Piave

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Alessandro Marzo Magno

Piave Cronache di un fiume sacro



1. C’era una volta un fiume

Parliamo di un fiume scomparso. Di un fiume che vive nella memoria collettiva di un paese, ma che nel suo letto ormai è morto. Non c’è più. O quasi. Bevuto da centoventuno centrali idroelettriche, assorbito dai campi al ritmo di novantotto metri cubi al secondo (solo nei mesi secchi, per carità, in quelli invernali invece alimenta con la sua acqua gli impianti di innevamento artificiale attraverso trentasette «punti di attingimento»), in realtà è un fiume che fa di tutto, fuorché fare il fiume. Ovvero non scorre, non fluisce, non si gonfia, non esonda. Non mormora più. In compenso ci rifornisce di energia elettrica, di mais e grano coltivati con le sue acque, di ghiaia cavata dal suo alveo. È stato imbrigliato e addomesticato. Era un fiume impetuoso – «il fiume rapidissimo della Piave» lo definisce Marco Magno, provveditor sopra la Piave, in un dispaccio che nel 1611 manda da Cimadolmo al Senato della Serenissima –1 e non solo veloce, ma anche cattivo – «rapacissimo» lo chiamavano –2, con le sue piene apocalittiche riusciva addirittura a invadere il letto di un altro corso d’acqua: quando il Piave rompeva a Nervesa andava giù dritto fino a Treviso e si buttava nel Sile. Ma poi è stato ingabbiato, reso rassicurante, acquiescente. «Fiume simbolo del coraggio, dell’eroismo, del patriottismo degli italiani. Fiume simbolo, oggi, della loro cecità» lo definisce Gian Antonio Stella.3 Se una nuova armata austroungarica dilagasse per la pianura friulana e veneta, non ci sarebbe più un Piave a fermarla e a far sì che «i resti


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di quello che fu uno degli eserciti più potenti del mondo risalgano in disordine e senza speranza quelle valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza», come si legge sui bollettini della Vittoria riprodotti su mille muri d’Italia. È un fiume paradossale, il Piave: se lungo il suo corso è ridotto al 10 per cento di quello che era, in compenso può fregiarsi di ben due fonti e due foci. La sorgente ufficiale è una, ma ce n’è un’altra che la gente del luogo assicura essere quella «vera». Più o meno come il Danubio, i cui natali sono stati ufficialmente assegnati a Donaueschingen, spiega Claudio Magris, ma sono rivendicati anche da Furtwangen che preferirebbe chiamare Donau il Breg, il corso d’acqua che lì nasce per morire quarantacinque chilometri più a valle, diventando Danubio dopo essersi unito al Brigach. La foce da cui oggi il Piave fluisce in mare ha da poco compiuto trecento anni (è stata tagliata dalla Serenissima nel xvii secolo), mentre la sua bocca storica, quella che si era guadagnato da solo serpeggiando per la pianura ai margini della laguna, è oggi diventata la foce del Sile (sono stati sempre i veneziani a scambiare un fiume con l’altro per evitare che la laguna venisse interrata). Il Piave ha ispirato molta letteratura, e ancor oggi un poeta di prima grandezza e uno scrittore-alpinista vivono non lontano dalle sue sponde. Nella parte nuova di Erto, il paese in parte cancellato dalle acque del Vajont, in un negozio-atelier lavora Mauro Corona. I curiosi lo scocciano, a meno che non siano giovani visitatrici, meglio se avvenenti. Se ne resta dentro, inchiavardato. Quando esce dal suo pertugio, offre solo parole scontate e parecchio esagitate per definire il Piave: «È acqua. L’acqua è acqua. Il Piave è l’acqua del Vajont. Se mi chiedi cosa mi suscita la memoria, ti rispondo: i fanti del Piave. Ma non è un fiume particolare, non c’è particolare, siamo tutti uguali».4 E così sia. Meno di maniera la testimonianza di Andrea Zanzotto. «Il Piave è il mio fiume» afferma l’ottantanovenne poeta di Pieve di Soligo «mio padre ha combattuto nell’ultima battaglia.»5 La sua famiglia era stata sfollata a Tarzo durante «l’anno della fame», nel 1917, quando nel Veneto occupato dagli austroungarici non c’era più nulla da mangiare e in molti, moltissimi, morirono letteralmente di fame (negli Imperi centrali ci furono oltre settecentomila morti per denutrizione a causa del blocco navale imposto


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dagli Alleati, più di quanti ne avrebbero causati i bombardamenti della guerra successiva, per i quali le stime variano dai cinquecento ai seicentomila). Di tutto questo Zanzotto ha solo sentito parlare, il suo ricordo personale è quello del fascismo «che pompava la retorica sul Piave», o degli ex combattenti esibiti nelle scuole, come la Medaglia d’oro Sante Dorigo, «una specie di supereroe, con tante mutilazioni». E se la guerra non veniva a scuola, la scuola andava alla guerra: i bambini, e Andrea Zanzotto con loro, venivano portati sui luoghi delle battaglie. «C’era sempre una presenza del fiume che veniva ricordato in tante situazioni» osserva il poeta. Ne parla anche in alcuni suoi componimenti; in Fiume all’alba: «Acqua inconsistente acqua incompiuta / che odori di larva e trapassi / che odori di menta e già t’ignoro / acqua lucciola inquieta ai miei piedi». Quando esisteva, il Piave era un fiume riottoso che divideva le due sponde. Univa sì la montagna alla pianura, ma non le proprie rive. Era più facile trovare un cadorino a Venezia che un abitante della destra sulla sinistra Piave. Ancor oggi è difficile, molto difficile, che uno di Segusino vada al bar nella dirimpettaia Quero. Le popolazioni non si amavano: chi viveva sulla sinistra Piave riteneva imbroglioni e inaffidabili i più evoluti abitanti della destra; mentre i residenti della destra consideravano quelli della sinistra ingenui e rozzi, più friulani che veneti. Anche la lingua delle due sponde ha risentito dell’isolamento secolare: la destra, che è la parte vicina ai centri maggiori, Belluno, Feltre, Asolo, Castelfranco, ha un dialetto più morbido che riflette maggiormente la cantilena veneziana. La lingua della sinistra è più dura, più tronca, simile al cadorino. Un tempo queste divisioni non erano affatto inusuali: a Venezia chi stava al di qua del Canal Grande parlava diversamente da quelli che stavano al di là (gli uni – per aglio e olio – dicevano ajo e ojo, gli altri agio e ogio) e Andrea Zanzotto testimonia che si riusciva anche a distinguere chi stava di qua e di là del Soligo, un fiume decisamente più addomesticabile del Piave. Un tempo il Piave, come già altri fiumi veneti – Brenta, Livenza – e ancora qualche fiume italiano – Dora – era femminile. «La Piave» è sopravvissuta per secoli, ma non ce l’ha fatta a uscire indenne dalla Prima guerra mondiale. È diventata «il» Piave, e così sia. «Fiume maschio per meriti di guerra» lo saluta nel 1923 Oreste Battistella, autore


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del libro La battaglia del Montello. In realtà esisteva un illustre precedente: quello di Giosuè Carducci che nell’ode Cadore («Deh, fin che Piave pe’ verdi baratri / ne la perenne fuga de’ secoli / divalli a percuotere l’Adria co’ ruderi de le nere selve») «assegnò al fiume il genere maschile».6 D’altra parte il femminile non poteva proprio pensare di sopravvivere al Vate. «E il fiume maschio trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare» poetava Gabriele D’Annunzio, e giù ad andargli dietro, nonostante persino tra i militari ci fosse qualche autorevole fan del femminile. Per esempio il duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, scrive sempre «la» Piave e il generale Carlo Porro (sottocapo di stato maggiore) sottolinea: «Io scrivo la Piave e non il Piave, perché nella parlata locale, sia in montagna sia in pianura, il nome è femminile».7 Ma ciò che è risultato davvero determinante a mutare da femminile in maschile il genere del fiume è stata la celeberrima Leggenda del Piave. Quel «il Piave mormorò...» cantato dai soldati in trincea sarebbe stato il definitivo suggello della mascolinizzazione (che avrebbe contagiato anche gli altri fiumi veneti, facendoli divenire maschili per analogia). L’autore di queste parole e musica destinate a tanta popolarità è un impiegato napoletano delle Poste, tal Giovanni Ermete Gaeta che, con lo pseudonimo E.A. Mario, aveva firmato altre hit di successo: Vipera, A Mergellina, Profumi e bambole, o la più famosa, Santa Lucia luntana (nel 1945 scriverà le note, in collaborazione con un medico che ne redige il testo, di un’altra canzone destinata a diventare famosissima, Tammurriata nera). Non è l’unico postelegrafonico a dedicarsi alla musica. Anche Vittorio Locchi, tra un timbro e un francobollo, trova il tempo per comporre la Sagra di Santa Gorizia. Comunque E.A. Mario, trasferito durante il conflitto in un ufficio postale di Bergamo, si cimenta con «parecchie canzoni di guerra, tra cui Serenata all’imperatore, in risposta a un giornale austriaco che aveva scritto: “Vennero a combattere contro l’Austria i mafiosi di Sicilia, i briganti di Calabria e i mandolinisti di Napoli”».8 Le Regie Poste lo licenziano per scarso rendimento – si allontana spesso dal lavoro senza giustificati motivi – ma quando si rendono conto che l’assenteista Giovanni Gaeta è in realtà il famoso E.A. Mario, lo reintegrano con onore.


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Versi e note del più celebre canto di guerra italiano gli sono ispirati dalla fine, vittoriosa per l’Italia, della battaglia del Solstizio, in un furore compositivo che sembra si sia sfogato in una sola notte, quella del 24 giugno 1918 (il che potrebbe spiegare quell’incongruente «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio»: il 24 maggio 1915 i fanti italiani erano sull’Isonzo, non sul Piave). Comunque la canzone si irraggia per i vicoli di Napoli e presto raggiunge le trincee dove contribuisce ad alzare il morale delle truppe. È lo stesso comandante in capo a riconoscerlo. «La vostra Leggenda del Piave al fronte è più di un generale!» telegrafa Armando Diaz a Giovanni Gaeta (che da parte sua, magnanimo, rinuncia ai diritti). Lo spartito originale, pubblicato solo a guerra finita, ha in copertina un’incisione di Amos Scorzon – un gladio insanguinato con la scritta spqr che trafigge un’aquila bicipite – accompagnata dai versi di Gabriele D’Annunzio: «Non c’era più se non un fiume in Italia, il Piave; la vena maestra della nostra vita. Non c’era più in Italia se non quell’acqua, soltanto quell’acqua, per dissetar le nostre donne, i nostri figli, i nostri vecchi e il nostro dolore». Il patriottico Gaeta pensa a tutto lui: «Versi e musica E.A. Mario, casa editrice musicale E.A. Mario, via Vittorio Emanuele Orlando 9, Napoli»9 recita il frontespizio, dove è pure aggiunto che il Piave della canzone è dedicato «ai soldati che lo santificarono, agli alleati che lo ammirarono, ai nemici che lo ricorderanno». Nella seconda pagina il testo di quattro strofe. La prima è quella che conoscono tutti: «Il Piave mormorava...». La seconda comincia con un oscuro: «Ma in una notte trista, si parlò di un fosco evento». La terza è minacciosa: «E ritornò il nemico: per l’orgoglio e per la fame». Poi finalmente la quarta strofa, liberatoria: «Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento / e la Vittoria sciolse le ali al vento!». Nella terza pagina lo spartito, in quarta la pubblicità: altri lavori composti e pubblicati al tempo dall’illustre musicista come Canta che ti passa e Ladro di bambole, dove E.A. Mario è autore dei versi, nonché Stornellata del vagheggino, Java dei piccioni e Madonna di Siviglia per le quali, invece, si è cimentato con la musica su versi di altri. La leggenda del Piave diventa essa stessa una leggenda: inno provvisorio d’Italia tra il 1943 e il 1946, sarebbe potuta assurgere a definitivo al posto del Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli. Alcide De Gasperi,


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nel 1946, avrebbe convocato E.A. Mario a Roma chiedendogli di comporre l’inno della Democrazia cristiana, ma Gaeta si sarebbe rifiutato, ritenendosi non capace di scrivere musica su commissione, ma soltanto se ispirato dal cuore. Offeso, il leader democristiano non avrebbe avanzato la candidatura della Leggenda del Piave come inno italiano per punire il musicista poco sensibile al volere dei potenti. In ogni caso, quelle note se non altro a Santa Croce del Montello hanno una funzione ufficiale: ancor oggi rintoccano ogni mezzogiorno dal carillon del campanile. Gaeta non era nuovo a contraddire i grandi: quando, nel 1922, in occasione dell’inaugurazione del Vittoriano a Roma, era stato convocato al Quirinale da Vittorio Emanuele iii, aveva spiattellato in faccia al re di essere repubblicano e mazziniano. Il sovrano, evidentemente di buon umore, gli replicò che i repubblicani avevano reso grandi servigi alla monarchia e lo nominò egualmente commendatore. Giovanni Ermete Gaeta morì a Napoli nel giugno 1961, settantasettenne, dopo aver composto oltre duemila canzoni. La tradizione iniziata con La leggenda perdura, e il Piave è destinato a rimanere a lungo soggetto di spettacoli. Come nel monologo Il reduce del 1977, in cui Renato Pozzetto (inconsapevole profeta) recita: «Viene il Silvio e mi fa: “Io vado a salvare la patria” e io mi faccio prendere dalla foga e gli faccio: “Puttana Eva, vengo anch’io”, quindi corro in stazione a prendere la tradotta per il fronte, ci caricano come bestie e ci portano sul Carso, pim pum, saltano le mine, son tutto sporco di sangue. “E il Piave?” “Mormora.” “Ma cosa mormora cosa, che mi sto cagando addosso!”». Il nome Piave, a metà degli anni settanta, è anche riuscito a far affermare una grappa fino al punto di farla diventare leader del mercato. Molti ricorderanno quel celeberrimo carosello, prima con Luigi Vannucchi, poi con Enzo Tortora: «Via la testa, via la coda, resta solo il cuore». Geniale vendere un bene illustrandone il processo produttivo. A ricostruire la storia della grappa Piave è il manager di allora, Vincenzo Fagiuoli, che oggi vive a Padova e si sta di nuovo occupando del medesimo prodotto.10 Ma raccontiamo con ordine questa success story del Nordest prima del Nordest (ovvero prima che a qualcuno balenasse nella mente mente di chiamare Nordest quelle che al tempo erano conosciute come Tre Venezie).


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Siamo a Conegliano, dove dall’inizio del Novecento esistono varie distillerie appartenenti a famiglie di nome Maschio, non tutte parenti fra loro. Due fratelli Maschio, Ermenegildo e Bonaventura, a metà degli anni cinquanta, comprano la Landy Fréres, un’azienda che di francese ha solo il nome, per di più taroccato. Apparteneva infatti ai bolognesissimi fratelli Landi che negli anni trenta si erano messi a produrre cognac (meglio: brandy, prima che i francesi affilino la ghigliottina), ma per venderlo avevano bisogno di dare quel non so che d’Oltralpe alla loro società; avevano quindi deciso di francesizzarne il nome. I fratelli Maschio, che già producevano grappa (e la producono ancora: la Prime Uve), decidono di fare le cose in grande. Si mettono in contatto con una delle più importanti agenzie pubblicitarie del tempo, la Odg – Orsini, Damioli, Gandin – ovviamente di Milano (che oggi non esiste più), e danno il via all’operazione. È la stessa famiglia a tirar fuori dal cilindro il marchio Piave: vivono vicino al fiume, hanno un figlio alpino, il nome è evocativo quanto basta. I «creativi» (si direbbe oggi, ma forse a fine degli anni cinquanta la parola non era ancora stata inventata) milanesi visitano la distilleria, gironzolano nei dintorni, passano i ponti sul Piave, e sconsigliano vivamente quel marchio: è un nome geografico e non è difendibile attraverso il copyright. Insomma, chiunque altro avrebbe potuto chiamare un qualsiasi prodotto Piave e sfruttare il successo della grappa. Ma i Maschio vanno avanti per la loro strada: avranno ragione loro, perché nessun altro userà mai quel marchio. Meglio: ci saranno dei tentativi, come l’Amaro Piave, ma non scalfiranno il primato. L’agenzia che ha l’idea del messaggio propone altresì di utilizzare il volto di Luigi Vannucchi; si parte e gli affari vanno alla grande. Anche la bottiglia è particolare. Fagiuoli ricorda che la Carpenè Malvolti commercializzava una grappa con un tappo a forma di torsolo di pannocchia. Per la bottiglia della Piave, con il collo allungato, i Maschio avevano pensato a un tappo a forma di fungo, solo che la scelta era caduta sull’amanita muscaria (quella rossa con i puntini bianchi), velenosissima, e Damioli e i suoi ci misero ben due anni a convincerli che non fosse il caso di mettere in commercio un prodotto alimentare contraddistinto da un fungo velenoso. Grazie a Luigi Vannucchi che ne è testimonial per tre-quattro anni


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(si suicida nel 1978) e a Enzo Tortora che ne interpreta i caroselli per oltre sette (smette prima dell’arresto, il 17 giugno 1983, Fagiuoli lo ricorda come eccellente professionista: giravano assieme per i primi ipermercati italiani, Tortora firmava le etichette della grappa, che andava immediatamente a ruba), la Piave va talmente bene che si trascina dietro anche la Julia della Stock, la Fior di Vite della Ramazzotti e la Bocchino che utilizza come testimonial Mike Bongiorno, trasportato in elicottero in cima al Cervino e che grida: «Sempre più in alto!». La Piave viene portata dagli stessi produttori ai raduni nazionali degli alpini non in bottiglie, ma in botticelle. Bocie e veci ringraziano, apprezzano e quando tornano a casa continuano a comprarla e a berla. Sono gli anni in cui furoreggia la bottiglietta mignon da dieci centilitri, oggi ambìto oggetto da collezionisti in vendita su eBay. I fratelli Maschio ingrandiscono l’azienda e aprono una distilleria nuova di zecca, a Visnà di Vazzola, vicino a Conegliano. A metà degli anni settanta la Piave vende quattro milioni di bottiglie in un mercato che ne vale quaranta milioni (oggi se ne vendono la metà: venti milioni), esporta in Europa, soprattutto in Germania, mentre in Italia dà un contributo determinante alla diffusione della grappa nel Centro e nel Sud (fino ad allora il 90 per cento di questo distillato era venduto in Triveneto, Piemonte, Lombardia ed Emilia. Oggi la quota nordista si è ridotta al 75 per cento e quella sudista è salita al 25). Tra il 1975 e il 1976 entra in società, con una quota di minoranza, l’elvetica Wine Food, partecipata dal Credito svizzero, la cui quota viene acquistata qualche tempo dopo dal gruppo Coltiva, della Lega delle Cooperative. Trascorrono ancora anni di successi e i fratelli Maschio decidono di andare all’incasso: tra il 1984 e il 1985 cedono il marchio all’americana Seagram, propietaria del whisky di «Michele l’intenditore» (Glen Grant), del Chivas e del Porto Sandeman. Per loro la Piave non è che una provincia dell’impero, e per questo distillato comincia un cammino in discesa che lo porterà a vendere solo mezzo milione di bottiglie. Quando la Seagram si ritira, un suo tecnico di produzione, un distillatore della provincia di Torino, fa proprio il marchio della Piave. Dopo varie vicissitudini, alla fine degli anni novanta, se lo assicurano i fratelli Gozio – ovvero gli attuali proprietari – che a Gussago di Brescia


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già possiedono le Distillerie Franciacorta. Questi, tra le vecchie carte, ritrovano gli artefici del clamoroso successo di trent’anni prima e li richiamano in servizio. L’operazione comincia ad avere successo: le vendite della Piave crescono nuovamente, portandosi vicino al milione di bottiglie. Non è ancora un fiume di grappa, ma un torrente che si sta rinvigorendo. Piave, e sai cosa bevi.


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