Le meraviglie di Latmos di Ugo Tonietti

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ARCHEOLOGIA

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4 aprile 2015


Le meraviglie di Latmos In Anatolia alla scoperta delle prime immagini di una società umana: un mondo animato dalle donne descritto con grande libertà espressiva di Ugo Tonietti La memoria del teatro di steli antropomorfe di Gobeklitepe (Left n.4), in quell’enclave dell’alto Eufrate che favorì, con il termine dell’ultima glaciazione le prime sperimentazioni di coltivazione, non cessa di generare incredulità e stupore. Cosa può aver spinto popolazioni non ancora stanziali a creare un’architettura di rude bellezza, ove è celebrata la dimensione sociale degli uomini attraverso l’estrazione dalla roccia, e la successiva elevazione, di monoliti scolpiti del peso di molte tonnellate? Stiamo seguendo con enorme curiosità il racconto dell’evoluzione delle società umane, attraverso la ricostruzione, resa possibile dai ritrovamenti archeologici, del modo di abitare delle popolazioni che compirono, per la prima volta qui in Anatolia, i passaggi fondamentali della cosiddetta “rivoluzione neolitica” ovvero la transizione che porta le società paleolitiche (di cacciatoriraccoglitori) all’affermazione della stanzialità piena. Attraverso il controllo dell’agricoltura e l’uso della domesticazione si approda a modalità d’insediamento complesse (i villaggi e, poi, la città), a una nuova gestione delle risorse (grazie alla specializzazione delle mansioni), e infine, per il tramite anche di esplosive costruzioni culturali, alla ridefinizione completa dei rapporti sociali. Ci occupiamo di tutto ciò perché siamo persuasi che seguire questa evoluzione possa renderci più visibili i caratteri essenziali di una specie in cammino, afferrando quanto si è messo in gioco, cosa si è guadagnato e cosa anche perduto nell’aspra dialettica della storia. Ma alla nostra indagine manca ancora un tassello, forse il più toccante e istruttivo, quello cui guarderemo con invincibile nostalgia: l’esplorazione del sito preistorico di Latmos. 4 aprile 2015

Ci dobbiamo spostare di molti chilometri questa volta, abbandonando la culla mesopotamica, per raggiungere la costa Anatolica occidentale in prossimità di Mileto. Qui troviamo, sulle pendici del monte Latmos, in un paesaggio di rara bellezza, la testimonianza di vita di una formidabile civiltà sviluppatasi, nel suo fulcro, tra il VI e il V millennio a.C. Dobbiamo la scoperta ad Anneliese Peschlow-Bindokat, archeologa tedesca che vi lavora, con intelligenza e passione, dal 1994. In quell’anno la studiosa scoprì il primo di una serie impressionante di cicli pittorici rupestri, diffusi sulle alture selvagge del monte, cosparso di gruppi rocciosi di origine metamorfica, oggi denominato Besparmak (5 dita) dall’articolazione delle sue vette. In questo ambiente, ricco di acque e costellato di pioppi, platani, fichi e olivi disposti dolcemente sui suoi pendii, una popolazione autoctona si è sbizzarrita a disegnare centinaia di storie colorate sulle superfici delle lastre di gneiss avendo come unico soggetto se stessa. Ciò che rende unico questo ritrovamento è che esso porta alla conoscenza il momento, l’epoca, in cui la nostra specie comincia a interrogarsi esplicitamente su di sé, abbandonando la stagione, protratta per l’intero paleolitico, nella quale le rappresentazioni pittoriche hanno per protagonista quasi esclusivo il mondo animale. Si pensa che gli abitanti del Latmos fossero oramai sedentari, anche se il loro insediamento (che si svolge in parte sul monte, in parte nelle pianure sottostanti) non sembra caratterizzato da evolute forme di coltivazione (essi trovano qui un piccolo Eden provvisto di alberi di olivo e frutta). I luoghi che ospitano dipinti sono numerosissimi (se 67


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ne contano a oggi 170), in prossimità di radure e sotto ripari accoglienti. Ovunque sono riprodotte figure stilizzate in contesti sociali: donne, tantissime, bambini e bambine, uomini, tutti colti mentre parlano, danzano, giocano, si abbracciano. Una fantasmagoria di segni limpidissimi (anche se in gran parte deteriorati) per lo più in ematite rossa, eseguiti con uno stile rappresentativo geometrico astratto (solo poche figure hanno teste e membra arrotondate) che lascia senza fiato. Una esplosione espressiva di altissima qualità, al livello dei codici elaborati dalle avanguardie del ’900, ma di appena 8.000 anni fa. Il loro contenuto svela una sorprendente Weltanschauung, insieme delicata e incisiva, che non si basa su strumenti verbali di comunicazione bensì è frutto di un’attitudine, metodica, a elaborare il vissuto affidandosi alla “memoria-fantasia”, con esiti di un’originalità che non può essere ignorata. Aspetto centrale di queste pitture è sicuramente la singolarità della resa dell’immagine femminile: essa è indagata costantemente senza riferimenti naturalistici ma deformata come a coglierne un’essenza profonda. La donna è sempre in movimento e in rapporto, finemente abbigliata, riprodotta con incredibile leggerezza esaltandone l’attributo primario: la possibilità di essere fertile (qui con un curioso ribaltamento tra pancia e glutei). Questa caratteristica suggerisce un legame immediato con le più antiche veneri “steatopigie” (dalle grandi natiche) e aiuta a comprendere la genesi di quel processo creativo-rappresentativo sopracitato, esclusivamente umano, che è capace di “far vedere” il latente, qualità peculiare di ogni manifestazione artistica. Il sentimento che traspare da questi racconti, incentrati sul rapporto tra donne e uomini, è, nelle parole che condividiamo della stessa archeologa Peschlow-Bindokat, di “vivacità e appagamento”; veniamo introdotti in un mondo dove l’essere umano è essere sociale, dove le donne occupano, forse idealizzate, un ruolo preminente e dove, non è un caso, sono del tutto assenti scene di qualsivoglia violenza. Siamo di fronte alla smentita formidabile di un luogo comune dato per scontato sotto quasi tutte le latitudini culturali: non c’è traccia di alcunché di aprioristicamente selvaggio o “storto” o inquietante nelle manifestazioni fin qui note delle popolazioni primitive che hanno abitato il mondo prima dell’affermazione del “logos”. C’è al contrario una testimonianza di socialità, di riconoscimento del ruolo femminile, di generosa prevalenza della spensieratezza e dell’armonia 68

sulla forza e sulla necessità. Non dobbiamo infatti dimenticare l’altro struggente esempio, coevo, costituito dal museo all’aperto del Sahara libico-algerino con le migliaia di racconti su roccia. Anche qui protagoniste le donne; anche qui, pur nel codice espressivo più naturalista, nell’assenza totale di scene guerresche o cruente. Un mondo popolato di immagini, una società acerba – prerazionale - ancora lontana dall’affermarsi delle articolate costruzioni concettuali che, nel processo storico, sembrano accompagnarsi al drammatico precipitare nella separazione tra corporeità e intelletto. Vogliamo dire che è esistita sul serio un’età dell’oro? Qui il discorso si fa difficile proprio perché non intendiamo semplificare o raccontare favole (ricordando Rousseau), ma il problema si presenta realmente sul piano scientifico. Mettendo tra parentesi per il momento il tema affascinante della modalità espressiva (e della potenza dell’arte preistorica) possiamo tentare di riannodare qualche filo. Una lunga stagione prepara l’ingresso dell’umanità nel regno del pensiero scritto, del dominio sulla natura, delle scoperte scien-

L’unicità di questo ritrovamento, sta nella scoperta del momento in cui la nostra specie comincia a interrogarsi esplicitamente su di sé tifiche e tecniche; è la stagione ingenua e infantile dove al linguaggio articolato si antepongono l’immagine e il suono, dove ancora si è in pochi e ci si muove molto. Poi qualcosa si complica con lo sfruttamento agricolo e la nascita del surplus, delle città e delle prime oligarchie: si guadagnano possibilità enormi di intervento sull’ambiente e anche di comunicazione e di espressione, ma progressivamente si impone implacabile il modello razional-patriarcale (basato sulla cancellazionemortificazione dell’identità femminile). Legame con la terra, difesa del suolo, paura dello sconosciuto, creazione del dio protettore. L’ossessione della forza, fondata su una perdita d’identità, non viene mitigata dalla nascente poesia. Si approda presto, cancellando totalmente cultura ed epopee precedenti, alla saldatura micidiale tra patriarcato, monoteismo e logos (tra il padre dei cieli ed i padri c’è un legame diretto) che sta ancora segnando, con l’ideologia che li sostiene, il nostro destino. Eppure, come ci racconta anche l’antica Anatolia, è un delitto irreparabile dimenticare che non avevamo cominciato così. 4 aprile 2015


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