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ALIAS 2 GENNAIO 2016

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L’antropologo attivista che ogni estate raduna volontari palestinesi, israeliani e da ogni parte del mondo per ricostruire le casa distrutte dai soldati israeliani, parla del suo libro « ar against the People» di EATRICE CASSINA M LANO

Mentre sta presentando il suo nuovo libro in molte città europee, Jeff Halper, scrittore e antropologo ebreo statunitense, parla della situazione in Israele e, anche nella partecipazione di ragazzini ai disordini, vede un segno molto chiaro di disperazione. «Non c’è un programma politico, non credo ci sarà un’altra Intifada perché ormai si è arrivati al punto in cui i palestinesi non hanno più niente da perdere, e neanche niente da guadagnare. Nessun palestinese crede che l’occupazione potrà mai finire, ma si dovrebbe invece pensare a uno stato democratico con due nazionalità, anche per dare speranza a entrambi i popoli. Netanyahu è un problema, perché cerca di spiegare la resistenza senza mai arrivare alle vere motivazioni, che sono repressione e occupazione. Termini che non usa mai». Jeff Halper apre il suo nuovo libro, War against the People, (Pluto Press. Londra), con un interrogativo: Com’è che Israele continua a farla franca? Durante una chiacchierata a Milano, tra i suoi tanti appuntamenti europei, ricorda come Israele sia stata, da subito, la pedina americana sulla scacchiera mediorientale, e di come abbia sempre rappresentato un importante appoggio agli Stati uniti. «Vendendo inizialmente», dice Halper con lucida calma quasi scanzonata, «bombe, granate, componenti elettroniche, parti per aerei di guerra e carri armati », fino ad arrivare a consistenti promesse reciproche e, dal 1 8 , dopo l’invasione del Libano del 1 82, «alla decisione di inserire il supporto israeliano nei sistemi di difesa americani». L’abilità israeliana nelle tecnologia di armi, «è accompagnata da una contro-offensiva, da una guerra contro la gente, e dalla necessità di raccogliere sostegno per le politiche di occupazione». Proprio nel libro leggiamo che: «senza un’occupazione e un conflitto interminabile, come potrebbe Israele sostenere la sua posizione internazionale? L’occupazione rappresenta una risorsa per Israele in due sensi: economicamente provvede a un terreno di prova per lo sviluppo di armi, sistemi di sicurezza, di modelli di controllo della popolazione e di tattiche senza cui Israele sarebbe incapace di competere nei mercati di armi e sicurezza. Poi, essendo un potere

eff Hakper, antropologo ebreo statunitense (nato in Minnesota nel 1946), attivista politico, vive dal 1973 in Israele e ha partecipato, nel 1997, alla fondazione della Ong ICAHD (Israeli Committee Against House Demolition), di cui è direttore, che ha lo scopo di resistere alla demolizione delle abitazioni palestinesi nei territori occupati e organizzare volontari palestinesi, israeliani e provenienti da ogni parte del mondo per ricostruire le case, creando cos un nuovo modo di disobbedienza civile. Ha scritto numerosi libri sul conflitto israelo-palestinese focalizzando l’attenzione sulle strategie nonviolente per risolvere il conflitto, comr bstacles to Peace: A Reframing of the Israeli-Palestinian Conflict (2009) e War agaist the People: Israeli, the Palestinians and Global Pacification (2015). Sostiene da sempre il movimento BDS (Boycotts, Divestment, Sanctions) e ritiene Israele colpevole di Apartheid. stato nominato dall’ American Friends Service Committee al premio Nobel per la pace insieme all’intellettuale palestinese Ghassan Andoni. Nel 2007 ICAHD ha ricevuto dal ewish Voice for Peace l’ Olive Branch Award militare che serve molti paesi, nel mondo ha assunto una posizione internazionale importante, che non avrebbe altrimenti. Israele è un piccolo paese che tenta di trovare una nicchia nelle rete militare-industriale transnazionale. Dove sarebbe, senza Occupazione e senza i conflitti regionali che genera?». Proprio nel ‘modello’ Israele, si trovano ingredienti fondamentali dell’occupazione, che partono dalla demoralizzazione del popolo palestinese e dalla continua umiliazione, creata anche attraverso restrizioni sempre maggiori di movimento e a cui il ‘nemico’ palestinese si deve attenere. Tutte tattiche aggressive di militarizzazione, esportate poi nel mondo. I metodi israeliani contro le insurrezioni sono stati documentati da molti libri, e Halper sottolinea l’ingombrante politica di Armi, Sicurezza e Militarizzazione instaurata da Israele, per poi esportarla nei punti decisivi del globo. Sì, è una realtà di cui non ci si rende conto completamente, ma il sistema del potere che Halper ha indagato e studiato negli ultimi cinque anni, si riassume tristemente in Pacification Securization e Militarization,

anche se la gente comune non ne capisce molto. «La sinistra poi, come me, arriva per la maggior parte dal mondo umanistico e quindi non sappiano niente di computer, genetica, nano-tecnologie, robotica Ma un venticinquenne che sta in un laboratorio attrezzatissimo all’MIT (Massachusetts Institute of Tecnology), riceve invece 100 milioni di dollari dal Pentagono per fare le sue ricerche». Già, questi studi hanno risorse molto più grandi di quanto si possa pensare. «Vorrei rendere consapevole sempre più gente che è importante

capire a che livello di ‘globale’ siamo arrivati. Anche l’Italia, che non ha fama di essere un paese aggressivo militarmente, guarda un po’ , ha venduto aerei a Israele, studia nanotecnologie per fini diversi Non ci sono paesi che non siano coinvolti con Israele. Anche la Norvegia, con tutte le sue battaglie per i diritti umani, lo è, per motivi politici ed economici. Qui ci sono davvero tanti soldi». Precisa poi che l’industria americana delle Armi e della Sicurezza raggiunge i 2 Trilioni e mezzo di dollari all’anno. Il libro a tratti può apparire

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difficile, ma Jeff Halper ci consegna la spiegazione della necessità di scrivere un libro così: «è importante per dare l’idea di come riformulare l’agenda della sinistra. Parte del sistema capitalistico, che passa dalle fasi di Pacification, Securization e Militarization, è ormai un processo strutturale e globale e, l’unico modo di combattere questo stato di cose, non è fare una campagna contro la guerra, ma pensare quale potrebbe essere una mossa di contro-egemonia». E già, ahimè, non serve più pensare a manifestazioni ma, «se pensiamo a una soluzione staccandoci dalla nostra realtà e dal sistema capitalistico, possiamo formulare una reale alternativa? Forse dovremmo partire dalle radici di quello che è la sinistra». E come si arriva a un sistema migliore? «La sinistra non si sta interessando a questo, ma solo ad altre questioni più piccole, lasciando il sistema capitalistico così com’è, anche se poi lottiamo per i diritti delle donne. Ma sono ‘distrazioni’ temporanee dal problema reale. Così non cambia niente ma, se si avesse il quadro completo, allora si capirebbe come tutto si organizza in una rete globale. Certamente i media sono parte del problema, ma guerre, diritti delle donne, tutto è dentro allo stesso, unico problema. Ma se non riconosciamo il sistema, e diciamo solo di non sopportare il tal primo ministro o la tal Corporation, vediamo solo frammenti del problema, problemi tedeschi, americani, inglesi, ma mai il quadro generale. Con la Pacification, il sistema vuole essere ‘morbido’, non cerca mai frizioni, perché ci sono altri problemi che bisogna risolvere e sconfiggere. Ci sono i pirati Somali che creano problemi, ci sono i sindacati, gli scioperi, che disturbano». Ogni cosa che disturba il capitalismo è un nemico. La Pacification serve a fare in modo che si stia nelle regole, mentre ogni critica può diventare pericolosa, perché così stai solo aiutando il nemico. Nella logica militare e della sicurezza, sei un nemico anche se credi di non aver fatto niente. La polizia ti controlla dappertutto, anche se non lo sai. Ti controlla su FaceBook, controlla che tipo di amici hai, le tue opinioni politiche. Ci sono algoritmi che possono dire se certe persone potrebbero poi essere pericolose e, nel giro di sei mesi, si può fare in modo di arrestarti». Ha sempre a che fare con lo stato d’emergenza e, se è un’emergenza, si può fare tutto. Il capitalismo, forse per rendere tutto ancora più credibile, parla di «Global Emergency», e usa il terrorismo come scusa. Sì, il libro è complicato, anche perché è raro trovare una voce limpida che abbia voglia di documentare, spiegare e denunciare queste cose: «Il libro è una sfida alla sinistra. Andare a fare manifestazioni ogni settimana non è la risposta. Abbiamo la responsabilità di essere efficaci in quello che diciamo, dobbiamo fare qualcosa di concreto, diventare agenti di contro-egemonia». Il problema è l’egemonia, e non si

Alcentro ritratto di eff alper, le altre foto in pagina si riferiscono ad azioni militanti

Il mio ultimo libro è una sfida alla sinistra Fare manifestazioni ogni settimana non è la risposta, dobbiamo fare ualcosa di concreto, diventare agenti di contro egemonia tratta di Impero americano. Il controllo lo fa più McDonalds, di quanto faccia il sistema militare. Si conquista con l’egemonia di qualsiasi cosa, dei bisogni indotti, con la pubblicità. McDonalds, Coca Cola, Walt Disney possono conquistare la Cina, Apple può farlo. È un’egemonia che funziona quasi ovunque. «Se riuscissimo a resistere, vedremmo la coercizione e che, se non sei d’accordo, sei il nemico. Dovremmo definire cos’è davvero la contro-egemonia. Cosa vogliamo realmente? Parliamo di cose in generale, di diritti, ma non abbiamo una risposta. Qual è il nostro programma? E però, la gente che sta male vuole entrare nel sistema, perché il capitalismo fa credere di essere un sistema aperto a tutti. E su questi temi ci sono anche moltissimi film. La gente in tutto il mondo, soprattutto giovane, legge rivistine sulle star di Hollywood, e crede di voler vivere come loro per avere successo, e magari essere una star al Grande Fratello. Il problema poi, è che esiste un surplus di umanità, che però non ha il nostro stesso valore. La maggior parte dell’umanità vive senza garanzie, senza sanità, senza diritti. Non hanno niente e se muoiono, non ci interessa, perché la vita di questa gente è senza significato. La vita ha un valore diverso, dipende da dove vivi e da dove e cosa consumi». Ci sono mille periferie nel mondo dove vive la maggior parte dell’umanità e delle cui risorse noi vogliamo impossessarci. Non ci sono risposte nel libro, ma viene spiegato il modello in cui ci siamo auto intrappolati. «Il mio libro è una lettura che spiega, anche attraverso la militarizzazione, il sistema del mondo in cui viviamo. Non sono solo critico della militarizzazione, ma anche di come siamo entrati nel capitalismo».


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