23 cose che non ti hanno raccontato sul capitalismo

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La Cultura 759

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Ha-Joon Chang

23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo Traduzione di Luca e Riccardo Fantacci

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www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Ha-Joon Chang, 2010 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: 23 Things They Don’t Tell You About Capitalism­­

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23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo a Hee-Jeong, Yuna e Jin-Guy

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7 modi per leggere 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo

Modo 1. Se non sei sicuro di sapere bene cosa sia il capitalismo, leggi: #1, #2, #5, #8, #13, #16, #19, #20 e #22

Modo 2. Se pensi che la politica sia fondamentalmente una perdita di tempo, leggi: #1, #5, #7, #12, #16, #18, #19, #21 e #23

Modo 3. Se ti sei chiesto perché la tua vita non sembra migliorare malgrado un reddito più alto e tecnologie sempre più avanzate, leggi: #2, #4, #6, #8, #9, #10, #17, #18 e #22

Modo 4. Se pensi che i più ricchi sono diventati più ricchi perché più capaci, più istruiti e più intraprendenti, leggi: #3, #10, #13, #14, #15, #16, #17, #20 e #21

Modo 5. Se vuoi sapere perché i paesi poveri sono poveri e come possono uscire dalla povertà, leggi: #3, #6, #7, #8, #9, #10, #11, #12, #15, #17, e #23

Modo 6. Se pensi che il mondo sia ingiusto ma che non ci si possa fare nulla, leggi: #1, #2, #3, #4, #5, #11, #13, #14, #15, #20 e #21

Modo 7. Leggi l’intero libro nell’ordine seguente…

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Sommario

Ringraziamenti

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Introduzione

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#1 Il libero mercato non esiste

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#2 Le aziende non vanno gestite nell’interesse degli azionisti

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#3 Nei paesi ricchi la maggior parte della gente viene pagata più di quanto dovrebbe

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#4 La lavatrice ha cambiato la vita più di internet

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#5 Aspettati il peggio e otterrai il peggio

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#6 La maggiore stabilità macroeconomica non ha reso l’economia mondiale più stabile

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#7 Le politiche liberiste raramente rendono ricchi i paesi poveri

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#8 Il capitale ha nazione

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#9 Non viviamo in un’epoca postindustriale

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#10 Gli Stati Uniti non hanno il tenore di vita più alto del mondo 107 #11 L’Africa non è destinata al sottosviluppo

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#12 Gli stati sanno puntare su imprese vincenti

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#13 Rendere i ricchi ancora più ricchi non rende tutti più ricchi

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#14 I manager americani sono pagati troppo

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#15 I paesi poveri sono più intraprendenti di quelli ricchi

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#16 Non siamo abbastanza intelligenti da lasciar fare al mercato

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#17 Più istruzione non rende un paese più ricco

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#18 Quello che è buono per la General Motors non è sempre buono per gli Stati Uniti

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#19 Malgrado la caduta del comunismo viviamo ancora in economie pianificate

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#20 L’uguaglianza di opportunità può non essere equa

200

#21 Uno stato sociale generoso rende la gente più aperta al cambiamento

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#22 I mercati finanziari devono diventare meno efficienti

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#23 Una buona politica economica non ha bisogno di bravi economisti

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Conclusioni. Come ricostruire l’economia mondiale

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Note

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Indice analitico

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Ringraziamenti

Sono in molti ad avermi aiutato a scrivere questo libro. Il mio agente letterario, Ivan Mulcahy, che ha svolto un ruolo chiave nella pubblicazione della mia opera precedente sui paesi in via di sviluppo, Cattivi samaritani, mi ha costantemente incoraggiato a scrivere un libro piÚ divulgativo. Peter Ginna, il mio editor alla Bloomsbury, non solo mi ha fornito preziosi consigli editoriali ma ha svolto un ruolo cruciale nel trovare il tono giusto da dare al libro ideandone il titolo, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, prima ancora che iniziassi a scrivere. William Goodlad, mio editor alla Allen Lane, ha preso le redini della parte editoriale e fatto uno splendido lavoro sistemando tutto per bene. Molte persone hanno letto alcuni capitoli del libro. Duncan Green li ha letti tutti e mi ha dato suggerimenti molto utili, sia sul contenuto sia sul profilo editoriale. Geoff Harcourt e Deepak Nayyar ne hanno letti molti e sfoderato consigli acuti. Dirk Bezemer, Chris Cramer, Shailaja Fennell, Patrick Imam, Deborah Johnston, Amy Klatzkin, Barry Lynn, Kenia Parsons e Bob Rowthorn ne hanno rivisto diversi, corredandoli di commenti preziosi. Senza l’aiuto dei miei validi assistenti non avrei potuto ottenere tutte quelle dettagliate informazioni sulle quali si basa questo libro. Ringrazio allora, rigorosamente in ordine alfabetico, Bhargav Adhvaryu, Hassan Akram, Antonio Andreoni, Yurendra Basnett, Muhammad Irfan, Veerayooth Kanchoochat e Francesca Reinhardt.

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Desidero ringraziare anche Seung-il Jeong e Buhm Lee per avermi fornito dati altrimenti non facilmente accessibili. Last but not least, ringrazio la mia famiglia, senza il suo aiuto e il suo amore questo libro non sarebbe stato portato a termine. Mia moglie, HeeJeong, non solo mi ha dato un grande supporto affettivo mentre stavo scrivendo, ma anche letto tutti i capitoli aiutandomi a formulare le tesi nel modo piĂš coerente e accessibile. Mi ha fatto un piacere immenso vedere che, quando esprimevo qualche idea a Yuna, mia figlia, lei reagiva con una maturitĂ intellettuale sorprendente per una ragazza di 14 anni. Mio figlio, Jin-Gyu, mi ha dato alcune idee davvero interessanti e un grande appoggio morale. Dedico questo libro a loro tre.

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Introduzione

L’economia globale è a pezzi. Nonostante stimoli fiscali e monetari senza precedenti abbiano evitato che la crisi finanziaria si trasformasse in un suo totale collasso, quella del 2008 resta comunque la seconda maggiore crisi economica della storia dopo la Grande Depressione. E anche se adesso (marzo 2010) alcuni dichiarano finita la recessione, non è affatto certo che ci sarà una ripresa duratura. In assenza di riforme del sistema finanziario, politiche monetarie e fiscali poco rigorose ci hanno portato nuove bolle finanziarie, mentre l’economia reale soffre per la mancanza di moneta. Se queste bolle scoppiano, l’economia globale potrebbe ricadere in una nuova recessione (double-dip). E, se mai ci sarà una ripresa duratura, le conseguenze della crisi si continueranno a sentire a lungo in ogni caso. Passeranno molti anni prima che le imprese e le famiglie rimettano in sesto i loro conti. Gli enormi deficit di bilancio creati dalla crisi costringeranno gli stati a ridurre sensibilmente gli investimenti pubblici e la spesa per il welfare, con effetti negativi sulla crescita economica, sulla povertà e sulla stabilità sociale, forse per decenni. Chi ha perso il lavoro e la casa durante la crisi rischia di restare escluso per sempre dal sistema economico. Le prospettive sono spaventose. Fondamentalmente, questa catastrofe è stata causata dall’ideologia del libero mercato, che dagli anni ottanta domina il mondo. Ci hanno detto che, se lasciati liberi, i mercati avrebbero prodotto il risultato più efficiente ed equo. Efficiente perché gli individui sanno come utilizzare al meglio le risorse a loro disposizione; equo perché il processo competitivo

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del mercato assicura che gli individui siano premiati secondo la loro produttività. Ci hanno detto che alle imprese va concessa la massima libertà, perché, conoscendo più di chiunque altro il mercato, sanno cos’è meglio per i loro affari. E se vengono lasciate libere di fare quello che vogliono, la creazione di ricchezza sarà massimizzata e ne beneficerà tutta la società. Ci hanno detto che l’intervento dello stato nei mercati ha come unico effetto la compressione della loro efficienza. Che, a causa di un egualitarismo mal interpretato, l’intervento dello stato è spesso concepito in modi che limitano la creazione di ricchezza. E quand’anche non fosse così, ci hanno detto che gli stati non possono migliorare i risultati del mercato perché non hanno né le informazioni né gli incentivi necessari per prendere buone decisioni. In definitiva, ci hanno detto di riporre tutta la nostra fiducia nel mercato e di non intralciarlo. Seguendo queste raccomandazioni, negli ultimi trent’anni gran parte dei paesi ha introdotto politiche liberiste: privatizzazione d’industrie e istituti finanziari statali, deregolamentazione della finanza e dell’industria, liberalizzazione del commercio e degli investimenti internazionali, riduzione delle imposte sul reddito e della spesa sociale. Queste politiche, come ammettono i loro stessi sostenitori, possono originare qualche problema, come per esempio una maggiore disuguaglianza, ma ci hanno detto che alla fine avrebbero portato benessere a tutti, creando una società più dinamica e sana perché, quando la marea si alza, solleva tutte le barche insieme. Il risultato di queste politiche è stato l’opposto di quanto promesso. Mettiamo da parte per un momento la crisi finanziaria, che lascia nel mondo una ferita che non si rimarginerà per almeno dieci anni. Già prima del 2008, anche se molti non lo sanno, le politiche liberiste avevano prodotto una crescita più lenta, maggiore disuguaglianza e instabilità in gran parte del mondo. In molti paesi ricchi questi problemi erano mascherati da una grande espansione del credito. Così, per esempio, il fatto che dagli anni settanta negli Stati Uniti i salari fossero rimasti fermi e le ore lavorative aumentate, era stato opportunamente occultato dal boom consumistico sostenuto dal credito. E se i problemi erano «abbastanza» gravi negli stati ricchi, nei paesi in via di sviluppo si sono rivelati drammatici. Il tenore di vita nei paesi dell’Africa subsahariana negli ultimi tre decenni non si è mosso, mentre nello stesso periodo i paesi del Sud America hanno regi-

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Introduzione    13

strato una flessione di due terzi della crescita del reddito pro capite. Sempre nello stesso periodo, in alcuni paesi in via di sviluppo, Cina e India per esempio, la crescita è stata veloce (anche se parallelamente è aumentata la disuguaglianza), ma, pur parzialmente liberalizzando, questi stati si sono rifiutati d’introdurre politiche interamente liberiste. Dunque, quello che ci hanno detto i sostenitori del libero mercato – o, come sono spesso chiamati, gli economisti neoliberisti – nel migliore dei casi è vero solo in parte, nel peggiore del tutto falso. Come mostrerò in questo libro, le «verità» che spacciano gli ideologi sono basate su presupposti superficiali e visioni ottuse, se non addirittura su tesi che favoriscono gli interessi personali. Il mio scopo è dire alcune verità essenziali sul capitalismo che i sostenitori del libero mercato non dicono. Questo libro non è un manifesto anticapitalista. Criticare l’ideologia del libero mercato non significa essere contro il capitalismo: malgrado i suoi problemi e i suoi limiti, credo sia il migliore sistema economico che l’umanità abbia inventato. La mia critica si rivolge alla sua particolare versione che ha dominato il mondo negli ultimi trent’anni: il capitalismo neoliberista. Il capitalismo neoliberista non è l’unica via per gestire il capitalismo, e certamente non la migliore, come provano i risultati degli ultimi tre decenni. Questo libro mostra che esistono altre vie, altri modi e che tali opzioni devono e possono essere perseguite. Anche se la crisi del 2008 ci ha fatto mettere in seria discussione i criteri con cui le nostre economie sono gestite, molte persone non si fanno troppe domande in proposito, perché la ritengono una materia inaccessibile ai non esperti. E senza dubbio lo è, ma fino a un certo punto. Per dare risposte precise, in effetti, occorrono conoscenze su molti argomenti tecnici, alcuni dei quali così complicati che anche gli esperti si trovano in disaccordo fra loro. È naturale, dunque, che gran parte di noi non abbia le conoscenze necessarie per imparare tutti i dettagli tecnici e pronunciarsi sull’efficacia del TARP (Troubled Asset Relief Program),1 sulla necessità del G20, sull’opportunità della nazionalizzazione delle banche o sui giusti livelli di remunerazione dei manager. E quando si passa a questioni come la povertà in Africa, il funzionamento dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) o le norme sull’adeguatezza patrimoniale stabilite dalla Banca dei regolamenti internazionali, moltissimi si perdono completamente.

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Tuttavia non è necessario comprendere ogni singolo dettaglio tecnico per capire che cosa avviene nel mondo ed esercitare quella che io chiamo «cittadinanza economica attiva», così da pretendere la giusta linea di condotta da coloro cui spetta prendere le decisioni. Dopotutto, esprimiamo opinioni su ogni genere di argomento anche senza conoscenze specifiche. Non occorre essere epidemiologi per sapere che ci devono essere standard d’igiene nelle industrie alimentari, nelle macellerie e nei ristoranti. Esprimere un parere su materie economiche non è diverso: se si conoscono principi chiave e fatti basilari, è possibile sostenere opinioni attendibili pur senza padroneggiare i dettagli tecnici. L’unica condizione per vedere la cruda realtà è togliersi le lenti rosa che l’ideologia neoliberista ci mette ogni giorno sugli occhi facendo apparire il mondo semplice e bello. Una volta capito che il libero mercato non esiste, non ci si farà più ingannare da chi si oppone a ogni regola in base all’idea che lo renderebbe «non libero» (vedi #1). Scoperto che uno stato forte e attivo può promuovere anziché soffocare il dinamismo economico, ci si accorgerà che la sfiducia generale nei suoi confronti è infondata (vedi #12 e #21). La consapevolezza di non vivere in un’economia postindustriale indurrà a chiedersi se sia saggio trascurare, quando non implicitamente augurarsi, il declino industriale di un paese, come alcuni governi hanno fatto (vedi #9 e #17). Quando ci si rende conto che la trickle-down economics (ossia l’idea che i poveri possano arricchirsi «per osmosi» in un sistema che agevola i ricchi) non funziona, si vedono i tagli alle tasse dei più abbienti per quello che sono: una semplice redistribuzione di reddito verso l’alto, piuttosto che un modo per renderci tutti più ricchi, così come promesso (vedi #13 e #20). Quanto successo all’economia mondiale non è accaduto per caso, né è il risultato dell’incontrastabile spinta della storia. Non è per via di una ferrea legge di mercato che i salari sono rimasti fermi e le ore di lavoro aumentate per gran parte degli americani, o che i redditi di amministratori delegati e banchieri sono cresciuti in modo esponenziale (vedi #10 e #14). Non è semplicemente a causa dell’inarrestabile progresso delle tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti che siamo esposti alle forze crescenti della concorrenza internazionale e dobbiamo preoccuparci della sicurezza del posto di lavoro (vedi #4 e #6). Non era inevitabile che negli ultimi trent’anni il settore finanziario si distaccasse sempre di più

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Introduzione    15

dall’economia reale, provocando quella catastrofe in cui ci troviamo oggi (vedi #18 e #22). E, soprattutto, non è a causa di qualche immutabile fattore strutturale – il clima tropicale, la posizione sfavorevole o la cultura mediocre – che i paesi poveri sono poveri (vedi #7 e #11). Sono le decisioni umane, specialmente quelle prese da chi stabilisce le regole, che fanno andare le cose nel modo in cui vanno. Anche se nessuno può essere sicuro che le proprie scelte producano i risultati sperati, le decisioni che sono state prese in campo economico non erano affatto inevitabili. Non viviamo nel migliore dei mondi possibile: se fossero state prese decisioni diverse, il mondo sarebbe diverso. Ciò premesso, dobbiamo chiederci se le scelte fatte da ricchi e potenti siano fondate su ragionamenti corretti e dati attendibili. Solo facendo così possiamo pretendere azioni giuste da parte delle imprese, dei governi e delle organizzazioni internazionali. Senza la nostra cittadinanza economica attiva, saremo sempre vittime di chi è più capace d’imporre le proprie decisioni e ci dice che le cose accadono perché devono accadere e che non possiamo fare nulla per cambiarle, per quanto spiacevoli e inique possano apparire. Questo libro vuole fornire al lettore gli strumenti per capire come funziona realmente il capitalismo e come potrebbe funzionare meglio. Tuttavia non è un manuale di «economia per negati», ma il tentativo di offrire qualcosa di meno e qualcosa di più al tempo stesso. Qualcosa di meno perché non si addentra in molti dettagli tecnici che un testo d’introduzione all’economia dovrebbe dare. La ragione per cui trascuro i dettagli tecnici non è perché li consideri incomprensibili ai lettori (il 95 per cento della scienza economica è senso comune reso complicato, e del restante 5 per cento il significato essenziale, se non ogni dettaglio tecnico, può essere spiegato con un linguaggio accessibile), ma semplicemente perché credo che il modo migliore per avere padronanza dei principi economici sia usarli per capire i problemi che più interessano. Perciò, introdurrò alcune precisazioni tecniche solo quando le riterrò importanti, piuttosto che in modo sistematico come in un libro di testo. Ma, pur essendo interamente abbordabile da non specialisti, questo libro è molto più di un manuale per negati, anzi, va decisamente più a fondo, poiché mette in discussione teorie economiche e fatti empirici che molti testi di economia avanzata danno per scontati. Anche se un lettore

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può essere intimidito dall’idea di mettere in discussione teorie sostenute da «esperti» e di avanzare sospetti su fatti empirici accettati da gran parte dei professionisti del campo, troverà che in realtà è molto più facile di quanto sembri, una volta smesso di prendere per buono tutto quello che dicono gli specialisti. La maggior parte degli argomenti trattati in questo libro non ha risposte semplici. In verità, per molti casi, la mia tesi principale è che una risposta semplice non esiste, diversamente da quello che molti economisti neoliberisti vogliono farci credere. Tuttavia, finché non affronteremo questi argomenti, non potremo comprendere come funziona realmente il mondo. E finché non lo comprenderemo, non saremo in grado di difendere i nostri interessi, né tantomeno migliorare lo stato delle cose in qualità di cittadini economicamente attivi.

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#1 Il libero mercato non esiste

Cosa ti dicono I mercati devono essere liberi. Quando lo stato interferisce per dettare cosa possono o non possono fare i partecipanti al mercato, le risorse non vengono allocate nel modo più efficiente. Se la gente non può fare ciò che giudica più redditizio, perde ogni incentivo a investire e innovare. Così, se il governo impone un tetto agli affitti, i proprietari non sono più incoraggiati a fare manutenzione agli immobili o a costruirne di nuovi. Oppure, se pone delle restrizioni al tipo di prodotti finanziari che possono essere venduti, due contraenti in grado di trarre vantaggio da operazioni innovative corrispondenti ai loro particolari bisogni non potranno cogliere i potenziali guadagni del libero contratto. Le persone devono essere lasciate «libere di scegliere», come recita il titolo del famoso libro di quel visionario del libero mercato che fu Milton Friedman.

Cosa non ti dicono Il libero mercato non esiste. Ogni mercato ha regole e confini che limitano la libertà di scelta. Un mercato sembra libero solo perché accettiamo le restrizioni che lo sottendono in maniera tanto incondizionata da non vederle più. Non si può stabilire con oggettività quanto un mercato sia «libero». Si tratta di una definizione politica. La pretesa degli economisti

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liberisti di voler difendere il mercato dalle interferenze dello stato dettate da motivi politici è errata. Lo stato è sempre coinvolto e gli araldi del libero mercato sono motivati politicamente come tutti gli altri. Superare il mito del «libero mercato» oggettivamente definito è il primo passo per comprendere il capitalismo.

Il lavoro deve essere lasciato libero Nel 1819, il Parlamento britannico discusse una nuova legislazione sul lavoro minorile, il Cotton Factories Regulation Act. Incredibilmente «leggero» per gli standard moderni, esso proibiva l’impiego dei bambini, o almeno di quelli di età inferiore ai 9 anni, mentre i ragazzi più grandi (da 10 a 16 anni) potevano lavorare, ma con un orario limitato a 12 ore al giorno (sì, erano davvero benevoli verso quei ragazzi!). Queste nuove regole valevano solo per le fabbriche di cotone, considerate eccezionalmente pericolose per la salute degli operai. La proposta suscitò un’enorme disputa. I contrari vi videro un attacco al sacro principio della libertà di contrattazione, e dunque la distruzione del fondamento stesso del libero mercato. Nel corso del dibattito, alcuni membri della Camera dei Lord si opposero, obiettando che «il lavoro deve essere lasciato libero» poiché i bambini vogliono (e hanno bisogno di) lavorare e gli imprenditori vogliono assumerli. Dov’è il problema? Oggi, anche ai più accesi sostenitori del libero mercato, in Gran Bretagna come negli altri paesi ricchi, non verrebbe mai in mente di reintrodurre il lavoro minorile in quei pacchetti di liberalizzazioni che tanto propagandano. Nondimeno, fino a fine Ottocento/inizio Novecento, quando in Europa e in Nord America fu introdotta la prima seria regolamentazione del lavoro minorile, molte persone rispettabili la consideravano contraria ai principi del libero mercato. Vista in questo modo, la «libertà» del mercato è come la bellezza: è negli occhi di chi guarda. Se credete che il diritto dei bambini a non lavorare sia più importante del diritto degli industriali a impiegare manodopera più conveniente, la proibizione del lavoro minorile non vi sembrerà certo una violazione della libertà del mercato del lavoro. Se credete il contra-

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rio, vedrete un mercato «non libero», vincolato da una regolamentazione scriteriata. Non c’è bisogno di tornare indietro di due secoli per trovare norme che oggi diamo per scontate (e accettiamo come «rumore di fondo» del libero mercato) ma che, quando furono introdotte, vennero furiosamente contrastate. Quando le normative ambientaliste (cioè le regole sulle emissioni inquinanti di auto e fabbriche) fecero la loro comparsa qualche decennio fa, molti le contestarono come una seria violazione della libertà di scelta, riflettendo che se la gente vuole guidare auto più inquinanti o se le aziende trovano più redditizi i metodi di produzione inquinanti, perché lo stato dovrebbe impedirlo? Oggi queste regole sono date per scontate dalla maggior parte delle persone, poiché è ovvio che le azioni che provocano danni agli altri, anche se non intenzionalmente (come l’inquinamento), debbano essere regolamentate; è giusto usare le risorse energetiche con accortezza, perché molte di esse non sono rinnovabili; è opportuno ridurre l’impatto umano sul cambiamento climatico. Se persone diverse possono vedere differenti gradi di libertà in un medesimo mercato, non esiste un modo obiettivo per definire quanto un mercato sia libero. In altre parole, il libero mercato è un’illusione. Se alcuni mercati sembrano liberi, è solo perché ne accettiamo ciecamente le regole.

Le corde dei maestri di kung fu Da piccolo ero affascinato da quei maestri di kung fu che sfidavano la gravità nei film di Hong Kong. Come molti bambini, immagino, ci rimasi male quando venni a sapere che in realtà erano appesi a delle corde. Il libero mercato è un po’ così. Accettiamo in modo talmente incondizionato la legittimità di certe regole che non le vediamo più. A un esame più attento però, i mercati si rivelano essere sorretti da regole. Molte regole. Per cominciare, esiste una lunga serie di norme su che cosa può essere scambiato, e non sono solo divieti su cose «ovvie» come droghe o organi umani: nelle economie moderne, voti elettorali, incarichi governativi e decisioni legali non sono in vendita, o almeno non apertamente,

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anche se in passato in molti paesi lo sono stati; le cattedre universitarie non possono essere vendute, se non in qualche nazione dove possono essere comprate sia (illegalmente) pagando i selezionatori sia (legalmente) facendo una donazione all’università; molti paesi vietano il commercio di armi da fuoco o bevande alcoliche; per motivi di sicurezza, i medicinali devono essere esplicitamente autorizzati dal governo prima di poter essere commercializzati. Tutte regole discutibili, proprio come lo era il divieto di vendere esseri umani (la tratta degli schiavi) un secolo e mezzo fa. Ci sono limitazioni anche su chi può accedere ai mercati. Oggi, le norme sul lavoro minorile vietano ai bambini il mercato del lavoro. Chi esercita professioni con un’influenza significativa sulla vita umana, come i medici e gli avvocati, deve avere un’abilitazione (che può essere rilasciata da ordini professionali invece che dal governo). In molti paesi solo alle imprese che dispongono di un certo capitale è permesso fondare banche. Perfino il mercato azionario, la cui insufficiente regolamentazione è stata fra le cause della recessione globale del 2008, ha norme per l’accesso agli scambi. Non si può entrare nella Borsa di New York con una valigetta piena di azioni e venderle. Le aziende devono rispondere a certi requisiti e soddisfare rigidi controlli contabili per diversi anni prima di poter offrire le proprie azioni. La negoziazione dei titoli viene condotta solo da agenti di cambio e mediatori autorizzati. Anche le modalità del commercio sono soggette a regolamentazione. Una delle cose che mi sorpresero quando mi trasferii in Gran Bretagna a metà degli anni ottanta fu che si poteva chiedere il rimborso integrale di un prodotto che non soddisfaceva anche se non aveva alcun difetto, cosa allora impossibile in Corea, se non nei negozi più esclusivi. In Gran Bretagna, il diritto del consumatore a cambiare idea era considerato più importante del diritto del venditore di evitare il costo della restituzione dell’articolo indesiderato (ma funzionante) al produttore. Molte altre regole disciplinano diversi aspetti del rapporto di scambio: affidabilità del prodotto, mancata consegna, insolvenza e così via. In molti paesi sono anche necessari permessi per l’ubicazione dei punti vendita, per esempio ci sono vincoli per le bancarelle o limitazioni ad avviare attività commerciali in zone residenziali. E poi ci sono le regolamentazioni sui prezzi. Non parlo solo di feno-

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meni molto visibili come i controlli sugli affitti o sui salari minimi che gli economisti liberisti si divertono a odiare. Nei paesi ricchi i salari sono determinati più dai controlli sull’immigrazione che da qualsiasi altro criterio, inclusa la legislazione sui salari minimi. Come viene stabilito il tetto massimo di immigrati? Non dal «libero» mercato del lavoro, che, se lasciato a se stesso, finirebbe per rimpiazzare l’80-90 per cento dei lavoratori locali con manodopera straniera più conveniente e spesso più produttiva. La soglia d’immigrazione è in gran parte stabilita dalla politica. Se avete ancora qualche dubbio sul ruolo massiccio dello stato nel libero mercato dell’economia, provate a pensare che tutti i nostri salari sono, in fondo, determinati dalla politica (vedi #3). In seguito alla crisi finanziaria del 2008, il costo del denaro (sia per i nuovi prestiti, ammesso che si riesca a ottenerne uno, sia per quelli in essere a tasso variabile) è diventato decisamente più basso in molti paesi grazie al continuo taglio dei tassi d’interesse. Come mai? Forse la gente non voleva più prestiti e le banche hanno dovuto abbassare i prezzi? Certo che no, i tagli sono il risultato della decisione politica di stimolare la domanda. Anche in tempi normali, nella gran parte dei paesi i tassi d’interesse sono fissati dalla Banca centrale, il che significa che possono essere influenzati da considerazioni politiche. Perciò, anche i tassi d’interesse sono determinati dalla politica. Se salari e tassi d’interesse sono (in larga parte) determinati dalla politica, allora lo sono anche tutti gli altri prezzi, visto che dipendono direttamente da essi.

Il libero commercio è anche equo? Ci accorgiamo di una regolamentazione solo quando non ne condividiamo valori e implicazioni morali. Gli alti dazi doganali sugli scambi commerciali imposti dal governo degli Stati Uniti nel XIX secolo fecero infuriare i proprietari di schiavi, che non vedevano nulla di male nella libera compravendita di persone sul mercato. Per chi pensava che le persone fossero una proprietà, vietare il commercio degli schiavi era criticabile quanto limitare lo scambio delle merci. Probabilmente i negozianti coreani degli anni ottanta hanno pensato che l’obbligo al «rim-

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borso incondizionato» fosse una regola statale ingiustamente gravosa che limitava la libertà del mercato. Questo scontro di valori è anche alla base del dibattito contemporaneo tra libero commercio e commercio equo. Molti americani pensano che, sì, il commercio internazionale della Cina è libero, ma non è equo. A loro giudizio, la Cina, pagando ai propri operai salari inaccettabilmente bassi e facendoli lavorare in condizioni disumane, fa concorrenza sleale. La Cina a sua volta ribatte che è inammissibile che i paesi ricchi, pur sostenendo il libero mercato, tentino d’imporre barriere artificiali alle sue esportazioni nel tentativo di limitare l’ingresso di prodotti fabbricati in condizioni disumane, trovando ingiusto il divieto di sfruttare la sola risorsa che ha in grande abbondanza: la manodopera a basso costo. Il problema sta nel fatto che non esiste un metodo obiettivo per definire «salari inaccettabilmente bassi» o «condizioni di lavoro disumane». Viste le enormi differenze internazionali nei livelli di sviluppo economico e di tenore di vita, è ovvio che un salario da fame negli Stati Uniti sia un buon salario in Cina (dove lo stipendio medio corrisponde al 10 per cento di quello americano) e una fortuna in India (dove è il 2 per cento). In effetti, gran parte dei fautori americani del commercio equo non avrebbe acquistato i prodotti realizzati dai loro nonni, che lavoravano moltissime ore al giorno in condizioni disumane. Fino all’inizio del XX secolo la settimana lavorativa media era di sessanta ore. A quel tempo (nel 1905 per essere esatti), gli Stati Uniti erano un paese in cui la Corte Suprema dichiarava incostituzionale la legge dello stato di New York che limitava la giornata di lavoro dei fornai a dieci ore, poiché «toglieva ai fornai la libertà di lavorare quanto volevano». Sotto questa luce, il dibattito sul commercio equo in sostanza riguarda valori morali e decisioni politiche, e non considerazioni economiche nel senso stretto del termine. Anche se concerne una questione economica, il commercio equo non è qualcosa che gli economisti sono particolarmente adatti a padroneggiare con i loro strumenti tecnici. Tutto questo non significa che dobbiamo assumere una posizione relativista e astenerci dal fare critiche perché va tutto bene. Possiamo avere un’opinione (e io ce l’ho) sull’accettabilità delle condizioni di lavoro in Cina (o in qualsiasi altro paese) e cercare di fare qualcosa, senza pretendere che chi ha un’idea diversa sia per forza in errore. Anche se la Ci-

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na non può permettersi salari americani o condizioni di lavoro svedesi, può certamente migliorare i salari e le condizioni di lavoro dei suoi operai, e sono molti i cinesi che non accettano la situazione attuale e chiedono regole più severe. Ma la teoria economica (almeno quella liberista) non può dirci quali dovrebbero essere i «giusti» salari e le «giuste» condizioni di lavoro in Cina.

Non siamo mica in Francia Nel luglio 2008, quando il sistema finanziario stava crollando, il governo degli Stati Uniti riversò 200 miliardi di dollari in Fannie Mae e Freddie Mac, gli istituti di credito ipotecario, e li nazionalizzò. Il senatore repubblicano Jim Bunning, del Kentucky, denunciò il provvedimento come qualcosa che poteva accadere solo in un paese «socialista» come la Francia. La Francia era già abbastanza malvista, ma il 19 settembre 2008 l’amato paese del senatore Bunning fu trasformato nel regno del male dal leader del suo partito. Seguendo il piano annunziato quel giorno dal presidente George W. Bush e successivamente denominato TARP, il governo stanziò circa 700 miliardi di dollari di fondi statali per comprare i «titoli tossici» che soffocavano i mercati finanziari. Il presidente Bush, però, non vedeva le cose nello stesso modo di Bunning: lungi dall’essere «socialista», il piano era semplicemente un’applicazione del sistema americano della libera impresa «basato sulla convinzione che il governo federale debba intervenire sul mercato esclusivamente quando necessario». E, a suo avviso, nazionalizzare una grossa fetta del settore finanziario era proprio necessario. La dichiarazione di Bush è un caso limite di doppiezza politica, in cui uno dei più grandi interventi dello stato nella storia viene camuffato da operazione di mercato di ordinaria amministrazione. A ogni modo, con le sue parole Bush rivelò la debolezza delle fondamenta su cui poggia il mito del libero mercato. Come la sua dichiarazione dimostra in modo lampante, che cosa sia un intervento necessario dello stato compatibile con il capitalismo liberista è questione di opinione. Il libero mercato non ha confini scientificamente definiti. Se non c’è niente d’intoccabile nei confini del mercato in qualsiasi

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epoca, il tentativo di cambiarli è legittimo quanto il tentativo di difenderli. In effetti, la storia del capitalismo è l’eterno scontro sui limiti da porre al mercato. Molte delle cose che oggi non sono oggetto di scambio sono state rimosse da decisioni politiche piuttosto che dal mercato stesso: esseri umani, posti di lavoro statali, voti elettorali, decisioni legali, incarichi universitari, medicine non omologate. Naturalmente ci sono sempre tentativi di comprarle illegalmente (corrompendo funzionari governativi, giudici o elettori) o legalmente (utilizzando prestigiosi studi legali per vincere una causa, facendo donazioni a partiti politici ecc.). Tuttavia, anche se ci sono state oscillazioni, il trend è verso una minore mercificazione della società. Per quei prodotti ancora scambiati sul mercato, nel corso del tempo sono state introdotte sempre più regole. In confronto anche a pochi decenni fa, vige oggi una normativa più rigida su chi può produrre cosa (certificazioni per produttori biologici ed equosolidali), come questa cosa può essere prodotta (restrizioni sull’inquinamento, sulle emissioni di anidride carbonica) e come può essere venduta (regole sulle etichette, sui rimborsi). Inoltre, per la sua natura politica, il processo di ridefinizione dei limiti del mercato è stato spesso caratterizzato da violenti conflitti. Gli americani hanno combattuto una guerra civile per abolire il libero commercio degli schiavi (anche se il libero commercio delle merci – ossia la questione delle tariffe doganali – fu un’altra causa importante della guerra).1 Il governo britannico dichiarò guerra alla Cina per conseguire il libero commercio dell’oppio (le due Guerre dell’oppio, appunto). La regolamentazione del mercato del lavoro minorile fu ottenuta solo grazie alle lotte dei riformatori sociali, come accennato prima. Rendere illegale il libero mercato di posti governativi o voti ha incontrato la forte resistenza dei partiti politici che compravano consensi o dispensavano incarichi pubblici per ricompensare la propria clientela. Queste prassi terminarono solo grazie a una combinazione di attivismo politico, riforme elettorali e cambiamenti nella regolamentazione dell’assunzione di incarichi pubblici. Riconoscere che i confini del mercato sono ambigui e non possono essere determinati in modo oggettivo ci permette di capire che l’economia non è una scienza pura come la fisica e la chimica, ma un fatto politico.

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Gli economisti liberisti potrebbero far credere che è possibile determinare scientificamente i limiti esatti del mercato, ma non lo è. E se i limiti di quello che si studia non possono essere determinati scientificamente, non si sta facendo scienza. In questa prospettiva, opporsi a una nuova regolamentazione equivale a dire che lo stato delle cose, pur se ingiusto, non va cambiato. Dire che una regola esistente deve essere abolita equivale a dire che lo spazio del mercato va ampliato, ovvero che chi ha più denaro avrà più potere, dato che il mercato funziona secondo il principio «un dollaro un voto». Così, quando gli economisti liberisti affermano che una certa normativa non deve essere introdotta perché limita la «libertà» di un determinato mercato, stanno semplicemente esprimendo un’opinione politica contraria ai diritti che la legge proposta vuole tutelare. Il pretesto ideologico consiste nel sostenere che la loro non sia una posizione politica, ma una verità economica oggettiva, mentre quella degli avversari sì che è politica. Ma non è vero: anche essi sono politicamente motivati. Emanciparsi dall’illusione dell’oggettività del mercato è il primo passo per capire il capitalismo.

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