrazioni, che invita il lettore a una sfida continua per comprendere i risvolti veri o presunti che un comportamento può portare con sé, entrare nelle maglie dei complotti e disvelarne i segreti più reconditi. non ci sono beniamini, non ci sono veri e propri personaggi positivi, ognuno ha una pecca, qualcosa di cui vergognarsi agli occhi dei suoi simili e a quelli inquisitori del lettore, siamo di fronte a persone vive che si muovono nella scena incuranti del nostro giudizio. Le Cronache del ghiaccio e del fuoco estirpa il lettore dallo schema classico della fantasy, fatto di eroi e antagonisti, di dame e cavalieri, di magia, druidi, elfi, fate, orchi e lo getta in un universo che puzza di sudore, sesso, sangue, urina e letame: di vita. Le Cronache del ghiaccio e del fuoco rappresenta un vero punto di svolta per l'evoluzione del genere fantasy, una pietra miliare che detterà legge e condizionerà, in un modo o nell'altro, le scelte degli scrittori che si dedicheranno al genere. così come a suo tempo John r. r. tolkien, anche george r. r. Martin costringe il lettorescrittore a più riflessioni. in primo luogo, per la maniera in cui è strutturata l'opera: ogni capitolo taglia il punto di vista (point of view – PoV) di un personaggio e, attraverso gli occhi di quello, narra soltanto una porzione della storia che ha un suo tempo e


se ne mettiamo poco finirà con l’essere insipida. ogni storia ha bisogno del giusto equilibrio tra gli ingredienti, questo lo sappiamo. Per quel che concerne la fantasy, la magia è uno degli ingredienti principali, se non il più importante, quello che motiva la storia e la fa evolvere. senza la magia, non ci sarebbe fantasy, quindi, Martin ha ragione quando invita a prestare cura al modo in cui essa viene dosata all’interno di una storia. nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco Martin relega la magia a un ruolo quasi da gregario, una sorta di mezzo, meschino e pericoloso, per riuscire a ottenere un vantaggio sul proprio avversario. la magia appartiene a un mondo antico, dimenticato, un mondo che spinge per ritornare a galla, ma che gli uomini temono e vogliono mantenere celato, imprigionato al di là di una invalicabile Barriera.

un suo spazio. ci sono capitoli che coprono un arco di tempo molto vasto, altri che invece si aprono e si concludono nel giro di un’ora. ogni personaggio vive la storia attraverso la sua personalissima prospettiva, ne offre la sua versione. non esiste un narratore onnisciente, ogni notizia è parziale, frammentaria, incompleta, spesso errata o viziata da tanti pregiudizi. sono i pensieri dei protagonisti (decine e decine) a essere al centro della narrazione, le loro pulsioni, i loro desideri. Menti ambigue, spesso deviate, che nutrono invidie e tessono trame di inganni come ragni tessitori che si insinuano tra le maglie di un gioco pericoloso: il gioco del trono. in secondo luogo, Martin monda il genere da molti degli aspetti magici che, invece, proliferavano e proliferano tutt’oggi, in molta parte della letteratura fantasy. a tal proposito, Martin sostiene che in una storia la magia è come il sale: bisogna essere accorti nelle dosi. se mettiamo troppo sale, la zuppa risulterà immangiabile, ma

nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco i maghi sono esseri ambigui, spesso derelitti, sacerdoti di culti oscuri e dimenticati, votati a dèi desiderosi di sacrifici per sedare la loro sete di sangue. gli esseri magici sono figli della notte e della paura, maligni, demoni che cercano soltanto la distruzione. gli uomini hanno ucciso il mondo in cui i Figli della foresta (creature ancestrali molto simili agli elfi) curavano gli alberi e praticavano il culto della natura, intagliando volti dagli occhi rossi di resina su alberi dalla corteccia bianca, pulsanti di vita e pregni di misticismo. quel mondo è stato bandito oltre un confine insuperabile, sorvegliato, esiliato al di là di un avamposto inespugnabile che gli uomini proteggono a costo della loro stessa vita, votando la propria esistenza alla difesa delle propria razza, un baluardo dove soltanto i corvi osano posarsi. in terzo luogo, Martin usa un pretesto storico per gettare le basi della sua opera. un’operazione ardita che affonda le sue basi nella grande passione di george Martin per la

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storia europea e nella sua profonda conoscenza delle vicende del medioevo e di quel periodo che, in italia, è conosciuto come rinascimento. Per stessa ammissione dell’autore, Le Cronache del ghiaccio e del fuoco trae ispirazione dalla guerra delle due rose, «una sanguinosa lotta dinastica combattuta in inghilterra tra il 1455 e il 1485 tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti [detti anche Prima casa d’angiò, per via del loro capostipite, enrico ii d’inghilterra, figlio di goffredo V d’angiò]: i lancaster e gli York» [Wikipedia]. il nome di questa guerra trae origine dai simboli araldici sugli stemmi delle due famiglie in contrasto, segnatamente, una rosa rossa e una rosa bianca e fu usato per la prima volta nel 1829 da Walter scott nella sua novella Anna di Geierstein. i riferimenti storici a vicende realmente accadute nel corso della storia sono davvero molteplici, ma questo resta senza dubbio il più palese.

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numerose sono le opere fantasy che prendono spunto da realtà storiche documentate. l’originalità di Martin risiede nella profondità con cui queste vicende vengono inserite nella storia. l’autore, infatti, dimostra un’accuratezza fuori dal comune. una capacità di ricostruire un periodo che, fino ad oggi, non ha eguali se non nel grande maestro del genere: John r. r. tolkien. a mio avviso, tolkien e Martin condividono la stessa smisurata passione per i particolari, passione che li porta entrambi a prendersi cura di ogni dettaglio della propria storia, senza tralasciare nulla, pesando con cura ogni aspetto fino a ottenere uno scenario realistico dentro cui far muovere personaggi tridimensionali. ritengo questi aspetti particolarmente significativi. leggere Martin, ma non di meno tolkien e brooks (per citare soltanto alcuni tra i principali), permette di fare i conti con


aspetti troppo spesso trascurati da molti degli autori di fantasy contemporanei. questo limita le potenzialità del genere e lo relega in un angolo, sottoponendolo agli attacchi di molti critici che lo sviliscono etichettandolo spesso e con estrema superficialità come “letteratura per ragazzi”. senza tenere conto che la fantasy sta evolvendo e, sempre più di frequente, si rivolge a un pubblico adulto o giovane-adulto.

senza una riflessione ampia e profonda, non si possono gettare le basi per la maturazione del genere anche nel nostro Paese.■

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uI libri che ti cambiano la vita

Pretacci di Candido Cannavò

di Marta Traverso - marti.traverso@gmail.com nei due precedenti articoli si è parlato di romanzi che cambiano la vita: Gente che bussa alla porta di Patricia Highsmith e Carrie di stephen King. Per una curiosa coincidenza (o forse no), i protagonisti di entrambi patiscono il fanatismo religioso di un genitore. un argomento controverso, che negli ultimi tempi giunge sempre più alla ribalta delle cronache quotidiane. con quale messaggio? quello secondo cui la cronaca parla molto della chiesa, ma la chiesa sembra voler evitare la cronaca. nel febbraio 2007 l'ispettore di polizia filippo raciti fu ucciso durante gli scontri del derby cataniaPalermo. il giorno dopo ricorreva la festa patronale di sant'agata. i cittadini protestarono, ma la solennità non fu cancellata. la statua della santa attraversò le vie della città come se nulla fosse accaduto, e il vescovo nella sua omelia parlò del martirio della donna, avvenuto oltre mille anni prima. una metafora per affrontare da lontano i fatti di sangue che avevano colpito la città, senza turbare ulteriormente i presenti? o una narrazione fine a se stessa, fondata sulla logica del The show must go on? non sapremo mai la risposta. tuttavia questo fatto doloroso ha ispirato candido cannavò per un insolito viaggio nella chiesa italiana. noto come lo storico direttore della “gazzetta dello sport”, è stato anche autore di tre meravigliosi romanzi su altrettante realtà del nostro Paese che tendiamo spesso a dimenticare. Libertà dietro le sbarre, frutto di un periodo trascorso nel carcere di san Vittore al fianco dei detenuti; E li chiamano disabili, storie di uomini e donne che non si sono rassegnati di fronte al loro handicap; infine, appunto, Pretacci. non nel senso che intenderemmo oggi, quei pretacci don giuseppe Puglisi che protetti dalla loro tonaca si

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sono macchiati dell'innocenza di molti bambini. Ma nel senso che meno fa comodo a quella chiesa che vorrebbe sempre rimanere uguale a se stessa, chiusa nei propri riti e nel proprio sfarzo. romanzi, sì, anche se non lo sono nel senso letterale del termine. il viaggio di cannavò attraverso le strade d'italia assume le caratteristiche di un on the road, che percorre l’italia dalle dolomiti alla calabria, dalle carceri di opera e beccaria, fino ai quartieri-ghetto di scampia, brancaccio, le Piagge. Molti uomini, una sola storia: quella di un uomo vissuto oltre duemila anni fa e che pare non pronunciò mai frasi come Il Regno di Dio è aperto a tutti tranne musulmani, divorziati e omosessuali. il viaggio di cannavò parte da un denominatore comune che tocca tutti – o quasi – i sacerdoti che incontra sul suo cammino. anzi due. il primo denominatore è quello già citato: una chiesa satura di riti e di sfarzo, che non riesce a mettersi da parte neppure di fronte a una tragedia come quella avvenuta tre anni fa a catania, o alle realtà a cui si pone rimedio mandando offerte ed elemosine (anche ingenti) ma tenendosi spesso a grande distanza. rom, senzatetto, carcerati, donne-schiave, bambini-oggetto, tossicodipendenti, vittime della mafia. il secondo si chiama don lorenzo Milani, il parroco confinato a barbiana per le sue idee troppo progressiste (troppo scomode), autore di quel Lettera a una professoressa che per molti dei Pretacci di cannavò è una lettura importante quasi quanto la bibbia stessa. da questi due denominatori si apre la discesa e la risalita lungo l'italia, che dai ragazzi di don gino rigoldi al carcere beccaria passa per altre due prigioni milanesi: opera, casa


di don Marcellino brivio, e san Vittore, terra di don luigi Melesi. un altro carcere, quello della strada, è la seconda casa di don oreste benzi, che ha salvato migliaia di donne dal racket della prostituzione ed è morto poco prima che il libro venisse pubblicato. Ma la strada è anche quella in cui vive l'anarchico, no global e ribelle don andrea gallo, padre di quella genova cantata a lungo dal suo amico fabrizio de andré. don Virginio colmegna e don Massimo Mapelli hanno

che diffonde messaggi di pace in settanta Paesi del mondo (in italia ogni anno organizza la marcia Perugia – assisi), mentre Padre giancarlo bossi è da anni nelle filippine per conto del Pime (Pontificio istituto Missioni estere), e nel 2007 era stato sequestrato per alcune settimane, e don albino bizzotto, che marciò su sarajevo in piena guerra civile, è il fondatore di beati i costruttori di pace. e poi ci sono i quartieri dimenticati, quelli che nessuno vuole, ma in cui qualcuno prima o poi arriva: dopo

candido cannavò

scelto la vita accanto ai rom, mentre don dante clauser è divenuto lui stesso barbone per meglio seguire la via del suo (nostro?) Vangelo. Monsignor giancarlo bregantini ha tenuto viva la sua diocesi nella locride finché ha potuto, finché dall'alto non si è deciso che campobasso era una patria più tranquilla per le sue idee da pretaccio. don luciano scaccaglia raduna intorno a sé i poveri e gli emarginati di Parma, mentre don luigi ciotti, don fortunato di noto e Monsignor Pietro sigurani sono preceduti dalla fama delle associazioni che loro stessi hanno fondato: la lotta alla mafia di libera; Meter, primo vero passo nella lotta alla pedopornografia; Migrantes, unione di popoli creata da lui che ha definito le moschee in italia una conquista di civiltà. don Matteo zuppi è a capo della comunità di sant'egidio,

l'assassinio di don Pino Puglisi (ucciso da quel gaspare spatuzza che di recente è stato testimone chiave dei processi contro Marcello dell'utri), nel quartiere di brancaccio a Palermo è arrivato Padre Mario golesano; don alessandro santoro ha scelto le Piagge di firenze, mentre a Padre alex zanotelli non sono bastati i molti anni trascorsi in Kenya nella baraccopoli di Korogocho, per rifiutare la nuova sede del rione sanità a napoli. e sempre a napoli, nell'altro quartiere fantasma di forcella, vive don luigi Merola, giovanissimo e da anni sotto scorta. il viaggio termina nella città dove tutto ha avuto inizio: catania, ognina, da Padre antonio fallico. un viaggio attraverso molti uomini, e che per molte volte ripete lo stesso messaggio: quello di uomini che rimboccano le maniche di una tonaca senza drappi e senza ori, e si sporcano le mani in quel fango a cui tutti fanno la carità, ma che nessuno ha il coraggio di toccare.■

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uVetrioli sparsi

La libidine di potere del borioso analfabeta di Emanuele Romeres - emanueleromeres@marcovalerio.com lo è per definizione. Peggio dei critici d'arte e di quelli letterari, abilissimi nell'evidenziare limiti e difetti delle opere altrui quanto incapaci di produrre un quadro o un romanzo. naturalmente parliamo della figura del redattore o, come si dice oggi con un anglicismo oltretutto errato rispetto alla realtà nostrana, l'editor. un personaggio borioso per lo più, convinto di aver letto tutto ciò che valeva la pena di leggere, e ciononostante analfabeta, perché notoriamente non in grado di cogliere gli elementi di valore e novità dei lavori che gli vengono affidati. il borioso analfabeta è, purtroppo, l'inevitabile strettoia che lo scrittore deve affrontare nel tentativo di approdare in casa editrice. Vediamo dunque come sconfiggerlo, o perlomeno come evitare gli spuntoni rocciosi che potrebbero affondare la vostra nave e, fuor di metafora, il vostro romanzo. tendenzialmente, l'editor legge molto. Ha iniziato da ragazzo, con una passione smodata per la narrativa d'avventura, per poi passare ai classici. se avete scritto un romanzo di fantascienza, mettetevi il cuore in pace, sarete misurati volenti o nolenti con la fondazione di isaac asimov o la città eterna di arthur clarke. Peggio se volgete all’avventura, perché il metro di paragone potrebbe essere emilio salgari. non parliamo dei romanzi storici, dove alessandro Manzoni impera, appena mitigato da umberto eco. in ogni caso, l’editor è un vecchio topo di biblioteca,

ama la prosa stantia di italo calvino o di carlo cassola, le ambientazioni provinciali di cesare Pavese. Per un ignorante presuntuoso come l’editor, Wilbur smith sa scrivere in inglese, stephen King è davvero un giallista. qualunque sia il genere letterario dell’opera che volete fare approdare in casa editrice per la pubblicazione, evitate con cura di evidenziare quanto il vostro stile sia in contrasto con i maestri della letteratura, quelli veri ma anche quelli discutibili eppure vendutissimi. ricordatevi che da qualche parte esiste un editor che ha deciso di pubblicare Moccia, altrove un estimatore di baricco. superate il vostro senso di disgusto. Potrebbe toccare proprio a voi fare i conti con la stessa persona. l’editor ha lo stesso spessore intellettuale della celeberrima casalinga di Voghera. È del tutto incapace di cogliere le finezze linguistiche, le innovazioni sintattiche. odia gli anacoluti come la marmellata sul brasato al barolo. su questo punto, ci sono pochi trucchi cui fare ricorso. grammatica e sintassi, almeno nelle prime dieci pagine, cercate davvero di rispettarle. l’editor è superficiale. È una conseguenza diretta della boria e dell’ignoranza che lo attanagliano. Vi giocherete la sua simpatia nelle prime tre pagine. se il telefono per disgrazia squilla mentre è a metà della prima pagina, quelle poche righe saranno tutto ciò che riuscirete a fargli leggere. ecco la ragione vera per la quale l’incipit di un romanzo è fondamentale. l’unico scopo dell’incipit è prendere al volo l’editor, colpirlo allo stomaco, fargli balenare per un istante la speranza di aver trovato, almeno una volta nella sua frustrante e inutile carriera di mezze maniche dell’editoria, “il libro”, quel libro del quale potrà raccontare ai nipotini: “ecco, l’ho scoperto io”. l’editor, a prescindere dall’età, ha problemi di vista. nulla lo indispettisce di più di un piego stampato in caratteri inferiori al corpo 12. Meglio un 14, con l’interlinea sufficientemente ampia.

dino-satiro di roberto rizzato

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a

non è un grande sacrificio. consideratelo un atto di pietas nei confronti di un minus habens. l’editor, infine, è conformista, maledettamente conformista. i suoi gusti di lettura, a causa dell’eccesso di fruizione della stessa, che spesso non si esaurisce all’orario di lavoro ma prosegue patologicamente a casa e persino nei fine settimana, sono purtroppo perfettamente omologati a quelli della massa dei lettori. su questo piano, c’è ben poco da fare, se non di capire cosa potrebbe interessare il pubblico dei lettori cui vi rivolgete. se interessa loro, potrebbe interessare lui. l’editor è perfettamente consapevole di essere protetto dalla legge. non potete ucciderlo. dovrete quindi fare i conti con questo insopportabile figuro anche dopo aver passato indenni gli scogli della prima selezione. evitate quindi di considerarvi approdati soltanto perché la vostra opera ha iniziato il cammino che potrebbe portare alla pubblicazione. i sacrifici al vostro orgoglio, in questa seconda fase, saranno ancora superiori e meno sopportabili di quanto vi possiate aspettare. c’è uno scoglio insidioso sul quale molte opere naufragano in modo inatteso: il titolo. non c’è niente di più irritante per uno scrittore di vedersi contestare l’originale Il nome del gladiolo che sintetizzava perfettamente il suo romanzo storico di ambientazione medievale o La metropoli e le stelle che mirabilmente avviava il suo ciclo fantascientifico. su questo punto l’editor è irremovibile. la sua sudditanza nei confronti delle opere già pubblicate è assoluta. fra l’altro, in questo caso, può contare sul totale sostegno di quel caprone del direttore editoriale. Mettetevi il cuore in pace, almeno per i primi due romanzi e rinunciate all’inutile scontro: il titolo non potrete sceglierlo, al massimo suggerirlo, ma con molta timidezza.

ogni innovazione, è capace di atti violenti, fino alla tortura delle bozze già impaginate con passaggio ripetuto nel caminetto, se solo provate a contestare la linea grafica della collana nella quale verrà inserita la vostra opera. È assolutamente inutile dimostrargli che il logo dell’editore non deve comparire dove è sempre comparso, spiegargli che il formato dei grandi tascabili economici è un insulto a Pitagora, o che il titolo scritto in orizzontale da sinistra a destra sono sintomi di un conservatorismo patologico. l’editor è un dinosauro, non sente ragioni. la psicosi da conservazione nella filiera del libro è epidemica, ha infettato i promotori, i distributori, i librai e, secondo le più recenti ricerche scientifiche, persino i lettori. gli oscar Mondadori sono odiosamente, insopportabilmente, ignominiosamente sempre oscar Mondadori. non è mai accaduto nella storia di questa casa editrice che abbia pubblicato un libro con il logo di sellerio o le copertine della garzanti. in questo caso, ad aggravare la situazione, l’enclave mafiosa è compatta e granitica: grafici, responsabili della promozione, persino tipografi e legatori saranno complici dell’editor nel rovinare il vostro libro. arrivati a questo punto, siete ormai consapevoli che il vostro romanzo, scritto con dedizione durante lunghe notti insonni, sconquassato nelle secche delle redazioni, cannoneggiato dall’editor, bombardato dagli addetti alla promozione, si è trasformato da splendido veliero in un relitto putrido, il cui destino sarà galleggiare amaramente

il baratro dell’ottusità e dell’insipienza vi si parerà improvviso all’atto di definire la copertina. l’editor è assolutamente privo di senso artistico, odia visceralmente

gustave courbet, Le Désespéré (1843 ca.)

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per alcune settimane, magari alcuni mesi, nella risacca delle librerie, sotto gli occhi di tutti, per poi arenarsi miseramente sugli scaffali e, infine, depositarsi sul fondo melmoso delle biblioteche, dove potrà giacere per decenni, visitato di tanto in tanto da un lettore. nella peggiore delle ipotesi, il relitto sarà restaurato, offeso da una nuova e ancor più orripilante copertina, ricomposto come un cadavere risuscitato in una nuova edizione, sempre e odiosamente scritta in caratteri latini, con i paragrafi giustificati. talvolta qualche saccente e irriverente editor interverrà persino sulle edizioni successive, eliminando quei refusi che voi consapevolmente avevate deciso di lasciare in un angolino, per sottolineare con una piccola imperfezione voluta l’assoluta intoccabilità della vostra opera.

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giunti a questo stadio sarete diventati scrittori, ma la fama non vi ripagherà delle offese subite. l’editor nel frattempo sarà morto di vecchiaia, ma l’odio che avrete nutrito nei suoi confronti non verrà meno. l’unica soluzione, come insegnano salgari, Hemingway e molti altri, è uno spettacolare e sanguinolento suicidio. agli editor delle nuove generazioni piacciono moltissimo questi epiloghi. anche ai responsabili della promozione, ai librai e persino ai lettori. fanno vendere un sacco di copie, e a quel punto nessuno sente il bisogno di correggere i vostri manoscritti. Persino la lista della spesa, purché autografa, sarà trattata con rispetto e magari venduta all’asta.■


Il mondo può benissimo fare a meno della letteratura. Ma ancor di più può fare a meno dell'uomo. Jean Paul Sartre

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uPuglia style

Puglia: è finita la controra di Chiara Dell’Acqua - chiara.dellacqua@libero.it

È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia è il titolo di un’antologia a cura di filippo la Porta, pubblicata da Manni nel 2009, e ottimamente coglie il fermento culturale che, a partire dagli anni novanta, anima questa regione. in questa antologia la Porta riunisce brani dalle filippo la Porta pagine più significative di diciannove affermati narratori della nuova generazione di scrittori pugliesi, nati tra il 1956 e il 1986, tra cui cosimo argentina, Vito bruno, gianrico carofiglio, carlo d’amicis, giancarlo de cataldo, Mario desiati, nicola lagioia, alessandro leogrande, flavia Piccinni. di questi solo pochissimi sono rimasti in Puglia; la maggior parte vive in altre regioni d’italia e scrive di Puglia con lo sguardo disincantato e lucido che solo “l’esilio” può regalare. “una letteratura apolide”, l’ha definita d’amicis, significando lo sradicamento che permette alla letteratura di sprovincializzarsi, senza diventare mai folklore, o cedere a giudizi moralistici. una Puglia da sempre crocevia di culture e popoli, animata da una “dolce ansietà d’oriente”, protagonista di un rinnovamento artistico tout court, che coinvolge anche la settima arte (pochi mesi fa sono stati inaugurati i cineporti a lecce e a bari). la scrittura porta le tracce di due anime che convivono, come la terra rossa e il mare cristallino: ospitale ed estroversa, ma anche infaticabile e discreta, in una commistione di ancestrale e postmoderno che costituisce la sua più profonda peculiarità. «un sud arcaico e ancora pieno di disservizi, ma dove è

ancora possibile gestire il proprio tempo, raggiungere il mare in giornata e coltivare un albero da frutta nel cortile… », ha scritto desiati nel suo ultimo “foto di classe”. e Mario desiati, insieme a nicola lagioia, è sicuramente tra i protagonisti di quella “scrittura di migrazione”: entrambi giovani pugliesi, emigrati a roma, dove lavorano in campo editoriale. desiati, classe ’77, originario di Martina franca, scrittore e direttore editoriale di fandango. esordio narrativo nel 2003 con Neppure quando è notte (pequod) che, insieme a Vita precaria e amore eterno (Mondadori, 2006) è ambientato nella capitale. i protagonisti di entrambi questi romanzi, franz Maria e Martin bux emigrano a roma da due realtà di provincia: franz da taranto, in Puglia, Martin da castiglioni, un paese vicino alla base nato di sigonella, in sicilia. una roma ricca di contraddizioni, dove emerge la difficoltà di una vita “normale” sia per franz, che si ritrova a vivere alla stazione tiburtina, che per Martin, precario in tutto tranne che nell’amore. la Puglia è la protagonista del suo terzo e intenso romanzo, Il paese delle spose infelici (Mondadori, 2008). il narratore, francesco, detto Veleno, insieme al suo amico zazà e all’affascinante annalisa si muovono in un paese ancestrale, Martina franca, a pochi chilometri dalla provincia, taranto, contaminata dalla polvere rossa dell’ilva e dal governo di giancarlo cito, eletto sindaco nel 1993: «quando cito salì al potere lo fece nel periodo più nero di questa terra. taranto era prostrata dalla disoccupazione, le fabbriche chiudevano, l’arsenale si svuotava e serrava come un avamposto, le raffinerie razionalizzavano l’occupazione, rimaneva solo l’italsider che continuava a mangiarsi tutto». Mario desiati

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nicola lagioia

nella primavera 2009 pubblica per laterza Foto di classe (U uagnon se n’asciot), nella collana “contromano”, una delle più interessanti nel panorama contemporaneo italiano. «un documentario narrativo», dichiara l’autore stesso nella postfazione, che ripercorre la vita dei suoi ex compagni di classe del liceo, molti dei quali hanno lasciato la Puglia in seguito alla cosiddetta “emigrazione intellettuale”, «col sogno di tornare, ma la voglia di restare». affiora la nostalgia per il paese d’origine, e si definisce una precisa connotazione, quella del fuorisede che, a differenza dell’emigrato, «si trasferisce, ma mantiene una considerevole parte della propria vita nel luogo di nascita». come il dentista, le visite specialistiche, in alcuni casi il barbiere di fiducia. nicola lagioia, classe ’73, barese, oltre a scrivere, dirige “nichel”, la collana di narrativa italiana di Minimum fax e si occupa di Pagina 3, la rassegna stampa culturale per radio tre. lagioia ha esordito nel 2001 con il metaromanzo Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (Minimum fax). nel 2004 ha pubblicato per einaudi il romanzo Occidente per principianti, ma è con il terzo e ultimo romanzo, Riportando tutto a casa (einaudi) che lagioia deve fare i conti con la sua terra, le sue radici. in un’intervista a Valeria Parrella ha dichiarato: «Per me avere a che fare con bari è come incontrare una vecchia

fidanzata che non vedo da tempo; c’è qualcosa di incompiuto, di irrisolto…». i veri protagonisti del romanzo sono bari e gli anni ’80 e attraverso un’analisi lucida e drammatica di quegli anni, lagioia descrive una generazione persa in seguito ad un «trauma senza evento»: boom economico e crollo delle ideologie convivono, spettacolo e morte si intrecciano, come nella partita liverpool-Juventus del 29 maggio 1985, che diventa illuminante metafora di un periodo storico: «era la morte, ed era un gioco, ed era in qualche modo uno show televisivo». lagioia è padrone della lingua, sempre solida ed elegante, e i tropi frequentemente utilizzati sono funzionali all’operazione chirurgica che lo scrittore compie sul testo. la sintassi è sorretta da una lingua che ritrova tutte le sfumature e l’italiano, finalmente, ritrova i suoi fasti. «Vorrei un figlio, vorrei coltivare un orto di rape, vorrei alzare gli occhi al cielo e osservare il grande carro e l’orsa maggiore»: – scrive desiati – tre desideri semplici, per chi vive al sud, eppure chimere per chi è andato via. e forse proprio a questa Sehnsucht dobbiamo questi esiti, tra i più maturi del nostro tempo.■

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Chiunque può scrivere un romanzo in tre volumi. Richiede soltanto una completa ignoranza sia della vita che della letteratura. Oscar Wilde

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uVita standard di uno scribacchino provvisorio

Arte del ricamo, pollo al curry e nudismo in balcone di Giovanni Ragonesi - giov.ragonesi@gmail.com certo, pensa Valerio seduto sul pavimento del balcone mentre la notte spegne la città e il suo Mac sporco di cenere di sigarette è come una lucciola che gli scalda le gambe incrociate, era bello e comodo per arbasino scrivere qualcosa come Giorgio contro Luciano quando ancora da queste parti la cronaca rosa neppure sapeva dell’amicizia tra Jackie Kennedy e tale gore Vidal nipote di un senatore democratico, figurarsi imbattersi in qualcuno che si era andato a leggere The city and the pillar che sicuramente il nostro aveva letto, e d’altronde lui aveva letto tutto… era bello e comodo per lalla romano essere proustiana negli anni ’60 senza macchiarsi di manierismo spicciolo e votivo. era altresì comodo per un Henry James, dopo le tante ore trascorse in salotto o su comode poltrone di prima classe a ciarlare con tutti quelli che avevano qualcosa per la testa e possedevano rendite sufficienti per dirlo ai quattro angoli d’europa, poi tornare a casa, accostare le tende di pesante velluto color magenta che filtravano anche lo zoccolio dei cavalli sul selciato sotto al numero 7 di Half Moon street e scrivere, con bisturi alla mano e un personalissimo atlante delle passioni umane aperto nell’emisfero sinistro del cervello, delle vite di Milly theale, isabelle archer e compagnia bella. neppure per quell’altro salottiero di oscar Wilde, così coinvolto in affaccendamenti mondani e altamente esperto della sofisticata arte del ricamo sulle vicende altrui, doveva essere difficile imbastire una trama che contenesse gli ingredienti giusti: un po’ di società (senza parlarne troppo male o altrimenti si era dei drop out), qualche personaggio modellato su esempi celebrati e abbondante autoreferenzialità, epicureismo imbellettato à la Pâte, tartine ai cetrioli postvittoriane e le celeberrime aforistiche sentenze che diversi decenni dopo porteranno borges ad

osservare con ammirazione che ciò che più stupisce in Wilde è come avesse quasi sempre ragione. altresì dense di fascino, Valerio è convinto, sono le trame combinate dai tarocchi sverginati di calvino, i sofferti parti cerebrali della cara Virginia Woolf annotati nei suoi delicati diari che Valerio di tanto in tanto sfoglia e legge in cerca di conforto e ispirazione tecnica. il punto è, e Valerio ultimamente lo ribadisce a se stesso con rigore a scadenze cicliche ricalcate da complesse mappe astrali, come costruire una giusta trama oggi, una giusta trama di un potenziale giusto romanzo che si accompagna a tante oggettivazioni ed etichette tutte all’insegna del Post. occorre guardarsi intorno, lo si sa. occorre leggere i nuovi e i nuovissimi senza disdegnare di impelagarsi e sporcarsi le meningi in peregrinazioni critiche e speculative, oltranziste e azzardose. Valerio ammira – forse un po’ invidia – quelle capacità creative che riescono a miscelare – con dosaggi in alta definizione – elementi epici wuminghianamente densi di senso della storia e del presente e crogiolo del futuro sentimentalmente nuevo; quel senso dell’individuale, quelle emotività personalissime, quelle case di ringhiera e quei sampietrini spolverati che disegnano un comune panorama generazionale che anche passa per sapori e odori e erba bruciata di chiazza mediterranea e spleen tardo adolescenziale fradicio di provincia sterminata e amorevolmente immonda; quei cori accordati su di una unica altissima nota che fa tremare le impalcature ideologiche del potere scoperchiandone una maschera o battendo la punta di uno spillo contro nervature troppo coperte; quelle angolature trasversali che malgrado il “già 2010 • Sul Romanzo

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spolverati con spezie orientali, sono solo una maniera poco coraggiosa di porsi di fronte alla ricerca di una narrazione.

tutto detto” riescono a fare percepire qualcosa di nuovo anche sul più abusato dei sentimenti e anche sulla più maltrattata delle strategie erotiche. la costruzione di una trama Valerio la visualizza come una ricetta in cui gli ingredienti si valorizzano l’un l’altro e sono tutti indispensabili: per il pollo al curry la padella va imburrata abbondantemente (alla stessa maniera il ripiano sul quale scrivere va spolverato e lucidato per togliere gli aloni lasciati dagli avambracci), una manciata di cipolla tagliata sottilissima (come insegnato dai mafiosi di scorsese a inizio anni ’90) va fatta rosolare a fuoco lento (ed è come un giusto sottofondo musicale, che va dosato e ascoltato a volume consono), poscia va versato mezzo bicchiere abbondante di latte intero che come la prosa va fatto scaldare, deve prendere corpo con un incipit che lasci presagire il gusto senza smarrire la sua ragion d’essere che è addensarsi sulla trama, trama che arriva a bocconcini tagliati nelle giuste proporzioni, bocconcini di pollo che come fatti e storie e personaggi devono essere aiutati a prendere corpo prima di essere messi sul fuoco, necessitano una rotolata nella farina (ed è come fare indossare a ciascuno il proprio cappotto, per renderli indipendenti e resistenti al freddo). Mentre i bocconcini di pollo prendono calore nel loro bagno di latte, mentre i filamenti di cipolla vi si attaccano a conferire gusto, il curry va fatto piovere senza indugiare oltre e il gusto si espande come la trama che si arricchisce di nuovi sviluppi, aggiunte e digressioni, sfumature di gusto insaporite ulteriormente da una manciata leggera di sale fino dosata senza lasciarsi prendere la mano perché è sempre bene ricordare che il corpo della portata è il pollo, e tale deve rimanere. il tutto va rimestato con un cucchiaio di legno, che è la pazienza e la costanza, la cura e l’attenzione, per il pollo e la padella stessa. Ma giunta una certa ora, quell’ora nello stomaco della notte che per un autore a lui particolarmente caro era un momento dai risvolti sacrali, Valerio si rende conto, o quantomeno ammette chiaramente con se stesso, che quel pensare teorico, quelle farciture di proteine e grassi saturi

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non si può trovare nulla da dire guardando fuori da sé. quantomeno così è per lui. a persuaderlo sono stati i tanti taccuini e diari e le lettere e i saggetti di chi di narrativa se ne intendeva: i già onorati Henry James e Virginia Woolf, ma non va dimenticata flannery o’connor, per non parlare di carver, di rilke, checov, stendhal e la Highsmith… dopo tante pagine sa che dietro alle storie c’è una vita, o quantomeno una idea di essa (senza bisogno di scomodare altisonanti espressioni germaniche), o quantomeno un tentativo… Valeria Parrella ha pubblicato un nuovo libro la cui lettura è stata appena ultimata e adesso il libro se ne sta lì sul tavolo lucido di mestieri, sopra elsa Morante, accanto ad una piletta di volumi di teatro inglese che vanno da osborne a sarah Kane (i dialoghi a Valerio non sono mai venuti bene e cerca di impararli dal teatro). È un libro quasi senza storia, quasi un libro di viaggio, quasi un taccuino intimo, quasi un abbozzo di romanzo. la cosa che lo impressiona è come sia un libro scritto candidamente per due soli motivi: 1. per amore (e chi scrive ama anche scrivendo); 2. per obbedienza a doveri contrattuali (e i contratti li rispetta pure dio Valeria Parrella ripeteva sovente ai suoi affittuari il parroco del paesetto). anche Valerio, si trova a considerare, ha scritto spesso – molto spesso, quasi sempre – per amore, o meglio è riuscito a dare voce alle cose che provava soltanto scrivendone. ricorda una lunga sfilza di raccontini conservati con pudicizia all’interno dello sportello di un brutto mobile in camera da letto di sua nonna. raccontini che messi uno appresso all’altro potrebbero


essere – somma presunzione – la sua education sentimentale, e a pensarci li vede come il journal del suo grand tour lungo le strade formative del mondo. leggendoli prova – acriticamente – un piacere strano e forte: rivede le tante facce che hanno pungolato la sua retina, risente quei corpi che hanno dormito accanto a lui e in certi momenti ne riesce a sentire anche l’odore, in alcuni casi pungente, in altri delicato e in altri ancora esclusivamente piacevole; riprova dei brividi nel ricordare certe capacità di espansione del miocardio, certe strade sotto ai piedi la notte, certe piogge invadenti e certi dolori asfissiati sotto al cuscino; quel paesaggio così noioso e quel Picasso piangente di fronte al quale ha lacrimato, le spalle in lontananza e qualche polverina mandata giù nel cesso varichinoso di qualche club mitteleuropeo (altro che törless); le stanchezze infinite e le gioie più stupide, le lenzuola con Marilyn e i pantaloni sporchi di sangue, Wonder Woman e le pomiciate londinesi con brian Molko, i cortocircuiti farmacologici e gli addii distratti, e poi quelli disperati e poi ancora quelli necessari; un lutto e poi un secondo a seguire, senza aggettivi; traslochi e letti appuntati sui quadernetti delle liste perché i vezzi vanno sempre

coltivati… rivive tutto e come bassani pensa che uno scrittore vive il presente scrivendo del suo passato, e poi cerca quella frase che colette ha scritto standosene arenata e vecchia sulla sua zattera (che era il letto dal quale non poteva più alzarsi) e che lui ha trascritto tante volte: «che vita meravigliosa che ho avuto. Peccato non essersene mai accorta». la sente così sua, stanotte. e con la consapevolezza di colette, ma con quarant’anni in meno, con una baldanza stendhaliana, con una predisposizione simile a quella della Parrella si accinge a spogliarsi. rimane nudo in balcone – pasolinianamente esibizionista. il sonno avanza lungo nervature e neurotrasmettitori e adesso può abbandonarsi con la sicurezza di avere sulle spalle – oltre che trenta e rotte primavere – anche una vita (vissuta e indigesta) che domattina – ne è sicuro – gli consentirà di cominciare a battere speditamente sui tasti di quel computer che adesso lo ha preceduto nel sonno e respira lentamente seguendo l’intermittenza del led bianco.■

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Forse solo il silenzio esiste davvero. JosĂŠ Saramago

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uI (rin)tracciati

Paul signac, Ritratto di Félix Fénéon (1890)

Fénéon e il silenzio disatteso di Alessandro Puglisi - alex.puglisi@inwind.it nel quadro del 1895 La danse mauresque, attualmente conservato al Musee d’orsay a Parigi, il pittore francese, dalla vita breve e sfortunata, Henri de toulouse-lautrec, rappresenta, nella figura di un uomo colto di profilo, con un cappellino marrone e un pizzetto biondo, felix fénéon. cinque anni prima, l’aveva ritratto Paul signac, sempre di profilo, con bastone e cappello in mano, stagliato su uno sfondo multicolore. nel 1896, ancora lui, fénéon, in un quadro di Vallotton, che lo immortala seduto alla sua scrivania (probabilmente quella da direttore della rivista «la revue blanche»), mentre redige un articolo. esiste poi un altro “ritratto” di questo artista: la fotografia

scattata nel tardo pomeriggio del 26 aprile 1894 da un anonimo fotografo della polizia parigina. Poche ore prima fénéon era stato arrestato. nato a torino nel 1861, cresce nella regione della borgogna, dalla quale si trasferisce a Parigi, essendo stato assunto al Ministero della guerra, presso il quale lavorerà per 11 anni. allo stesso tempo funzionario preciso e coltivatore attento della passione per le forme di espressione dell’estro, entra in contatto con molti artisti di quegli anni, collaborando a riviste come il «Père Peinard» prima e «l’en dehors» poi, e portando avanti un concretissimo impegno politico.

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la vicinanza agli ambienti anarchici lo conduce all’arresto di cui si diceva: fénéon viene infatti fermato nell’ambito delle indagini sull’esplosione di una bomba all’Hotel foyot, detonazione che non aveva fatto vittime, ma a causa della quale il poeta laurent tailhade aveva perso un occhio. il cosiddetto “processo dei trenta” lo vede perciò alla sbarra, assieme a uno sparuto gruppo di militanti anarchici e ad altri soggetti decisamente eterogenei, tra i quali diversi ladruncoli e finanche un garzone di macelleria. fénéon, nonostante il proscioglimento, perde il suo posto al Ministero, e abbandona la rivista «l’en dehors», anche se a favore della prestigiosa poltrona di direttore della «revue blanche». Per questa strada si giunge alla collaborazione di fénéon a un quotidiano, «le Matin», presso la cui redazione il giornalista/scrittore manifesta una produttività fuori dal comune. È in questo contesto che nascono i “romanzi in tre righe”, brevi frammenti (circa 1500) che fénéon pubblica anonimamente sul quotidiano, poi recuperati, per fortuna, da Jean Paulhan nel 1944, da un album all’interno del quale camille Plateel, amante di fénéon, aveva raccolto i ritagli dei giornali che li contenevano. i Romanzi in tre righe (una selezione dei quali è stata recentemente riedita da adelphi, a cura di Matteo codignola, autore peraltro di una gustosa nota finale) sostanziano l’abilità di giornalista, ma più ancora quella di narratore, di fénéon. la formula: una riga per l’ambiente, una per la cronaca più o meno nera, una per l’epilogo a sorpresa. e, in effetti, si direbbe che funzioni perfettamente. non si può dunque, in questo caso, che leggere alcuni (una minima parte rispetto alla copiosa produzione di fénéon negli anni di collaborazione al Matin) di questi “romanzi”: brevissime, quasi istantanee, narrazioni popolate da gente comune

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félix fénéon

che, nella maggior parte dei casi, decede. con uno scarto di estrema modernità concettuale, la cronaca diventa spazio narrativo. si va infatti dall’avventato avventore che «aveva scommesso di bere quindici bicchieri di assenzio, accompagnandoli con un chilo di manzo. al nono, théophile Papin, di ivry, è stramazzato» passando per il freddo e cinico resoconto della morte di un ecclesiastico: «il curato di la compôte, un paese della savoia, era andato in montagna, da solo. dopo essersi spogliato nudo, si è coricato sotto un faggio, ed è morto. di aneurisma.» fino all’ironia, sempreverde si direbbe, di «a dunkerque un certo scheid ha sparato per tre volte alla moglie senza mai riuscire a colpirla. a quel punto ha rivolto l’arma verso la suocera. centro.». Ma non manca la causticità, in composizioni come «tormentato dalle pulci del suo vicino di casa, il domatore giocolino, il signor sauvin ha cercato di impadronirsi della scatola che le conteneva. È stato raggiunto da due pallottole» e «a 80 anni la signora saout, di lambézellec, nel finistère, cominciava a pensare che la morte si fosse dimenticata di lei. così ha aspettato che sua figlia uscisse, e si è impiccata.» per giungere a estremi di implicita riflessione sull’utilità del vivere ma soprattutto sull’occasionale banalità del morire. È il caso di «il signor Jules Kerzerho era presidente di una società di ginnastica. il che non gli ha impedito di sfracellarsi tentando di saltare su un tram in corsa, a rueil.» e «un colpo apoplettico ha steso il signor andré, 75 anni, di levallois, nei paraggi del pallino. la sua boccia rotolava ancora, e lui non c’era già più.». questi ultimi due “personaggi involontari”, pur nel ristrettissimo numero di parole usate, sembrano essere stati minuziosamente descritti; avvertiamo quasi la sensazione di conoscere il loro background. il tram in corsa e la boccia che si ostina, seguendo le leggi naturali, a rotolare anche oltre la morte di chi l’aveva lanciata sono, probabilmente, due tra i simboli più pertinenti per comprendere questi gioielli dell’arte del narrare, oltre alla figura, a torto poco nota, del loro creatore.■


L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire. Anonimo

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uOstruiti esordi

Sulle difficoltà dell’esordire di Silvia Mango - silviamango@alice.it e Michela Polito - politomichela@hotmail.it a parte tutte le difficoltà oggettive inerenti al lavoro dello scrittore, come trovare la propria voce, trovare un senso del ritmo che vada a tempo sia con quello del proprio battito cardiaco, sia con quello del mercato (obiettivo piuttosto acrobatico da perseguire, tra l’altro) e che sia altresì depurato da quello dei Maestri che ti hanno formato (perché se Proust si fosse reincarnato di questi tempi si presuppone che riceverebbe una vigorosa pedata pure lui, visto l’ampio respiro che si consente e che, in quest’epoca di chick-lit, non provocherebbe niente più che un attacco di panico nelle rampanti signorine che vanno di corsa tra una lezione di yoga e un vernissage) e scrivere un qualcosa che abbia un senso compiuto, perché se no ti attaccano a dire che non c’è trama e che la gente vuole i fatti e che se non ci sono i fatti non si vende, imprese queste che già di per sé si possono definire a buona ragione titaniche, sempre se perseguite, certo, con spirito di perfezionismo che rasenta la nevrosi (no perché c’è anche gente che considera letteratura ogni ticchettio che produce la tastiera del proprio pc, che sono poi l’esercito di coloro che rimpinzano le fila delle case editrici a pagamento e che vanno in giro autoproclamandosi scrittori invalidando, tra l’altro, la categoria di chi di scrittura magari non ci campa ma che pubblica comunque dignitosamente), un’esordiente nel 2010 si trova a fare i conti anche con problematiche di tipo socio-economico, che esulano

John fante

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completamente dal mondo letterario. al punto che si è arrivati al parossismo per cui vende di più un calciatore che John fante. la parte economica della questione è argomento inflazionato e comunque influenza gli scritti perché, si sa, statisticamente vendono di più quelle opere che hanno un buon numero di cariche di dinamite posizione ad hoc per tenere viva l’attenzione di chi legge. che è poi la narrativa popolare, contro la quale non ho niente, anzi. sto solo dicendo che trovo altrettanto apprezzabili anche altri tipi di opere che magari hanno un ritmo meno serrato, meno fatti, meno dinamite e più introspezione. Ma, ahimé anche la cara vecchia anaïs nin farebbe la stessa fine di Proust, di questi tempi. un altro aspetto aberrante, e che caratterizza tutti i settori del mercato, cosa che influenza marcatamente anche quello editoriale, è che, essendo gli adolescenti il target più gettonato da tutti, se uno scrive un libro che parla di storie di adolescenti ha molte più possibilità di essere pubblicato che uno che scrive un libro su qualcuno che vive nel sottobosco. Per esempio, anche il povero zeno cosini verrebbe percepito come un noiosone e delle sue dipendenze dal fumo non interesserebbe più un tubo a nessuno, visto che tanto ora c’è allen carr. certo, non interesserebbe a meno che non fosse un looser sciammannato tipo Jeffrey lebowski, che io per altro adoro, ma rispetto al quale penso per altro che zeno cosini non abbia niente da invidiare. Ma l’impresa più titanica di tutte non è neanche sforzarsi di scrivere opere di qualità, e coltivare il proprio spirito per la causa, né prendere compromessi tra le leggi del mercato e quelle del cuore camminando basiti su una corda per non rinunciare troppo a se stessi e nello stesso tempo non essere costretti a rinunciare al proprio sogno (pubblicare la propria opera, condividere la propria visione delle cose, che è poi la propria vita) per non aver saputo mettere da parte un po’ del proprio ego. no, perché anche nell’ipotesi per assurdo che uno sia riuscito a trovare l’equilibrio ottimale di tutti i fattori suddetti, anche nel caso abbia avuto la genialità di riuscirci (e non è il nostro caso, a scanso di equivoci sulla presunta autoreferenzialità dell’articolo), se non conosci nessuno nel settore, puoi pure andare a


panem e che uno che ha consacrato la propria vita alla letteratura, per campare si arrabatterà con lavori che non c’entrano un tubo e che in linea di massima saranno anche poco remunerativi per i seguenti motivi: innanzitutto perché chi si è dedicato alla cura del proprio spirito o della propria voce raramente farà l’amministratore delegato di una multinazionale di ricambi di automobili ed è più facile reclutare un novello Henry Miller tra le fila di lavapiatti di una puzzolente cucina metropolitana che non nell’ufficio patinato di un qualche postaccio terrificante tipo agenzie di spettacolo di sorta; e secondariamente perché, se una volta arrivato alla fine della giornata non vuole stramazzare a letto privo di sensi ma ha intenzione di racimolare le briciole di forze che gli rimangono per dedicarsi alle sue fatiche letterarie, non potrà permettersi di lavorare più ore che l’orologio e, con lo stipendio di un part time, l’affitto e le bollette, dubitiamo fortemente che riuscirà a mettere insieme quelle 500 euro da inviare a un’agenzia letteraria in cambio di una scheda editoriale da inviare a una casa editrice che poi magari un bel giorno ti invia una mail – sempre che abbia la decenza di farlo – proclamando: “Mi dispiace, ma il suo manoscritto non rientra nella nostra linea editoriale”.

squartare orate. infatti in una casa editrice che riceve più di duemila manoscritti l’anno e che, per far quadrare il bilancio, si è trovata costretta a polverizzare persino la squadra dei correttori di bozze, quale speranza oggettivamente uno può avere per pensare di essere letto? la maggior parte delle volte le case editrici non si degnano neanche di darti una risposta di rifiuto, cosa che ti lascia Personalmente noi stiamo applicando la strategia tondelli, col dubbio che il manoscritto sia giunto a destinazione o cercando di trovare quel giusto mezzo per farci prendere che si sia perso nei meandri delle Poste italiane. non è in considerazione senza farci saccagnare. se la cosa darà sempre così, ovviamente ci sono redazioni dotate del buon i suoi frutti scriveremo un sequel a questo articolo.■ gusto quanto meno di scriverti la fatidica frase: “siamo spiacenti ma il suo manoscritto non rientra nella nostra linea editoriale”, ma la maggior parte delle volte non succede allora mi chiedo come diavolo facciano a farsi pubblicare gli emeriti Pier Vittorio tondelli sconosciuti come noi, e la riposta più ovvia che ci viene in mente è che si vada per conoscenze. o si fa come truman capote: si prega. o come insegna tondelli: si rompe le palle, sempre che rompere le palle sia sufficiente. o se no si prospetta all’orizzonte la possibilità delle agenzie letterarie. quella delle agenzie letterarie di per sé non sarebbe una cattiva trovata. forse. Più che altro perché se il tuo manoscritto viene passato a un editore per mano di un agente letterario quotato è già una buona garanzia, non si sa se di pubblicazione ma almeno di sicura lettura. a parte che a noi sembrerebbe un po’ di allungare il percorso, però noi crediamo nel fato, o nel dharma, quindi magari non facciamo testo. Ma la cosa che più di tutte ci sembra incredibile è che molte agenzie letterarie ti chiedono dai 400 ai 600 euro per la sola lettura del testo, da cui stilano poi una scheda editoriale. ora, già i latini avevano ben chiaro il concetto per cui carmina non dant

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uCinematura

Robin Hood tra let

di Claudia Verardi - claudiaverardi@alice.it da sempre, robin Hood è tra i personaggi che più catturano l’attenzione degli appassionati di cinema e di letteratura. film e libri hanno raccontato, in maniera più o meno soddisfacente e, soprattutto, in forma più o meno veritiera, le vicende dell’eroe in calzamaglia col cappuccio calcato sulla testa. l’eroe popolare inglese che nella versione leggendaria ruba ai ricchi per dare ai poveri, in realtà, è un personaggio epico sospeso a metà tra mito e storia.

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a cinema, tteratura e mito

setacciando le fonti che riguardano l’origine di robin Hood scopriamo che si tratta di una figura che fonde un personaggio realmente esistito (con molta probabilità un bandito locale o un nobile sassone decaduto, forse un nobile di locksley, nello Yorkshire meridionale) e figure della mitologia nordica, come quelle dei folletti. Molti studiosi ritengono che la figura di robin Hood nasca da miti celtici preesistenti, come quello di un nume dei boschi dalle corna di cervo. nel cristianesimo sarebbe stato accostato a satana e, anzi, addirittura con esso identificato, e si sarebbe perciò cercato di cancellare la sua immagine, con scarsi risultati. non solo. È anche stato accostato all’ariete che orna i rubinetti delle fontane pubbliche e al robin goodfellow, divinità dei boschi resa famosa da William shakespeare nel Sogno di una Notte di Mezza Estate. robin Hood viene, infine, accostato alle feste medievali pagane come quella di calendimaggio e quella di Yule. la parola Hood (anche nella variante Hud), oltre a cappuccio,

significa ceppo, oggetto che ha una discreta importanza in queste feste rituali. la prima volta che si legge di robin Hood è, però, nel manoscritto Piers Plowman (del 1377) di William langland, in cui il prete dice di conoscere versi riguardanti un certo robin Hood. in seguito, viene menzionato nella Scottish Cronicle di Wynton fino alle rappresentazioni come antieroe in scritti successivi. le prime versioni stampate delle ballate di robin Hood, in cui il personaggio viene rappresentato quasi sempre come agricoltore o bottegaio, appaiono nel XVi secolo, dopo l’avvento della stampa in inghilterra. sarà solo verso la fine dello stesso secolo che l’arciere comincerà a essere ritratto come nobile: quasi sempre robert di locksley, ma anche earl di Huntington o robert fitz ooth. dopo altri passaggi e altre trasformazioni, si arriva al robin Hood che conosciamo oggi, quello della leggenda e del folclore, grazie ad alexandre dumas padre che ne struttura la figura

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nel romanzo postumo Robin Hood il proscritto, del 1863. qui robin Hood diventa definitivamente il fuorilegge romantico che vive nella foresta di sherwood insieme a friar tuck, Will scarlet e long John, rubando ai ricchi per dare ai poveri. da questo momento in poi robin Hood diventa oggetto e soggetto di canzoni, ballate, drammi e giochi, che si svilupperanno in seguito in film, romanzi e

indice di gradimento sul pubblico. tra i libri, a parte il romanzo di dumas padre, sono interessanti Le ballate di Robin Hood di einaudi (1991) e Robin Hood, storia del ladro gentiluomo di James clarke Holt, pubblicato da Mondadori nel 2005. il robin Hood cinematografico di ridley scott mescola con sapienza effetti visivi e ricostruzione storica, tratteggiando un protagonista molto “fisico” ma anche piuttosto carismatico (purtroppo nella versione italiana non doppiato dalla sua voce “ufficiale”, luca Ward) nella sua umanità. un personaggio più uomo che mito, concreto, che prende le distanze dalle precedenti trasposizioni, troppo e sempre vincenti ed eccessivamente romantiche, ma che sono quelle che hanno contribuito a delinearne le fattezze nel nostro immaginario collettivo. quello di scott sembra un tentativo di finire la storia del grande eroe proprio dove altri l’hanno cominciata, ovvero con l’esilio nei boschi da fuorilegge, aiutato da un uso sapiente delle tecniche estetiche e dalla briglia sciolta, a tratti, nella narrazione degli accadimenti. non importa se robin Hood sia personaggio vero o frutto della fantasia, figura storica o ibrida contaminazione di più configurazioni precedenti. quello che conta è la rappresentazione di un uomo valoroso, di un grande condottiero, di un guerriero solenne dotato di grande coraggio e forza interiore (oltre che fisica) in cui, oggi più che mai, si ha voglia di rispecchiarsi. e ridley scott, con questo suo ritratto, ci ha dato un personaggio che sta di diritto nella mitologia classica.

serie tv (l’ultima è stata un serie della bbc che ha avuto grande successo in vari Paesi), con il conseguente differente impasto di ingredienti, personaggi e situazioni, che lo renderanno ogni volta attore diverso. la prima pellicola che vede protagonista il bandito dal cuore d’oro è il film muto Robin Hood and his Merry Men, del 1908. seguono, fra gli altri, La leggenda di Robin Hood del 1938 con errol flynn, la spassosissima parodia di Mel brooks Robin Hood: un uomo in calzamaglia con cary elwes del 1993, il Robin Hood cartone di Walt disney e Robin e Marian del 1976 con sean connery e audrey Hepburn. tra i più recenti, Robin Hood: principe dei ladri del 1991 con Kevin costner e Mary elizabeth Mastrantonio e l’ultimo Robin Hood del 2010 di ridley scott, nel quale l’arciere viene interpretato da russell crowe e lady Mariana da cate blanchett. il film, presentato in anteprima all’ultimo festival del cinema di cannes, è incentrato sul periodo in cui robin Hood è appena tornato dalle crociate e il suo obiettivo principale è quello di guidare gli inglesi nella difesa della Patria contro i francesi. robin Hood oggi è finito anche tra le pagine dei fumetti e le schermate dei videogiochi, tanto per sottolineare la sua popolarità e l’alto

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una storia universale, quella di robin Hood, indagata nella letteratura come nel cinema, con un’ideologia che per secoli ha esercitato grande influenza sull’immaginazione popolare. una figura emblematica, simbolo di ribellione sociale e di autenticità di sentimenti. nel film di scott è meno eroe romantico che in altri ambiti, non è bandito, non è eccessivamente scaltro, ma soprattutto affranto dalla brutalità e dalla cattiveria dell’inesorabilità del potere e dalla mestizia degli eventi. la splendida fotografia e la scenografia che ricostruisce fedelmente l’inghilterra medievale contribuiscono a creare quell’alone di fiaba leggendaria che avvince chi guarda. la descrizione di un robin Hood inedito si discosta da quella che da sempre abbiamo estrapolato dalla lettura del romanzo di dumas e degli altri scritti a lui dedicati. insomma, robin Hood era


un personaggio letterario, storico oppure del tutto inventato? forse non lo sapremo mai, ma è anche qui che sta il fascino del personaggio. dove finisce il mito e dove comincia la realtà? in tanti (studiosi, registi, storici) hanno provato a capirlo, con il risultato di non riuscire a ottenere nessun personaggio definito, ma una figura sospesa tra realtà e fantasia, ingrossata dalle leggende e dalle penne degli scrittori. Privato dei suoi beni dall'odioso sceriffo di nottingham, robin Hood vive nascosto nella mitica foresta di sherwood e, insieme a una compagnia di onesti fuorilegge, lotta tenacemente contro le ingiustizie dell'usurpatore. nel romanzo di dumas padre robin Hood si inserisce nella vicenda storica che riguarda il tradimento del principe giovanni senza terra ai danni del fratello riccardo cuor di leone e vive imprese appassionanti, diventando il romantico fuorilegge che conosciamo, quello che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

in conclusione, le immagini vincono sulle parole? non lo sappiamo. di certo, le immagini sono sempre state nella mente dell’uomo, dove nascono, si muovono, vivono storie e ne combinano di tutti i colori. le immagini sono come i sogni e, forse, è il caso di fare come gli indiani d’america che inventarono l’acchiappasogni, un cerchio di ramoscelli intrecciati che intrappolava i brutti sogni e lasciava passare solo quelli belli, che scivolavano fino a chi dormiva lungo una piuma. quindi, spazio ai sogni anche se, ripensando all’ultimo robin Hood cinematografico, ci si accorge che non è stato poi del tutto presentato come antieroe, ma anche come espropriatore del Potere. di un certo Potere. insomma, una specie di che guevara antesignano. Ma serve davvero ancora un’immagine del genere, oggi che non c’è più bush figlio e siamo nell’epoca di obama?■

da quest’immagine si è arrivati fino al robin Hood rappresentato nel film di ridley scott, dove comunque rimane un personaggio romantico anche se screziato di nuove qualità. chissà poi se il cinema prevale sulla letteratura. forse sì, specie oggi in cui l’immagine prende (quasi sempre) il sopravvento sulla parola e sulle sembianze elaborate dalla mente, se consideriamo che robin Hood viene infatti ricordato soprattutto grazie alle facce di sean connery, Kevin costner e, adesso, di russell crowe. forse le rivisitazioni letterarie sono state un po’ trascurate, anche se non va dimenticato che è la narrativa ottocentesca a far scivolare la leggenda sulla carta, con Walter scott che fa apparire robin Hood nel suo Ivanhoe come personaggio minore e si ispira poi alla sua figura per il rob roy. Robin Hood di dumas esce ora nei grandi tascabili economici newton compton con l’introduzione di attilio scarpellini e la traduzione di lucio chiavarelli.

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uLa metà oscura del mondo

Nichilismo e Metafisica di Vittorio Possenti di Maria Antonietta Pinna - marylibri1@gmail.com

nichilismo? si, grazie. il nichilismo permea di sé il 900, campeggia nelle avanguardie letterarie ed artistiche, da Kafka a sartre, tocca «la cultura politica di taglio anarchico e populista», si tuffa nella filosofia, imponendosi con nietzsche ed Heidegger come «destino ineludibile dell’occidente».

friedrich nietzsche

a questo punto sorge spontaneo il quesito: che cos’è il nichilismo? che rapporto ha con metafisica e realismo?

la filosofia nichilista si basa su un’azione destrutturante e destabilizzante d’ogni fondamentale certezza. “dio è morto” esprime il crollo definitivo del senso. l’uomo e il cosmo smettono di avere una finalità, per cui «la realtà è un mutevole comporsi di orizzonti senza senso: l’esistenza non ha scopo, l’energia vitale non tende a nulla, il divenire non ha termine ultimo». c’è in tutto questo la negazione del realismo. quest’ultimo ed il suo opposto, l’antirealismo, sono determinazioni del pensiero e non dell’essere, pertanto riguardano lo spirito nella sua tensione di conoscenza dell’oggetto. il pensiero ha rapporto con ciò dinnanzi a cui esso esiste. in pratica esistere davanti all’essere è realismo contro cui si erge il nichilismo teoretico. il principale compito della filosofia fin dai tempi più antichi è stato quello di indagare sull’essere, alla continua ricerca

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della verità. l’essenza di quest’ultima infatti è relativa all’essere e di esso rivelativa. nichilismo allude al niente in una prospettiva ontofobica. si tratta di un nientificare la verità dell’essere, in un oblio che è sostanzialmente rifiuto della conoscenza reale, decomposta, negata con paradigma antirealistico il cui punto apicale consiste nell’abbandono del concetto di verità come conformità del pensiero all’oggetto. l’idea è che «non ci sia alcuna struttura delle cose su cui il pensiero possa regolarsi, a causa di un invalicabile abisso tra pensiero ed essere». il nichilista devasta il concetto di assoluto, affine al concetto di malattia e spaesamento, si trova suo malgrado proiettato nella crisi dei valori del mondo, senza punti di riferimento. crollano le certezze nell’assioma dell’ateismo in una prospettiva antistorica e non finalistica. l’uomo è un animale come altri nell’universo, che merita di morire come ogni altra creatura vivente. il tragico è invalicabile, la morte è ribadita, né può esservi vittoria umana contro la sua ineluttabilità. nessuna speranza nel niente dell’assenza implacabile di dio. l’uomo quando muore perde l’essere e torna al nulla in una dinamica antibiblica. la bibbia infatti asserisce che l’uomo non è degno di morire. il nichilismo coglie la morte come mero fatto biologico privo di una dimensione metaempirica, niente di più che un mero decesso riscontrabile dalla scienza. la dipartita dell’uomo non ha niente di speciale, si muore, tutto qui, semplice, crudele e


dimentica dell’essere perché dà per scontata la sua conoscenza.

fisiologicamente appurabile. la meditatio mortis raduna l’io, lo pone davanti a se stesso senza tuttavia scoprire niente sull’aldilà. Probabilmente perché non c’è niente da scoprire. negata la resurrezione di fede cristiana, rifiutata l’idea platonica dell’immortalità dell’anima. l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno rappresenta un tentativo disperato di evadere dalla desolante finitudine della mortalità attraverso l’eterna reiterazione della dialettica vita-morte. l’eternità di dio che ormai è defunto viene sostituita dall’eternità diluita nei cicli cosmici del perpetuo ritorno. Morte all’infinito nella ruota dell’essere che manca di scopo e definitivo perché. la metafisica stessa in Heidegger è nichilismo volto a interrogar sull’ente e non sull’essere e in questo senso onto-logia. l’errore di non pensare la verità dell’essere è necessario perché l’essere si sottrae e si nasconde. Per ente si intende tutto ciò di cui normalmente si parla e a cui si pensa ma anche ciò che siamo. la consapevolezza dell’essere è fondamentale per capire il suo opposto, il nulla. quindi sappiamo cosa è l’essere però contemporaneamente c’è qualcosa che sfugge, il vero senso dell’essere rimane avvolto da un’oscura nebbia. quello di essere è un concetto che fluttua nell’ambiguità svelato e nascosto contemporaneamente. l’uomo si

in realtà quando si pensa all’essere non si riesce ad afferrarne il senso e questo non dipende da un’insufficienza del pensiero ma dalla natura dell’essere stesso che inclina all’autonascondimento, ossia si ritira in una dimensione oscura, altra e inaccessibile. la filosofia di Heidegger indaga su tale problema d’oblio dell’essere e sull’invalicabile abisso tra questo e il pensiero. il nichilismo viene così definito il movimento fondamentale della storia occidentale in quanto è metafisica spogliata della propria possibilità essenziale, in pratica mistero dell’essere, non pensato perché rifiutantesi. dopo un escursus sul pensiero degli ultimi 150 anni, arrivate a scoprire la terza navigazione con relativa conclusione sull’intuizione intellettuale leggendo l’istruttivo saggio di Vittorio Possenti su nichilismo e metafisica. un bagno filosofico di tutto rispetto.■

Martin Heidegger

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uViaggio nel pensiero antico

nicolas Poussin, I pastori d’Arcadia (1642)

Sentimenti umani e virtù etiche di Adriana Pedicini - adripedi@virgilio.it L’ospitalità, dono degli dei incontrare l’altro, confrontarsi con una persona diversa è sempre un’avventura ambivalente: può essere un rischio e un danno, oppure un’opportunità e una gioia. entrambe queste situazioni costituiscono un terreno insospettato che man mano si rivela nella sua realtà piacevole o meno, evidenziando valori e disvalori radicati nel costume e nell’educazione o inclinazione al rifiuto e alla diffidenza verso tutto ciò che è altro da sé piuttosto che accettazione e accoglienza.

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il problema è antico e più che mai si avverte oggi in tutta la drammaticità, nonostante la dichiarata civiltà e la globalizzazione del pianeta terra. nella poesia omerica l’ospitalità si configura come un vero e proprio dono degli dei e il popolo che ne possiede si distingue da tutti gli altri elevandosi appunto allo stesso livello della divinità. ne fa esperienza (odissea Vi, vv. 74-250) l’eroe odisseo


che vaga per mari e terre sconosciute: dopo calipso, un’altra donna compare nella sua vicenda, nausicaa, la principessa figlia del re dei feaci alcinoo; per l’eroe ella rappresenta una realtà estranea ed inafferrabile, che gli crea una qualche inquietudine. ancora una volta la sua natura è messa alla prova e la sua condotta, come già in altre occasioni, è calcolata, prudente, accorta: «subito le rivolse parole dolci e accorte». l’inizio del discorso, contrassegnato dagli stilemi della preghiera, coincide con la manifestazione di un dubbio: «sei una dea o donna mortale?». l’eroe denuncia in tal modo il suo ammirato stupore che va ben oltre la naturale ammirazione per una fanciulla nel fiore degli anni. ciò che lo seduce di nausicaa è proprio la sua ambiguità, la presenza in lei di una componente divina che la fa rassomigliare ad una dea, forse artemide, per il fatto che la vede lontano dalla reggia e dalla città, inquadrata in una cornice naturale. l’ipotesi dell’appartenenza divina di nausicaa non fa che iscriverla nella sua cultura di appartenenza: ella è specchio del suo popolo, i feaci, uomini eccezionali, posti a metà tra l’umano e il divino (I Feaci non conoscono la guerra, vivono lontani dagli uomini e sono cari agli dei). in maniera sempre più evidente le parole di odisseo procedono come erano state annunciate,«dolci e accorte»; dopo aver valutato la presenza di una doppia natura, umana e sovrumana, nell’aspetto della ragazza, l’eroe passa a considerare fortunate le persone che la circondano, perché da lei ricevono luce e “calore” (tre volte beati il padre e la veneranda madre, tre volte i fratelli), argomento questo che permette al poeta di introdurre il tema delle nozze e dell’amore coniugale. note di uguale tenore sono quelle rivolte da nausicaa ad odisseo: «o straniero, non somigli a un uomo malvagio, né a uno stolto», mentre gli conferma la necessità di accettare la sofferenza quale tratto costitutivo del suo statuto di eroe.

in tal senso vanno intesi i comandi che ella rivolge alle ancelle: l’ospitalità che è già dovere proprio di ogni mortale, lo è ancora di più per un popolo che sente come costitutiva della propria identità l’amicizia con gli dei. Per di più la sensibilità di nausicaa è prolettica alla sensibilità del padre ed entrambi si trovano accomunati nel nome dell’indispensabile compito assegnato ai feaci, quello di ricondurre odisseo alla sua patria.

L’ospitalità, condivisione della sventura esistenziale uno dei drammi esistenziali più alienanti è la lontananza dalla propria terra, quando essa non è frutto di una scelta, ma la conseguenza di problemi legati alle guerre, alla povertà, alla fame. ancora sono presenti nelle nostre coscienze le atrocità che si sono susseguite negli anni in vari scenari bellici e tuttora ci giungono gli echi di atrocità che quotidianamente affliggono popolazioni innocenti. sopravvivere a tali inferni è difficile e talora si ritiene che l’unica possibilità di salvezza sia la fuga verso terre in cui regna la pace. spesso tale speranza è solo un miraggio perché nelle nuove terre manca la condizione primaria per ricomporre un’esistenza al meglio, cioè la tolleranza e l’accoglienza. È storia di tutti i giorni la misera condizione che si trovano ad affrontare quanti, spinti dalla fame o dalla guerra, cercano accoglienza dignitosa in paesi stranieri. nella i bucolica virgiliana (buc. i, vv. 79-83) è l’eco di un evento storico: la distribuzione di terre della gallia cisalpina ai veterani dell’esercito triumvirale, nel 41, dopo filippi. la bucolica rappresenta un dialogo tra due pastori: titiro e Melibeo. quest’ultimo è costretto a lasciare la terra patria e spinge a stento il gregge davanti a sé. titiro, grazie all’intervento di un deus, ha potuto conservare il suo

Joseph Mallord William turner, Ulysses deriding Polyphemus (1829), national gallery

le risposte della giovane donna alle richieste concrete di odisseo coincidono con l’enunciazione della propria identità e di quella del suo popolo: ella non si qualifica col nome proprio, ma con la sua appartenenza sociale ed etnica, quale figlia del re dei feaci. Ma la densità lirica del personaggio di nausicaa non è fine a se stessa. Presentandosi come parte del suo popolo, ella ne rappresenta i tratti culturali peculiari, quella valenza ambigua sospesa tra divino e umano.

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Jacques-louis david, La douleur e

piccolo campo. davanti a titiro, che resta quasi immobile nella sua felicità, si staglia la dolente figura di Melibeo che riassume il dramma della storia e della tristezza delle cose perdute. nella bucolica c’è la tragedia e insieme l’insistere nel sogno di ciò che è stato e mai più sarà in un dolce paesaggio padano, al momento dell’imbrunire. alla fine titiro si commuove davanti alla malinconia dell’esilio e pronuncia i versi forse più belli di Virgilio (7983), invitando Melibeo a restare con lui, a riposare, al calar della sera, quando già di lontano fumano le cime dei casolari e più lunghe cadono dagli alti monti le ombre: «et iam summa procul villarum culmina fumant/maioresque cadunt altis de montibus umbrae».

tuttavia a molti la libera circolazione delle persone nell'era della libera circolazione delle merci oggi appare un diritto umano universale. la tecnologia delle comunicazioni consente facilmente di identificare qualsiasi persona in pochi minuti. le nazioni unite, secondo costoro, devono assumere fra i loro compiti il governo dei fenomeni migratori delle persone salvaguardando il diritto alla felicità e alla vita di ognuno. come accade per il diritto d'asilo per i rifugiati, così è auspicabile che sia riconosciuto il diritto all'esistenza anche a coloro che ricercano una vita migliore lontani dal paese d'origine.

Scempio in guerra degli affetti familiari sullo sfondo inquietante di una lunga guerra e di una sorte che si teme e si desidera per essere di esempio di dispregio del pericolo e di gloria militare, rifulge (iliade Vi, vv. 440-502) l’incontro di ettore e andromaca uniti dall’amore reciproco e da quello per il piccolo figlio astianatte, dolce creatura inconsapevole delle tristezze di un evento che indirettamente pur vive e vagamente atterrito dai bagliori dell’elmo paterno. le supreme ragioni “politiche” si affievoliscono di fronte al bisogno primitivo e totalizzante di vivere accanto al proprio sposo e di vedere il proprio marito cullare tra le braccia il figlio comune. Ma l’amore richiede anche questo: proprio per evitare una sorte da prigionieri ai propri cari l’andare in battaglia è necessario! tragica conclusione per ettore di cui conosciamo la fine per mano di achille e tragica necessità per vincitori e vinti, sempre! il dialogo tra i due coniugi è caratterizzato dall’alternanza dei toni e da momenti di forte pathos. andromaca con una sensibilità tutta femminile rimprovera all’eroe di anteporre i doveri militari agli affetti familiari; le parole di ettore, in risposta, affermano l’inderogabilità dei valori tradizionali dell’etica eroica. l’apice del pathos è nella scena dell’addio dell’eroe al bambino attraverso la dinamica di gesti comuni,

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ma carichi di valore affettivo: le carezze, le parole di conforto di la muta dolente ettore, rassegnazione di andromaca, il bambino spaventato dai bagliori dell’elmo paterno, e in ultimo, efficace nella sua plasticità, il sorriso tra le lacrime di andromaca. v. 484 «δακρυσεν γελασασα» Può sembrare facile retorica richiamare alla mente analoghe attuali situazioni, tuttavia l’attenzione, soprattutto dei giovani, deve essere guidata a soffermarsi su di esse, affinché la vicenda della guerra, se pur vissuta sotto forma di esperienza indiretta, sia da tutti avvertita come elemento scardinatore, oltre che di cose, della sacralità degli affetti familiari. troppe famiglie piangono i morti, troppi legami sono spezzati da azioni di guerra, troppi orfani non vedranno più i loro genitori, troppi genitori non riconosceranno più i loro figli quando, nello scempio operato dalla guerra, andranno a seppellirli contro natura, come leggiamo in erodono (libro 1, prg. 87): «in tempo di pace, i figli seppelliscono i padri; in tempo di guerra sono i padri a seppellire i figli». rabbrividisce il cuore e trema la ragione di fronte agli scempi di ogni tipo che si consumano nelle guerre. rimarrà negli occhi e nella coscienza di tutti il sacrilegio contro la vita e la speranza troncata nelle stragi degli innocenti che vanamente le braccia di un padre tentò di sottrarre alla furia degli aggressori.■ Fine 1 parte


et les regrets d'Andromaque sur le corps d'Hector son mari (1783)

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uEditori: il catalogo qual è?

Ancora del Mediterraneo Intervista a Stefano De Matteis di Paolo Melissi - paolo.melissi@gmail.com l'avventura editoriale de l'ancora del Mediterraneo di napoli inizia alla fine degli anni '90 grazie a un'intuizione di stefano de Matteis, il cui intento è creare a napoli un polo editoriale e culturale in grado di “movimentare” la scena partenopea. l'esordio è subito “prezioso”: i titoli di gustaw Herling, Marco rossi-doria, camilla cederna, desmond tutu o günter grass ne sono la dimostrazione. il progetto di de Matteis è, al contempo, lungimirante e tiene conto anche di scrittori esordienti, si fa ricerca. nel catalogo della casa editrice fanno così la loro comparsa i nomi di antonio Pascale e roberto saviano. Poi, nel 2005, nasce il marchio cargo, diretto da Milena zemira ciccimarra, mentre al 2007 risale una fase di ristrutturazione e rilancio della casa editrice. il catalogo è strutturato in quattro collane: “alberi”, contenitore di saggistica e approfondimenti in campo antropologico e storico e, più in generale, dedicato alle scienze umane; “gomene”, riservata a pamphlet di attualità, inchieste; “odisseo”, nata per dare voce agli esordienti italiani e per la narrativa straniera; “le onde”, dedicata ai libri economici. tra i libri inseriti nella collana “odisseo” si segnalano Il futuro in punta di piedi di bruno arpaia, I lupi della notte di amor dekhis, Autoreverse di francesco forlani, La notte bianca dell'amore di gustaw Herling, Oltre il sipario di Juan goytisolo, Milano, la città di nessuno di alessandro zaccuri.

Com'è nato il progetto de l’Ancora? la prima cosa da dire è che il progetto de l‘ancora nasce dopo una mia lunga e variegata frequentazione dell’editoria: è il frutto degli anni che ho passato al nord, a Milano soprattutto. Vengo da una famiglia povera e i libri rappresentavano una conquista, l’appartenenza a possibilità che non ci erano

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date; incarnavano l’utopia di realizzare un mondo migliore, erano il riscatto individuale e sociale. Poi sono diventati essenzialmente uno strumento indispensabile per “capire il mondo”. e poi, come si diceva allora per “trasformarlo”. nel 1976 sono scappato da napoli: bazzicavo nell’area di lotta continua e lavoravo alla Mensa dei bambini proletari, era un periodo grigissimo, era la fine del movimento nato con il ’68, compagni che passavano alla clandestinità, lotta armata, sequestri… così dopo una veloce puntata a roma sono approdato a Milano, ancora molto attiva con i circoli giovanili, i gruppi di base e lì mi sono messo a cercare lavoro con la volontà di occuparmi di editoria. cosa difficile ma non impossibile. lì ho conosciuto il mondo che mi ha formato, ma che era anche completamente diverso rispetto a quello di oggi: la stampa era ancora a piombo e i computer non esistevano; gli indici dei nomi si facevano manualmente, una schedina per nome, da mettere in ordine alfabetico e da riprendere quando quel nome tornava… e quindi ho fatto quella che allora era considerata la solita gavetta: ho cominciato come correttore di bozze per feltrinelli, presso cui ho pubblicato anche il mio primo libro. Ho lavorato con giampiero brega fino alla crisi della casa editrice dell’’80-81. Poi sono diventato collaboratore di garzanti per l’enciclopedia europea: revisioni delle voci, apparati, bibliografie eccetera. si sono aggiunte poi consulenze con schede di lettura e infine le traduzioni. in quegli stessi anni, in parallelo, facevo una rivista di teatro, «scena». nelle case editrici si faceva un lavoro sui testi che oggi è impensabile per le major, mentre è una prassi per molti dei “piccoli” editori: traduzioni, revisioni, editing e tre letture per ogni libro, un lavoro che ha dei costi molto elevati e quindi lascia un margine di guadagno molto risicato. non mi è mancata l’esperienza della piccola editoria con la ubulibri di franco quadri. Ho chiuso la mia formazione milanese lavorando per Mario spagnol alla longanesi: anche qui gran lavoro di redazione, c’erano libri


su cui stavamo a discutere a lungo una pagina o a verificare le frasi che non ci tornavano in italiano. Per non parlare poi delle presentazioni ai librai e delle copertine seguite con una cura che qualcuno definiva maniacale ed estenuante.

stefano de Matteis

a tutto questo lavoro editoriale che mi dava da campare si affiancava un interesse per l’antropologia: per un verso ero affascinato da figure straordinarie il cui pensiero è ancora folgorante e attivo, come ernesto de Martino, il cui acume l’ha condannato all’estraneità ai panorami consolatori del pensiero “rigido” e lo ha costretto ai margini della cultura in generale, per non parlare di quella accademica; per un altro verso un’inesauribile curiosità mi portava a far ricerca al Warburg institute di londra, dove mi rintanavo a studiare, a leggere, a scrivere.

Veniamo ora alle “idee” che hanno caratterizzato la nascita de l’ancora.

l’unico rammarico, se ho un rammarico rispetto a quanto ho fatto fino a oggi, è quello di non essermi trasferito definitivamente a londra. e invece, quando la Milano da bere si è fatta indigesta ho preferito tornare a napoli. questo avveniva anche sull’onda delle novità che si respiravano nella prima metà degli anni novanta dello scorso secolo, nel paese e in città: il movimento dei sindaci, bassolino che si affermava come indiscussa novità, napoli che sarebbe dovuta diventare la città dei bambini e della cultura… ahimè ho creduto a quest’effervescenza e l’ho condivisa con amici come goffredo fofi. a napoli per prima cosa proprio con fofi abbiamo fondato una rivista, «zazà», un trimestrale di politica e cultura. la rivista è stata per me il primo contatto con gustaw Herling con cui è nato un vero e proprio sodalizio che si è poi rivelato fondamentale per la nascita della casa editrice per il contributo che gustavo – così come lo chiamavamo “in famiglia” – ci ha dato.

immaginavamo innanzitutto una produzione non localistica, con proposte di qualità per il mercato nazionale, di intervento e di dibattito, di analisi e di proposta, e che inoltre selezionasse quanto di più interessante veniva fuori dall’accademia, questo pur non pensando di costruire una casa editrice universitaria.

a napoli, nella capitale del sud, volevamo creare una impresa di cultura, cioè una casa editrice nazionale, slegata dall’università, indipendente dagli enti che finanziavano libri su libri che poi finivano nei loro magazzini. l’unico che prima aveva intrapreso questa strada era tullio Pironti che è stato sempre un amico e un generoso consigliere per le nostre attività.

ero consapevole della delicatezza del progetto che avevo in mente e soprattutto dello “slalom” che avrei dovuto fare per sostenerlo, e sapevo delle difficoltà necessarie per affermarsi. quanto meno ci sarebbe voluto molto tempo. anche perché non disponevamo di capitali importanti e di investimenti ponderosi, ma lavoravamo sui risparmi che amici generosi avevano messo a disposizione e su un mutuo che avevo fatto su casa mia. Va sottolineata la straordinaria partecipazione e solidarietà del gruppo degli amici che mi ha seguito in quest’impresa e che, in modi e forme diverse, hanno contribuito alla nascita con idee e suggerimenti, consigli e contributi: dal grande fotografo antonio biasiucci che ci ha dato meravigliose copertine, a consulenti d’eccezione, personali e culturali, come giovanni starace, gabriella gribaudi, fino ai numerosi autori che si sono prestati all’impresa. senza contare i già citati Herling e fofi. ricordo che avevamo istituito la regola della “catena di

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sant’antonio”: ogni amico, collaboratore, autore o consulente doveva fare da ponte verso altri nuovi possibili autori. quindi in ogni città d’italia individuavamo un referente interessato a organizzare una riunione dove farci incontrare le persone che lui riteneva potessero essere utili al progetto cui si chiedeva di arrivare con proposte, idee, nomi. ci sarebbe piaciuto raccontare il mondo reale, inviando scrittori a scavare nelle pieghe dei fatti, a incontrare gente. inchieste e reportage narrativi sono stati la mia “fissazione” dal primo momento. quindi pensavamo, ad esempio, di inviare uno scrittore del nord a stare per un periodo a san giuseppe Jato e un meridionale a caldogno. e vedere cosa ne veniva fuori. questo interesse narrativo ci imponeva anche di ripensare la saggistica: reportage e pamphlet sull’attualità, analisi di storie lette in contropelo, tutte legate all’attualità. Ma anche nella saggistica la ricerca dell’elemento narrativo è stato dominante. non dimentichiamo che l’ancora nasce dopo il crollo delle ideologie, dopo la caduta dei muri, ma anche dopo esperienze fondamentali in campo di ricerca come la microstoria che per me era un modello, non solo per la ricerca, ma anche per la centralità che carlo ginzburg e il suo gruppo davano alla narrazione. infine c’era l’elemento meridionalista che nella fase iniziale era molto forte: la volontà di riprendere la lezione dei grandi meridionalisti e approfondirla o riscriverla nell’attualità. durante il periodo preparatorio, con fofi che ha partecipato al progetto fin dalla nascita, facemmo numerosi incontri in giro per il Mezzogiorno per discutere il progetto con scrittori e autori: mi ricordo gli incontri con rocco Mazzarone o a Palermo dove vedemmo da letizia battaglia i Morreale fino a tutti gli amici che già avevano collaborato alle riviste che avevamo fatto fino ad allora (da «scena» a «linea d’ombra» a «zazà»).

Quali sono state le prime collane e i primi titoli pubblicati? bastavano due collane a realizzare tutto questo. una piccola, quasi tascabile, per le inchieste (le gomene) e una grande e tradizionale per la saggistica più corposa (gli alberi). siamo usciti con quattro titoli: antonio Pascale, La città

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distratta e carlo donolo, Questioni meridionali per le gomene; gabriella gribaudi, Donne uomini e famiglie e Lo sguardo da sud a cura di alessandra Mauro per gli alberi. Pascale si rivelò fin da subito una sorpresa, donolo era sulla scia dei libri di franco cassano ma affrontava le questioni in maniera più disincantata e critica, il libro di gribaudi fu molto letto e discusso e quello sui fotografi del Mezzogiorno fu un flop, forse condannato da una copertina che generosamente ci aveva regalato Mimmo Palladino ma che non l’aiutò perché non si capiva cos’era. Ma già il primo fu un anno significativo, perché oltre a questi si aggiunsero libri importanti e “duraturi” che mi confermavano nella strada intrapresa: Di mestiere faccio il maestro di Marco rossidoria, ad esempio, che oggi è alla terza edizione e nona ristampa e poi fofi con Le nozze con i fichi secchi. intanto poi c’era stato Herling con ricordare raccontare sui gulag e i lager…

Quali i titoli più venduti a oggi? l’obiettivo minimo che ci diamo per ogni libro è il pareggio dei costi. Ma per fortuna abbiamo avuto titoli che hanno avuto un buon seguito e realizzato più edizioni. a cominciare da Mauro giancaspro con Il morbo di Gutenberg e Palomba con le canzoni. Poi, a salire, ci sono stati cavaglion, rossi-doria, il primo Herling… Poi ancora più in alto il rilancio di camilla cederna, con un’antologia che fu un gran successo. Poi nel 2006 isaia sales con la storia della camorra Le strade della violenza. tra i più recenti abbiamo in vetta Il libro delle superstizioni di Marino niola e elisabetta Moro e, tra i nuovissimi, seguiamo con attenzione il libro su Tremonti e la grande lezione di luisito bianchi che speriamo entrino in classifica. e sicuramente ne ho dimenticato qualcuno. non faccio riferimenti ai titoli di cargo, di cui parleremo dopo.

Potete dire di avere una distribuzione sufficiente sul


territorio nazionale? In che tipo di librerie riuscite a ottenere la migliore visibilità? la distribuzione funziona. Ma ancor più importante è la promozione con cui in questo momento stiamo lavorando benissimo, ma molto, molto sodo per gli obiettivi che ci siamo dati. comunque con i libri cerchiamo di arrivare dappertutto: grandi librerie di catena, grandi superfici, piccole librerie indipendenti, catene di negozi di elettrodomestici, enoteche e wine bar… non si può perdere nessun segmento di mercato! soprattutto oggi! gran parte del lavoro, però, si fa a monte: quando comperi o commissioni un libro sai che potrebbe funzionare, ne intuisci le potenzialità senza alcuna motivazione diciamo razionale. Poi cominci a pensare a come deve essere presentato a chi lo potrebbe comperare… e lo fai partendo dal libro e cercando di capire come e dove quel libro in particolare può trovare spazio e come può essere notato. Poi ti confronti con la promozione e studi come presentarlo ai librai: l’esperienza della promozione è fondamentale per mettere a fuoco il migliore dei modi per trasformare quel libro in un successo. e poi ciascuno fa il suo mestiere. a questo si aggiunge il lavoro sui librai indipendenti e la volontà di individuare le librerie che possono fare da “fiduciarie” e quindi trovare per ogni città, grande o piccola che sia, una libreria che tiene gran parte del catalogo e alla quale possiamo indirizzare quei lettori interessati. È un lavoro capillare. Per una questione di occupazione di terreno nelle librerie e di abitudine per i librai, ho deciso fin dall’inizio che avremmo pubblicato due libri al mese; dopo dieci anni sono diventati tre. e mi paiono un’enormità perché spesso fatichiamo a starci dietro. ogni libro va curato, seguito: deve esprimere tutte le sue potenzialità e sparare tutte le sue possibilità commerciali. considera inoltre che non siamo più ai tempi di quando ho cominciato io, quando le case editrici avevano un numero imponente di dipendenti: le imprese oggi devono avere una struttura produttiva leggera, di poche persone. e, quando si è in pochi, seguire con la stessa cura tre libri al mese non è sempre facile. Per fornirti un po’ di dati, posso dire che rispetto alla media nazionale, in alcune regioni siamo nettamente sopra: in lombardia ad esempio vendiamo molto di più del 25-26%, che è il dato medio nazionale del consumo librario in quella regione. al contrario, mediamente in campania siamo sotto: evidentemente non facciamo prodotti appetibili per il folclore locale!

ed è naturale che tra le grandi catene il primo posto spetta alle feltrinelli perché, nonostante il dibattito e le critiche interne ed esterne, hanno una capillarità unica che smaltisce buona parte dal nostro prodotto.

Il catalogo evidenzia autori "d'eccellenza" sia per la narrativa sia per la saggistica. Come si fa a costruire un simile catalogo? inventandolo, creandolo dal nulla, commissionando i libri che si pensa possano funzionare ad autori che si pensa siano quelli giusti. e poi lavorando con gli autori, facendo loro da sponda e da spalla, aiutandoli espressivamente e letterariamente. e poi non demordere, non mollare mai perché l’unica cosa che ripaga è la qualità.

Quali sono le principali "strozzature" del mercato, cosa impedisce una migliore visibilità/attenzione da parte dei librai? come si è capito, vengo da un’altra epoca – quanto meno dal punto di vista editoriale! –, un’epoca in cui si lavorava di catalogo e ci si rafforzava della continuità del venduto grazie ai tempi lunghi che avevano i libri che si progettavano e si realizzavano. tutto questo lavoro oggi lotta con il mercato: le librerie sono diventate dominio esclusivo delle novità, dove si lavora a colpi di lanci sfrenati nell’attesa che uno dei libri gettati sul mercato faccia il botto ripagando il tutto. sono tutte cose che dopano il mercato: si acquistano autori a volte sconosciuti o di un piccolo e striminzito successo a prezzi esorbitanti, si lanciano autori in numeri eccessivi di copie sperando che questo porti “naturalmente” all’acquisto da parte del lettore. a volte sento dire da giovani autori che “l’editore ha creduto” in loro perché del romanzo ha deciso di metterne fuori venti o trentamila copie. questo porta a un unico risultato: inquinare il mercato e, spesso, rovinare gli scrittori. Perché certamente non è il quantitativo iniziale che fa il successo. all’opposto l’editoria è piena di casi di libri lanciati in tre o cinquemila copie che sono arrivati alle cento e alle duecentomila. ne mettono fuori trentamila, se va bene ne vendono duemila e il resto va al macero. uno su mille ha successo. questo fa sentire gli autori molto importanti, molto simili a stephen King o Wilbur smith, ma non si accorgono che così li fregano, li bruciano. lo stesso capita a quegli autori ai quali, se hanno un buon successo, gli editori gli chiedono subito un altro libro: in italia abbiamo autori da un libro l’anno, e nessuno di questi

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è un fenomeno alla amélie nothomb! e poi, questo modo di pensare nasconde una cosa ancora più terribile: suppone che il pubblico, l’acquirente, il consumatore, il cliente, chiamalo come vuoi, sia stupido e incompetente. cosa che non è assolutamente. il pubblico è attento e lo è ancora di più in situazioni di crisi, quando deve spaccare il centesimo. e allora o miri a un pubblico generico, televisivo, che si butta sulla pura degustazione dei best seller internazionali e legge gli autori lanciati dai grandi mezzi di comunicazione di massa, oppure hai un pubblico che è più attento, che segue con attenzione i propri gusti e sceglie con cura i propri autori. Provate a studiare i lettori, osservateli in libreria o alle fiere del libro e vi accorgerete che il pubblico, il lettore, non è imbecille. cercano guardano scavano, non si fidano delle quarte e leggono brandelli di pagine… lasciano e ritornano… al contrario spesso succede che sono le proposte delle librerie a essere inadeguate e spesso insensate, perché sembrano tante benetton e stefanel che offrono tutte lo stesso modello di t-shirt, e non variano, non diversificano. capisco che Vespa ha un numero di lettori altissimo e che questo porta guadagni immediati ma, come quei telespettatori che quando vedono Vespa cambiano canale, c’è una marea di lettori che si rifiutano di entrare dove si vedono sempre e solo gli stessi titoli e le stesse proposte e le stesse copertine e le stesse facce. se questa è la situazione delle librerie, molti titoli li vendi nel mercato parallelo che si è creato grazie a internet e quindi tramite le librerie online o direttamente dal sito. una volta le librerie erano molto diverse: proposte e disponibilità. con i librai che sapevano e consigliavano. oggi il libraio è una figura che sta scomparendo. certo, bisogna anche capire che è quasi impossibile pretendere attenzione da parte di librai che devono affrontare uno tsunami di settanta novità al giorno! e, come se non bastasse, i miei amici librai delle grandi catene mi dicono che oramai sono ridotti a fare i passacarte e ciò che gli viene negato è proprio il contatto con i libri: devono girare gli ordini che i computer sputano fuori, preparare i resi per quei libri che non “ruotano” a sufficienza e che il computer dice loro di rispedire al mittente… ciò che non 52

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gli è dato è toccare un libro o leggere un titolo o sfogliare un volume. in questa situazione come fanno a “fare” i librai? in una libreria ho assistito a una cosa meravigliosa, nel senso dello stupore che ha suscitato in me. stavo a roma, in libreria, vicino al punto informazioni. il cliente davanti a me ha chiesto un libro di goytisolo che avevamo pubblicato noi. la libraia subito fa la richiesta al computer. il libro non è disponibile ma si può richiedere. quanto ci vuole? diciamo una settimana. come mai così tanto? Perché deve arrivare da Venezia (tanto per citare una città a caso un po’ distante). come mai, perché non lo si può richiedere al distributore di zona? la spiegazione è una chicca: «l’autore è stato catalogato dal “sistema” come “bV”, che sta per “basso vendente”; ora delle copie acquistate dalla nostra catena, ce n’è ancora una da smaltire a Venezia; se lo ordiniamo al distributore corriamo il rischio che quella copia non riusciremo a farla fuori». quindi se il cliente vuole quel libro in questa libreria aspetta una settimana, altrimenti si rivolga altrove. non so se si trattava di una commessa eccessivamente zelante, ma certo è che io non ho venduto una copia di quel libro e loro né si sono liberati di quella esistente a Venezia, né ne hanno venduta una presa al magazzino. un risultato eccellente per tutti! naturalmente questo apre un’altra questione che non mi riguarda più come editore ma come lettore: sono un rappresentante della categoria dei lettori forti in quanto, per piacere e per mestiere, compro ben più di un libro al mese. il problema è che sono orfano di libreria, perché né a napoli né a roma trovo una libreria adatta dove andare a guardare, vedere, curiosare, trovare le novità, con libri ben esposti…

Quali valutazioni hanno spinto alla creazione del marchio editoriale Cargo? all’inizio l’ancora si è dedicata esclusivamente alla saggistica anche se, come ho detto, puntavamo alla narrative no fiction. Poi abbiamo provato a lanciare qualche esperimento di narrativa. Ma questi non ci hanno dato le soddisfazioni necessarie. e allora nel 2005 abbiamo deciso di creare un marchio parallelo e indipendente dedicato esclusivamente alla narrativa. sapevamo che neanche in questo caso


sarebbe stato una cosa facile da realizzare, ma ci siamo lanciati in quest’altra avventura. Poi nel 2007 abbiamo proceduto a una ristrutturazione generale: cambio di promozione, aggiornamento della linea grafica che è stata completamente ridisegnata e il progetto di cargo è stato affidato alla direzione editoriale di Milena zemira ciccimarra che l’ha trasformata in un marchio che pubblica esclusivamente fiction straniera. il nuovo piano editoriale ha portato a dei risultati eccellenti con la scoperta e il lancio di autori che hanno avuto da subito un ottimo successo e che sono diventati “gli” autori della casa editrice: Howard Jacobson, lore segal e molti altri. Ma qui io mi fermo perché per le scelte, la politica editoriale e il progetto editoriale devo cederle la parola.

Come si è strutturata la sua identità, la sua proposta? credo sia legata principalmente all’attualità politica e culturale. all’indipendenza, alla libertà nella proposta, alla capacità di critica. questo ci ha portati a essere etichettati a volte di sinistra, altre di destra. come mi ha insegnato gustaw Herling una vera libertà non può avere schemi o pregiudizi. e comunque tutto questo è possibile solo grazie agli autori. a rossi-doria e cavaglion, a fofi e laffi si sono aggiunti Marco imarisio e nello scavo, la prima pubblicazione del processo spartacus, fino a Michele boldrin e al gruppo dei noise from amerika e a luisito bianchi…

poter attraversare il mare in cerca di fortuna altrove. un libro che “naturalmente” nessuno ha comperato, perché non è facile che gli italiani si occupino dei guai, poi dei guai degli altri figuriamoci. lo scorso anno abbiamo presentato in anteprima mondiale un libro sui nuovi pirati. quest’anno abbiamo invece uno scatenatissimo scrittore e giornalista americano che ha girato il medio oriente alla ricerca delle influenze della cultura pop. Per scoprire che lì dove comandano gli sceicchi c’è tutto un sistema culturale cui le opere straniere sono sottoposte, per mettere in atto una specie di riscrittura, di adattamento in modo da poter poi accedere al mercato arabo. suppongo che tutto questo lavoro crei identità. tieni conto che, comunque, l’editoria è l’unico settore dove il tempo ha ancora un valore essenziale, sempre che tu voglia fare dei libri che restano e che siano di riferimento. credo che da questo punto di vista siamo uno dei pochi editori italiani che non ha pubblicato una riga sul premier: argomento su cui si sono costruite infinite rendite di posizione.

Quali sono gli autori e i titoli che considerate "di punta"? Per quel che riguarda l’ancora i titoli e gli autori sono tanti: quelli che ristampiamo di continuo o gli autori che continuiamo a pubblicare. se mettiamo su una bilancia il nostro catalogo per fortuna gli evergreen pesano molto di più dei nevergreen.■

e poi anche agli autori italiani si sono aggiunti gli scrittori stranieri di reportage internazionali. due anni fa l’indagine sull’emigrazione: un bellissimo libro di un importante giornalista francese che ha ricostruito il modo in cui gli uomini vengono venduti e comperati per

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uMeridione d’inchiostro

Nicola Lagioia, lo sguardo del sopravvissuto di Giovanni Turi - gt1983@libero.it

nicola lagioia è nato a bari nel 1973 e, terminati gli studi di giurisprudenza, ha perseguito la sua vocazione letteraria lavorando nel settore editoriale e pubblicando, nel 2001, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi). attualmente è il direttore editoriale di nichel, collana di narrativa italiana della minimum fax: la casa editrice romana che ha pubblicato il suo esordio narrativo. Perché inaugurare con lui una rubrica dedicata agli scrittori meridionali? innanzitutto per la peculiarità di rappresentare un caso letterario senza eccessivo clamore, di essere un funambolo/scrittore che nelle sue opere attraversa il baratro della contemporaneità in precario equilibrio sulla corda della letteratura, servendosi come asta del disincanto e dell’ironia. e con il suo ultimo lavoro, Riportando tutto a casa (einaudi), ha dimostrato di aver realizzato l’improbabile sintesi tra riflessione e narrazione, di aver trovato l’esatta misura del limite alla sperimentazione per ridefinire i confini del romanzesco e tracciare quelli della nostra società, a partire dal suo collasso negli anni ’80. Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) è un metaromanzo che dissacra tutti i cliché letterari: la droga non è un paradiso artificiale, i patimenti amorosi sono semplicemente uno stillicidio, tolstoj diventa un sornione giocatore di scacchi con cui si intrattiene la coscienza (sporca) del protagonista. una pirotecnica esplosione di inventiva/invettiva: “l’arte nel XXi secolo è un’immagine riflessa in uno specchio d’acqua che la vostra distrazione non saprà cogliere e i vostri tentativi di profondità manderanno in frantumi”; si tratta appunto di un “tentativo di profondità”, che consegna al lettore preziosi frammenti, ma pur sempre di cocci si tratta… in Occidente per principianti, pubblicato nel 2004 da einaudi, il divertissement si fa più strutturato, ma non meno incisivo: basti dire che il protagonista è un ghost writer, scrive articoli giornalistici che non potrà firmare, appartiene all’indefinita categoria del precariato intellettuale e insegue l’icona di rodolfo Valentino. ossia, mentre la realtà si plasma sempre più sul modello degli show televisivi, ribaltando l’assetto originale dei rapporti di dipendenza, l’intellighenzia che dovrebbe e potrebbe arginare la deriva

si dissolve tra i flutti (difficile stabilire se in maniera preterintenzionale o meno). È il sapore agrodolce della verità disvelata e dell’impotenza della consapevolezza quello che lagioia offre al lettore, ma anche l’analgesico di colti richiami cinematografici e letterari; i cocci qui iniziano a ricomporsi in eclettica armonia. il complesso percorso creativo di lagioia, che dall’analisi giunge alla rappresentazione, trova speculare riproduzione in Riportando tutto a casa, edito (sempre da einaudi) nel 2009. la voce narrante ripercorre gli opulenti e devastanti anni ’80 a bari, e il suo è lo sguardo del sopravvissuto, di colui che ha visto incrinarsi senza rimedio certezze e speranze. Via via che l’indagine storico-sociale e la (sorvegliata) deflagrazione linguistica si stemperano nel ricordo dell’adolescenza dei tre protagonisti, il romanzo e lo stile trovano levità e compiutezza: le brame di ascesa sociale degli arricchiti, la banalizzazione dell’intrattenimento e la spettacolarizzazione della cronaca nella televisione commerciale, la conflittualità con e tra i genitori, la droga come devastante illusione di fuga e di protesta, diventano lo sfondo delle disperate esistenze dei tre ragazzi, accomunati non tanto dal frequentare la stessa classe del liceo baronio, quanto da un sordo disagio. l’autore suggerisce che bisogna partire dagli anni ’80 per comprendere il presente e che non è più possibile tornare indietro, ritrovare la misura, riportare tutto a casa: “non si perde quello che non si è mai avuto, non si ha quello che non si è mai perso”.

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abbiamo intervistato nicola lagioia per comprendere meglio la sua poetica e il suo pensiero, pur conoscendo il suo assunto per cui i libri ne sanno più dei propri autori… Nei tuoi romanzi il desiderio di fuga (da se stessi, dallo show business, dall’ipocrisia sociale) si associa sempre all’intrinseca consapevolezza che non esista un altrove possibile: neanche quello letterario? Dove trovare dunque un appiglio? Viviamo letteralmente immersi nell’acquario della cosiddetta società dello spettacolo, vale a dire la scenografia e l’apparato narrativo del capitalismo avanzato, a propria volta il luogotenente dell’età della tecnica, pura e semplice e cieca volontà di potenza e di prevaricazione, una macchina celibe con licenza di uccidere perfino se stessa. in una situazione del genere, un altrove io non riesco a vederlo. anche un altrove letterario e agiografico: la tangeri di burroughs, tanto per dire, è ormai solo un ricordo. Più che tempo di fuga credo sia tempo di bonifica. bonifica anche interiore: disintossicarci dall’aria che ci circonda e che ci ha cresciuti e in qualche modo contaminati (ha alimentato il nostro più o meno conscio desiderio di carriere, gratificazioni stupide, riconoscimenti sociali ancora più stupidi e in fin dei conti sempre frustranti sulla lunga distanza) è a mio modo di vedere l’unica via per guadagnarsi uno sguardo diverso e finalmente nuovo. dunque anche per essere all’altezza di un desiderio di tipo nuovo. bisognerebbe insomma riscoprire il rigore e soprattutto la bellezza di una vis eretica che (di questi tempi, se siamo ancora umani) non può non

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riposare in ciascuno di noi.

La tua scrittura è torrenziale e misurata, lucida e onirica, barocca e acuta; quali sono stati i tuoi maestri di stile e come mai manifesti tanto

scetticismo nei confronti della critica? non sono scettico nei confronti della critica. io apprezzo la critica, credo sia necessaria quando parla con la competenza di un Harold bloom, l’erudizione scoppiettante di un arbasino quando scopriva bene, la profondità di un girard, la mobilità di un barthes o di un deleuze, perfino la morbosità di un bataille o il patriottismo polveroso di un de sanctis, a patto che si conosca tanto bene la storia sociale e linguistica della letteratura di cui si parla. Ma oggi, molto spesso – con le dovute eccezioni, spesso di gran livello – si spacciano per “critico letterario” persone che al massimo sono lettori forti che a furia di leggere libri – e neanche tanti – hanno come tutti maturato un’opinione. Ma hanno scritto – tanto per dirne una – il loro Menzogna romantica e verità romanzesca? spesso tra l’altro non sono neanche professionisti: è gente, tanto per dirne una, che non ha manco letto tutta la Recherche o il Finnegans Wake. tu te lo vedi un professore di fisica o perlomeno uno storico della scienza che non conosce le equazioni di einstein o di bohr? quanto alla prima domanda, ho molto amato e amo tuttora scrittori come faulkner, fenoglio, busi, bolaño, Proust, beckett, Woolf… ce ne sarebbero molti altri. diciamo allora che vado d’accordo con modernismo, espressionismo, massimalismo.

Tutti i tuoi personaggi sembrerebbe che abbiano qualcosa che ti appartiene, ma al contempo che ti siano estranei; in letteratura nulla è strettamente autobiografico, eppure non si sfugge da se stessi? il mio motto su questo tema è questo: per il fatto di


essere filtrata attraverso una lingua e una struttura letteraria, anche la più autobiografica delle vicende non è tale, anzi è il suo contrario; contemporaneamente, nessuno ha notizia di uomini tramutati in scarafaggi nella Praga del 1915, eppure nessun racconto è più autobiografico della Metamorfosi di Kafka.

I tre protagonisti dell’ultimo romanzo non accettano che il successo sia diventato “il valore di scambio per ogni aspetto dei rapporti umani”, eppure si dimostrano anch’essi incapaci di instaurare un dialogo sincero, la loro intimità diventa intensa solo quando condividono il silenzio; cosa li inibisce? il fatto, come dicevo prima, che sono dei contaminati. Per dirla con Pasolini, noi siamo la mutazione antropologica. e dunque nessuno di noi, credo, può permettersi di posizionarsi al di qua del guado, e dire con solennità come il poeta friulano: “sono una forza del passato”.

I tossici «avevano fatto del proprio stesso corpo una protesta e uno scandalo vivente»; ora che la fisicità è stata esposta (e resa innocua) in ogni declinazione, per ribellarsi non resta che lasciare che anche l’anima venga violata/violentata? E dopo? dopo, semplicemente, la razza umana come l’abbiamo conosciuta non esiste più. ammesso che desideriamo

nel profondo che questo non avvenga, ognuno di noi dovrebbe sentirsi chiamato in causa per scongiurare il pericolo.

«L’unica ideologia a cui il Meridione d’Italia si fosse mai davvero interessato era la necessità di trovare un rimedio adatto ai tempi per perpetrare se stesso»; non credi che oggi il Mezzogiorno si dibatta proprio per rinnovarsi? Come possono i giovani del Sud affermarsi nella propria terra? Prenderei cautamente la bella stagione che sta vivendo la Puglia come la classica rondine che non fa necessariamente primavera. stare a vedere e confidare per il meglio. il Mezzogiorno d’italia oggi significa intanto come minimo tre regioni in mano alla criminalità organizzata. non mi sembra che dalla campania, dalla sicilia, dalla calabria giungano segnali incoraggianti. sulle opportunità offerte ai giovani del sud girerei la domanda a chi ci amministra e ci governa. io, per esempio, dodici anni fa sono stato costretto ad andare via.■

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uFrench connection

Quando un lavoro non è E vice-versa. di Angelica Gherardi - angelica.gherardi@libero.it

Ho un debole, non so se vergognoso o meritevole, per i romanzi di James rollins. Per chi non li conoscesse, sono romanzi d’avventura, a metà tra James bond e indiana Jones, con agenti segreti buoni e cattivi, reperti archeologici, ritrovati della tecnica all’avanguardia, leggende antiche… gli appassionati del genere corrono a rifornirsi in libreria appena ne esce uno nuovo non aspettando la pubblicazione in tascabile per sapere in che guaio si sarà cacciato questa volta grayson Pearce e come col suo capo Painter crowe salverà il mondo. nelle ultime settimane quindi in molti si sono recati in libreria a prendere l’ultimo nato di rollins, pregustandosi la lettura che avrebbero smesso, ça va sans dire, solo dopo aver letto anche i “titoli di coda”, compresi lo stabilimento nel quale è stato finito di stampare e il codice a barre. Poi rimaneva solo da iniziare la cerimonia, iniziando quella che è quasi una cerimonia quando ci si trova con un nuovo libro tra le mani, prima a guardarlo, poi ad accarezzarlo, ad odorarlo, poi per alcuni, a distruggerlo un po’, staccando la prima pagina sempre un po’ incollata sulla seconda, e l’ultima alla penultima, con quella fastidiosa linea di colla che oramai si trova anche nei libri rilegati. in fondo, un libro è un po’ come un amante, e come tale va trattato.

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anche io quindi mi sono piegata a questo rituale e ho iniziato la lettura. dopo poco però ho cominciato ad avvertire un leggero senso di fastidio. all’inizio era abbastanza indefinito. in fondo, è normale che non tutti i libri dello stesso autore siano dello stesso livello, forse questo era meno accattivante degli altri. e poi, dopo poco, ho capito. la traduzione! Ho quindi immediatamente preso il romanzo precedente che avevo trovato assolutamente meraviglioso (ovviamente, stiamo sempre parlando di avventura, non di quei libri che ti cambiano la vita) e controllato: traduttori diversi. e mi sono resa conto che il fastidio era nato già per lo stile, e che la rivelazione era arrivata con il primo errore di costruzione della frase. al quale ne seguiranno altri, sempre di costruzione, ma anche di concordanza delle persone e dei tempi, dei termini. non la traduzione peggiore del mondo, per carità, ma questo signor gasperi, il traduttore, ha pur sempre levato parte del piacere della lettura, in alcuni momenti addirittura facendo fare più attenzione alla forma che al fondo, lasciando i puristi col fiato sospeso in attesa non della rivelazione a sorpresa ma del suo prossimo errore. dopo questa lunghissima introduzione arriviamo al cuore dell’argomento: la traduzione letteraria è un lavoro vero. non ci si può improvvisare traduttori di romanzi solo perché si è laureati in lingue e si è capaci di intrattenere una conversazione a spron battuto in una lingua straniera. in realtà credo che i requisiti necessari per svolgere questo lavoro siano almeno tre: conoscere la lingua straniera non per averla studiata ma per averla vissuta, parlata, e anche doverosamente maltrattata, in mezzo a coloro per cui è lingua madre, calpestandola insieme a loro e osannandola insieme a loro, passando dal linguaggio del bronx o delle banlieue a quello di boston o dei salotti parigini. e qui vorrei fare un primo esempio, di cui avrete la bontà di perdonarmi la scurrilità e volgarità, ma è calzante. il verbo “chier” in francese significa letteralmente cagare. Ma la sua trasposizione in espressioni o aggettivi significa tutt’altro: “chiant” non significa cagante bensì noioso, e “faire chier” non ha niente a che vedere con “far cagare” ma significa rompere i coglioni. queste ultime due espressioni sono


per forza un mestiere.

talmente correnti che hanno quasi del tutto perso la loro accezione volgare. ora, nel libro l’Évangile de Jimmy, di diedier van cauwelaert, tradotto in italia e pubblicato da barbera (il Vangelo di Jimmy), uno degli errori di traduzione è proprio questo: al momento in cui un personaggio dice ad un altro “tu fais chier”, il traduttore interpreta con “fai cagare”, invece di “rompi”, o “che palle che sei”, stravolgendo il senso della frase. secondo requisito: bisogna conoscere altrettanto bene, perfettamente, la propria lingua, o, meglio, direi la propria lingua madre, perché anche l’altra deve essere la propria lingua, magari padre. il che significa che bisogna avere non solo un vasto vocabolario ma anche possedere la grammatica. quante volte ho letto o sentito anche giornalisti sbagliare la consecutio tempore in frasi tipo “credevo, o bisognerebbe, che sia…” ogni volta mi si accappona la pelle. e i congiuntivi? ecco, ad esempio, nell’ultimo rollins mancano almeno la metà dei congiuntivi. È vero che in inglese il congiuntivo non esiste, ma, signor gasperi, in italiano sì. infine, c’è la sensibilità letteraria. non si traduce un romanzo come si tradurrebbe il consuntivo di un’azienda o il libretto delle istruzioni di un elettrodomestico. né si deve trasformare lo stile dell’autore in qualcos’altro, per

ignoranza o per supponenza. ad esempio, avete mai letto Harry Potter? il primo Harry Potter fa parte di quei libri che in casa mia hanno lasciato il segno, non in senso figurato: l’ho scaraventato contro a un muro dopo qualche pagina. Poi me lo sono procurato in versione originale. e lì ho scoperto che J.K. rowlings ha un inglese complesso e articolato, un vocabolario molto esteso, e che è molto più complesso da leggere per un non madrelingua di quanto non lo sia ad esempio un giallo di Michael connoly. la rowlings ha scritto dei romanzi per i bambini, non per questo ha semplificato il linguaggio, pensando che i piccoli inglesi fossero degli ignoranti e che

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la stele di rosetta, british Museum

tali dovessero rimanere. la versione italiana, invece, era destinata a piccoli dementi ignoranti, con un vocabolario di circa 300 parole e senza un congiuntivo. non sia mai i nostri piccoli dovessero fare uno sforzo e imparare qualcosa. e dire che una volta persino in topolino c’era una straordinaria proprietà di linguaggio. Mi è stato detto tempo fa, ma non so se è vero, che dopo i primi due volumi la casa editrice ha cambiato traduttore, soprattutto dopo aver notato che la saga del piccolo mago era letta anche dagli adulti. tra l’altro facendo una ricerca in rete si trova un articolo di wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/traduzione_in_italiano_di_Harry _Potter) che sottolinea diversi errori di traduzione (ma senza soffermasi sullo stile) e spiega alcune difficoltà esistenti per rendere in un’altra lingua il senso originale di alcune parole. e qui ancora una volta ci troviamo davanti alla sensibilità letteraria, e forse anche al genio o meno, di un traduttore. alcune opere, o autori, sono quasi impossibili da tradurre. ne è un esempio san-antonio, di cui ho scritto recentemente sul blog in un articolo dedicato al libro che lo ricorda. sulle traduzioni dei romanzi che raccontano le epiche gesta del commissario san-antonio troviamo un interessante articolo in rete:

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http://www.commissariosanantonio.it/traduttori.htm qui viene sottolineato come siano stati il genio e l’immaginazione di due traduttori a far sì che la versione italiana assomigliasse il più possibile a quella originale, laddove l’autore usa giochi di parole, termini inventati, argot (lo slang francese) a non finire… esempi di traduzioni belle o brutte purtroppo se ne potrebbero fare all’infinito, e gli errori risalgono anche a tempi non sospetti, basti pensare a come sono stati tradotti alcuni titoli di classici della letteratura francese: il proustiano Du côté de chez Swan, non significa Dalla parte di Swan, come è stato tradotto, ma dalle parti di swan, che ha tutt’altro significato. e che dire di quel povero Le Père Goriot di balzac, diventato in italiano Papà Goriot? “le Père qualcosa” in francese è sicuramente difficilmente traducibile in italiano, ma uno sforzo andava fatto: il senso è quello dato in romano da “sor” o “sora” al femminile. immaginate un po’ se invece di dire “la sora lella” o “sor Peppino” uno dicesse “mamma lella” e “papà Peppino”. Vi suona uguale?■


Traduttore, traditore. Detto popolare

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uCantautori: per rispetto chiamati artisti

Rino Gaetano Il senso del nonsense (prima parte) di Annalisa Castronovo - annalisa.castronovo@gmail.com nonna che li aveva accuditi fino alla loro partenza per roma. Probabilmente l’uno e l’altro. Ma non solo. infatti, nel 1973 il pezzo viene pubblicato su un 45 giri (contenente sul lato b anche Jacqueline). Kammamuri’s è la scritta che sul disco fa da pseudonimo a gaetano (non più Bacom); Kammamuri era il nome dato da emilio salgari a uno degli aiutanti del suo sandokan (la famosa tigre della Malesia, raffigurata non a caso sulla copertina), innamorato – guardate un po’ – di una certa Marianna. il primo disco di rino gaetano fu prodotto da aurelio rossitto (fonico dello studio 38), antonello Venditti e Piero Montanari (da cui l’acronimo RosVeMon). intanto l’artista, ormai scampato a un futuro da impiegato di banca, approfondisce le opere di ettore Petrolini e del rumeno eugen ionescu.

negli stessi anni in cui si affacciava al panorama musicale il Principe, sboccia un altro fiore all’occhiello del cantautorato italiano: rino gaetano (per l’anagrafe salvatore antonio gaetano). nato il 29 ottobre del 1950, in pieno dopoguerra, a crotone, in calabria, si trasferisce all’età di dieci anni nella capitale, con la sorella anna, al seguito dei genitori, in futuro portieri presso uno stabile di via nomentana nuova. dopo aver intrapreso gli studi per diventare geometra, comincia a interessarsi allo spettacolo, dapprima avvicinandosi al teatro (recitando in opere di Vladimir V. Majakovskij, samuel beckett, carlo collodi) e successivamente, ma non esclusivamente, alla musica. avendo iniziato a frequentare il Folkstudio ed esibendosi nello stesso, fu esortato da antonello Venditti a fare un provino alla it di Vincenzo Micocci. la canzone in questione – già incisa nel ’72 e mai pubblicata, come La ballata di Renzo, per la bell disc di Milano – era I love you Maryanna, secondo alcuni un gioco di parole tra Marianna e marijuana, secondo la sorella anna un omaggio alla cara

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l’anno successivo arrivò l’album Ingresso libero (l’unico a non trarre il nome dalla prima traccia) che dà accesso a nove canzoni, tra queste Tu, forse non essenzialmente tu, che si chiude tra le condizioni reali («avrei bisogno sempre di un passaggio/ Ma conosco le coincidenze del 60 notturno») e la sua passione per la notte («tu, forse non essenzialmente tu/ e la notte confidenzialmente blu/ cercare l’anima»), ricordate più tardi anche da antonello Venditti: «i suoi amici eravamo io e de gregori che quotidianamente lo vedevamo. io ero addetto a portarlo a casa ogni sera. siccome abitavo in Via zara, che era sulla strada, perché si trova sulla Via nomentana venendo da Porta Pia, lo portavo a casa di notte e di giorno. ero l’unico che aveva la macchina anche se non avevo i soldi per metterci la benzina, però insomma la macchina ce l’avevo». e il blu della notte e dell’anima torna nelle foto all’interno delle falde del disco. la seconda traccia, invece, Ad esempio a me piace


il sud – incisa precedentemente da nicola di bari, per il quale scrisse anche altri brani – esprime l’amore romantico di rino gaetano per il Meridione, le sue campagne e le sue lampare, le usanze e la genuinità della vita contadina, amore che egli però fatica a condividere con altri («sì, devo dirlo, ma a chi?/ se mai qualcuno capirà/ sarà senz’altro un altro come me»), senza trascurare – comunque – lo spirito di denuncia che ne contraddistinguerà il percorso artistico («ad esempio a me piace rubare/ le pere mature sui rami se ho fame/ e quando bevo sono pronto a pagare/ l’acqua che in quella terra è più del pane»). Poi si passa dal tempo futuribile di AD 4000 d.c. all’amore neanche tanto futuribile di Supponiamo un amore, al cuore straziato di Agapito Malteni il ferroviere che vede e non capisce «la gente che abbandona spesso il suo paesello/ lasciando la sua falce eugen ionescu in cambio di un martello/ ricorda nei suoi occhi, nel suo cuore errante/ il misero guadagno di un bracciante» (con il lampante riferimento all’emblema dei partiti comunisti, ma la canzone resta incentrata sull’emigrazione), all’apparentemente innocua I tuoi occhi sono pieni di sale (su cui tornerò nel prossimo numero), a L’operaio della Fiat «La 1100» un po’ fantozziana, il cui intro mi pare pressoché identico a quello di Dolce amore del Bahia di francesco de gregori uscita lo stesso anno. cosa avevano ascoltato i due amici? chissà?! il successo lo stava aspettando nell’estate nel 1975,

quando il singolo Il cielo è sempre più blu, che già lì per lì pare abbia venduto oltre 100.000 copie, lo proiettò verso i grandi palchi. la canzone – che per intero sfora abbondantemente gli otto minuti – sul 45 giri uscì spezzata in due parti, una per lato, dopo essere stata censurata (per i versi: «chi tira la bomba/ chi nasconde la mano» e «chi canta baglioni/ chi rompe i coglioni»). il brano, per nulla volgare, urla le contraddizioni dell’italia degli anni settanta, affatto distanti da quelle di quarant’anni più tardi, con tutta l’orecchiabilità tipica del cosiddetto tormentone (ripreso nel 2003 in forma remix da dJ Molella e nel 2009 da giusy ferreri). nel 1976 è la volta di Mio fratello è figlio unico. questo il titolo dell’album e del primo pezzo al suo interno. l’espressione ossimorica o – forse, meglio – paradossale descrive con forza l’esistenza sempre più rara di certa gente. gente autentica che non trova la sfacciataggine di farsi grande, di comprare i sentimenti, di rivendicare più di quanto le spetta, di navigare nell’oro, di giudicare a priori; gente che ancora ha dei valori, che ha i piedi per terra, che riesce a vivere senza farsi troppe domande (c’è anche il detto: “chi si fa i fatti suoi campa cent’anni”), che è in grado di riconoscere «che esistono ancora gli sfruttati, i malpagati e i frustrati» come rino gaetano accorato ripeterà in vario modo per tutta la canzone, alternando a quell’odio subìto la dichiarazione d’amore dell’italiano medio per una certa Mariù, vezzeggiativo meridionale del nome italiano più comune. Ma questa è solo la mia personalissima interpretazione del testo di gaetano. il brano ha fatto da colonna sonora nel 2004 al film di guido chiesa Lavorare con lentezza (titolo questo dell’omonima canzone di enzo del re, riproposta al grande pubblico nel suo caustico intervento al concerto del Primo Maggio 2010 a roma) e 2010 • Sul Romanzo

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vanga – intrecciati e in parte autobiografici (rosina era davvero una sua zia e rita, citata nella stessa canzone, era una cugina), che lasciano l’ascoltatore tra un misto di nostalgia, introspezione e riflessione sul tempo, la società e le sue contraddizioni.

ha ispirato nel 2007 il titolo del film di daniele luchetti con elio germano e riccardo scamarcio. Berta filava, invece, è un altro successo del ’76 (uscito dapprima come singolo). il detto italiano “È passato il tempo che berta filava” sottolinea le differenze tra passato e presente e, secondo taluni, questo è lo scopo della canzone. Ma mi pare poco. alcuni sapranno che berta è la protettrice delle filatrici, nonché la madre di carlo Magno, pochi altri sapranno che berta era pure sorella di quest’ultimo. sorella che ebbe l’impudenza di innamorarsi di un certo Milone, condottiero senza titolo nobiliare; incinta, fu esiliata col suo amato e a sutri (Vt) sulla strada per roma, in una grotta, partorì un bambino («e nasceva il bambino/ che non era di Mario/ e non era di gino»), un giorno il neonato rotolò lungo un pendio e la madre esclamò: «oh! le petit roulant», da cui il nome rolando (o orlando), che diverrà prima re del carnevale a sutri e poi Paladino di francia, col compagno oliviero, una volta ricongiuntosi allo zio. re del carnevale? lo stesso re del carnevale che nel Medioevo (e non solo) in varie regioni d’italia da uomo di bassa classe sociale veniva eletto dalla popolazione, portato in processione, lodato e deriso, prima di essere bruciato sul rogo («berta filava/ e filava la lana/ la lana e l’amianto/ del vestito del santo/ che andava sul rogo/ e mentre bruciava/ urlava e piangeva/ e la gente diceva:/ “anvedi che santo/ Vestito d’amianto”»), ma prima il “buffone” faceva un testamento in cui denunciava «i soprusi subiti dalla comunità» (come spiega un intervento a carattere antropologico di giorgio rini), proprio come era solito fare rino gaetano. anche stavolta questa originale chiave di lettura è stata partorita da me; quindi: chissà?! il disco si chiude con tre pezzi – Rosita, Al compleanno della zia Rosina e La zappa... il tridente il rastrello la forca l’aratro il falcetto il crivello la

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un anno dopo, invece, arriva Aida. la title-track ripercorre oltre mezzo secolo di storia d’italia. il bel Paese viene invocato come una donna altrettanto bella, aida, appunto (il nome evoca l’opera commissionata a giuseppe Verdi, circa un secolo prima, dal kedivè d’egitto per celebrare l’inaugurazione del canale di suez), che rivive il proprio percorso attraverso una carrellata di immagini fatte di religione, di paure, di motti bellici («alalà!» è, infatti, il grido di guerra che gabriele d’annunzio prese a prestito da Pindaro ed euripide per farne un’esortazione fascista contrapponendolo all’americano “hip, hip, urrà!”, anche se pare che urrà sia di etimo slavo o germanico e usata dai cosacchi), di divi del cinema («Marlene» dietrich e «charlot»), di guerra (la grande guerra scoppiata a seguito dell’assassinio dell’arciduca francesco ferdinando il 28 giugno 1914, «e dopo giugno il gran conflitto / e poi l’egitto/ un’altra età/ Marce, svastiche e federali», dunque anche la seconda guerra Mondiale, l’arrivo in egitto nel ’40 e i nazisti), di dopoguerra, di compromessi (quello “storico” proposto da enrico berlinguer alla dc), di terrorismo, di stalin (il noto soprannome del leader dell’urss dal ’24 al ’53), di costituente (l’assemblea costituente della repubblica italiana che si riunì, infatti, tra il ’46 e il ’48), di corruzione (sembra che «fra antilopi e giaguari» si riferisca al nome in codice Antelope Cobbler, usato per indicare un politico italiano corrotto coinvolto


nello scandalo lockheed, riguardante l’omonima azienda aeronautica statunitense e le forniture di aerei italiani negli anni settanta). Ma aida – si sa – è sempre bella! nell’lP segue Fontana chiara, «un poco dolce, un poco amara», come recita il testo – tutto condensato in queste otto parole – che sembra un essenziale cenno alla strage di piazza fontana (1969) e forse anche alla dolcezza dei versi di georges brassens, tradotti e adattati dal francese da fabrizio de andré ne Nell’acqua della chiara fontana in Volume III (1968). la terza traccia è Spendi spandi effendi, che fotografa l’italia dell’austerity economica seguita alla crisi petrolifera del ’73, un Paese in cui l’italiano medio, innamorato di donne e motori, si affida al fato per realizzare i propri sogni, è l’immagine del giocatore d’azzardo con cui più tardi zygmunt bauman descriverà il tipico abitante occidentale della contemporaneità (che il sociologo definirà modernità liquida), figura opposta – per gaetano – all’Effendi, antico titolo attribuito ai funzionari del sultano: «Pace, prosperità zygmunt bauman e lunga vita al sultano/ spendi, spandi, spandi, spendi effendi». Poi c’è Sei ottavi che, invece, trasporta in una dimensione medievaleggiante, grazie al tempo scelto – sei ottavi, appunto –, all’accostamento della dolce voce di Marina arcangeli a quella ruvida di rino gaetano, agli

archi, ai prìncipi e all’atmosfera, che pure anticipa l’erotismo di Gianna. il cuore del disco è Escluso il cane, affermazione di solitudine e smascheramento di false amicizie, false unioni, falsi rimedi e false soluzioni: «escluso il cane/ tutti gli altri son cattivi/ Pressoché poco disponibili/ Miscredenti e ortodossi/ di aforismi perduti nel nulla». su La festa di Maria si sono sbizzarriti in tanti, per qualcuno antifemminista, per altri legata al rosacrocianesimo e alla Massoneria – come diranno di tanti testi e frammenti della vita di rino gaetano –, ma francamente diffido di simili congetture. con Rare tracce si ritorna all’inerzia di chi ha il potere: «rare tracce/ di gente che lavora/ che produce/ quando chiede nulla scuce/ a un sistema che non va». Standard canta, difatti, il coro della penultima canzone fra i nomi un po’ derisi di cantautori e di figure chiave della politica del tempo (ironicamente malcelati e “tradotti”), nonché tra assortite frasi a effetto altrui. infine, Ok papà è il gioco ironico di una paternale inconsueta a un bambino, il brano si apre con un riff di chitarra che, per volere di gaetano – secondo il chitarrista luciano ciccaglioni –, doveva riprodurre il coccodè della gallina. si chiude così il terzo lP e siamo giunti a circa metà della produzione di rino gaetano, nonché del nostro percorso su questo artista. Mi pare però di poter già affermare – a mio modesto parere – che affibbiare l’etichetta nonsense – per quanto colta e letteraria – ai testi di rino gaetano sia un modo sbrigativo per non farsi domande o – peggio – sorvolare su significanti che di significato ne hanno pure troppo, ma su questo valore del nonsense Wim tigges docet.■

amalia alia, Campagna calabra.

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uCronache defilate

A.A.A. Cercasi futuro a Nordest di Alberto Carollo - albertocarollo@yahoo.it

qualche tempo fa ho avuto l'occasione di incontrare Mauro covacich ad una presentazione del suo L'amore contro (2009), rieditato da einaudi – era uscito per Mondadori nel 2001. la quarta di copertina recita: «il nordest italiano messo a nudo da chi lo conosce davvero». ad una domanda sul nordest attuale, rispetto all'epoca in cui il libro è stato scritto, covacich ha sulle prime Mauro covacich indugiato, scrollando il capo, quasi a esprimere “di quale nordest stiamo parlando?”; poi ha risposto che il nordest non c'è più, che «oggi è tutto nordest». Perfezione della sintesi: condensare il presente in un breve enunciato. quello degli scrittori è un punto di vista privilegiato; ammiro la loro capacità di filtrare quanto osservano con peculiare sensibilità, rappresentando il nostro tempo più e meglio, a volte, degli specialisti nelle diverse discipline: storici, sociologi, politologi eccetera. Prendiamo spunto dalle considerazioni “tra le righe” di covacich: Di quale Nordest stiamo parlando? già appare arduo connotarlo geograficamente. Potremmo circoscriverlo, territorialmente, entro i confini di Veneto e friuli occidentale; certo è – per alcuni osservatori – che i confini economici del nordest non vanno né troppo a nord né troppo ad est. Vago? e questo è niente. il nordest viene

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comunemente inteso come un pantagruelico flusso di merci, ma la locomotiva d'Italia, della quale si parlava tra la fine degli ottanta e i primi novanta, «non ha attualmente neanche il fischio», come rileva gian Mario Villalta (poeta, scrittore, direttore artistico di Pordenonelegge) in una sua recente intervista. e prosegue: «non si è riusciti a mettere insieme un giornale, un gruppo editoriale che conti, una televisione (neanche per ridere) o istituzioni che abbiano un senso. dal punto di vista della comunicazione sappiamo perciò anche noi come veneti quello che leggiamo sui giornali o quello che vediamo in tv». sul versante economico non stiamo molto meglio; la crisi è un dato di fatto, molte fabbriche chiudono o vengono delocalizzate, la disoccupazione cresce, il modello ritenuto “vincente” della piccola impresa a conduzione familiare è alle corde. rimane il trito luogo comune? Parrebbe di sì. ripescando Villalta e il suo Padroni a casa nostra (Mondadori, 2009), se diamo retta ai mass media, «il nordest è una landa disertata dalla civiltà e dalla cultura, dove vivono tristi umanoidi dominati dall'avarizia e dalla xenofobia, dall'ottusità mentale e dal lamento egoistico insopportabile (...)». desolante, converrete. gioca strani scherzi, il nordest: non è propriamente quel che appare al primo, distratto sguardo. negli ultimi trent’anni è stato segnato da un'accelerazione storica che ha travolto tutto e tutti. l'evoluzione tecnica, i mutamenti politici, sociali ed economici non sono andati di pari passo con una crescita culturale, con una consapevolezza ancorata al divenire, e questo ha creato dei vuoti di memoria, delle perniciose amnesie curate con più o meno facili revisionismi. i veneti sembrano aver dimenticato che anche loro sono stati un popolo di


emigranti fino agli anni sessanta del secolo scorso. Vicentini, bellunesi o friulani affrontavano l’oceano nelle stive dei transatlantici per andare a cercare fortuna in francia e austria, negli stati uniti, in argentina, in brasile. dalle nostre parti, a quel tempo, c'era solo miseria. le donne erano costrette ad andare “a servizio” nelle città, o a fare da balie ai ricchi, abbandonando i propri figli ai nonni, nelle campagne. era un mondo che aveva una sua intrinseca bellezza per quanto dure fossero le condizioni di vita, una bellezza molto diversa dalla trasfigurazione e dall'idealizzazione che in certi casi è stata fatta a posteriori. riferimento imprescindibile, per ritrovare lo spirito di questo piccolo mondo antico è il luigi Meneghello di Libera nos a Malo, edito da feltrinelli nel 1963. Ma il paese chiuso all’ombra del campanile non esiste più; di quel micro-macrocosmo sopravvivono solo le ultime vestigia e lo stesso Meneghello ne era consapevole quando, parlando del dialetto veneto come modello espressivo, affermava in sostanza che con la perdita dell’uso del dialetto non muore un modo di chiamare le cose ma muoiono le cose stesse. la grande intuizione di Pasolini fu quella di registrare un rivolgimento epocale – ebbe modo di scriverne nei primi anni settanta –, ovvero la fine della società valligiana e contadina. idolatrando quel mondo e la sua bellezza ancestrale, Pasolini auspicava che sarebbe stato meglio interrompere il cambiamento. solo in seguito si è compreso che attraverso quel processo è accaduto qualcosa di veramente importante che ha cambiato il volto del nordest. Prima molte persone non avevano accesso sociale, erano subordinate, dominate dai padroni e indottrinate dai preti. Per la prima volta in questo territorio molti individui ebbero

il potere di emanciparsi. la loro “carta delle libertà” era l'aver imparato un lavoro, nelle fabbriche, in vari settori. quella dei nordestini è una vera e propria religione del lavoro, metafora calzante per descrivere il fenomeno e darsi qualche risposta sulla crescita economica in quest'area. il lavoro è la fede più condivisa, è la valorizzazione ideologica dell’iniziativa personale e l’architrave di questa società. e non a caso la disciplina del mercato del lavoro è stata costruita con una rete di protezione in cui la famiglia è il perno esclusivo. i vari benetton, zanussi, zoppas, de longhi, Verardi e compagnia bella trovano qui le loro radici. quale lezione ci hanno impartito questi Grandi vecchi? ingegno, praticità, e tanta voglia di fare. non erano istruiti, non avevano fatto “le scuole alte”. Hanno portato sviluppo, ricchezza, hanno imposto la loro immagine e il loro modello vincente al mondo. cosa ci hanno lasciato? sicuramente il benessere: il nordest attuale è una delle aree, nella penisola, dove c'è la migliore qualità della vita. Ma allora perché il disagio, perché la paura nel futuro? abitare a nordest, oggi, è vivere nelle città “senza centro”: il territorio è solcato da infrastrutture che collegano le varie isole di questa megalopoli, congestionate da un traffico convulso. la zona industriale della città che ci si lascia alle spalle è infinita, si è fagocitata tutta la campagna d’intorno; si va costruendo «fin che il territorio non finisce, fin che non c’è più spazio», come scrive Vitaliano trevisan ne I quindicimila passi (einaudi, 2002). la casa è un bene-rifugio; l’attività imprenditoriale si installa accanto alla casa; diviene prima fabbrichetta e capannone poi. anche i momenti di ricreazione e di divertimento si estrinsecano nella cura maniacale del giardino, nei riti sociali del barbecue domenicale e della taverna interrata, coi famigliari e gli amici, ai quali Marco Paolini affibbia il divertente appellativo

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ellis island, emigranti in attesa di accedere negli u.s.a.

di “tavernicoli”, la cui tipologia si riferisce alla dimensione esclusiva, spesso aliena dal tessuto sociale, schiva e riluttante al confronto culturale. sono in molti e risiedono nelle ville fortificate, sparse ovunque nella Pianura Padana, di cui parla romolo bugaro in Bea vita! Crudo Nordest (laterza, 2010). Mai come oggi la devastazione del paesaggio, in quest'area, è evidente. l'inquinamento, i centri “svuotati” a favore dei poli commerciali, più agibili, nelle periferie, le “terre desolate” e incolte ai margini delle autostrade. in effetti siamo lontani dal tempo in cui Palladio, progettando la rotonda, cercò di armonizzare la splendida villa con i dolci colli circostanti. quella è la cultura e la civiltà dalla quale proveniamo. Per invertire la rotta odierna dello scempio bisognerebbe favorire una lettura del paesaggio più ecologica, ricordando magari che Pietro bembo, contemplando la bellezza di asolo coniò il verbo asolare, ‘prendere fresco, respirare’. guido Piovene affermava che le brutture edilizie non nascono solo per speculazione, ma anche per poco affetto verso i luoghi della memoria e delle radici: come dargli torto? torniamo agli scrittori, alle nostre coscienze. come catalogare un curioso fenomeno, un “buco” di trent’anni e più: la mancanza di una generazione di scrittori a nordest? si passa da Parise, Meneghello, zanzotto, Magris, stern, bandini, camon, che tutti conosciamo, agli autori nati nei sessanta (hanno esordito negli ottanta): covacich, scarpa, bettin, ferrucci, bugaro, Mozzi, Villalta. Perché questa mancata testimonianza? il discorso è complesso ma uno dei motivi più probanti potrebbe essere che ai gruppi di potere che tenevano ben strette le redini di quest'area la cultura facesse un po' paura. in certi casi queste lobby vedevano nella cultura e nella comunicazione un vero e proprio nemico. eppure oggi siamo tutti scolarizzati a nordest; è il terzo polo di riferimento, dopo Milano e il centro italia, per l'editoria. il sapere viene però coltivato in maniera quasi defilata, come fosse una

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debolezza, e spesso si traduce in un sentimento di malessere, di mancato riconoscimento da parte dei media, che riportano invece le notizie-evento di “nera” o le boutades di sindaci-sceriffi in città che si distinguono anche per gli efficienti servizi che offrono alle popolazioni extracomunitarie e per i progetti di integrazione all'avanguardia. il futuro è “mobile”; rispetto al passato prossimo si è affievolita la grinta imprenditoriale dei figli rispetto alle esperienze gloriose dei padri. forse bisognava investire in maggior formazione, essere competitivi rispetto agli scenari che l'europa stava allestendo in quello scorcio di storia; forse bisognava impartire loro un'adeguata gerarchia di valori prima che si rassegnassero al peggio, prima che facessero “il pieno” e gli altri “si fottano”. le prospettive per il futuro, a nordest come altrove, si basano sulla dicotomia locale/globale. in questa accezione l'affermazione di covacich «oggi è tutto nordest» acquista rilievo. rivoluzione informatica, globalizzazione dei mercati. uniformità, sincronismo mondiale delle notizie. i giovani, precari nel lavoro e nella vita, sono intrappolati nel limbo di un eterno presente, dov'è difficile prevedere un “poi”. tramontate le affermazioni sociali e religiose (più o meno meritocratiche che fossero) diviene pressoché impossibile collegare il tempo storico a un progetto esistenziale individuale. l'ambiente, una sana politica per la pólis – e non il potere esclusivo di gruppuscoli che cavalcano l'ottusità e il malessere dei cittadini –, più giustizia sociale e via dicendo possono essere lodevoli interessi se non causa di frustrazione per la loro grandezza e mancanza di coinvolgimento diretto. semplifico assai ma ho l'impressione che a nordest necessitiamo del binomio memoria + sogno, dove per “sogno” si intenda la ricerca di un'esistenza diversa e più appagante. non il desiderio di aumentare la ricchezza e gli agi di cui certo non difettiamo.■


Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni. Eleanor Roosevelt

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uSocretinate

Un incontro con Emanuele Pettener di Morgan Palmas - sulromanzo@libero.it

Morgan: καλημέρα emanuele! Emanuele: καλημέρα Morgan!

M: da qualche tempo vivi negli stati uniti, dove anch’io ho trascorso un periodo della mia vita. un ricordo. era una giornata autunnale del 1998, stavo leggendo in una delle comodissime poltrone della tattered cover book store di denver, ero appena uscito dalla pizzeria dove lavoravo; si sedette vicino a me un signore anziano e osservando i miei libri si presentò e mi chiese se apprezzavo la narrativa italiana. Mi colpì la sua cultura, la sua passione per il nostro paese. non fu un unico caso, mi capitò altre volte con diverse persone. americani con una stima meravigliosa verso il patrimonio culturale e letterario italiano. Hai avuto esperienze simili? Poi capirai perché te lo chiedo.

E: oh, gli americani ci amano! ieri sera una mia studentessa, in viaggio di studio a Venezia per sei settimane, aveva le lacrime agli occhi solo all’idea di dover tornare negli stati uniti fra pochi giorni. reduci da una gita sul brenta, da villa Pisani a villa Malcontenta, eravamo davvero ubriachi di bellezza: “come hai fatto a lasciare tutto questo?” mi ha chiesto. L’America mi ha dato opportunità che l’Italia non mi avrebbe mai dato, (non) le ho risposto in quanto sarebbe stato disdicevole rovinare

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un’emozione estetica con quisquilie sociologiche – e poi non intendo discutere la bella notizia che da qualche anno si sta spargendo fra gli americani: che noi Italiani sì che sappiamo vivere. È un’italia genuina e solare, quella che vagheggiano, dove il tempo è ancora lento, perché si sta diffondendo, anche presso i giovanissimi, una certa nostalgia per la lentezza. se poi capita addirittura d’avere una goccia di sangue italiano, ci si dà arie di superiorità. avere un cognome che termina dolcemente in vocale non va più nascosto, ma addirittura ostentato: “sono italiano”, mi dice lo studente italoamericano che vuole imparare la lingua per comunicare col nonno che non l’ha insegnata al figlio – padre del mio studente – perché bisognava scordarsela, bisognava seppellire ogni segno d’italianità, bisognava essere americani. che cosa ne pensi?

M: Penso agli stati uniti di Prezzolini, ovvero all’immagine che dell’italia si aveva allora, leggere le tue parole conferma che i tempi sono cambiati radicalmente. chissà se Paolo Valesio che opera presso la Yale university ha la tua stessa sensazione… in ogni caso mi colpisce un paradosso: i giovani americani cercano la lentezza italiana e i giovani italiani aspirano alla dinamicità internazionale, varcando le alpi alla ricerca di opportunità professionali anche negli stati uniti. un quadro che sottende flussi caotici. È una questione di mancanza di informazione o di mode?

E: calvino, nei primi anni ’50, introducendo una raccolta di saggi di Pavese, osserva come in tempi grami ci si inventi sempre miraggi di lande lontane e palpitanti di libertà (sto


parafrasando, beninteso, calvino avrebbe disprezzato la mia prosa rococò), vedi la germania di tacito o appunto l’america di lui e dei suoi amici (che al contempo sognavano anche la russia in una sorta di affascinante cortocircuito politico-emotivo, come spiega eco nell’articolo “il mito americano di tre generazioni antiamericane”). ora che molti americani si sentono soffocati dal proprio Paese, che gli è crollata l’illusione d’essere il più grande Paese del mondo, quello che secondo calvino rappresentava l’america per i nostri intellettuali comunisti d’epoca fascista – “una terra d’utopia, una allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune” – forse per gli americani, o almeno per i miei studenti, sia che abbiano 20 anni o 70, è ora l’italia. capisci?

M: continuo a non capire perché nell’epoca dell’informazione disponibile subito online a un ritmo infernale non vi sia una maggiore consapevolezza degli americani rispetto alle sorti del nostro paese. tutto possiamo affermare, ma non che l’italia viva una fase eccelsa. quindi, ripeto, quale vantaggio nel trovare la “lentezza” se poi la qualità di vita lavorativa è chiusa fra problematiche di sopravvivenza in non rari casi? non è che il tempo che ognuno percepisce sulla pelle corrisponda sempre più con insistenza a una sorta di imbarbarimento poco noto fuori dai confini nazionali?

questo meno “reale”). comunque, a parte la signora inglese, abbiamo tutti un sacrosanto bisogno di un Paese immaginario. tacito, calvino, io e te. del resto – questo lo scrive Proust alla fine del primo tomo della sua fiaba – i Paesi che sogniamo hanno uno spazio reale nelle nostre vite molto più consistente di quelli in cui viviamo effettivamente. Per me sono l’islanda e il Perù. non conosco nulla di codesti posti, se non il carezzevole nome che li definisce, e quel miraggio che mi sono creato leggendo un paio di saghe ambientate laggiù. quali sono i tuoi Paesi immaginari?

M: il mio paese immaginario corrispondeva alla terra dove vivi ora, cioè gli stati uniti. Poi ho conosciuto e ho smitizzato, perché il processo di “smitizzazione” è forse l’unica via per incontrare se stessi, nudi, senza sovrastrutture. Più che di paese immaginario direi fascino per una particolare terra. “dalla valle del belbo non era mai uscito. senza volerlo mi fermai sul sentiero pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino”, scriveva Pavese, il potere della letteratura,

E: forse gli americani non vogliono avere una maggiore consapevolezza del nostro Paese. Perché dovrebbero? siamo il loro Paese immaginario – checché ne dica internet o qualsiasi marchingegno che voglia rubarci l’immaginazione. tu invece parli di un’italia reale. (o che tu credi reale, in quanto suppongo la tua visione sia angustiata dalla tua condizione di trentenne alle prese con le tediose situazioni che l’italia impone alla maggior parte dei trentenni, visione farcita inoltre dalla volgarità della tivù, dei giornali, e degli italiani arrabbiati. Ma la signora inglese che vive nel chiantishire e scrive romanzi sui cieli toscani ha dell’italia un’immagine ben diversa dalla tua, e non per

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ricordo che quando abbandonai il mio piccolo borgo mi ronzavano in testa quelle parole. a distanza di tempo reputo la scelta di allora azzeccata, temevo e temo la chiusura mentale data dal contesto in cui si vive, quindi più che del paese immaginario mi curo del paese dove vivo, cercando di lasciare la mente aperta, per quanto possibile. anche tu sei scappato?

E: “sono pronto alla fuga ma nessuno m’insegue” canta sergio caputo (E le bionde sono tinte, 1983). e nella stessa canzone sussurra: “la vita è come un party d’alta moda, che ti vende all’orecchio ogni sorta di volgarità”. e questo forse è un pochino più vero in italia, dato che siamo la patria dell’alta moda, no? Peraltro anche sergio se n’è emigrato in america, lo sapevi? del resto è difficile che gli italiani apprezzino versi come “Ho mangiato la foglia ma non l’ho ancora digerita”, non è nelle loro corde (ah, ho detto loro!) l’ironia surreale, quel confortevole gusto del nonsense, amaro, languido… Penso a ugo tognazzi, che non sarà mai amato quanto sordi o benigni, ma io lo sento più grande, la sua faccia mi consola, e così Paolo conte, sergio caputo… ma sto divagando. no, non sono scappato. le uniche fughe della mia vita avvengono quando sono sprofondato sul mio soffice sofà a pois gialli, non facendo nulla e sognando grandi imprese. Ma dimmi, cosa dovremmo imparare dagli americani, secondo te?

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M: il concetto di merito. Hic et nunc. a ogni livello. ciò non significa che gli stati uniti siano immuni da raccomandazioni, eppure chi ha vissuto al di là dell’oceano comprende benissimo le mie parole. la serietà professionale media mi ha sempre impressionato, dagli uffici pubblici al dentista, dalla commessa del negozio al bibliotecario. una differenza impressionante, e vederla con i propri occhi lascia uno sconforto rispetto all’italia difficile da dimenticare. esempio concreto. cercavo un libro, andai in una libreria di denver e non c’era, lo ordinai, non solo mi dissero di tornare un giorno preciso dopo pochissimo tempo (ora non ricordo, supponiamo martedì della settimana successiva), ma mi telefonarono il lunedì, cioè un giorno prima, e mi dissero che era già disponibile e che potevo scegliere se andare a prenderlo direttamente oppure riceverlo a casa per posta senza ulteriori spese. cose mai viste in italia, pura fantascienza. si sprecano le volte in cui ho ordinato libri qui nel nostro amato paese e ho atteso settimane, ripeto, settimane. che cosa dovremmo imparare dal tuo punto di vista?

E: aderisco fraternamente a quello che dici. questo amo degli stati uniti, forse solo perché sono italiano e non ci sono ancora abituato. che mi restituiscano i soldi delle tasse se ho dichiarato più di quello che dovevo oppure ho fatto un errore: è successo due volte. il fatto che siano così chiari: sì sì, no no. la cortesia, il sorriso, la professionalità


ovunque. oh, non credere che, vivendoci, non veda pure quello che non funziona: ma da ospite che è stato trattato con i guanti e al quale vengono di continuo offerte occasioni meravigliose, mi sentirei ingrato a soffermarmi su quel che non va anziché sul dono che l’america mi fa quotidianamente – permettermi d’inseguire il mio sogno americano. noi non abbiamo nulla di tutto questo, e i sogni dei nostri ventenni si riducono a speranze di sopravvivenza. Vero?

M: aggiungerei anche i trentenni. nel nostro paese sembra che non si giunga mai al punto di massa critica, vi sono minoranze attivissime, ciononostante non basta, un ente misterioso con tentacoli infiniti lavora di continuo nell’humus della società e la situazione non migliora, inutile prenderci in giro. quali le soluzioni? o si ascolta Hannah arendt quando scrive: “comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà” (citazione che compare, fra le altre cose, anche in Gomorra di saviano), oppure, riprendendo una frase d’un libro che sto leggendo in questi giorni (La qualità della vita di Paolo Marasca, ediz. italic), si cerca di andare oltre le parole, con concretezza: “un giorno o l’altro mollo tutto. eh? un barettino sulla spiaggia in indonesia…”. giacché la tentazione di emigrare (o scappare, o cercare, ponici il verbo che preferisci) è sempre lì che soffia sul collo. io, dopo anni in cui avrei scommesso qualsiasi cosa che me ne sarei andato nuovamente, da qualche tempo sento il desiderio o la necessità o l’urgenza di impegnarmi nel mio piccolo qui, in italia. tu come ti rapporti, se la provi sulla pelle, con tale condizione?

vivendo ai tropici e facendo un lavoro molto leggero e allegro, mi sento in vacanza tutto l’anno. diciamo allora una vacanza culturale: dopo nove mesi di mare e spiaggia, ti ci vogliono un paio di musei e due-tre chiesette medievali. sì, io sono uno di quei privilegiati che, non dovendo trovarsi un lavoro, dell’italia può godersi i frutti migliori: ovvero la bellezza inimitabile. ogni angolo sprigiona bellezza, ogni mattone ha da dirti qualcosa, ogni giardino ti parla d’amore. l’italia è il Paese più bello del mondo, lo diceva anche il bravo Mino reitano: “di terra uguale al mondo non ce n’è”.

M: δε φτάνει (ci vuole altro…). E: άσε την πόρτα ανοιχτή (lascia la porta aperta!).■

Emanuele Pettener è nato a Mestre e vive a boca raton (usa), dove insegna lingua e letteratura italiana alla florida atlantic university. Ha pubblicato racconti e saggi, fra i quali John Fante e gli altri: lo strano destino degli scrittori italoamericani (in Quei bravi ragazzi, a cura di giuliana Muscio e giovanni spagnoletti, Marsilio, 2007) e curato il 50° numero della rivista nuova Prosa, Essere o non essere italoamericani (greco&greco, 2009); è autore del volume Nel nome del Padre, del Figlio, e dell’ Umorismo: i romanzi di John Fante (franco cesati editore, 2010) e del romanzo È sabato mi hai lasciato e sono bellissimo, della collana “l’isola bianca”, diretta da roberto Pazzi per corbo editore (2009).

E: io in italia ci vengo in vacanza. a parte il fatto che,

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Come gli scrittori diventano più numerosi, è naturale per i lettori diventare più indolenti. Oliver Goldsmith

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uLa poesia e il racconto

sceglieremo sempre una poesia e un racconto fra quelli giunti a yousulromanzo@libero.it.

inviate i vostri lavori a yousulromanzo@libero.it , in Oggetto: racconto o Poesia.

nel prossimo numero ci dedicheremo a una tematica particolare: “Mafia e omertà”.

scadenza mercoledì 15 settembre.

i racconti saranno di una lunghezza massima di 16.000 caratteri (spazi inclusi).

allegate una breve scheda biografica che non dovrà essere superiore a 800 caratteri (spazi inclusi).■

le Poesie saranno in forma libera.

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Spiagge di Romana Pincitore

E tu arida spiaggia, dimmi: quante orme hai seppellito nel tuo infinito? Quanti mari hai ascoltato Nel loro naufragare? Quanti amori hai lasciato Che nascessero sul tuo manto Dorato? Quanti bambini hai lasciato Divertire con il tuo corpo così Delicato? E, ancora, dimmi: perché mai sei muta con chi vuole ascoltarti? Per qual ragione dimentichi Tutto ogni anno? Sussurrami, ti prego, incoraggiami Ad abbandonare la luna che tu Hai lasciato morbosamente far Rigenerare, rimbombare nella mia Anima E, ancora, aiutami Aiutami ad oltrepassare quella Soglia che separa il mio mondo Dall’amore. E tu, deserta spiaggia, ascoltami: non sentirti sola ed arida non crederti abbandonata perché sei la sola al mondo in grado di conoscere storie, far nascere amori sopportare le invidie E nessuno Potrà mai divenire tale: SOLO LE SPIAGGE SONO GENERATE DALL’UNIONE DI TUTTE LE SOGLIE….

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Romana Pincitore è nata a roma l’8 ottobre del 1977. È laureanda in chimica e tecnologia farmaceutiche, presso il campus universitario gabriele d’annunzio di chieti. si affaccia al mondo della poesia sin da piccola, quando scopre i versi di giacomo leopardi, giuseppe ungaretti, eugenio Montale. a quindici anni inizia ad esprimere i suoi stati d’animo, inquieti e romantici, componendo “noi come voi”, "il silenzio”, "spiagge", "Penna fra le dita", "arco", poesie acerbe e istintive, manifestazioni di quella continua e quotidiana ricerca di equilibrio e amore che tuttora permea le sue opere, nonché espressioni della difficoltà di crescere e di rapportarsi con familiari e amici, con l’amore e l’amicizia, la malinconia e la gioia. nel 1995 ha vinto il Premio per la Poesia indetto dalla casa editrice "libro italiano" di Messina. sul blog: http://romanapincitore.blogspot.com/ sono pubblicati solo alcuni dei suoi versi.


Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell'opera: è proprio per non volerverlo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell'opera. Fabrizio De André

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I ragazzi della Pensione Parioli di Elio Capriati

Mio padre non sapeva nuotare pur avendo fatto, malgré lui, il servizio militare in Marina. È vero che era addetto ai servizi a terra ma, comunque, il suo reclutamento rimase uno dei tanti misteri italiani. Forse fu per questo che, pur abitando in una città di mare, fin da piccolo cominciai a frequentare la montagna abruzzese. A luglio, terminata la scuola, si facevano i bagni a Marechiaro, al mitico Lido delle Rose, stabilimento con le palafitte poggiate sulla roccia tufacea di Posillipo. Si arrivava a piedi da Via Ascensione fino alla Colonna spezzata a Piazza Vittoria con borsoni strapieni di teli, maschere e gonfiabili. Qui ci attendeva fin dai primi di giugno, il vaporetto azzurro e bianco, odoroso di vernice da poco passata sul fasciame di legno dell’imbarcazione. Il tratto di mare non era tanto lungo, ma la ridotta velocità, dovuta al pieno carico, e gli spruzzi d’acqua salata sulle braccia assegnavano alla traversata, soprattutto a noi bambini, la sensazione di un’inebriante escursione d’alto mare.

da fare, appena mi staccavo dal rassicurante appoggio del materassino o abbandonavo la colorata ciambella mi sentivo come un gatto buttato in acqua. Avrei imparato a nuotare solo a tredici anni grazie all’intelligente trucco di un mio amico. Trascorso il periodo dei bagni, giungeva agosto, il mese della villeggiatura sull’Appennino. Il momento della partenza era lungamente sognato con gioiosa attesa mischiata a un inquieto timore. La preparazione del bagaglio era seguita con sbalordimento perché vedevo mia madre che metteva in valigia indumenti invernali come golf e pantaloni pesanti come se andassimo a sciare. “Mamma, ma non sentirò troppo caldo?”. “No, Elio, in montagna capitano le quattro stagioni in una sola giornata…”. Ed io mi ritrovavo a riflettere sui cambiamenti repentini del tempo, dal sole alla grandine in pochi minuti e, infine, immaginavo l’irruzione di un diluvio universale come nell’apocalisse biblica.

Nell’estate del 1953, precisamente l’anno del trasloco a Via dell’Ascensione, salimmo per la prima volta in uno di quei paesini, Rivisondoli. Qui era vivo il ricordo della guerra e dei suoi episodi più dolorosi, com’erano evidenti i segni del cruento passaggio dei soldati nazisti. La famosa linea difensiva Gustaav passava proprio lì vicino, tra Roccaraso e Pescocostanzo e anNonostante mia madre sapesse nuotare bene e cora si vedevano qua e là i resti di qualche cami portava al largo con un materassino, in me solare distrutto a cannonate. prevaleva il terror panico ogni volta che la mia dolcissima mamma cercava di convincermi a Il viaggio, perché di viaggio si trattava, cominfare, insieme a lei, qualche bracciata senza il ciava alla vecchia Stazione Centrale di Napoli, salvagente. “Elio, non aver paura, ti sorreggo dall’aspetto architettonico di fine ‘800, abbatsubito io se non riesci a stare a galla…”. Niente tuta negli anni ’60 per far posto ad una sgraziata costruzione dalle grigie e inanimate

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pensiline in cemento armato. Partivamo a primissima mattina da casa con il taxi, di quelli verdi anteguerra, che, superata la Piazza Municipio cinta dai lecci, rotolava veloce e assordante per il Rettifilo per non farci perdere la corriera azzurra che ogni settimana portava i suoi passeggeri sul versante adriatico, a Pescara. La prima volta avevo cinque anni, era l’età pervasa dallo stupore di uno sguardo vergine che si apre sul mondo. Ma anche dal timore di trovarsi solo senza il rifugio della mamma o del papà. “Elio, come ti senti? Ti fa male il pancino?”. Mi era già capitato in altre occasioni di aver provato un incontenibile mal d’auto con effetti facilmente intuibili. Mio fratello Giorgio e mia sorella Annamaria mi guardavano con la commiserazione di chi è più grande. Non rispondevo perché già avvertivo le avvisaglie della nausea. Una volta sistemati sulle scomode poltroncine del pullman, pagati i biglietti, un prolungato suono del clacson segnalava la partenza. Il ruggito del motore sventagliava decibel a raffica dando impulso alle pesanti ruote del mezzo che, come un animale asmatico, iniziava la sua corsa tra i carretti e i furgoni giunti in città dalla vicina provincia. Il continuo dondolio delle ruote mi faceva assopire. Nel dormiveglia sentivo le grida del bigliettaio: “Melito!”, “Stazione di Aversa. Chi scende ad Aversa?”. Dopo Capua la corriera lasciava l’Appia e s’indirizzava verso il Molise, fermandosi nelle piazze di paesi dal nome antico. Si alternavano facce di contadini cotti dal sole e miti impiegati o insegnanti accompagnati dalle famiglie. Vestiti modesti o modestissimi, qualcuno con l’abito della domenica e la cravatta spiegazzata o signore con ampie gonne dal fiorame stampato e olezzanti di asfissianti profumi di misterioso miscuglio. Dopo Roccaravindola il pullman s’inerpicava sulle prime pendenze della strada e qui avevano inizio i miei guai.

pullman regolarmente si fermava tra le proteste dei passeggeri più impazienti. “Elio, non potevi resistere ancora un po’? Ancora un’oretta e saremmo arrivati a Rivisondoli”. Non era vero. Mancava un’ora e mezzo abbondante alla meta. Comunque ripreso il viaggio, svuotato ma rinfrancato, appoggiavo il faccino al vetro del finestrino per ammirare il panorama. Dopo San Vincenzo al Volturno la cigolante corriera affrontava una serie di curve fino a costeggiare un ponte semidistrutto immagine residua delle devastazioni belliche. Un ulteriore balzo ci portava al bivio di Montenero Val Cocchiara, il paese del rodeo Pentro, e, valicato il ridente passo di San Francesco, contornato di verdi radure e ombrosi aceri, si scendeva verso l’antico centro di Alfedena, annunciato da un indimenticabile cartellone: “Alfedena, il paese dei dottori” perché all’epoca aveva un’alta percentuale di laureati in rapporto al numero di abitanti. Ma, quella parola a me bambino rammentava ben altro. Il terzo anno che passai di lì, dopo esser riuscito a leggere la scritta per intero, giurai che in un paese simile non mi sarei mai fermato: solo al pensiero di tanti “dottori” in camice bianco armati di siringhe e pompette in attesa dei forestieri, mi sentivo in stato d’agitazione.

Le alte gobbe della serra di Chiarano e la cima del Monte Greco annunciavano che la meta era vicina. Infatti, dopo aver superato l’operosa Castel di Sangro, un rumoroso cambio di marcia c’informava che il pullman stava attaccando la durissima salita verso Roccaraso. La ripida pendenza e gli stretti tornanti della strada tenevano i passeggeri col fiato sospeso. Alcuni pregavano che il motore non si bloccasse proprio lì, all’ultimo balzo. Con un estremo ruggito la corriera, tra fumi e strepiti, riusciva ad arrestarsi ansimante sulla piazza di Roccaraso, dove scendevano rinfrancati i primi gruppi di villeggianti. Io, a dire il vero, li guardavo con un po’ d’invidia smontare dalla scaletta dell’auUn crescente senso di nausea si propagava in tobus volendo stare al loro posto. tutto l’addome accompagnato da conati così L’ultimo chilometro e mezzo mi piaceva perché forti che alla fine rimettevo anche l’anima. Il si percorreva un verde altopiano, chiamato

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Quarto Grande, animato da mucche al pascolo e cavalli allo stato brado. Mio padre, di solito molto serio, accorgendosi del mio volto tirato dal lungo viaggio, come per farmi ridere, m’indicava con la mano: “Guarda Elio, quanti mucchi brucano l’erba!”. “Ma babbo [papà ai tempi miei era un termine poco usato], non si chiamano mucche?”. E lui: “Sono i loro maschi…”. E mia mamma diceva “Tuo padre scherza… sono mucche e buoi”. Al termine di questa surreale conversazione la corriera, dopo aver lanciato tre colpi prolungati di clacson, si fermava rombante davanti alla fontana principale di Rivisondoli tra le grida di giubilo di noi ragazzi perché cominciava finalmente l’agognata vacanza. Dieci minuti dopo facevamo ingresso nella piccola Pensione Parioli. Si ritrovavano le amicizie strette l’anno prima. Qualcuno mancava all’appello, tuttavia c’erano sempre nuovi pensionanti da coinvolgere in quel piccolo mondo festosamente riunito per un mese d’estate.

Miranda, una delle ragazze scomparse nel nulla, dice: “C'è un tempo e un luogo perché qualsiasi cosa abbia principio e fine...”. Forse era così anche sul Monte Gatto. Oggi un enorme residence copre le rocce e i sentieri contorti della collina. La magica aria di quel colle è svanita per sempre, come una nuvola svaporata nel cielo senza tracce . La molesta sensazione metteva le ali ai miei piedi tanto da raggiungere i più grandicelli e batterli in velocità. “Elio, non correre troppo che ti fai male”, diceva qualcuno, forse mio fratello. Giunto in pensione salutavo i miei sprizzando sudore da tutti i pori e lampante felicità per il ritorno alla base.

Ogni agosto si ripeteva il rito della gita. Una volta salimmo sul Gran Sasso con la funivia, un’altra volta andammo alla Camosciara con picnic vicino alla scrosciante cascata. Scontata l’escursione annuale sulla Maiella: almeno una volta al laghetto di Fonte Romana incorniciato da solenni e ombrosi faggi, i secolari guardiani Ricostituita la chiassosa comitiva di noi ra- dell’Abruzzo montano. Non mancò la visita di gazzi, maschietti e femminucce, si organizzava Scanno, da poco assurta a celebrità dopo gli arsubito il primo pomeriggio di svago. Escursione tistici servizi fotografici di Cartier-Bresson. sul Monte Gatto, invitante collinetta dalla panoramica vetta circondata dai pini montani Tra passeggiate in bicicletta e finte guerre compiantati dalla forestale subito dopo la guerra. battute nei boschi di Rivisondoli, passava il Era la nostra meta preferita per giocare alla mese d’agosto in montagna. Uno degli svaghi guerra tra cowboy e indiani pellerossa. Tal- preferiti era correre giù di mattina al ruscello volta capitava di nasconderci sotto una spor- nel vallone e catturare le bianche farfalle svogenza rocciosa e di scappare impauriti dal lazzanti sull’acqua. sibilante fruscio di una serpe nascosta nel Una variante più crudele era la cattura di un fondo della sua tana. grosso grillo per staccare una ad una le zampette del malcapitato. Non mi divertiva assistere all’agonia del povero insetto, ma era da Quando il sole era diritto sulla mia testa, nel- femminucce tirarsi indietro. Non mi divertivo l’ora del meriggio, quella in cui per Zarathustra e, quando accadeva, preferivo salire in camera si realizza la completa solitudine dell'uomo, mi a leggere un giornaletto. Una volta piansi per capitava di rimanere solo, attardato sugli altri la rabbia di non poter oppormi ai miei compache scendevano al piano, mi assaliva una gni. Forse ero un inconsapevole animalista strana paura, di essere rapito in cielo da esseri d’antan. divini e lasciare la terra per sempre. La natura, fino a quel momento accogliente spazio dei no- La sera si assisteva, davanti all’albergo, alla stri giochi, cambiava volto. Mi sembrava di es- lenta sfilata delle mucche e dei buoi che, come sere respinto, cacciato come Adamo ed Eva dal soldati in libera uscita rientranti in caserma, loro Eden. Nel film Picnic ad Hanging Rock, tornavano nelle stalle dopo aver pascolato per

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l’intera giornata. Ancora sento nelle narici quell’odore intenso di sterco muschiato abbandonato a larghe chiazze marroni sul terreno, sopra le quali si addensava il brulichio ronzante delle mosche e dei tafani. Ai muggiti e ai campanacci di quei placidi animali, diversamente modulati, si accompagnava il lento dindon delle campane al tramonto ricordandoci che si avvicinava l’ora della cena. L’unico episodio veramente drammatico di quelle estati montane capitò che avevo nove anni. Salimmo dopo pranzo sul monte Calvario, sulle cui pendici si adagia Rivisondoli. Mentre salivamo lungo la cresta il sole scomparve dietro una cortina di nuvole grigiastre. Avevamo appena raggiunto la croce posta sulla cima che il cielo si rabbuiò rapidamente di nubi nere e cariche d’elettricità, come il plumbeo fondale di un famoso quadro del Giorgione. Si scatenò d’improvviso una tempesta di pioggia, vento e grandine. Ben presto fummo inzuppati d’acqua e le scarpe affondavano nel fango. C’era chi si dissociava: “Lo dicevo che non dovevamo venire qua sopra. Ora i nostri genitori ci puniranno per tutto il mese…”. Il più anziano era Piero, un ragazzo di Ferrara, che prese a scendere correndo incitandoci a seguirlo. Un fulmine scoppiò vicinissimo con indicibile fragore suscitando un violento spavento. Ci precipitammo verso il basso schizzando fanghiglia e pietrine ad ogni passo. Io corsi a rompicollo senza neanche seguire il sentiero dell’andata. E il collo per poco non me lo ruppi davvero: nel saltare alla disperata un fosso troppo largo per le mie gambe, caddi rovinosamente sul bordo strisciando col ginocchio, scoperto, quasi fino all’osso. All’epoca portavo, di solito, i calzoni corti con i calzettoni e, sciaguratamente, proprio quel giorno non indossai il mio unico pantalone lungo. Avvertii un dolore lancinante che ancora oggi rammento. La ferita fu tanto profonda che la cicatrice non è mai scomparsa del tutto. Nel frattempo i genitori di molti di noi stavano risalendo la montagna preoccupatissimi della nostra situazione. Per fortuna eravamo presso-

ché arrivati in paese e presto ci ricongiungemmo ai nostri familiari. Aggiungo solo che, dopo i rituali “cazziatoni”, rimanemmo “consegnati” in albergo per due giorni. Considerate le circostanze, mi dedicai all’osservazione del tempo libero dei miei genitori. Mia madre era immersa, durante il pomeriggio, in lunghissime partite a canasta con le solite signore. Mio padre era, invece, impegnato nel tressette, gioco che mi colpì per la rapidità dell’esecuzione: dopo poche mani tutti gettavano le carte sul tavolo e la partita era già terminata. Mi chiedevo allora: “Ma perché giocare se già si sa come va a finire?”. Una radio, in noce lucidato e gremita di stazioni dal nome strano, diffondeva a basso volume le canzonette dell’ultimo festival di San Remo. “Nel blu dipinto di blu” fu il tormentone canoro del 1958 e contagiò tutti gli italiani, in vacanza e non, con la speranza che il Bel Paese cominciasse finalmente a volare sulle ali dell’incipiente boom economico. Così passarono le mie stagioni estive a Rivisondoli presso la pensione Parioli. L’ultima fu, appunto, nel 1958, salvo un anno che andammo in Puglia nella casa di famiglia. Dall’agosto del 1959 cominciarono le villeggiature a Roccaraso. Elio Capriati, dopo aver lavorato preso il banco di napoli, si è, poi, dedicato a ricerche su importanti famiglie e di personalità straniere dell’800 napoletano. il suo primo romanzo, “ritratto di famiglia. i Meuri¬coffre” (ed.Millennium, 2003) è imperniato sulle vicende della più celebre famiglia di imprenditori svizzeri vissuti a napoli tra la fine del XViii e la prima metà del XX secolo. il secondo, “i segreti di degas" (MJM editore, 2009), narra le passioni e i misteri del degas “napoletano” tra napoli e Parigi. nel 2010 pubblicati due suoi racconti. il primo, “Morte di una regina”, contenuto in “racconti per nisida” guida, 2010. il secondo, “l’estate napoletana della signora Harriet”, nell’antologia “se mi lasci, non male-Penne d’amor perdute”, Kairos, 2010.

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Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia?». Dante Alighieri

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gustave dorĂŠ, Illustrazione Divina Commedia, Inferno, Canto I (1860)



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