What Women (don't) Want - Il web contro la violenza sulle donne 2013

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il web contro la violenza sulle donne

e se lì fuori c’è troppo freddo o troppo caldo, ma deve fare almeno sei pezzi da cinquanta, dai ragazzi lasciatemi andare per favore, lasciatemi andare a prendere altri cazzi, almeno dodici, ma certi periodi capisci pure che devi fare la scorta prevedendo le crisi di clienti che ci saranno nei prossimi giorni e allora di cazzi ne servono anche venti, ventidue, venticinque è meglio, anche se la fica poi brucia… E le foto scattate dagli aguzzini, lei col corpo contratto, la fronte appoggiata ai piedi e i legacci, un corpo a metà altezza, la vita a metà corsa, l’anima a metà di nulla, persa, persa, persa… Ascolto le invocazioni e le speranze. Che qualcuno la porti via, la liberi, le favole col principe azzurro sono arrivate perfino a Debrecen… i biglietti lasciati sul marciapiedi della Questura, aiuto aiuto aiuto vi prego, e le lettere spedite clandestinamente ai genitori, “andate via da lì se potete”, e i messaggi soffiati al cielo senza destino, e tutte le ricevute di ritorno con lo sperma dei suoi clienti e del suo pappone che incollano i lembi della sua prigionia, schiava ancora, schiava sempre, schiava perché loro riescono a intercettare tutte le sue lettere, e il telefono di uno zio in Ungheria e quella voce rauca e malata che le dice “i tuoi genitori sono come scomparsi…” E ora ascolto, sì sì sì, ascolto l’epilogo… La liberazione, finalmente, e all’inizio le omesse confessioni ai magistrati, agli avvocati, ai medici, agli assistenti sociali, ai periti, agli psichiatri, perché non si fida più di nessuno e tutta questa gente potrebbe avvisare loro e poi magari quelli ritornano… «Non li perdonerò mai» dice Irina. «Non devi» le rispondo «Non devi.» Allunga una mano e stringe la mia: «Perché

stai piangendo?». Non so risponderle, forse piango per tutte le volte che non sono stata lei, ché forse insieme Irina avrebbe potuto dividere il dolore, attenuarlo, ché forse insieme Irina avrebbe avuto meno paura… Mi asciugo le lacrime e le chiedo: «Loro dove sono adesso?» «Loro, loro sono dappertutto…» dice, mentre un inserviente entra nella stanza storcendo le labbra: «Scusate, ma…» Già, tempo scaduto. Trenta minuti. Trenta minuti e quattromila battute. Ci alziamo e ci abbracciamo come due amiche che si sono ritrovate dopo un lungo viaggio, ma solo quella di noi due che è stata all’inferno ha una memoria infallibile. Esco dalla sede dell’associazione e mi accorgo di non aver nemmeno acceso il registratore. Scrivo il pezzo per il giornale in dieci minuti. Scrivo un’altra storia, scrivo la stessa storia. Parlo dell’innocenza e la chiamo Irina. Uso i doppi spazi e vado spesso a capo per circondarla di bianco. Parlo poi di ferocia e di sadismo. Parlo della crudeltà e non vorrei concederle nemmeno la dignità di troppe parole. Non ci riesco, però, e alla fine unisco-tutte-quelle-che-rimangono-per-arrivare-a-quattromila-e-usotutto-il-nero-dell’inchiostro-rimasto-nella-cartucciaper-scriverne-un’ultima: uomo.

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