Alessandro Michelucci review of "Whaia Te Maramatanga" by Rob Thorne in CulturaCommestibile84, p.10

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uesta settimana il menu è

DA NON SALTARE Maggiani, le Apuane e la difesa del paesaggio

Lombroso 2.0

In questa vicenda c’è un fattore che nessun processo potrà rimuovere. La vittima era una ragazza bruttina. Il colpevole individuato era un ragazzo di colore. Loro due (Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ndr) sono belli sempre

Siliani a pagina 2

PICCOLE ARCHITETTURE Tre luoghi diventai 3 piazze

Stammer a pagina 5

Barbara Palombelli durante “Quarto Grado”

OCCHIO X OCCHIO L’universo femminile di Rania Matar

Cecchi a pagina 7

VISIONARIA Prima fabbrica adesso parco

RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4

Pronto Meucci here is Bell

Sapore di soldi

Zanuncoli a pagina 11


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DA NON SALTARE

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di Simone Siliani s.siliani@tin.it

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bbiamo intervistato lo scrittore Maurizio Maggiani sul conflitto che si è consumato nei giorni scorsi intorno alle Alpi Apuane sul Piano Paesaggistico della Regione Toscana. Maggiani, già vincitore del premio Campiello e il premio Viareggio con “Il coraggio del pettirosso” nel 1995, nel 2005 ha vinto con il romanzo “Il viaggiatore notturno”, i premi Premio Ernest Hemingway e Premio Parco della Maiella e il Premio Strega. Nato a Castelnuovo Magra è uomo di montagne. Nei giorni scorsi, sulle Apuane, si è combattuta una battaglia: cavatori (o meglio imprese) vs. ambientalisti, intorno al Piano Paesaggistico redatto dall’assessore Marson per la Giunta Regionale Toscana. Sembra

una guerra fra chi considera il paesaggio un bene privato (o comunque, asservito all’interesse privato) e un bene comune, fra l’egoismo e l’altruismo. Tu hai raccontato la vita delle genti di Vagli nel Distretto, incastonato fra i monti delle Apuane e le vallate della Garfagnana in Meccanica Celeste. Il Distretto è forse il vero protagonista del tuo libro: quell’ambiente naturale e mitologico, in cui la giovane della tribù delle montagne piange l’uccisione da parte delle centurie romane del suo amato principe guerriero della piana pisana e lo piange tanto da plasmare con le sue lacrime un’intera montagna (l’Omo Morto). Ci racconti queste montagne, questo paesaggio dal punto di vista

Cosa rimarrà delle

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Apuane

Foto di Daniele Borghini

delle genti di Vagli? Il paesaggio raccontato dalle genti di Vagli bisognerà chiederlo a quelli di Vagli, di cui non conosco nemmeno la lingua e credo nessuno fuori da Vagli sappia nemmeno capirla bene tanto sono riservati. Io non so cosa sia il paesaggio per i misteriosi abitanti di Vagli; posso intuirlo attraverso le loro azioni, attraverso il modo che hanno di vivere, il modo che hanno di rappresentare la propria vita e che è una vita dentro un paesaggio. Voglio però prima fare una precisazione. Io non sono un ecologista, perché non ho la cultura dell’ecologia essendo figlio di contadini. Se c’è della gente che non rie-

sce ad afferrare la cultura ecologista sono proprio i contadini perché per loro la natura, intesa come luogo inumano, è una assoluta estraneità. Il contadino si rapporta con la natura in genere, con gli animali, con il paesaggio, con gli esseri viventi e soggiacenti di vita come le pietre, per sé, per la sua vita. La natura che il contadino capisce è la sua vita; dentro quella vita, la propria vita. Se mio nonno Garibaldi lo mettevi davanti ad un paesaggio selvaggio, la prima cosa che gli veniva in mente è “chi è che mettan il vigne? Chi mettan di coi? Chi’l che porta l’acqua a le bestie?” Questo è importante perché io parto da lì, quella è la mia cul-


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tura. Non esiste per me il concetto di valore a sé, L’ecosistema comprende anche gli umani; come comprende gli scorpioni e la grandine. Ora, forse gli scorpioni e la grandine hanno poche amicizie in giro, però sono parte dell’ecosistema. I cavatori sono parte dell’ecosistema e lo sono, forse, anche gli ecologisti. Mia moglie è stata commissario d’esame in un liceo artistico di Ravenna. Un giovane candidato ha portato una tesina sui nuovi sistemi di agricoltura biologica di un tale giapponese che non conosco. Questo ragazzo spiegava come si mescolano i semi insieme all’argilla e si gettano in terra. Questo ragazzo, che ha sicuramente una forte sensibilità ecologica, probabilmente ricava il suo reddito (o i suoi genitori) ignorando completamente che cosa vuol dire metter su un pezzo di pane. Non si falcia il grano andando a spiluccare le sue spighe tra la gramigna, l’avena selvatica e loglio. Allora, le Apuane. C’è sempre stato, per obbligo neppure per sensibilità estetica, una cura che si rivela anche estetica nel rapporto con l’ambiente che ti dà da vivere e dunque con le Apuane da parte delle genti di Vagli che erano in gran parte fatte di cavatori. C’è una bellezza in sé in una vecchia cava, ma questa bellezza in sé viene perché è stato un lavoro ben fatto. L’idea di bellezza che io ho, l’unica idea di bellezza su cui io sono cresciuto, è quella generata per forza di cose da un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto lo riconosci subito perché brutto a vedersi e poi perché non dà frutto, o non lo dà abbastanza e non lo dà nel tempo. Una potatura ben fatta di una vigna è veramente bella da vedersi; sembra un ritmo decorativo, una cosa adatta ai poeti; ma io non sono cresciuto fra i poeti, bensì fra i contadini, eppure quella bellezza c’era. Ora, quella potatura ben fatta, bella da vedersi, in realtà era buona perché dava il giusto frutto, nel giusto modo e soprattutto lo dava nel tempo: vigne che duravano perché non era possibile pensare di cambiare gli impianti ogni 5 o 10 anni. La cava doveva durare secoli perché dovevano mangiarci i figli, i figli dei figlio, i figli dei figli dei figli. E poi le cave più preziose erano quelle del bianco e il bianco doveva essere lavorato con grande attenzione e non solo, ma con un’arte straordinaria perché è raro, prezioso e soprattutto deve essere integro quando viene venduto a Rodin o a Michelangelo. Ma adesso tutto questo non c’è più. Intanto perché le cave più prezioso sono in gran parte estinte. Ma soprattutto il reddito maggiore non viene dalla cava tradizionale ma dalle nuove necessità commerciali, cioè dal carbonato dove non è necessaria nessuna cura, nessuna cautela, nessuna arte se non quella strettamente necessaria, mi auguro, almeno per non far morire gli operatori che ci lavorano. Infatti, il paesaggio di cui dobbiamo discutere, l’unico paesaggio possibile in Toscana, è quello artefatto dall’uomo, costruito dall’uomo. E, in questo caso anche le Apuane hanno indubbiamente questa caratteristica. Il problema è quando le esigenze industriali fanno smarrire quelle capacità, competenze, quella cura, anche quell’amore per il territo-

DA NON SALTARE

La voce di Maurizio Maggiani sul dibattito acceso tra cavatori e Regione dopo la presentazione del Piano Paesaggistico rio in cui vivi, giusto? Sì, è un totale disinteresse perché la multinazionale con sede, ad esempio, a Toronto non sa nemmeno cosa sono le Apuane e non ha nessun interesse a saperlo. Quello chela riguarda è il profitto e i dividendi. Per cui le Apuane equivalgono a delle cave nello stato del Rio Grande do Sol. Ora, il problema è che i poveri, i salariati sono in conflitto eterno con altri poveri e salariati che non prendono il pane da dove lo prendono loro. I seringueiros, che sono persone degnissime, si affrontano a colpi di machete con gli indigeni della zona amazzonica: non possono vivere insieme, cavare caucciù e

Foto di Daniele Borghini

continuare a vivere nel paleolitico come certe popolazioni desiderano e hanno diritto di vivere, nella foresta vergine. Questo è un caso, ma ve ne sono moltissimi analoghi. I cavatori contro gli ecologisti sono la parte peggiore di un conflitto che comunque esiste. Non puoi dire ai cavatori “cercatevi un altro lavoro”; puoi dire agli ecologisti “levatevi di qui”. A meno che gli ecologisti non siano gli abitanti, gente che abita lo stesso paesaggio dei cavatori; e allora sono i fratelli contro i fratelli, i padri contro i figli, però è una cosa diversa. E la battaglia per la difesa del patrimonio paesistico comune può essere solo vinta, e secondo me vale la pena di

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essere combattuta, solo se è la comunità che si confronta con se stessa. Se viene un professore di Harvard a spiegarmi che io faccio male a scavare carbonato di calcio in questo meraviglioso giogo di montagne incantate, non ho grandi difficoltà a cacciarlo giù da un pozzo di cava; se invece è mio figlio o sono i bambini della scuola del paese, è molto diverso. Penso alla TAV, che è un tema che riguarda molto la Toscana: io ho l’idea che la TAV se mai potrà succedere che non si farà, sarà perché avranno vinto gli “egoismi locali”, non il movimento ecologista mondiale; cioè se avranno vinto le comunità locali che intendono difendere se stesse e per questo parlo di egoismo. Anzi, probabilmente l’ecologista mondiale così malamente rappresentato in certe occasioni, non dà un contributo particolarmente positivo, mi sembra. Allora, la difesa del territorio, del paesaggio, ivi compresa la bellezza del paesaggio se essa è – come io penso – una cosa ben fatta, il frutto di un buon lavoro: gli “egoismi locali” possono discutere quando anche gli interessi all’interno della comunità sono diversi. Mi chiedo quanto questo accada. In questo momento ti parlo da un posto, dove ormai vivo da tempo, sulle colline della campagna romagnola e intorno a me vedo migliaia di ettari di paesaggio che mi commuovono, ed è tutto paesaggio lavorato. Qui la gente vive di quello, di agricoltura. Lo stesso studente di mia moglie si scagliava contro gli anticrittogamici, lamentava che non ci sono più le rane, ecc.: certo, è vero, ma vorrei prenderlo per le orecchie e portarlo qui dove non si dorme di notte per il gracidare delle rane. Non è più come nel 1950 e non si danno più gli anticrittogamici che uccidono le rane. Le cose sono cambiate perché ha vinto una battaglia l’egoismo locale che rappresenta il lavoro ben fatto che quindi considera che anche le rane hanno un loro posto. Il paesaggio toscano è veramente soltanto il paesaggio “ben fatto”, o quando non lo è, è “mal fatto”, ma comunque è “fatto”. Non esiste niente di naturale, nel senso assoluto, vergine. Certo. Un’operazione simile a quella del carbonato, ad esempio, si sta consumando nelle Cinque Terre. Esse sono esclusivamente frutto dell’intervento umano, altrimenti sarebbero solo un pezzo di 15 chilometri di falesia in un complesso che si sviluppa fra la Liguria e un pezzo di Francia. Le falesie sono belle, però non sono le Cinque Terre, che non sono altro che l’incredibile secolare lavoro per ricavare dalla falesia – che è il posto più ingrato possibile – terreno agricolo e terrazzamenti. Cosa è successo? Da 20 anni le Cinque Terre vivono dello sfruttamento turistico di massa di quel panorama. E quel panorama si sta sfaldando pezzo per pezzo; viene consumato da 2-4 milioni di presenze annue. Gli abitanti delle Cinque terre sono diventati tutti improvvisamente ricchi, anche perché lavorano esentasse. Ma saranno ricchi loro e i loro figli; i ricchi si mangeranno la ricchezza accumulata dai padri e poi non ci sarà più niente. Secondo me non è un tema diverso da quello delle Apuane. Bisogna capire oggi


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RIUNIONE DI FAMIGLIA

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I CUGINI ENGELS

Sapore di soldi Hai fatto 2.745 foto al tuo gattino e le vuoi mettere su una pennina usb da 4 giga per portarle a tua cugina questa estate quando sarai in vacanza dagli zii? Ok, paga 40 centesimi a Gino Paoli. Hai comprato uno smartphone alla sorella che così possa chattare con le amichette 12enne sul quel ragazzo carino della Terza F? Benissimo, paga 5 euro e 20 a Gino Paoli. Sei un fanatico dell’Apple e hai consumato la carta di credito scaricando la discografia dei Beatles sul tuo Ipod nuovo fiammante? Perfetto, aggiungi 12,88 euro per Gino Paoli. Stufo di fare le foto con una macchinetta troata nelle patatine hai comprato una reflex da professionista? Niente di male, le passioni son passioni, adesso però sgancia 5 euro in più per Gino Paoli. Questo a grandi linee il funzionamento del decreto che delibera sui cosidetti “compensi per Copia Privata” da destinare alla Siae presieduta da Gino Paoli. Ma non è finita perché prima che venga pubblicata sulla Gazzetta ufficiale saranno aggiunti altri balzelli: 5 euro su ogni acquisto di una bottiglia di birra che potrebbe essere atta a produrre suoni; 3 euro e 20 cent per ogni bicchiere perché se riempito nella giusta misura di acqua (gratis) può emettere un La; 56 euro per ogni bambino nato munito di lingua e corde vocali che in un futuro potrebbe fischiettare una melodia coperta da Siae. Sconto in caso di parto gemellare.

LE SORELLE MARX

Pronto Meucci, here is Bell Abbiamo ricevuto questa lettera dalle nostre corrispondenti Sorelle Bell dagli Stati Uniti a seguito dell'intervento del Presidente Matteo Renzi pronunciato a Venezia all'iniziativa europea sulle politiche per il digitale, Digital Venice, lo scorso lunedì. Dear Marx Sisters, as your Premier Mr. Matteo Renzi speaks so fluently English (so to say), we will write this letter in our also fluent Italian. Dimenticateci per nostri errori, ma anche vostro Premier non scherza. Noi, essere nipotine di Mr.Alexander Graham Bell. A noi non essere piaciuto niente affatto spiritosaggini di vostro Premier dette a Venezia su nostro nonno! Veramente Matteo è moltissimo umoristico, ma quando vuole fare parabola su storia di invenzione telefono, non avere capito un cavoletto di Bruxelles. In inglese con maccheroni, Renzi dice che per fare impresa tu devi avere non solo buone idee ma anche marketing e poi racconta favoletta di

Antonio Meucci che lui dice vero inventore telefono. Ma sbagliato tutto! Meucci forse è (meglio, era perché noi crede che lui è morto: spiegate a Mat-

Finzionario

teo che anche in inglese passato è diverso da presente in verbi!) genio, ma noi pensiamo un poco stupid perché no fatta patente per sua invenzione senza fiato. Nostro granpadre invece molto affilato perché avere patentato telefono in 1876. Ma lui anche grande studioso: fatto studi su lingua, elocution, optical telecommunications, ingegneria (progettato idroscafi, do you know?). E mai ha voluto telefono in suo ufficio (non come vostro Premier che ha 5 o 6 telephones: cosa fa con tutti?). Ma Mr. Renzi knows a whistle (sa un fischio) di tutto questo! Noi pensare che Renzi è un poco “dunce” (somaro). Certo, suo inglese un poco “rough” (grezzo), ma anche sua conoscenza storia. Nostre informazioni dicono che ha suggerito questa storia “cracked” (fessa) un signore chiamato Eugene Giany, possible? Please, inform your President that Sisters Bell are very, but very much disgruntled (con rabbia, forse “incazzate”). All the best Disegno di Ferruh Dogan pubblicato su Ca Balà del giugno 1974

VINTAGE

di Paolo della Bella e Aldo Frangioni

Il Franco Miratore Gli epigrammi di Franco Manescalchi nelle pagine di Ca Balà a cura di Paolo della Bella

LUGLIO 1974 Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti

www.culturacommestibile.com redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.facebook.com/ cultura.commestibile

Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti

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Il sol leone

Il diario di Frank M.Andersen è una tragica testimonianza dell'avanzare lento, ma inesorabile, del morbo di Alzheimer. L'ombra della memoria è la fase avanzata della malattia quando Andersen, ancora con qualche briciola di consapevolezza, decide di iniziare a scrivere il suo diario. L'ombra della memoria non è un barlume di ricordo – si legge all'inizio del libro – ma la negazione dei ricordi, come l'ombra è il contrario della luce. Col passare dei giorni si avvertono ancora cenni di un lungo e pare brillante passato dello scrittore, anche se ad un certo punto si legge: “Ho sempre lottato contra la mia mediocrità, ma non so dire se l'ho sconfitta”. Poi si legge di vicende lontanissime negli anni mescolate a sensazioni istantanee: “Ho salutato il Presidente Andreotti, non stringe la mano (molliccia e sudata) come se si trattasse di un cardinale, mi deve aver trovato interessante visto che ogni giorno viene a trovarmi per prendere il caffè”. Lentamente lo scritto diventa sempre più incomprensibile: “Giudicate, giudicate se lo zucchero è cresciuto nella possibilità di affermare la logica delle zanzariere giganti...” Tempo e spazio si annullano e nelle ultime pagine non ci sono neanche più parole ma scarabocchi che, si dice in una nota, sono tracciati con così tanta forza che le pagine sono in gran parte lacerate. Sul Magazine Salute del Sole 24 ore leggo che nei prossimi dieci anni si potrà sconfiggere la malattia: resistiamo “ragazzi”.

Avremo i mondiali di calcio e l’aumento dei prezzi. Avremo le domeniche pari e dispari ed un inasprimento delle imposte. Avremo le centocinquanta ore e la cassa integrazione. Avremo i mari inquinati e la crisi del greggio. Avremo il rafforzamento sindacale e la politica dei redditi. Avremo un corpo speciale contro il terrorismo. Avremo un governo di coalizione e nuove trappole contro il socialismo. Avremo la scuola con la gestione sociale e le classi ancora congestionate. Avremo figli sempre più corrazzati sempre meno carota e più bastone. Avremo un sol leone 1974 SE ANDREMO IN FERIE ANCHE CON LA COSCIENZA POLITICA.


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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ

di John Stammer

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astratte, che hanno ancora come riferimento l'idea della forma della città come metafora della forma della società"... e più avanti " I legami di classe, gli interessi economici, la religione, la politica, la cultura, hanno sempre costituito delle reti relazionali più efficaci che non le strade e le piazze". Ora se guardiamo ai progetti delle tre piazze risulta evidente che, a distanza di anni dalla loro realizzazione, i luoghi meno strutturati e più "anonimi" delle periferie urbane, quelli che i cittadini chiamavano piazze più per la loro storia vissuta che per la conformazione del luogo, hanno risposto positivamente alla nuova organizzazione del progetto. Non so se si possa costruire una relazione fra quello che

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re piazze, o meglio un grande slargo, fra gli edifici e le strade di Sorgane, e due luoghi che piazze non sono, ma che gli abitanti del luogo hanno sempre chiamato "piazze", a Varlungo e a Il Sodo. Tre ipotesi di piazze da fare diventare "realmente" piazze. Tre luoghi nelle periferie della città perchè è dalle periferie che si giudicano le città. Tre progetti nati dopo un lungo percorso di partecipazione dei cittadini. Tre progetti e tre realizzazioni. Nascono così dal 2005, anno in cui si avviano le fasi di progettazione, al 2008, anno in cui le piazze sono aperte al pubblico, questi tre progetti di luoghi urbani. La scelta dei luoghi non è

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Il Sodo

3 luoghi diventati 3 piazze casuale ma rispecchia la filosofia della amministrazione di allora di privilegiare gli interventi per le aree periferiche. Una scelta che stava nella scia di un percorso, avviato a partire dal 1995, quando l'amministrazione di allora iniziò a pensare ai fondi europei per interventi di miglioramento delle aree urbane periferiche. Un percorso che ha consentito, ad esempio, la realizzazione della nuova pavimentazione delle strade del borgo di Peretola e delle piazze adiacenti (prima fra tutte la piazza Garibaldi). Naturalmente tre progetti diversi, per le diverse caratteristiche dei luoghi e dei progettisti, ma tre progetti molto discussi, nell'ambito delle assemblee pubbliche appositamente convocate, ma non solo,e che hanno restituito ai cittadini luoghi più ordinati e vivibili. C'è da tempo un dibattito, nel campo dell'architettura ma anche delle scienze sociali, sul fatto che nella città contemporanea non si progettano più le piazze e, anche quando accade, questi luoghi non diventano aree centrali e pulsanti di vita, e luoghi di identità collettiva, come le grandi piazze delle città storiche. Certo gli ordini monastici predicatori non svolgono più il loro ministero nelle piazze antistanti le basiliche, come nel medioevo, e la guardia reale non svolge più le proprie esercitazioni e parate nelle piazze della città. I tempi e gli attori della scena urbana sono cambiati. Andrea Branzi, in un suo scritto di qualche anno fa, mette in guardia dal ricercare, e nel ricostruire oggi, tipologie e luoghi che dovrebbero funzionare come quelli pensati secoli precedenti. Scrive Branzi riferendosi alle piazze " vorrei dire che questi luoghi mi sembrano superati. Le piazze nuove infatti funzionano difficilmente, perchè fanno parte di un vecchio bagaglio di simbologie

Istria

Varlungo Istria

Varlungo

Il Sodo

scrive Andrea Branzi e il contesto urbano delle perifierie fiorentine. Sta di fatto che oggi a Varlungo, a Sorgane e al Sodo ci sono tre "piazze" usate dai cittadini, in modo talvolta anche scomposto e, in alcuni casi, con un inizio di segni di degrado dei materiali e degli oggetti che il progettista ha collocato sul terreno, ma vive e vitali. I tre progetti sono stati redatti da Alberto Breschi (capogruppo) per piazza Istria a Sorgane, da Massimo Guidi (capogruppo) per la piazza di Varlungo e da Marta Righeschi (capogruppo) per la piazza del Sodo, dopo un articolato percorso di discussione pubblica organizzato dall'assessorato alla Partecipazione Democratica del Comune, con l'ausilio di esperti di comunicazione. Il progetto di Piazza Istria prende spunto dal sistema urbano e dagli edifici al contorno (progettati da Leonardo Ricci e Leonardo Savioli) per riprenderne materiali e colori e per realizzare, con una pensilina lunga quanto il lato minore della piazza, una sorta di "stanza urbana" aperta ma accogliente. Nei progetti di Varlungo e Il Sodo prevale l'idea di "ridefinire" il confine fra la strada, destinata al traffico veicolare e gli spazi destinati ai pedoni e all'uso urbano, con la presenza marcata di "segni" per la individuazione degli spazi per la sosta pedonale e per l'uso collettivo. Sedili e cubi in marmo bianco per Il Sodo e prati verdi sopraelevati e inclinati per Varlungo. Progetti apparentemente semplici, con l'uso di materiali tradizionali, che sono stati scelti con un concorso di architettura dove è stato sperimentato per la prima volta un metodo che ha visto la presenza dei cittadini come parte integrante della giuria del concorso. Ad essi, cioè a tutti i residenti che si sono iscritti al laboratorio di quartiere, era riservato il 20% del punteggio da attribuire ai progetti.


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ISTANTANEE AD ARTE

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di Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com

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i è inaugurata, lo scorso 5 luglio presso il Palazzo della Fondazione Banca del Monte di Lucca, la mostra di Elisa Zadi “Sacri miti. Storie di uomini e santi”, a cura di Marco Palamidessi: un interessante percorso espositivo che elogia la grandezza storico-culturale di Lucca, con una serie di opere che abbandonano le retoriche classiche e tradizionali dell’arte sacra, per reinterpretare e rivisitare le icone rappresentative dell’identità di una città culturalmente intrigante. La bellezza e l’intrigo misterioso e diabolico di Lucida Mansi, l’immagine acheropita del Volto Santo nella sua sacralità umanizzata, le doti umane e spirituali di Santa Giulia, il martirio umano di Aldo Mei, la generosità di Santa Zita e la bontà di San Martino, emergono nella loro spiritualità come manifestazione dell’esperienza umana e rilettura contemporanea di identità assolutizzate nella storia che vale la pena riscoprire come presa di coscienza collettiva, nel tentativo di recuperare un’autentica e vera dimensione spirituale, declinata in una prospettiva umanizzante. Nell’infinito territorio del realismo il sacro appare come un concetto ambiguo e indefinibile, in virtù dei suoi misteri e di quelle sacralità difficilmente carpibili dai linguaggi formali, tuttavia si tratta dell’unico concetto in grado di spiritualizzare la materia e tenere insieme, in un anello congiunto, la dimensione storica e l’eternità, in una durata spazio-temporale che vivifica le poetiche e le spiritualità identitarie, che dal passato giungono fino a oggi in tutta la loro energia allusiva ed evocatrice. In tal senso il sacro diviene per l’artista un archetipo da riscoprire e da reinterpretare, adottando un linguaggio pittorico – quello del ritratto e dell’autoritratto – adeguato a rappresentare il mistero esistenziale che si cela nell’evocazione allusiva dell’immagine sacra la quale, nell’eternità del mito, denota la sua valenza illustrativa e rivelativa. Il mondo pittorico di Elisa Zadi si caratterizza per la ricerca di uno stile inconfondibile, dettato da una spiccata volontà espressiva, tesa a mettere in luce il senso primo dell’emozione e l’immensa capacità dell’immagine di esprimere e raccontare, attraverso una poetica che unisce il sacro e l’umano, la storia e l’eternità, nella soggettività molteplice dello sguardo umano. Si tratta del riscatto estetico dell'immagine come presa di coscienza del segreto che avvolge l'uomo, le sue esistenze e il suo viver quotidiano, in una frammentarietà da esplorare, attraverso giochi di luce, composizioni, linee e colori tenui, che conducono l'osservatore a percepire non solo l'immagine dipinta ma anche l'anima riflessa, che affiora con forza e si lascia leggere nella propria e indiscussa sacra intimità. La mostra, patrocinata dalla Regione Toscana, è visibile fino al 27 luglio, da lunedì a venerdì con orario 15:30-19:30 (sabato e domenica 10:00-13:00 e 15:30-19:30).

I sacri miti di

In alto La carità di San Martino, Olio su tessuto, Trittico, cm. 110x260. A destra Santa Giulia, Olio su tessuto di lino, Polittico, cm. 80x60. Qui due foto della mostra

Elisa Zadi

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OCCHIO X OCCHIO

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di Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it

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ania Matar nasce e cresce in Libano, e si trasferisce negli USA nel 1984, dove studia dapprima architettura, ed in seguito fotografia. Le sue origini e la sua duplice cultura la spingono a concentrare la propria attenzione sui problemi del Medio Oriente, con una sensibilità particolare nei confronti della condizione femminile, che la fotografa indaga e documenta frequentando lungamente i campi dei rifugiati palestinesi nei sobborghi di Beirut e nel Libano meridionale. Da questa frequentazione emergono momenti di vita che in contesti diversi potremmo definire “ordinari” ma che sono invece la dimostrazione di quanto le condizioni estreme possano essere sopportate e condivise, con forza piuttosto che con rassegnazione, con dignità piuttosto che con disperazione. Le conseguenze di una guerra strisciante ed apparentemente senza fine, la contrapposizione fra culture, religioni ed abitudini diverse, le condizioni di vita precarie, vengono vissute in un quotidiano che riesce a combinare gli opposti, in maniera pragmatica, rimettendo al centro della scena l’umanità, una umanità privata della voce e di qualsiasi possibilità di influenzare il corso degli eventi, messa ai margini della storia, ma ancora tenacemente ancorata alla sopravvivenza, attraverso la cura di sé e dei figli, attraverso la trasmissione del nome, dei ricordi, del modo di esistere. Il lavoro di Rania Matar si articola su tre temi, le conseguenze della guerra, il velo come modo di essere e di presentarsi, ed il popolo dei dimenticati, ma non vuole essere un ritratto del Libano, non vuole mostrare il volto e le cicatrici di un paese, vuole essere una storia di persone, soprattutto di donne, donne espulse dalla storia ma portatrici di storie individuali e collettive. Ed è per raccontare queste storie, individuali, personali, talvolta intime, sempre minime, mai grandiose o falsamente eroiche, che Rania Matar entra nelle case, o in ciò che rimane delle case, accettata ed ospitata senza timori o reticenze, per intrecciare la sua esistenza con quella di altre donne come lei, per condividere, ascoltare, guardare, capire, assimilare. La fotografa non indulge su temi come il dolore o la disperazione, la solitudine o la paura di un futuro incerto, ma entra in sintonia con donne come lei, forti e coraggiose, forse vinte ed esiliate, ma non ancora piegate o spezzate dalla vita e dalle avversità, decise a continuare a vivere, nonostante tutto. Donne giovani o meno giovani, mogli o vedove, bambine cresciute in fretta, anziane con gli occhi pieni di ricordi, ma in cui non si è ancora spenta la scintilla della speranza. Nel 2009 Rania Matar pubblica il libro “Ordinary Lives” in cui raccoglie dozzine di immagini di altissimo valore simbolico, come quella della ragazza che si sistema il velo davanti ad uno specchio scheggiato, l’altra con una ragazza velata davanti ad un pannello di vetro sfondato, o l’altra con le due ragazze che si siste-

L’universo femminile secondo Rania Matar

mano il velo davanti alla foto di una terza donna velata (la madre? la nonna?). Tutte immagini fortemente emblematiche, non banali e non scontate, assolutamente non riconducibili a dei cliché usurati. Lasciato il Libano, Rania inizia a dedicarsi all’esplorazione di altri aspetti dell’universo femminile con il progetto “A girl and her room”.


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HO SCELTO LA TOSCANA

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di Annalena Aranguren aranguren58@gmail.com

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l Costa Rica è una delle mete di vacanza preferite dagli Italiani negli ultimi anni: spiagge incontaminate, oceani che fanno la gioia dei surfisti, foreste ricche di una vegetazione ed una fauna preservate dal devastante effetto del progresso; tutto unito a un tenore di vita e a una civiltà che l’hanno fatta definire “la Svizzera del Centro America”. Alcuni Italiani hanno fatto anche scelte più definitive: non solo una vacanza, ma, negli ultimi anni, inseguiti dalla crisi, un trasferimento totale, armi e bagagli, di tutta la loro esistenza per tentare la fortuna soprattutto nel settore delle attività turistiche. Suona dunque bizzarro trovare chi ha compiuto il percorso inverso e dal paradiso tropicale è arrivato tra le colline toscane. Marisol Carballo, musicista costaricana, direttrice di coro, vive in Italia dal 1981: a Montepulciano per sei anni e poi a Firenze. Come sei arrivata in Italia? Ho compiuto i miei studi universitari a Londra negli Anni Settanta per poi tornare a vivere in Costa Rica dove ho cominciato la mia attività di Direttrice di Coro. Nel 1980 fui contattata dal Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, diretto da Hans Werner Henze, che mi propose un progetto culturale e didattico del tutto innovativo. Mi sembrò una sfida imperdibile. Decisi di provare, magari per un anno…. ma mi innamorai di Montepulciano, della sua bellezza, della gente e anche di tutte le cose che si potevano fare lì nel campo della cultura. Il Cantiere era qualcosa di più che non un semplice festival musicale: era un laboratorio, un crocevia di

Marisol Carballo

Costaricense innamorata di Montepulciano

culture musicali e teatrali di tutto il mondo. A Montepulciano ho trovato il mondo. E sono rimasta. E poi: come sei arrivata a Firenze? Lavoravo già con il Coro Guido Monaco di Prato e la Scuola di Musica di Fiesole, quando rimasi incinta. Non volevo più fare la pendolare e volevo che mia figlia nascesse a Firenze. Qui ho cominciato a collaborare con il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e ho fondato il Coro Ragazzi Cantori di Firenze. Anche stavolta, alla fine, la vita ha scelto per me. Cosa ti piace dei fiorentini e di Firenze? Di Firenze mi piace che ci si possa muovere a piedi, guardando una bellezza die-

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tro l’altra. E dei Fiorentini il fatto che apprezzino le loro tradizioni, mangino bene e si vestano con cura. E cosa hai portato con te dal tuo Paese? Una caratteristica propria dei Ticos: una specie di internazionalismo culturale. In Costa Rica non c’è prevalenza di una cultura e nessuna viene considerata più importante dell’altra. I fiorentini, a volte, credono un po’ troppo nella supremazia della loro cultura… Firenze ti ha ispirato nel tuo lavoro? Ma certo! Qui ho studiato la musica fiorentina del Rinascimento, ho visto i luoghi dove è nata l’opera. Ho sempre amato la musica rinascimentale e la lirica ma a Firenze ho imparato ad amarle e conoscerle ancora di più. Nessun rimpianto dunque di aver lasciato il Costa Rica? Nessuno. Qui ho avuto delle opportunità di lavoro che là non avrei mai avuto. Ho lavorato con i più grandi direttori d’orchestra: Mehta, Ozawa, Chung, Bartoletti, Bychkov… Sono esperienze preziose, incomparabili. E’ un buon Paese l’Italia per invecchiarvi? Ho l’impressione che in Italia si invecchi più soli. Nonostante il welfare sia più sviluppato che in Costa Rica, nonostante le iniziative per gli anziani, anche sul piano culturale, mi sembra che in Costa Ricca gli anziani siano più apprezzati. Qui corrono il rischio della “rottamazione”. Pensi a Firenze e vedi… Bei palazzi, con i loro giardini; e sento tanta musica. Pensi al Costa Rica e vedi… Il verde. Le infinite tonalità di verde che ci circondano. E tutte le persone care che vivono là ma sono sempre con me, nel mio cuore.

ANIMALI IN POESIA

La casa al bosco di Rosalba De Filippis di Franco Manescalchi novecentopoesia@gmail.com

Rosalba de Filippis, nata a Macchiagodena, in Molise, laureata in Lettere moderne, con una tesi sull'opera del primo Giorgio Caproni, è autrice dei libri in versi Sotto nevi di carta,(Campanotto editore 2007), Il filo forte del liuto (idem 2008), La luce sugli spigoli Canti di Monteloro (Strade Bianche, Stampa Alternativa, 2011) , Danielle, L'ultima foglia è sempre la più alta (Campanotto 2013). Il suo rapporto col mondo animale è dal vivo, col bosco, ai confini della sua casa, così come essa stessa ci narra: "Vivo a due passi da Firenze, a Monteloro, in una zona ancora scarsamente antropizzata, in cui comunque l'uomo fa di tutto per lasciare il suo segno, impiantando ad esempio vigneti industriali che sconvolgono il territorio: via, le piante di impiccio, via, soprattutto i cespugli di vitalba e di rovo dove vivono gli usignoli. Quindi il silenzio della notte ha un suo motivo, se

tutto diventa ordinato, troppo ordinato. Se in questo modo anche le lucciole sono divenute rare. Sono necessari ad esempio i muri scalcinati perché il verzellino faccia il suo nido. Così gli animali di terra, caprioli, istrici, lepri e anche volpi hanno bisogno di luoghi incolti che

il nostro senso estetico, addomesticato, ormai sembra voler rifiutare. La mia casa è nel bosco, una vecchia colonica non del tutto ristrutturata; da qui mi metto in ascolto del mondo di animali che le passano accanto. Ho una quercia proprio vicino alla finestra dello studio, dove ogni anno nidificano upupe e merli, appena leggermente sfasati nei tempi delle loro nidiate. Da qui scrivo brevissime cronache di eventi minimali, come l'arrivo sul vetro della finestra di un picchio, che ho scoperto essere ghiotto dello stucco degli infissi, oppure la comparsa di un intero gregge di pecore disperso. E' una costante la presenza larica, talvolta angelicata, dei miei gatti, allineati sulla soglia, la mattina, in attesa di un pezzetto di qualcosa. Anche la poesia si scrive così, accordandosi alla grazia di un movimento, di un raspare per terra, di un tramestio notturno di cose smosse, di mangiucchiamenti sommessi e appartati, per poi scoprire che un istrice è passato nelle sue ricognizioni in quello che in fondo è innanzitutto il suo luogo. La poesia mi

permette di entrare in piena consonanza con questa dimensione incolta, docile, bestiale. E non viceversa. Essi sono e restano (per fortuna) animali, perché l'umanità è diversa. Ma è proprio qui, se vogliamo, che i linguaggi si incontrano. E si comprendono. Direi con sollievo." Questo uno dei tanti momenti in cui la poetessa coglie la presenza dei suoi ospiti. Angeli/gatti vi appendete ai rami dell'albero di fronte e con gli unghielli guadagnate il cielo per dirmi che la ciotola è già vuota. Io donna e forestiera avrò la coda gonfia di paura e fuggirò lontana dalla casa che accende le sue luci per la cena. Da” La luce sugli spigoli Canti di Monteloro”, Strade Bianche, Stampa Alternativa, 2011


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KINO&VIDEO

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di Simone Siliani s.siliani@tin.it

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o fatto subito la mia donazione sul crowdfunding per budget del film di Federico Micali sul mitico cinema Universale di Firenze (www.limoney.it). Lo confesso, per nostalgia prima che per l'opera cinematografica. Nell'illusione di poter rivivere, anche solo nella finzione cinematografica, quel clima magico, bohémien, rivoluzionario, scapigliato, alternativo (chiamatelo un po' come vi pare) che vi avevo respirato quando adolescente ti rifugiavi in quella sala, invero scomoda e fumosa, per vedere i film che la TV non mostrava, che in altre sale erano forbidden. Parrà impossibile ai più giovani, ma fra i '70 e gli '80 non c'era ancora Youtube, neppure internet, figurarsi Sky e se volevi vedere che so, Woodstock o Tommy o The song remains the same o i più rari e atletici Renaldo & Clara o Pat Garret & Billy the Kid, potevi farlo solo all'Universale. Entravi in un mondo a parte: siccome, udite udite, non esistevano neppure i cellulari, potevi scappare dal mondo per 2/4 ore ed entrare in un universo parallelo dove non valevano le regole del mondo normale, anzi dove non c'erano norme. Era veramente un posto anormale. Tutto era possibile lì dentro. Era certamente un luogo politico, dove ci riconoscevamo noi, di sinistra, alternativi. Ma era anche un luogo di grande cinema: incontravi il nuovo cinema americano indipendente, oppure retrospettive di cinematografie altrimenti invisibili. Non era solo l'Universale: a Firenze c'erano l'Alfieri, lo Spazio Uno, non una rete, ma certamente diverse possibilità di cinema di qualità, cineclub. Dal punto di vista cinematografico era un tempo – lo voglio dire alto e forte – mille volte migliore di quello di oggi, in cui ci sono tanti schermi, poche sale e soprattutto pochi film e quasi tutti commerciali. Sì, ho nostalgia di quel tempo cinematografico a Firenze. Non solo perché eravamo giovani ed eravamo illogicamente sicuri che il nostro impegno politico, civile, culturale avrebbe cambiato in meglio il mondo

Un altro cinema è stato possibile

in cui vivevamo. Va bene, in realtà non credevamo che avremmo visto il Socialismo (o comunque lo volevamo chiamare), ma sarebbe stata una società più umana, vivibile, giusta. Ma ho nostalgia di quel luogo e di quel tempo perché mi sembrava gonfio di possibilità, di strade diverse che ciascuno poteva imboccare (alcune tragiche, a dire il vero, ma altre decisamente esaltanti); mentre oggi tutto sembra bloccato oppure affidato a singoli leader e non alla forza implacabile della cultura e dei cambiamenti sociali che interi gruppi di

persone (partiti, movimenti, associazioni) potevano indurre. L'Universale era parte di quel mondo di possibilità. Ora un giovane regista, nato nel 1971, ha trovato la passione, il coraggio e la forza di farne un film. Non possiamo sapere se sarà bello, se andrà nelle sale (già, ma quali?), se vincerà premi, se piacerà... ma sarà giusto farlo. Per noi che c'eravamo, per lui che ne ha studiato la storia, per i figli che forse sapranno che un altro cinema è stato possibile. www.universalefilm.it

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LUCE CATTURATA

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di Sandro Bini www.deaphoto.it

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Firenze 2008-2013 Itinerari notturni

Sandro Bini - Florence Night Movida (2010)

Florence Night Movida

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MUSICA MAESTRO

Il suono del mare che incontra il cielo di Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it

Il termine polinesiano taongo puoro indica l’insieme degli strumenti tradizionali utilizzati dai Maori della Nuova Zelanda: fiati e percussioni costruiti con conchiglie, legno, ossa e pietra. Alcuni imitano i suoni naturali, dal vento al canto degli uccelli. Originariamente legati alle pratiche religiose, poi usati per l’intrattenimento, questi strumenti caddero in disuso nel diciannovesimo secolo, mentre era in corso il processo di colonizzazione britannica che avrebbe portato alla nascita della Nuova Zelanda (1840). I missionari, comprendendo che il significato religioso degli strumenti ostacolava la cristianizzazione, li distrussero o li bruciarono in grande quantità. È stato necessario aspettare gli anni Ottanta del secolo scorso perché un artigiano bianco, Brian Flintoff, ricominciasse a costruirli. Flintoff ha collaborato strettamente con due musicisti, Richard Nunns (1945-vivente) e Hirini Melbourne (1949-

2003), che col loro disco Te Ku Te Whe (Rattle, 1994) li hanno reintrodotti nella musica neozelandese. Oggi li utilizzano sia i compositori “colti” di origine europea come Martin Lodge e Gillian Whitehead che gli altri musicisti del remoto arcipelago. Fra i tanti merita particolare attenzione Rob Thorne, meticcio anglomaori, che suona quasi esclusivamente questi strumenti. La sua musica, però, non può essere definita “tradizionale”, dato che Thorne proviene dal rock e usa

anche apparecchiature elettroniche. Nato e cresciuto a Hamilton, ha cominciato a cantare a tre anni. Dopo aver imparato a suonare la tromba e la chitarra ha perfezionato gli studi alla Massey University. Negli stessi anni si è dedicato alla musica rock e sperimentale, con ampio uso di strumenti elettronici. Un giorno un amico gli dette un koauau (piccolo flauto maori) e Rob rimase ammaliato da quello strumento insolito. Non solo cominciò a suonarlo, ma decise di esplorare la vasta gamma degli strumenti tradizionali e imparò anche a costruirli. Il primo frutto di questo impegno è il CD Whāia te Māramatanga (Rattle Records, 2013). Oltre a fornire un eccellente saggio delle capacità di Thorne, il disco è un’occasione per avvicinarsi a queste sonorità ancora ignote in Europa. Come si può intuire, non si tratta di musica da utilizzare come sottofondo mentre si fa la doccia o nelle serate conviviali. Soltanto ascoltandola in cuffia, magari al buio, è possibile coglierne appieno la struttura

apparentemente semplice, ma in realtà articolata e complessa. Il disco contiene tre composizioni: “Whāia Te Māramatanga”, divisa in otto parti, la breve “Whakawhiti” e “Pursue Enlightenment Suite”, divisa in sette. Thorne ci propone una musica evocativa che attinge a sonorità antiche, ma le trasforma e le rigenera. In questo modo il musicista neozelandese continua un’antica tradizione e la proietta nel futuro. In due brani compare come ospite il suddetto Richard Nunns, che ancor oggi è il più prestigioso suonatore di taonga puoro. L’approccio musicale di Thorne ricorda quello di Jorge Reyes (19522009), un grande compositore messicano che era riuscito a fondere gli stimoli musicali precolombiani con le molteplici opportunità offerte dalle apparecchiature elettroniche. Lontana anni luce dalle sonorità zuccherose della New Age, la musica di Whāia Te Māramatanga racchiude l’essenza di quella Polinesia misteriosa e affascinante dove il mare sconfinato incontra il cielo.


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VISIONARIA

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di Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com

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l quartiere di Javel, nel XV arrondissement a sud ovest di Parigi, all'inizio del 900 era fortemente caratterizzato da un'alta concentrazione di fabbriche dedicate all'industria dei trasporti che costruivano locomotive, dirigibili e le prime vetture. Per questo motivo la chiesa che fu costruita negli anni 30 su progetto dell'architetto Charles Henri Besnard, oltre a rappresentare una novità assoluta (la prima al mondo ad essere edificata in cemento armato prefabbricato), fu dedicata a Saint Christophe protettore dei viaggiatori e dei mezzi di trasporto perché, secondo la leggenda, avrebbe aiutato Gesù ancora bambino ad attraversare un torrente trasportandolo sulle spalle. La chiesa ha qualcosa di surreale: sulla facciata d'ingresso e poi all'interno nel coro troneggiano alcuni straordinari affreschi, opera di Henri Marcel Magne, che rappresentano San Cristoforo in atto di benedire o affannato a soccorrere navigatori, aviatori e macchinisti. In uno di questi il santo si trova in una macchina, che si intuisce lanciata a tutta velocità, seduto accanto al conducente con cuffia di pelle e occhialoni secondo la moda del tempo. Ciò che rendeva particolarmente importante il quartiere di Javel era la grande fabbrica della Citroen che si estendeva con una superficie di 14 ettari vicino alla Senna, tra Pont Mirabeau e Pont du Garigliano, fino a quando, con l'espandersi della città, nel 1972 la produzione fu trasferita fuori Parigi. La grande superficie liberata dagli stabilimenti è stata riconvertita a parco pubblico, uffici e area residenziale su progetto del famoso architetto Patrick Berger, oggi impegnato nella ricostruzione di Les Halles, e del paesaggista Gilles Clement, tra i più noti di Europa e artefice dei giardini de la Défense. Il parco, dedicato a André Citroen e inaugurato nel 1992, è uno dei migliori esempi di giardino contemporaneo per la varietà degli allestimenti, le architetture moderne e le innovazioni tecnologiche. Vegetazione, pietra, vetro e acqua sono messi in relazione tra loro con un impianto fortemente geometrico. Un grande prato centrale con fontane arricchite da giochi d'acqua unisce diverse tipologie di giardini ad ognuno dei quali è associato un colore e un elemento: al giardino Blu è associato il rame, al Verde lo stagno, al Rosso il ferro, al Dorato l'oro....Completano il parco due grandi serre che ospitano un giardino mediterraneo e un agrumeto, un canale che si raccorda alla Senna e un grande pallone aerostatico, omaggio alla storia del quartiere di Javel, ancorato al terreno con un cavo di 150 metri. Il pallone, come un silenzioso ascensore spinto dalla leggerezza dell'elio, può portare 30 persone offrendo loro una delle più belle e originali viste di Parigi. In funzione tutto l'anno tranne nelle giornate piovose o ventose.

Là dove c’era il cemento... ora c’è il verde

LA LETTERA di Renato Ranaldi

Al curatore scientifico del progetto museologico Valentina Gensini, al consulente scientifico Maria Grazia Messina e per conoscenza al sindaco Dario Nardella Quando mi fu chiesto di far parte della collezione del costituendo museo del Novecento di Firenze con opere risalenti agli anni sessanta – per l’esattezza due opere per le quali ottenni dal Comune di Firenze una borsa di studio per giovani artisti espressi il desiderio legittimo di partecipare con lavori più recenti; mi fu risposto che la curatela si sarebbe attenuta scrupolosamente al criterio di esporre solo opere di proprietà del Comune. All’inaugurazione di lunedì 23 Giugno, come si poteva facilmente prevedere, il criterio è stato smentito dalla presenza di opere di alcuni artisti.

Lettera aperta sul Museo Novecento

E’ stata stampata una guida breve che avrebbe dovuto offrire un tracciato storico di massima. Al capitolo “Firenze alla Biennale di Venezia nell’88”si omette - si stenta a credere si tratti di dimenticanza - che il sottoscritto fu uno dei quattro scultori invitati da Giovanni Carandente a partecipare in quell’anno con una sala

monografica nel padiglione italiano alla suddetta Biennale ( gli altri: Mattiacci, Pomodoro, Kounellis ). Ritengo che mettendo nero su bianco, come avete fatto, siate i responsabili della disinformazione offerta dal museo, avete dimostrato di non conoscere come sono andate veramente le cose. Come sempre vi siete fidati dei suggerimenti che qualche “consigliere” vi ha dato allo scopo di esaltare o abbuiare certi profili per ricavarne vantaggi. Si sa bene che la disattenzione dei cosiddetti addetti ai lavori, per tradizione, accompagna la vita dell’artista e che ogni società dell’arte ha le sue eminenze grigie – di solito artisti caratterizzati da un segno d’accatto e dalla vocazione manageriale. Rimane solo la speranza che, un giorno, qualche istituzione possa offrire verità ai fruitori che ignorano tutto.


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ODORE DI LIBRI

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di Chiara Novelli

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n giugno presso la libreria Nardini Bookstore, Le Murate è stato presentato il romanzo di Massimo Granchi “Come una pianta di cappero” Ed.0111. Granchi nato a Cagliari nel 1974), vive in provincia di Siena e ha pubblicato due saggi: “Camillo Berneri e i Totalitarismi” (Reggio Calabria, 2006) e “Siena: Immagine e realtà nel secondo dopoguerra” (Siena, 2010) oltre ad aver scritto articoli su riviste sul tema della comunicazione pubblica e istituzionale, sulla storia della comunicazione e sullo sviluppo locale fino ad arrivare alla passione per la letteratura che lo ha portato a comporre numerosi racconti brevi e lunghi.“Come una pianta di cappero” è il suo primo romanzo. La serata è stata aperta da Fiorella Maisto (Presidente dell’ACSIT- Associazione Culturale Sardi in Toscana) Una storia, quella del romanzo di Massimo Granchi, che si svolge nella seconda parte del novecento, tra la Sardegna e la Toscana, e ha come protagonista una donna, Edda Fossi, le sue età, la sua famiglia che vive in un quartiere di Cagliari tra i più popolari e problematici con numerosi fratelli e sorelle, una casa piccola e sovrappopolata, due genitori con alle spalle un’ origine segnata dalla multiculturalità, dalla fragilità di una madre che si confonde nell’alcool e di un padre amatissimo che va e viene per il suo mestiere di giostraio. Una identità quindi, quella di Edda, che vive la difficoltà di identificazione in un mosaico originario su cui cominciare a essere, il quale, ragazzina, la porterà a

chiccopucci19@libero.it

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cercare altro da se, che le farà accettare la possibilità di viaggiare come momento di lavoro e conoscenza, regalandole una eccezionalità verso cui poter correre e alzarsi, anche attraverso momenti di vera ispirazione spirituale, dalla paura del vivere. Scivola infatti, nella ricchezza tematica e fra le variegate figure che popolano sapientemente il testo nei momenti più felici e complessi delle sue esperienze, un disagio, un piccolo sorprendente malessere che la raggiungerà definitivamente, quando, chiusa l’esperienza dello “straordinario”, entrerà nella “normalità” dei ruoli di moglie e madre. Romanzo ricco e molteplice quello di Massimo Granchi, dove il tempo e le persone scorrono costruite con sensibilità attenta e meditata, con la profondità psicologica di chi sa guardare oltre le forme, che contiene vari livelli di indagine e lettura sia nelle tematiche affrontate che nelle personalità espresse, e questo porta il lettore a non smettere mai di interrogarsi e sorprendersi delle parole, del “viaggio” che fa assieme alla protagonista per trovarsi, alla fine, all’interno delle proprie complessità, cambiato e arricchito di nuove domande a se stesso.

Una storia fra Sardegna e Toscana

intorno a un cappero

BIZZARRIA DEGLI OGGETTI a cura di Cristina Pucci

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Abbeveratoio

Abbeveratoio per uccelli in vetro soffiato, fine '800. Il nome preciso di questo oggetto, deliziosamente inutile e inevitabilmente artigianale, è "beverino". Si poneva dentro le gabbie degli uccelli da compagnia o da richiamo, immagino, quelli cioè che venivano tenuti in un luogo chiuso, ingabbiati sì, ma ben nutriti e, che, al tempo giusto, erano posti, sempre ben custoditi dietro sbarre magari di sottili canne colorate di verde, su un ramo o in un "capanno" di frasche da dove, cantando, favorivano l'arrivo di altri uccelli che svolazzando liberi e felici nei dintorni della voce, erano prontamente freddati dai cacciatori. La pratica è tuttora in uso, il regolamento per dotarsi di uccelli da richiamo e detenerli e servirsene è molto articolato e complesso, indispensabile comun- Dalla collezione di Rossano que il "porto d'armi". Dirò che più lenza colà, nei mercati esistono banbizzarri di questo di Rossano sono i chi specializzati in oggetti di uso e "beverini" che arredano le minuscole arredo per queste "casette", minicopgabbiette per grilli, diffusissime in pette, minicucchiaini di ceramica o Cina. Per le strade vecchietti che di altro materiale, a volte pure coloparlano o giocano a qualcosa hanno rati o con minuscolissimi elementi a sè vicina la gabbietta con l'apposito decorativi . Non ho proprio altro da grillo, animale domestico per ecceldirvi!

SCAVEZZACOLLO di Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

1) Stai sempre seduta 2)Fai vedere solo il mezzobusto. Se lui vuol vedere il resto, desisti e congedalo. 3)Stai con le braccia conserte 4) Ricorda che le donne più attraenti sono quelle a composizione piramidale 5)Ricorda che le spalle danno volume alla figura 6)Ricorda che devi dare l’impressione di essere un po’ costretta dalle vesti 7) Cerca di sembrare impacciata 8) Ricorda che gli uomini sono molto sensibili al sorriso enigmatico 9) Niente trucco. Niente mascara. Sii semplice e un po’ selvatica. 10) Se lui vuole sottoporti a esame anatomico o geomorfologico, desisti e congedalo. 11) Se t’interroga, dagli risposte intelligenti, ma molto brevi. 12) Ricordati, gli uomini si dividono in: incapaci, molto incapaci, totalmente incapaci e geni. 13) Scarta i geni. 14) I geni sono un errore dell’evoluzione. L’evoluzione, per questa colpa che si porta dietro, è sempre in cura dallo psicologo. 15) Ricorda, gli uomini sono buoni per cose, tipo: la battaglia di Anghiari, bom-

I consigli di Monna Lisa barde e catapulte, monumenti equestri etc. 16) Davanti a un uomo stai sempre in prospettiva lineare. 17) Ricorda: l’uomo ha una modesta visione periferica. Tende a dipingere paesaggi toscani alle tue spalle… 18) Chiamalo “Maestro”.


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di Ramile Leandro

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i sono trovata immersa nel verde del piccolo paesino di Scarperia - FI, in un pomeriggio di sole intenso a visitare lo studio dell’artista Lorenzo Brinati. Le parole, gli schizzi e i lavori dell’artista mi hanno riportato alla mente una canzone brasiliana degli anni ‘90. Il frammento della canzone, sopra menzionata in lingua originale, dice: “Niente di ciò che è stato sarà di nuovo della stessa maniera che fu un giorno; Tutto passa, tutto sempre passerà; La vita viene come onde, come il mare, in un andare e venire infinito…”. Penso non ci sia modo migliore per iniziare a parlare del lavoro di Brinati che partire da una canzone come questa. Cercherò di trasmettere attraverso poche parole l’effetto estetico che i suoi lavori mi hanno provocato, senza la pretesa di parlarne di ognuno, ma bensì seguendo lo stesso modo semplice e pulito con cui l’artista mi ha fatto vedere le sue opere: con i piedi per terra e la mente curiosa. E’ bastato entrare nel suo studio, per capire un po’ le domande che si è posto negli ultimi anni. Un luogo senza spazi vuoti. Pareti, soffitto e pavimento coperti di appunti, disegni, dipinti, pietre, frammenti di spartiti, poesie, fotografie, libri di fisica, matematica, arte, e chi più ne ha più ne metta. Appunti di un’artista autodidatta che ha imparato anche il nobile mestiere del marinaio per poter conoscere le stelle, il suono del vento e le onde. Rispettare tutto questo, sono stati i primi passi del Brinati verso i legami tra arte, geometria e fisica. Fonte d'ispirazione del suo lavoro è, infatti, la scienza che dà origine alle forme della natura, a modelli

Piedi per terra Un tuffo nei propri sensi

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fronta, lo guarda, lo sente e lo accarezza come un fiore, finché lo fa diventare leggero, tenue, semplice nella forma e arricchito nei significati. Le sue opere diventano dunque il paradiso e la bellezza che cerca per la sua vita e la voglia che ha di portare la stessa armonia a chi lo guarda. Nella mostra “Deus Sive Natura” (letteralmente "Dio ossia la Natura"), nome scelto dell’artista, che significa “la natura intesa come l’insieme di tutto ciò che esiste”,il Brinati mette in mostra i suoi piccoli paradisi in marmo e bronzo, invitando lo spettatore ad un viaggio nell’essenza della natura in un posto particolarmente importante per l’artista che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Borgo San Frediano. Fare una mostra in questo posto significa a maggior ragione reimmergersi in un’energia vissuta prima ma che, come dice la canzone, “non sarà di nuovo nella stessa maniera che fu un giorno”. Accresce l’importanza della location: un studio, “Ecletico Spazio D’arte” che da una parte lavora con il contemporaneo e dall’altra con l’antichità. Dualità presente nel lavoro del Brinati, che pur utilizzando una tecnica pittorica con materiali classici presenta riflessioni estremamente contemporanee sulla complessità di trattare e vedere il paesaggio nella sua essenza. Le tracce che mi hanno lasciato questi lavori sono pari ad un tuffo profondo in onde sonore di cui tanto l’energia che le genera, quanto l’aria che le propaga e tutta la natura che le assorbe vengono rappresentate in movimenti che tramutano tutto ciò che è pietra, marmo o bronzo in energia, in mare, in acqua. Un tuffo nei propri sensi. A Eclettico-spazi d'Arte San Frediano 44 a/r

matematici, diagrammi e onde sonore. Nonché lo studio approfondito di ogni materiale utilizzato, così come le sue caratteristiche e la sua storia. Tutto ciò crea un ossimoro affascinate e sensuale nelle sue opere, dove le pietre o l’uso di materiali diversi si sovrappongono in un contrasto di chiaro/ scuro, pulito/grezzo, caldo/freddo, figurativo/astratto. In altre parole, la scultura del Brinati cerca l’armonia attraverso ritmi distinti che si propagano contemporaneamente e trovano nel loro insieme l’equilibrio che nasce della diversità sia della forma, come dell’energia che emana. Contrasto perenne che traspare anche nel modo con cui egli si pone al mondo. L’appagamento nell’isolarsi, attraverso una partenza verso l’immensità del mare, in contrapposizione con la consapevolezza del bisogno che ha un artista di emergere nella società per fare sentire la sua arte. Ed è in questo ambito che Brinati scegli il marmo come materiale più adatto ai suoi lavori. Fa di questo la società che lo “soffoca”, lo af-

CATTIVISSIMO di Francesco Cusa info@francescocusa.it

Non ne posso più di sentire la parola “Occidente”. E’ diventata il lemmavessillo vuoto dei reazionari, un contenitore immane dentro cui confluiscono i fantasmi delle nostre angosce. E’ un calderone pieno di crepe, una pentolaccia che sta per spaccarsi nel calore secolare della fiamma. Un corpo spugnoso che assorbe l’orrore e lo tramuta in norma e legge, in mercato comune, in moneta condivisa. In altre parole nell’omologazione di orwelliana memoria. Ciò dopo due guerre intestine e città rase al suolo dalla bomba H (pochi lustri fa, qui, in Europa, ci si massacrava). Una distorsione geografica che unisce Tokio e Singapore alla Magna Carta, la Via della Seta alla cesta che accoglie la testa del Capeto. “I valori dell’Occidente”. Le “democrazie”. Simulacri d’ordinamento costituzionale e civile. Distonie del linguaggio. Ma l’Orrore, quello con la O maiuscola, è fiume carsico. Rampolla laddove la civiltà del nostro salotto buono non arriva, nei luoghi non più remoti, resi attuali dalla nitidezza delle telecamere. Secoli e secoli di dominio

A occidente di cosa? dell'Occidente in funzione di Monsieur Profitto hanno generato oppressione, sterminio di intere popolazioni (Indiani d'America, Maya, Aztechi ecc. ecc.). Questo con buona pace delle peculiarità tra cristiani, protestanti, atei, calvinisti, e compagnia discorrendo, a loro volta in conflitto, tra massacri e massacri fino alle due guerre del secolo scorso che hanno visto distruggere e divorare buona parte di quell'Occidente medesimo che adesso è latore di Valori Universali di Democrazia. Per cui faccio al barista: - Che ne pensiamo di questo Occi-

dente egemone, di questa distonia del linguaggio eh? Il Giappone e la California! Non c’è più geografia

che tenga! - Guardi, per me questi si devono trovare il lavoro là dove vivono, che qua non ce n’è. Per cui faccio al barbiere: - Ma quindi la questione del lemma “occidente”… - Siamo in mezzo agli africani, a Maometto e ad Ali Babà. Per cui faccio al muratore che sta riparando il terrazzo: - Come la mettiamo ordunque con questo Blob para-democratico da esportazione? - Non guardo Rai Tre perché sono comunisti. La parola Occidente andrebbe declinata con quella di Colonialismo. La parola Occidente andrebbe sostituita con quella di Schiavismo. La parola Occidente andrebbe cambiata con quella di Profitto. La parola Occidente significa Oligarchia, Egemonia, Potere. Siamo un popolo ignorante, razzista e maleducato.


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LUCE CATTURATA

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di Ilaria Sabbatini Ilaria.sabbatini@gmail.com

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Città d’acqua Lucca San Michele

MENÙ di Michele Rescio mikirolla@gmail.com

La dicitura maritata deriva dal fatto che gli ingredienti di carne e verdura, si "maritano" partecipando insieme alla minestra. La ricetta nel corso degli anni è stata notevolmente rimaneggiata eliminando o modificandone gli ingredienti che sono sempre più rari da trovare in commercio. Durante le festività tradizionali, tuttavia, nei mercatini rionali di Napoli si possono acquistare le verdure tipiche per preparare la minestra maritata, che sono tipicamente cicoria, piccole scarole (scarulelle), verza e borragine, che ne conferisce una nota amarostica. In qualche variante si usa anche la catalogna (in napoletano: puntarelle). La carne è tipicamente di maiale, con tracchie ( costine ), salsicce e altri tagli. Nella tradizione più antica invece del pane tostato si usano gli scagliuozzi, tipiche frittelle di farina di mais fritte dalla forma arrotondata, adagiate sul fondo del piatto. Curioso notare come nella tradizione gastronomica ciociàra (della Ciociarìa, regione storica del Lazio meridionale) tale ricetta trovi ospitalità nei libri di cucina ed è segna-

Scarulelle e puntarelle si sposano con le tracchie lata sui ricettari tipici della zona. La preparazione del perfetto matrimonio tra il maiale, le verdure e le spezie Ingredienti: 500 gr di guanciale di

maiale - 400 gr di costine di maiale 500 gr di salsiccia piccante - un osso di prosciutto - 150 gr di guanciale salato - 100 gr di lardo - 700 gr di verza - mezza insalata cappuccia -

500 gr di scarole 500 gr di cicoria - 2 spicchi d’aglio - croste di formaggio parmigiano - caciocavallo secco - peperoncino - erbe aromatiche. Preparazione Per il brodo e la carne Prendete un pentolone di grandi dimensioni. Sul fondo sistemate tutta la carne che avrete in precedenza tagliato a pezzi. Coprite la carne con abbondante acqua e salate. Aggiungete le erbe aromatiche. Mettete la pentola sul fuoco fino a quando la carne non sarà cotta. Quando la carne è pronta, toglietela dalla pentola e disossatela. Nel frattempo rimettete la pentola sul fuoco sino a portare a ebollizione il brodo che si è così venuto a creare. Aiutandovi con una schiumarola eliminate il grasso in eccesso. Per le verdure Lavate, pulite le verdure e iniziate a farle cuocere in una pentola a parte piena d’acqua salata. A metà cottura, dopo circa un quarto d’ora quindi, scolate le verdure e mettetele nel brodo. La cottura Aggiungete le due croste di parmigiano, un pezzetto di caciocavallo, il peperoncino, l’aglio e tutta la carne che avete tagliato a pezzi. Terminate la cottura per circa 3 ore. La minestra maritata va servita molto calda.


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Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Un caro amico, scomparso da anni, mi raccontava spesso delle sue strane avventure erotiche. “Non ho mai visto – mi disse una volta – come fosse fatta G.O. , pur avendo una cognizione precisa del suo

HORROR VACUI

grande corpo. Ci incontravamo sempre di notte in una stanza tutta buia, non avendo conosciuto neppure il suo nome la chiamavo il mio Grasso Oscuro”.


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ODORE DI LIBRI

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di Giacomo Aloigi

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assemblee e votazioni, ma era addirittura spaccata in due clan, quello di Chinaglia contro quello di Martini. La partitella in famiglia del venerdì si trasformava in una battaglia più aspra di quella domenicale in campionato. Scontri e agonismo esasperati, a tal punto che Chinaglia non voleva smettere se la sua squadra stava perdendo e così l’allenamento finiva a buio fatto. Se Socrates aveva sempre con sé pile di libri, alla Lazio si trastullavano con le pistole, prendendo di mira lampioni, cartelli stradali, barattoli. Ma fu proprio per un maledetto colpo d’arma da fuoco che l’ala Re Cecconi morì tragicamente nel 1976, ucciso da un gioielliere che credette per errore di essere vittima di una rapina. Una squadra, quella del primo scudetto biancazzurro, segnata da un sinistro destino. Oltre a Re Cecconi se ne andranno prematuramente Maestrelli, stroncato da una malattia, l’allenatore

giacomo.aloigi@tiscali.it

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n periodo di Mondiali brasiliani, par d’obbligo occuparsi di due libri che trattano appunto di calcio e lo fanno in modo affatto banale. Il primo ha proprio nel Brasile il suo scenario d’eccellenza, là dove nacque uno dei più famosi e amati campioni carioca, Socrates, il “Doutor” o il “tacco di Dio”, soprannome malamente tradotto dalla stampa italiana e che invece, in portoghese, suona molto più poetico, cioè “il tacco che il pallone chiese a Dio”. Il libro (Un giorno triste così felice, Ed.66thand2nd) scritto da Lorenzo Iervolino con una certa enfasi (sempre sotto controllo), è un commovente (e documentatissimo) viaggio alla (ri)scoperta dell’uomo che fu l’artefice della “Democracia Corinthiana”, il primo caso di autogestione totale di una squadra di football, il Corinthias di San Paolo, di cui Socrates fu capitano e leader carismatico. Quasi un caso di folklore sportivo, per gli occhi miopi degli europei e invece scelta politicamente eversiva in una società, come quella brasiliana a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80, che doveva fare i conti con una dittatura militare forse meno tristemente nota di quelle coeve in Cile ed Argentina, ma non per questo meno feroce e repressiva. Il fatto che una squadra di calcio mostrasse al mondo che ogni decisione relativa alla sua vita quotidiana (durata degli allenamenti, sì o no ai ritiri, calciatori da acquistare o vendere) fosse presa con votazioni nello spogliatoio (a cui partecipavano anche massaggiatori e tecnici) e dunque rimessa alla maggioranza, costituiva un pericoloso tarlo per il regime, uno scomodo esempio che rischiava di allargarsi al tessuto sociale. Se poi quella squadra, in cui i giocatori bevono e fumano, vanno alle feste la sera prima della partita, si allenano a piacimento (Socrates addirittura una sola volta a settimana perché doveva preparare gli esami per la laurea in medicina e raggiungeva i compagni poco prima dell’inizio del match), se, dunque, la squadra addirittura vince il campionato brasiliano, ecco che lo slogan della “Democracia corinthiana”, stampato spavaldamente anche sulle maglie dei calciatori, diventa un vero e proprio pericolo. Non manca la narrazione della breve e incolore parentesi fiorentina, dove il “Magrao”, altro ironico soprannome del Doutor, si scontrò con un mondo, non solo pallonaro, lontano anni luce da quello in cui era nato. Gli aneddoti si sprecano. Uno per tutti quello di Socrates che, durante il ritiro precampionato, sfiancato dalla quotidiana corsa in montagna, si avvicina ad Antognoni e gli chiede. “Scusa, ma in Italia i campi di calcio sono in salita?”. Di tutt’altra pasta erano fatti i “bad boys” che portarono la Lazio alla conquista del suo primo scudetto nella stagione 1973-74. Una “sporca dozzina” (meno uno…) che negli spogliatoi non solo non teneva

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Il dottore i pistoleri e

Storie di un calcio che non esiste più

TRASH TOWN di Alessandro Dini sandrodini@libero.it

Perché Trash Town? Il vocabolo inglese trash vuol dire anche cianfrusaglia, paccottiglia nel senso di qualcosa, o un luogo, senza formastruttura, la morphé che Pericle considerava invece essenziale per il vivere civile nella polis. Firenze oggi appare diroccata, frastornata e invivibile. Ne è rivelatore l’uso notturno della città, diventato controllabile solo con l’intervento delle Forze dell’Ordine. La questione della “Ruota Panoramica” al Parco delle Cascine motivata unicamente sul “... la faremo come quella di Londra ...” espressione nardelliana tristemente solitaria di una cultura (?) internazio-nalista. E la ormai annosa questione dei dehors? Non si dica, per favore, che “... a Parigi ci sono e perché qui da noi no ...”. Londra è Londra, e Parigi è Parigi, ma Firenze è tutt’altra cosa: fragile, becera quanto basta e tutto sommato molto più provinciale di qualunque altra città del mondo, eppu-re così tanto più internazionale da sembrare universale, così tanto amabile e amata. Questa Firenze che si sta involvendo tristemente in una Trash Town, una città paccottiglia che pare impersonare aspetti ancora inconsci di una gioventù aliena alla realtà. L'idea della ruota panoramica e la polemica sui dehors non parrebbero, allora, una questione estetica, ma piuttosto parte emergente della naturale definizione a gesti e non a

La faremo come quella di Londra parole dell'immagine della giovane società, quella nuova idea del progetto decostruttiva e obliterante di ogni idea di social network che non sia informatica e virtuale espressione di una decadente cultura del vivere proiettata nel non-progetto del sé futuro, implicita quanto drammatica ammissione del non sapere nemmeno cosa potrebbe essere.

che, lui solo, era in grado di tenere insieme quel coacervo di giocatori caratteriali e incostanti, Frustalupi, morto in un pauroso incidente stradale a cinquant’anni e poi lui, Giorgione Chinaglia, il bomber, il trascinatore, il cavallo pazzo, colui grazie al quale il “vaffanculo” rivolto all’allenatore (Ferruccio Valcareggi, nda), è stato ribattezzato, appunto, gesto “alla Chinaglia”. “Long John” è statostroncato da un infarto, quando ormai per la giustizia italiana era un latitante. Questa storia di uno scudetto vinto nella più totale anarchia, è abilmente narrata da Guy Chiappaventi in Pistole e Palloni (Ed. Castelvecchi, ma già uscito nel 2004 per Limina) che con il libro di Iervolino ha in comune la capacità di raccontare facendo parlare i testimoni diretti, andando a cercare coloro che furono i protagonisti di quella cavalcata inarrestabile, che riportò lo scudetto nella capitale per la prima volta dopo la guerra. Cronache di un altro calcio. Il saggio sportivo è un genere letterario che sta conoscendo una crescita sia d’interesse sia di qualità narrativa. I testi di Iervolino e Chiappaventi ne sono due eccellenti esempi.


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RI-FLESSIONI

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di Laura Mazzanti

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mazzantilaura86@gmail.com

o da poco finito di leggere “La costanza della ragione” di Vasco Pratolini, un libro che a tratti mi ha entusiasmata moltissimo, forse per l’empatia che si è venuta a creare con Bruno, il personaggio principale del libro, o forse per quei continui richiami a luoghi a me molto familiari. Mi è sembrato davvero di essere sbalzata per le strade di Rifredi, di Careggi o del Cinquale negli anni ’60, di sedermi a mangiare in quelle vecchie trattorie, di assistere, seduta al tavolo della cucina, alle interminabili, spesso inconcludenti, discussioni tra la madre Ivana e il figlio Bruno. Sì perché nella maggior parte dei casi i confronti tra madre e figlio avvenivano a cena, davanti a un piatto divenuto ormai freddo. Forse perché la cena rappresentava l’unico momento della giornata nel quale il figlio e la madre potevano davvero incontrarsi e scontrarsi. Non avevo mai prestato troppa attenzione al fatto che effettivamente alcuni dei momenti più importanti all’interno di un romanzo siano strettamente legati ai pasti consumati dai personaggi o più semplicemente che spesso le trame di un libro abbiano inizio attorno ad una tavola imbandita. Poi sono venuta a conoscenza del lavoro della designer statunitense Dinah Fried e ho iniziato a rendermi conto di come molti dei ricordi dei libri che ho letto siano legati al cibo, sia esso servito, mangiato, o semplicemente visto come momento di incontro. Quello di Dinah Fried è stato un lavoro iniziato per gioco due anni fa, mentre frequentava un corso alla Rhode Is-

land school of design, un progetto che doveva essere limitato nel tempo, ma che fortunatamente per noi è stato portato a termine, raccogliendo le foto scattate all’interno di

Mangia come (cosa) leggi

un libro. “Fictitious dishes: an album of literature’s most memorable meals” contiene 50 fotografie di piatti descritti in alcuni tra i più famosi romanzi degli ultimi tre secoli. Ogni foto è accompagnata dall’estratto del romanzo in cui si nomina la ricetta e alcune informazioni sull’autore, sull’opera e sul piatto. Le foto sono scattate tutte dall’alto, proprio per permettere al lettore di immedesimarsi nel migliore dei modi con i personaggi del romanzo.

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Ecco che improvvisamente sembra di trovarsi dinnanzi al ricco buffet di antipasti delle suntuose feste a casa Gatsby, di gustare il cocktail con gin e ananas di Nabokov o, volando ancora di più con la fantasia, di sedersi al tavolo a fianco del Bianconiglio sorseggiando il tè. Moby Dick (Herman Melville), Il talento di mister Ripley (Patricia Highsmith) , Dalla parte di Swann (Marcel Proust), sono solo alcuni dei romanzi rivisitati da Dinah Fried. Una ricerca metodica, contraddistinta dalla volontà di riprodurre fedelmente l’atmosfera dell’originale letterario. Certo qualcuno potrebbe storcere il naso, asserendo che non vi è poi molta difficoltà nel leggere un libro e nel ricreare il pasto consumato nel romanzo scattando una semplice fotografia. Io, al contrario, trovo che l’operazione di Dinah Fried nella sua semplicità abbia una forte impronta creativa, non solo perché nessuno prima di lei aveva mai pensato a quanto i pasti descritti in alcuni dei più famosi romanzi avessero un ruolo cruciale, ma soprattutto è ammirevole la sua volontà di ricreare scenari perfetti, immedesimandosi esattamente con l’autore. I “piatti letterari” contenuti nel libro Fictitious dishes è un modo interessante per sposare lettura e cibo, attività ugualmente nutrienti per l’anima e per il corpo, e grazie al lavoro di Dinah Fried, a noi è sembrato di sedersi davvero allo stesso tavolo, condividendo lo stesso pasto, con Ernest Hemingway, James Joyce, Mark Twain, Franz Kafka, Gustave Flaubert, ecc... In fin dei conti Fictitious dishes non è che un bel regalo per la nostra fantasia.

GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it

Sembra quasi che sul parco delle Cascine aleggi una maledizione; la terribile morte della piccolissima Alice e della zia è solo l’ultima di tante tragedie delle quali il parco è stato testimone, a cominciare da quella del 26 settembre 1948. Dal 1946 si era iniziato a disputare alle Cascine il circuito di Formula 2 che richiamava un’enorme folla di appassionati e semplici curiosi: pare che a quello del quale stiamo parlando assistessero oltre 50.000 spettatori. Il Comune di Firenze aveva provveduto a riasfaltare tutto lo sviluppo del circuito, come ha fatto di recente per i mondiali di ciclismo; ma, se il parco delle Cascine è una cornice ideale per le gare ciclistiche, non altrettanto si può dire per le corse automobilistiche: sembra impossibile ma, quasi 70 anni fa, sul rettilineo di circa 2 km. Viale dell’Aeronautica-Viale degli Olmi, le auto erano in grado di raggiungere una velocità di punta vicina

Viale degli Olmi

Tragedia alle Cascine ai 200 km/h, proprio quello che ci voleva su un rettilineo costeggiato da alberi secolari e che si concludeva con una svolta ad angolo retto. Alla gara sono iscritti i migliori piloti del momento, in rappresentanza delle marche più note: fra gli altri la Ferrari con il primo pilota Raymond Sommer e l’idolo dei fiorentini Clemente Biondetti, la Maserati con Ascari e Serafini, la BMW con Moore, la Simca-Gordini con un pilota davvero singolare: il principe del Siam in esilio Bira. Fra le auto partecipanti ci sono anche due “Ermini”, progettate dal fiorentino Pasquale Ermini, detto “Pasquino”: una la guiderà lui stesso. Al termine delle prove ufficiali Biondetti conquista la pole position davanti a Serafini, Ascari e Sommer e

questo è l’ordine di partenza che vedete nella foto; Ermini è nelle retrovie. Sommer, che ha la macchina più potente, si impone facilmente e Biondetti riesce a piazzarsi al secondo posto. Ma il fatto sportivo passa in secondo piano (nonostante la gara fosse incredibilmente portata a termine) di fronte a quello che succede al 42° giro (dei 60 previsti). Pasquino, arrivando dal Viale degli Olmi, non riesce a svoltare nel Viale della Catena e, proprio dove ora c’è la fermata della tranvia, piomba sulle recinzioni a oltre

160 km/h, travolgendole: muoiono 6 persone, fra le quali 3 ragazzi. L’inchiesta, oltre ad appurare che Ermini aveva apportato alla sua vettura delle modifiche non previste dal regolamento, portò anche al rinvio a giudizio degli organizzatori, che non avevano adottato le necessarie cautele a protezione degli spettatori, in particolare in quel punto pericolosissimo, al termine del rettilineo; fra l’altro emerse che, degli oltre 50.000 spettatori, almeno la metà erano entrati abusivamente, approfittando di varchi nella recinzione del circuito; molti (fra i quali una delle vittime) assistevano al circuito, al di là degli assiti di protezione, in precario equilibrio in piedi sulle canne delle biciclette. L’incidente, ovviamente, segnò la fine della breve vita del circuito delle Cascine.


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L’ULTIMA IMMAGINE

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San Jose, California, 1972

berlincioni@gmail.com

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni

Siamo in uno studio fotografico per ritratti nella parte di San Jose abitata in prevalenza da "chicanos". Aperto direttamente sulla strada era specializzato in ritratti, dalle fototessere ai posters di varie dimensioni. Su richiesta scattavano anche foto di matrimonio e fornivano immagini ad un piccolo

giornalino locale della comunità. I servizi erano di qualità medio bassa ma l'ambiente era accogliente e simpatico. I prezzi erano adeguati al tipo di clientela ed i proprietari erano due giovani molto alla mano. Mi sono sempre riproposto di tornare e fare su di loro un piccolo reportage. In realtà non non

ho mai trovato il tempo per farlo e mi dispiace. L'altra immagine, sempre scattata nello stesso quartiere mostra un altro tipo di "Fast food", il Taco Bell, con piatti quasi esclusivamente messicani. I due clienti sono degli studenti dell'Università di Santa Clara.


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