Creativity 01 - Inverno 2013

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Cover Story L’Isola di Pasqua

TRAVEL Etiopia - Egitto Seychelles Camaiore Olanda

FOOD&WINE Le Cantine Ferrari Rocca delle Macìe Chef Haupt

FASHION Moda Coreana Essa Vogue 1966

ART&PHOTO Schnabel Gilberto Mora MOTORS Ferrari a Dubai


2014 VITAMINA CONTEMPORANEA BOLOGNA 23 - 26 GENNAIO 2014 - Autostazione - Piazza XX Settembre 6 La direzione organizzativa di Setup è composta da Simona Gavioli e Alice Zannoni Comitato scientifico: Lorenzo Bruni - Daria Filardo - Helga Marsala Responsabile Eventi Culturali: Martina Cavallarin www.setupcontemporaryart.com - info@setupcontemporaryart.com SEGRETERIA ORGANIZZATIVA - ROBERTA FILIPPI - roberta.filippi@setupcontemporaryart.com PRESS OFFICE CULTURALIA - BOLOGNA, VICOLO BOLOGNETTI 11 - TEL. 051 6569105 FAX 051 2914955 - http://www.culturaliart.com/


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CONTENTS

Creativity

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Travel

VIAGGIO IN ETIOPIA Di Anna Dardanelli SEYCHELLES Di Fabiola Cinque EGITTO Di Lamberto Selleri CAMAIORE Di Isabella Piaceri L’OLANDA FESTEGGIA! Di Paola de Groot Testoni

Food&Wine

CANTINE FERRARI Di Roberta Filippi ROCCA DELLE MACÌE di Maria Letizia Tega CHEF DEFF HAUPT Di Fabiola Cinque MANDRAROSSA A MENFI Di Paola Cerana e Giancarlo Roversi

CoverStory

IL RESTAURO DEI GRANDI MOAI DELL’ISOLA DI PASQUA Di Lamberto Cantoni

Fashion

DAMIANI STYLE Di Roberta Filippi ITALIA INDEPENDENT Di Roberta Filippi MODA COREANA Di Fabiola Cinque INCONTRO CON LO STILISTA ESSA DI DUBAI Di Fabiola Cinque IL FASHION REPORTAGE PERFETTO Di Lamberto Cantoni

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Art&Photo

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Motors

METAFISICA DELL’ALTRA CITTÀ Di Lamberto Cantoni JULIAN SCHNABEL Di Francesca Flavia Fontana

UNA ROSSA ITALIANA NEL PAESE DEI BALOCCHI Di Fabiola Cinque


Creativity

Lettera del direttore

Creativity A parole sembreremmo entrati nell’era della creatività. Sono creativi gli artisti, ovviamente, gli stilisti, i designer. Ma creativa è anche la finanza, l’economia, la comunicazione. Persino gli chef hanno cominciato ad adorare la creatività. Per farla breve, il nostro tempo sembra aver eretto un nuovo culto, a volte più annunciato che celebrato, al quale tutti dobbiamo aderire. Insomma, la parola creatività sembra avere il potere seduttivo di farci sentire partecipi dei processi che contano,sembra la chiave giusta per avere successo, sembra la soluzione pertinente ai nostri problemi. Quando pensiamo o crediamo di intercettarne gli effetti ci sentiamo come trascinati nel tempo che trasforma la realtà in cui viviamo. Sappiamo che è un mito, ma nello stesso tempo ci appare come una parola/narrazione della quale è difficile farne a meno. Si può essere veramente contemporanei senza accettare di passare per la porta stretta della creatività? Molti ne dubitano. Anche se è evidente l’abuso linguistico al quale la parola è sottoposta. Quindi, pur riconoscendo il carattere di feticcio culturale che accompagna i suoi innumerevoli usi, sarebbe sbagliato abbandonarla senza avere alternative altrettanto contagiose. Ecco perché abbiamo deciso di far nasce una rivista online dedicata ad esplorare l’ampiezza del suo mito e la concretezza che si deposita in suo nome. Tuttavia abbiamo scelto un punto di vista particolare per osservarne la geografia in espansione. Abbiamo deciso di rappresentare, narrare la creatività in connessione con la vita. Come può essere una vita creativa? Cosa ci occorre per realizzarla? Come possiamo raccontarla? Proponiamo dunque una soggettivazione del processo creativo, che trascende il semplice “oggetto” nel quale normalmente il senso comune pensa di ritrovarla o riconoscerla in effigie. Ci piace l’idea che la creatività sia prima di tutto una passione e una esperienza. Siamo dunque interessati ai molteplici modi di raccontare possibili stili di vita creativi. Dai viaggi che ci cambiano la vita, alle scelte di gusto o estetiche che ci suggeriscono come cambiarla, migliorarla, perfezionarla. Non abbiamo regole da imporre come Vangeli, e non abbiamo nemmeno preclusioni di sorta. Pensiamo semplicemente che esistano lettori che come noi abbiano fame di bellezza non scontata e di conoscenza dei molteplici modi o forme che in qualche modo “parlano” la creatività, senza la pretesa di esaurirne il mistero. D’altra parte lo sappiamo tutti che il suo concetto e’ difficile da definire in modo incontrovertibile, ma nonostante ciò sembra che i suoi effetti risultino molto più accessibili di ogni definizione sinora azzardata. In altre parole, anche se non possiamo fissarne i limiti con delle definizioni rigide, nulla ci impedisce di raccontarla.

Lamberto Cantoni

Direttore Creativity

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Travel

Viaggio in Etiopia

Un immenso museo etnografico che parla cento lingue, una natura primordiale e selvaggia, una spiritualitĂ profonda. Di Anna Dardanelli

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L’Etiopia è forse il luogo dove è iniziato il cammino dell’uomo. Qui, nella depressione dell’Afar e nella valle dell’Omo, sono venuti alla luce i resti dei nostri più remoti antenati. Questa affascinante realtà di “culla dell’umanità” convive con quella sontuosa, monumentale, di alta spiritualità, testimoniata dalle chiese rupestri. Nel cuore di una natura grandiosa, in una terra affascinante per la sua incredibile varietà tribale, gli eredi di antichissime civiltà convivono con etnie rimaste all’età della pietra dando vita ad un incredibile mosaico di genti diverse tra loro nei caratteri somatici, negli usi e costumi, popoli di origini nilotiche, sudanesi, omotiche, cuscitiche. La storia dell’Etiopia è un intreccio di avvenimenti affascinanti e leggendari come l’incontro tra il re Salomone e la regina di Saba, l’avventuroso viaggio dell’Arca dell’Alleanza, la grandezza del regno di Axum e la nascita del cristianesimo, l’ascesa dell’islamismo, il mitico re Lalibela e le undici chiese scolpite nella roccia, ottava Meraviglia del Mondo. È un’energia speciale, quella che porta il popolo etiope ad interiorizzare la propria fede, a recludersi fisicamente in luoghi remoti, costruendo chiese che sono fortezze, intagliate nella roccia, a strapiombo su baratri inaccessibili, sino a diventare immense e silenziose preghiere di pietra.

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Mentre Lalibela è l’espressione di un cristianesimo arcaico che sopravvive sugli altopiani d’Etiopia, di una fede intensa e autentica che conserva ancor oggi, a distanza di duemila anni, la sua presa sul cuore e sulle menti delle immense folle di credenti avvolti in bianche tuniche, al seguito di ieratici e maestosi sacerdoti durante le cerimonie e i rituali della tradizione copta, Harar non pare Etiopia. La cultura musulmana porta con sé la bianca architettura, il canto del muezzin dai minareti. Con le sue novanta moschee e i santuari dedicati a santi locali e capi religiosi, Harar è considerata la quarta città santa del mondo islamico. Molti appassionati di viaggio, del viaggio come metafora della vita romantica, si avvicinano ad Harar come pellegrini al tempio. E qui i versi di Rimbaud del celebre “Le Bateau Ivre” vibrano ancora intensi.

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ETIOPIA - LA ROTTA STORICA Un circuito completo del Nord tra capolavori dell’architettura medievale, grandi paesaggi e vita rurale GIORNO PER GIORNO... 1°giorno: Italia - Addis Abeba 2°giorno: Addis Abeba - Bahir Dar e Lago Tana: tra isole e penisole, chiese e monasteri 3°giorno: Bahir Dar - Le Cascate del Nilo Azzurro Gondar, la città dei castelli 4° giorno: Gondar - Escursione nel Parco Nazionale Montagne del Simien 5° giorno: Simien - Axum, la città della regina di Saba 6° giorno: Axum - Hawzen e i paesaggi del Tigray 7° giorno: Hawzen - Le chiese ipogee del Tigray 8° giorno: Hawzen - Sekota - Lalibela, la Gerusalemme africana 9° e 10° giorno: Lalibela, le chiese nella roccia 11 ° giorno : Lalibela - Addis Abeba 12° giorno: Addis Abeba - Italia

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Il Tucano Viaggi Ricerca è stato il primo operatore ad organizzare viaggi in Etiopia mettendo a punto itinerari preceduti da una serie di sopralluoghi che ci riportano ai primi anni ‘80. A distanza di quasi 30 anni, Il Tucano propone un esauriente panorama di proposte su questa destinazione dalle grandissime potenzialità culturali, etnografiche e naturalistiche, con viaggi che spaziano dalle scenografie delle terre del nord alla stupefacente Dancalia sino ai villaggi e alle etnie della regione dei laghi e della valle dell’Omo.

PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI VIAGGI: Il Tucano Viaggi Ricerca Piazza Solferino 14/G 10121 Torino - Tel. 011 561 70 61 info@tucanoviaggi.com www.tucanoviaggi.com

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Festival culturali per promuovere le bellezze delle Seychelles Di Fabiola Cinque foto di Claudio Falappa

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aeroporto di Dubai

Per tornare alle Seychelles si trova volentieri un buon motivo. Siamo stati invitati dall’Ente del Turismo delle Seychelles in un press tour che non ha lasciato nulla al caso. Atterrati all’aeroporto della capitale Victoria, nell’isola principale di Mahè, con un volo Emirates, dopo uno scalo da sogno a Dubai, siamo stati accolti dalle varie personalità del luogo e dai responsabili dell’Ente del Turismo. Ci viene comunicato un programma fitto di impegni, tra conferenze stampa ed eventi con relative interviste. Le auto ci accompagnano al primo Hotel dove alloggiamo: Kempinski Seychelles Resort, Baie Lazare. KEMPINSKI SEYCHELLES RESORT, BAIE LAZARE Kempinski è una catena alberghiera nata in Germania, a Berlino, nel 1871, tra le più antiche del mondo, e prende il nome dal titolare (di origine polacca), che nominò così il suo primo ristorante. Attualmente è arrivata ad essere presente con le sue 75

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Intervista a Lashley Pulsipher

strutture alberghiere in 34 paesi nel mondo. Siamo a Mahe, nell’isola principale delle Seychelles, ospiti di questo bellissimo hotel che si affaccia su Baia Lazare. Lashley Pulsipher – Relazioni Pubbliche Kempinski Seychelles Resort Incontriamo Lashley Pulsipher, la responsabile delle Relazioni Pubbliche della catena per il Medio Oriente ed Africa. È una bella e giovane donna che ci accoglie con un sorriso. Il suo inglese è pulito, libero da inflessioni, così le chiedo da dove viene. Leishley è del Colorado, una giovane americana a capo delle relazioni di questa catena nell’oceano Indiano e non solo. “Com’è nato questo rapporto?” “Io sono americana, ma ho studiato all’estero ed ho girato molto. Parte delle mia famiglia è in argentina, altri in giro per il mondo. Io vivevo da sei anni a Dubai, ed ho iniziato, infatti, da due anni la collaborazione a Dubai con il Kempinski. Oltre che parlare inglese, francese e spagnolo, parlo correntemente l’arabo. È questo mi è stato di gran supporto per questo ruolo che ricopro. Chiaramente con le lingue che conosco riesco

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a relazionarmi con il numero maggiore di persone, ed anche con i cinesi, che stanno diventando il nostro target di maggior interesse. Per l’Africa in particolar modo…”. “Ma come si posiziona la vostra catena nel contesto dell’hotelleria di lusso?” “La storia del Kempinski si deve riflettere in ogni nostra struttura in giro per il mondo. Infatti noi scegliamo sempre luoghi storici che rappresentano la cultura del luogo o dove ci sono le collezioni artistiche e le testimonianze storiche nell’architettura, nell’arredo e nel design. Le altre catene alberghiere hanno un lusso più appariscente, con uno sguardo sempre rivolto più al futuro che al passato. Quindi una filosofia completamente diversa dalla nostra. Noi poniamo l’attenzione sull’individualità per far vivere un’esperienza singolare ed unica, che il cliente poi ricercherà in ogni suo viaggio, in altri nostri hotels in giro per il mondo diventando, più che un cliente fidelizzato, un nostro partner”. “Che approccio avete quindi con i vari clienti delle diverse nazionalità?” “Abbiamo rilevato centinaia di palazzi storici e luoghi suggestivi in giro per il mondo proprio per trasferire la filosofia della cultura del luogo con il valore dell’esperienza. Noi, innanzitutto, conosciamo e chiamiamo il cliente per nome, nella sua individualità, e sentiamo prima le sue esigenze e, poi, ci muoviamo di conseguenza. Chiaramente queste variano molto a secondo dal suo Paese d’origine ed il suo tipo di attitudine. In base a i suoi desideri e alla sua cultura gli creiamo così l’atmosfera nell’organizzazione del suo viaggio. Dipende molto se viaggia per business o se è in relax per vacanza. Poi dipende se è con la famiglia o da solo o per incontri d’affari. E proviamo così ad anticipare le sue esigenze e le sue richieste”. “Qual’è la strategia di comunicazione e pubblicità che prediligete? Come promuovete i vostri hotel?” “Le PR e le vendite chiaramente lavorano in sinergia. Anche se io mio dedico quasi esclusivamente ad i rapporti con la clientela e con la stampa. Noi lavoriamo molto con gli Enti del Turismo e, a questo proposito devo dire che il Seychelles Tourism Board è veramente molto attivo! Infatti credo che i press tour, come il vostro, sia la soluzione migliore. Così voi conoscete il luogo e la struttura, vivete l’atmosfera e poi fate già delle vostre valutazioni. Noi entriamo in contatto con voi e dallo scambio d’informazione, talvolta, apprendiamo anche eventuali aree di miglioramento. Voi lo comunicate sui vostri media e noi abbiamo il nostro ritorno d’immagine. Poi chiaramente nelle PR è importantissima l’organizzazione e la creazione degli eventi. Infatti noi prevediamo un importante strategia di lancio per gli hotel che inauguriamo. Quest’anno abbiamo avuto un 2013 ricco di impegni! A maggio è stato inaugurato il nuovo Kempinski a Mosca in un incredibile palazzo storico che abbiamo restaurato, che affaccia sulla Piazza Rossa. Per noi è fondamentale trovare dei luoghi suggestivi, dei palazzi storici o, comunque, che abbiano un’ambientazione fortemente radicata al Paese e alla sua storia. Poi vengono sempre ristrutturati o restaurati con interventi che rispettino l’arte della costruzione. In più c’è una grande attenzione al design, dall’arte all’arredo, sempre nel rispetto della cultura locale. Dopo Mosca che rappresenta appieno la nostra filosofia, abbiamo inaugurato a Panama, Nairobi in Kenia, a giugno in Ghana e contemporaneamente anche altri due in Arabia Saudita. Un anno molto impegnativo con molti nuovi progetti! E questo è davvero molto stimolante!”. In realtà ci stupiamo di come mai non siano presenti in USA. Lei ci spiega che il mercato americano è soltanto ora pronto ad accogliere una catena di lusso dal “gusto europeo” come è appunto il Kempinski con la sua attenzione alla storicità ed

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L’hotel Kempinski, la piscina e la SPA

al feeling emozionale. Panama è, appunto, un bel trampolino di lancio al quale loro si augurano di dar seguito con altre aperture a New York, o comunque in nord America, in Argentina e Brasile. Tutto questo è presente nei programmi ambiziosi. “E come vi ponete in confronto alle altre catene alberghiere del lusso? Come combattete la concorrenza?” “In realtà, come ho già detto, la nostra filosofia si pone in modo così diverso rispetto al lusso ostentato ed abbastanza massificato delle grandi catene del lusso che, rispetto al nostro approccio individuale, fa sì che non ci sia una grande concorrenza”. “Perché tra tutte le bellissime isole dell’Oceano Indiano avete scelto proprio le Seychelles?” “Abbiamo scelto le Seychelles perché da sempre rappresentano più di ogni altra isole la vacanza elitaria. È un’idea del lusso che ci appartiene. E poi è un Paese così bello, con la vegetazione rigogliosa e così tanta varietà di paesaggi che non potevamo scegliere

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da sinistra: patto di intesa tra il Ministro del turismo e Presidente Réunion, intervista a Elsia Grandcourt SEO del Tourism Board e Philippe Guitton, regional general manager dell’Hotel Ephélia

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da sinistra: il Ministro del turismo in conferenza in barca a vela, Presidente Réunion e il Presidente delle Seychelles James Michel in un momento dela conferenza


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altrimenti! Inoltre è un Paese dove è fortemente in espansione il mercato del lusso e questo rappresenta per noi una grande opportunità”. “Quali sono altri vostri punti di forza?” “Sicuramente la cucina. Abbiamo chef molto bravi, anche se spesso molto giovani come quello attuale di qui, ma con una grande sensibilità nella fusione delle culture culinarie da quella creola locale a quella continentale”. Ed in effetti non posso che confermare che qui si mangia divinamente, dalla ricchezza di varietà del buffet al connubio di profumi e tradizioni che emergono nei vari piatti del menù. Sia a pranzo che a cena, nei diversi ristoranti dell’hotel, c’è una varietà dal barbecue di pesce o carne con salse creole, e contorni che nascono sempre dal connubio di verdura e frutta, talvolta con cereali o riso. Anche l’estetica dei piatti ha un suo potere che si fonde con i profumi. La carta dei vini spazia da quelli europei a quelli sud africani o spesso agli Chardonnay australiani. “Quali sono le caratteristiche della vostra Spa? Quale importanza dedicate allo spazio “Benessere”?” “Preferisco non rispondere ma farvi accompagnare a visitare la Spa, così trarrete le vostre emozioni direttamente dal luogo e dai trattamenti!” Infatti attraversiamo la hall, ritorniamo nello spazio verde che circonda tutto l’hotel, e scorgiamo subito situato ai piedi della famosa formazione rocciosa di granito della Baie Lazare, sullo sfondo della collina, The Spa da Resense, riconoscibile per la costruzione tipica dei tetti delle diverse case che comprendono all’interno i vari trattamenti termali. Qui si combinano terapie naturali e tecniche moderne nelle sei sale per trattamenti privati, mentre i viaggi di nozze e le coppie romantiche possono anche prenotare la suite doppia per un trattamento speciale. Il tutto scandito sui ritmi e cicli della natura per ristabilire l’equilibrio del corpo e dell’anima. Desiderio del Tourism Board locale era appunto presentare le bellezze di queste isole che sono riconosciute per antonomasia tra le tipologie di vacanze più lussuose e costose al mondo. Qui, più che altrove, il tempo libero è l’arma più potente per poter gustare spazi, luoghi e sapori di raro pregio. Anche i principi William e Kate sono venuti a trascorrere la luna di miele alle Seychelles in uno dei resort più esclusivi del pianeta. Abbiamo potuto ammirare non solo il lusso dell’Isola, ma la cultura, le arti e tutto il ventaglio di offerta di eventi che il ricco calendario eventi di questo Paese offre. Elsia Grandcourt SEO - Tourism Board Elsia Grandcourt è una bellissima ed elegantissima donna che ci riceve nel suo prestigioso ufficio che con una grande vetrata si affaccia su questa collinetta che domina Beau Vallon. Così le chiediamo quali sono i programmi e gli eventi di punta del Calendario. “Quest’anno la terza edizione del carnevale è stata incredibile. I carri del carnevale erano 61 da oltre 20 paesi diversi. È l’unico “International Carneval” dal momento che tutti gli altri rappresentano solo le tradizioni locali. Infatti il primo organizzato è stato più locale, poi dalla seconda edizione abbiamo iniziato a collaborare con l’Africa ed il Brasile. Quest’anno la nostra forza è stata la collaborazione e la Co-organizzazione con il Paese vicino: Re Union. Insieme al Madagascar, alle Maldive, alle Mauritius e alle

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isole Comore formiamo una Regione nell’Oceano Indiano, ma la collaborazione fattiva c’è stata solo con Re Union. Abbiamo collaborato ed organizzato tutto in sinergia. E siamo certi di proseguire su questa linea. Nell’edizione 2013 è stato consegnato il primo premio alla splendida performance del carro inglese di Nothing Hill: grande musica, maschere ad effetto, una presenza, nella parata, come da loro antica tradizione inglese. Sicuramente per bellezza andava premiata la sfilata indonesiana (Bali) e quella dello spettacolo offerto dalla Korea. Evidentemente il Brasile ha coinvolto tutti con l’energia ed il fascino delle belle ballerine di Samba!”. Poi guardandomi menziona il carro italiano: “Non dobbiamo dimenticare che, tra tutti i Paesi che hanno partecipato a questo Carnevale Internazionale e multiculturale, l’Italia ha presenziato con il suo carro dedicato all’antica Roma con affascinanti centurioni e matrone che si è classificato nella lista tra i primi!” Chiaramente questa partecipazione ci inorgoglisce dato i competitors asiatici, africani ed europei! “Perchè investite molto nell’organizzazione di questo e di altri eventi Internazionali?” “La visibilità diventa una piattaforma per differenti contatti con la stampa per avere diversi mercati ed attrarre diversi paesi. Noi abbiamo spinto molto per organizzare uno show che fosse all’altezza della presenza giornalistica. Noi ascoltiamo con interesse il feedback e ogni commento o critica per noi è fonte di stimolo per organizzare al meglio anche le prossime edizioni. “Come potremmo riassumere i vostri obiettivi di comunicazione?” “Creatività, passione e sostenibilità sono i tre princìpi da cui partiamo. Noi abbiamo molti eventi perché il Ministro del Turismo e della Cultura, Mr. Alain St. Ange crede nella comunicazione degli eventi. Tra gli altri abbiamo anche organizzato il festival della francofonia dove c’è tutto il mélange dell’atelier della poesia, della cucine e dell’arte francese”. Infatti tutte le isole dell’Oceano Indiano sono francesi e parlano prevalentemente la lingua, a differenza delle Seychelles che, essendo stata dominata anche dalla Gran Bretagna, parla la lingua inglese oltre quella francese. “Abbiamo fatto un progetto unico per far convergere i vari eventi e strategia in un solo progetto unitario d’immagine. Ora stiamo rilanciando anche “il festival del mare” nato nel 1989 solo per le attività subacquee, ma ora è per ogni attività degli sport acquatici e le attività del mare è organizzato in sinergia con un concorso fotografico che spazia, nelle diverse categorie, dall’ambiente al paesaggio, per immagini delle bellezze nascoste del mondo subacqueo, e che coinvolge anche, in una categoria speciale, bambini con disegni sull’oceano. Noi dobbiamo preservare quello che possediamo e quindi la nostra attenzione è rivolta anche alle giovani categorie”. CONSTANCE EPHELIA RESORT Nei giorni seguenti ci trasferiamo in un’altra parte dell’isola di Mahè, più a nord est, all’Ephelia Resort della Catena Constance. Dalla reception, dove ci vengono incontro ragazzi vestiti avorio e dal sorriso generoso, attraversiamo la prima ampia pagoda per accomodarci su divani che si affacciano su una variopinta vegetazione che incornicia piscine e vasche d’acqua dove il gioco di luce turchese si confonde con quello del cielo. Piccole macchine elettriche tipo i caddy del golf, guidate dallo staff Ephelia, ci accompagnano alla villa dove è ubicato il nostro appartamento. Dall’ampia

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metratura, la dislocazione degli spazi che dividono l’area notte con quella privata, e la cura dell’arredo, ci rendiamo conto delle diverse stelle che contrassegnano questo brand dell’hotelleria di lusso. Dopo una rapida sosta veniamo invitati dalla direzione dell’hotel per una visita a tutta la valle del Resort Ephelia. Il Resort occupa un’ampia area che si estende a nord ovest dell’Isola di Mahè. Il Constance Ephélia si sviluppa su due delle più belle spiagge dell’isola di Mahé e si affaccia sul Parco Nazionale Marino di Port Launay. La vegetazione è dirompente e i viottoli del villaggio incorniciano una foresta di mangrovie circondando un parco con tartarughe giganti e percorsi dove si attuano diversi sport come anche il free climbing. Il resort è nato su un sito abbandonato dove vi era un vecchio collegio, ed è stato costruito tra il 2008 ed il 2010, quindi nuovissimo. E quest’aria di nuovo si respira non solo nella bellezza dei dettagli, ma anche nella tecnologia che contraddistingue i vari supporti televisivi e computer presenti nelle stanze tutti dal gusto europeo che contraddistingue questa magica combinazione della cultura dell’ospitalità. Nel parco sono dislocate le diverse tipologie di alloggi: dalla Presidential Villa, alle ville private e gli appartamenti, rendendo il Resort uno spazio dinamico dove è possibile esaudire il desiderio di un trattamento personalizzato. La sera si può scegliere il ristorante che più si addice allo stato d’animo e, particolare non trascurabile, all’abbigliamento che si vuole adottare. Infatti c’è un “dress code” segnalato per ogni luogo. I ristoranti si identificano per gusto, disposizione, menù e soprattutto per numero coperti. Comunque, qualunque ristorante voi scegliate, dal tête-à-tête romantico al ristorante self service più grande, la raffinatezza degli arredi e la cura dei particolari contribuiscono a farvi vivere il confort esclusivo nell’atmosfera del paesaggio di questa terra così unica e speciale crea il connubio perfetto. Comunque l’esperienza più emozionante è stata visitare il “Spa Village”. La Spa de Constance di Ephélia è sicuramente da vivere in una giornata intera. La “Spa Village” è un villaggio del benessere vero e proprio che si estende per 7000 metri quadrati immerso in un paesaggio tropicale lussureggiante. È un’esperienza sicuramente energizzante e benefica, e il contatto tra mente, corpo e natura si fonde in un senso di equilibrio e benessere. Oltre ad una vasta gamma di trattamenti termali per il corpo, trattamenti naturali per il viso e una vasta scelta di massaggi tradizionali e rilassanti, la Spa de Constance di Ephélia ospita un centro benessere unico nel suo genere. La bellezza del luogo si riflette nelle piscine progettate in sintonia con l’ambiente, dove nell’accordo cromatico della pietra con gli arbusti delle piante, il paesaggio è protagonista. Lo stato d’animo di ognuno di noi nel bagno giapponese perfettamente integrato in un giardino privato, assicura un coinvolgimento emozionale totale dei cinque sensi. Un luogo magico per sbloccare l’energia vitale interiore e riportare armonia, benessere, energia e serenità. Philippe Guitton – Regional Manager del Constance Group La sera incontriamo il Regional Manager del Constance Group, Philippe Guitton. Chiediamo al Sig. Guitton come ha vissuto i festival e le varie manifestazioni partendo dal carnevale in poi. “Turisticamente parlando penso che il carnevale non sia ancora un attività turistica. Noi abbiamo avuto molti turisti come sempre perché febbraio è un buon mese. Sono rimasto molto impressionato, comunque, dall’atmosfera e dall’energia creata dal

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camera dell’Hotel Ephélia e SPA

vedute dell’Hotel Ephélia

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Conferenza stampa en plain air con i giornalisti internazionali e istituzioni

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carnevale, ma per renderlo attrazione turistica dobbiamo combinarlo con altri eventi e in ogni caso, secondo me, penso sia meglio realizzarlo in un luogo paesaggistico più armonico e senza auto come l’isola di La Digue, anziché Victoria. Così magari realizzare un carnevale come a Rio de Janeiro dove il carnevale prende vita tra le spiagge e luoghi suggestivi della costa, oppure realizzare in una piccola isola come La Digue. Anche perché Victoria, purtroppo, non è una capitale capace di attrarre un turismo internazionale”. Ci descrive anche quanto sia cambiata la clientela, di quanto i fasti dell’economia degli anni passati siano un ricordo un po’ sbiadito. “La clientela italiana del Constance Ephelia è oramai solo il 12%, poi gli europei sono intorno al 15 per cento, con la Germania e Francia al 28 per cento. Il turismo tedesco sta crescendo. Poi sicuramente i russi e gli arabi hanno un’importante capacità d’acquisto. Per quanto riguarda il resto del mondo non si vedono molti americani mentre l’Asia è in forte crescita. I nostri ospiti italiani diminuiscono non solo per la crisi, ma perché dall’Italia il viaggio è molto lungo e con scalo. Comunque noi non sentiamo la crisi economica, cambia solo il tipo di ospitalità. Le persone continuano a stare bene, ma solo spaventate dall’incertezza del futuro quindi aspettano a fare spese e viaggiare, accorciando il periodo o riducendo numericamente i viaggi. Stiamo comunque sempre parlando del target lusso, quindi tutto è relativo. È molto cresciuto il turismo cinese, specialmente alle Maldive. Infatti dal 2012 noi abbiamo cominciato a promuovere con la Cina e, quindi, crediamo che crescerà la loro accoglienza. È un popolo così numeroso che se si incrementa il turismo cinese la crescita sarà molto evidente. Attualmente è ferma perché loro stanno cercando hotel con più stanze o con molta confusione di locali e colori. Noi non offriamo questo, anzi antiteticamente il nostro servizio è nell’esclusività del silenzio e relax, ma ci potranno anche essere dei cambiamenti in futuro! (qui sorride ironicamente). Abbiamo altri intrattenimenti con la musica la sera e per noi è importante trovare il giusto balance tra la tranquillità e l’evento sofisticato. Ci piace scegliere veri e grandi artisti. L’altro anno abbiamo avuto una stilista coreana e vogliamo continuare con le sfilate e la moda creando in partnership degli eventi di rilevanza strategica. Molte persone sono attratte dall’idea. Per capodanno abbiamo organizzato un festival di cucina e continuiamo su questa linea programmando eventi con gli chef ed i sommelier dove si possono assaggiare diverse specialità provenienti dalle varie parti del mondo, dove ogni personaggio rispecchia la cultura del paese da cui proviene, come ad esempio il festival di vino francese, Art de vin, realizzato all’inizio di marzo dove una ventina di giornalisti di eno-gastronomia francese sono stati qui ospiti per studiare i menù coordinati con i vini. Il festival è stato realizzato in partnership con Le Muria. In questi eventi gli ospiti hanno il piacere di vivere esperienze nuove e non si preoccupano se pagano in più per una degustazione o altro. L’evento sposta l’attenzione sull’emozione della vacanza. Poi abbiamo fatto anche altre iniziative, anche eventi con il Ministro del Turismo, come competizioni di trekking, cycling, barca a vela o canoa, kayak ed altri sport. Noi vorremmo tanto fare eventi sportivi l’unico problema grande è che Seychelles sono molto lontane e le persone per organizzarsi forse hanno bisogno di più garanzie e tempo. In ogni caso l’importante è esaudire il desiderio di assaggiare l’eccellenza, offrendo un’alternativa alla palese esigenza di evadere da esperienze schematizzate ed ordinarie. Poi c’è anche un altro tipo di turismo alle Seychelles. Essendo questo un paradiso fiscale alcuni turisti vengono qui anche perché ispirati dall’opportunità di investire in questo Paese. Così, oltre al periodo di vacanza e relax, uniscono il business.

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Miss Ré Union e Miss Seychelles Sherlyn Furneau, Miss Ré Union

Gli chiediamo qualcosa della sua formazione e carriera. “Ho frequentato la scuola del turismo in Francia e sono direttore da molto anni. Prima ho vissuto quattro anni in Polinesia, a St.Martin nei Caraibi tre anni, in altri luoghi e attualmente sono da sette alle Seychelles. La mia famiglia mi segue in giro per il mondo e mio figlio va alla scuola internazionale: qui stiamo bene ma non abbiamo grandi problemi a trasferirci. Il bello di questa terra è che essendo stata dominata prima dai francesi e poi dagli inglesi si parlano tutte e due le lingue. Il gruppo Constance era inizialmente costituito da tre hotel fino al 2006, ed ora siamo in totale sette hotel nell’oceano indiano quindi abbiamo una crescita molto forte. Questo è il risultato del gruppo mauriziano che è professionale ed investe molto nella sua gestione. Attualmente aspetta di consolidarsi per poi fare in futuro altri investimenti all’estero”. Alain St.Ange – Ministro del Turismo L’indomani siamo invitati dal Ministro del Turismo, il Sig. Alain St.Ange in una crociera che ci dà la possibilità di ammirare le bellezze di queste isole anche dal mare. Partiamo da Eden Island, che tra le 115 isole naturali delle Seychelles è l’unica artificiale, costruita appositamente per una marina privata, con appartamenti e ville di lusso. Troviamo un bellissimo yacht Ferretti (quindi sempre un marchio italiano) ad aspettarci, con il Capitano e gli assistenti di bordo che ci accolgono con un drink di benvenuto. Abbiamo intervistato, mentre il motoscafo solcava le onde che lambivano le isole che ci circondavano, Alain St. Ange.

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Ristorante Marie Antoniette

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“Fino ad oggi le Seychelles erano meta solo di un turismo esclusivo e di lusso. Ora è in atto un cambiamento?” “Il turismo delle Seychelles è in grande espansione e offre nuove opportunità, aprendo altre porte a nuovi mercati dell’economia. Noi stiamo promuovendo il nostro territorio, la sua cultura e le tradizioni, oltre che le indubbie bellezze paesaggistiche”. “E il Turism Board è pronto al cambiamento? Che tipo di attività state facendo per incrementare il turismo?” È per questo che ci troviamo qui oggi. Crediamo fermamente che gli international press tour siano fondamentali, perché voi giornalisti potete vivere l’esperienza e raccontarla con le vostre emozioni quando rientrate nei vostri Paesi. Per noi la comunicazione giornalistica è molto più autorevole che la pubblicità. Infatti non investiamo in campagne pubblicitarie come altri Paesi fanno. In ogni caso noi dobbiamo fare “team” con le altre isole dell’Oceano Indiano. Con le Mauritius ed il Madagascar noi rappresentiamo una Regione, quindi un grande e potente gruppo. “C’è qualche Paese in particolare al quale state guardando?” “Lei rappresenta l’Italia qui oggi. Gli Italiani sono nostri clienti con una percentuale non trascurabile. Così anche i Tedeschi, Francesi ed Inglesi, l’Europa tutta sicuramente ci continua ad interessare come i Paesi più vicini, l’Asia e l’Arabia. Ma in questo periodo di transizione noi tutti dell’Ente del Turismo siamo focalizzati a mostrare le bellezze del nostro territorio, che è già famoso per le sue meravigliose spiagge in tutto il mondo. Ma vogliamo coinvolgere il turismo con le nostre iniziative culturali, come ad esempio il Festival Creolo, o il Carnevale. Inoltre noi siamo presenti con la nostra Ambasciata del Turismo in tutti paesi del mondo. Ed è un valore aggiunto importantissimo che ci dà opportunità maggiori per farci conoscere rispetto ad altri”. “Bene la ringrazio di questa opportunità. Però voglio farle l’ultima domanda: questa prospettiva è un’opportunità che il popolo delle Seychelles coglie? Se ne rende conto e vuole investire nel turismo?” “La ringrazio di questa domanda, è per me


fondamentale esprimere il nostro punto di vista in quest’ottica. Vogliamo coinvolgere i seychellesi per primi nel divulgare e promuovere una nuova visione dell’arte, della musica, della moda e della cultura tutta. Questo è l’obiettivo principale per creare anche una crescita interna al Paese, non solo economica, ma della popolazione locale”. Mentre l’intervista termina i motori si spengono per attraccare al largo di una isoletta della quale si scorgono tutte le sfumature del mare che variavano dall’azzurro al turchese, fino al verde più intenso e rigoglioso che si propagava sull’insenatura della spiaggia il cui chiarore della sabbia rende il contrasto quasi abbagliante. La crociera termina quasi al tramonto, e ci incamminiamo verso l’hotel. Bisogna dire che oltre le bellezze del luogo e il fascino dei vari Festival che ti coinvolgono con musica, colori e tradizione, la cultura creola del cibo trova spesso degli alti rappresentanti. Non si mangia bene solo in Hotel, anzi, per le strade e a ristorante si trovano spesso menù creativi e prelibati. Abbiamo avuto la fortuna di pranzare nel più antico ed autentico ristorante creolo, il Marie Antoniette sulla collina di St. Louis a Victoria, Mahè, designato monumento nazionale nel 2007. La costruzione in stile coloniale è stata eretta nel 1862 ma fu poi successivamente danneggiata da una valanga. Si narra che Sir Henry Morton Stanley, famoso giornalista ed esploratore anglo americano, trovò qui il Dottor Livingstone e da qui nacque inizialmente il nome di Livingstone’s cottage. L’ambiente nostalgico di questa villa coloniale è avvolgente nei suoi spazi, di cui l’architettura è rimasta immutata dal 1972, quando fu rinnovato e restaurato. Le specialità della cucina con la varietà dei menù offerti rendono unico questo ristorante che ha attualmente il nome, preso dalla signora che l’ha rilanciato, Marie Antoniette.

il Takanaka Bar

Qualche giorno dopo torniamo ad Eden Island per imbarcarci su un altro bellissima barca, questa volta a vela, e fare un’esperienza più ludica. L’equipaggio ci accoglie e ci illustra tutti gli spazi interni ed esterni della barca, che è molto spaziosa per

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ospitarci tutti. Siamo diverse delegazioni da ogni parte del mondo, Paesi vicini come Re Union presente non solo con le istituzioni e stampa, ma anche con la sua bella rappresentante Miss Re Union. Poi ci sono molti europei, asiatici, americani. Le informazioni che ci vengono date sulle isole più importanti delle Seychelles hanno sia uno scopo di promozione turistica, ma soprattutto di divulgazione della cultura creola in sinergia con altri paesi per iniziative comuni. Abbiamo appreso che la diversità di questi Paesi è sicuramente paesaggistica, con delle peculiarità uniche al mondo per bellezza e varietà d’offerta. Ci è stato illustrato che questo Paese è composto da due categorie di isole: quelle granitiche “interne” più grandi e popolate, come le isole principali di Mahé, Praslin e la Digue, che sono montuose e con verdi cime ricoperte da foreste vergini. Le isole “interne” sono il punto focale e culturale delle Seychelles. Qui le spiagge e le insenature sono diverse per grandezza e paesaggio, ma sempre con una sabbia bianca immacolata. E invece le isole “esterne” sono isole piatte coralline che si estendono ad ovest verso le coste dell’Africa di cui fa parte la leggendaria Aldabra, che è l’atollo corallino emerso più grande al mondo e rimangono più inesplorate. Sarebbe bello poterle visitare una per volta, dedicando il tempo che meritano. Non so se sarà mai possibile, ma già il fatto che le stagioni che si alternano qui sono tutte bellissime, non c’impone un limite organizzativo di tempo.

Informazioni Seychelles Tourism Board (STB) PO Box 1262, Victoria, Mahé Seychelles www.seychelles.travel Ringraziamo il Tourism Board per le immagini stituzionali e Claudio Falappa per le fotografie durante il press tour.

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Egitto: sapore di Sahara. Di Lamberto Selleri

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Quando la nostalgia o il desiderio di tuffarsi nel Sahara cominciano a bussare alla porta, e prima o poi capita a tutti, è un campanello d’allarme, tempo scaduto, si deve partire. Non vale la pena resistere o immaginare alternative. Il deserto è la patria che ha dato origine ai nostri proto genitori: è quindi naturale la nostalgia di ritornare nella casa dei nostri avi dove nulla è cambiato, tutto è rimasto tale e quale, oggi come allora e domani ancora. Siamo noi che nel frattempo siamo mutati. Solo soggiornando nel Sahara possiamo intuire che anche noi siamo un granello di quell’eternità di cui lui è ricoperto. È tempo di partire, il Sahara ci aspetta. Una boccata di ossigeno senza i miasmi della civiltà non può che farci del bene. Il Sahara è la memoria storica di come era il pianeta terra ancor prima della presenza dell’uomo, un vero tuffo nel passato se si considera la sua l’età: sessanta milioni di anni. Allora era ricoperto da oceani, poi, diecimila anni fa, divenne savana e ora è deserto. Oggi noi uomini del ventesimo secolo possiamo invaderlo con i nostri potenti e sofisticati “sottomarini” a quattro ruote che, guarda caso, funzionano con gli idrocarburi che spesso si trovano nel suo sottosuolo. Derivano dalla trasformazione, ad opera di batteri anaerobi, di materia organica marina rimasta sepolta, in assenza di ossigeno, per milioni di anni. Del Sahara, immenso come gli Stati Uniti, abbiamo scelto di esplorare la parte egiziana chiamata un tempo Deserto Libico, che poi, dopo la seconda guerra mondiale, cambiò il nome in Deserto Occidentale. Quest’area desertica è comunemente considerata la più vasta e la più arida della terra. Nel solo Egitto (si inoltra anche in Libia e Sudan), ricopre almeno 681.000 chilometri quadrati, ovvero più di due terzi dell’intero Paese ed è vasto quanto la Francia. Il safari turistico con finalità culturali, archeologiche, salutistiche e fotografiche, a cui ho partecipato, ha raggiunto due oasi: Bahariya e Farafra. Tutti nella vita, almeno una volta, dovremmo incontrare il deserto e vivere in sua compagnia alcuni giorni, anzi dirò di più: sarebbe auspicabile per la nostra salute rendere mutuabile una permanenza di alcuni giorni nel deserto per disintossicarci e prendere coscienza dello stress causato dalla caotica civiltà consumistica in cui viviamo quotidianamente. Provare per credere. Noi, paladini della civiltà, viviamo nelle nostre abitazioni in compagnia dello schermo del televisore, del computer, del telefonino e neanche quando mangiamo riusciamo a comunicare verbalmente con i familiari. Il tragitto casa-lavoro è un incubo: ci muoviamo asserragliati e avvolti da lamiere che ci proteggono da un traffico insopportabile e siamo sempre in contatto con i liquami dei tubi di scappamento che sono oltremodo inquinanti, ma essendo trasparenti ed inodori, palesano i danni che arrecano solo quando è troppo tardi. Le ore trascorse al lavoro sono la quadratura del cerchio: viviamo in perenne compagnia dei nostri schermi, di una luce artificiale, mezz’ora per cibarsi e con i colleghi si instaura un dialogo solo formale. La sera ci ritroviamo a casa senza neppure sapere se durante il giorno abbia piovuto o ci sia stato il sole. Le giornate passano inesorabili fino alle sospirate vacanze: mare, montagna, città d’arte e fitness. Solo le vacanze trascorse nel deserto possono consentire di guardare l’orizzonte ventiquattro ore al giorno senza incontrare anima viva, respirare aria non inquinata, non udire alcun suono, vedere brillare di notte la calotta celeste e, soprattutto, essere immersi nelle sculture create dal “Grande Architetto dell’universo”. Per nostra fortuna,

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dall’alto: alba nel deserto, egiziano nel Deserto Bianco, grande duna Abu Muharrik e ingresso Djara Cave

qui non ha ancora operato la mano dell’uomo architetto. Per quanto l’ingordigia stia via via deturpando il pianeta, i deserti sono rimasti uno degli ultimi baluardi contro l’avanzata del “dio progresso”: godiamone fin che siamo in tempo. Egitto Abbiamo deciso di avvicinarci al deserto entrando dalla porta principale: l’Egitto, la cui storia ebbe inizio 5000 anni fa come quella europea. Facciamo scalo al Cairo, dove le tre maestose piramidi di Cheope, Chefren e Micerino sono poco a poco entrate a far parte del tessuto urbano. Furono costruite dai Faraoni un centinaio di piramidi e quelle tuttora in buono stato, sparse nel Paese, sono meno di dieci. I nuovi quartieri dormitorio del Cairo stanno conquistando il deserto. Dopo venti chilometri di costruzioni alveari finalmente abbandoniamo questa città di dodici milioni di abitanti, o forse più, per immergerci nel Sahara. Ci accompagna un clima confortevole, caldo secco di giorno e mite di notte, che ci seguirà per tutto il viaggio

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rendendo piacevole il soggiorno. I nostri potenti “sottomarini” a sei cilindri, targati Toyota e guidati da esperti navigatori del posto, abbandonano la strada asfaltata e cominciano a solcare la sabbia. Qui, finalmente, si sentono a casa loro. Non c’è duna, anfratto od ostacolo capace di fermarli: gli abili piloti conoscono la “strada”, noi viaggiatori non la vediamo, ma loro sanno benissimo orientarsi e raggiungere le mete prefissate. Ogni tanto alla sabbia del deserto piace giocare con le gomme delle ruote facendole girare a vuoto, i navigatori sono abituati a questi scherzi: due colpi di pala sotto i mozzi e si riparte senza indugio. Macinare chilometri nel deserto è una esperienza sensoriale che muta di continuo perché i panorami si inseguono e cambiano repentinamente. Il Deserto Occidentale nasce a seguito dell’abbassamento del livello del mare. Oggi noi vediamo un grande altopiano che racchiude una serie di depressioni in cui sono localizzate le oasi. Tutto il deserto è, quindi, ricco di resti fossili: coralli, echinodermi, cefalopodi si possono trovare di frequente o mescolati alla sabbia o in conglomerati rocciosi che fuoriescono dal suolo. Le piogge sono estremamente scarse, in media ogni 3/5 anni, ma nelle depressioni le falde acquifere sono ricchissime. Sembra che questa acqua provenga dalle piogge delle regioni tropicali dell’Africa. Dopo secoli in cui nessun europeo vi aveva messo piede, l’interesse scientifico, politico ed economico per

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la mattina nel deserto Bianco

il Deserto Bianco

arrivio nel Deserto Bianco

vista sul Deserto Bianco

Wadi Heitan, la valle delle balene fossili

la fortezza di Ksar es Sagha

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panorama deserto Bianco

dipinti nelle tombe tolemaiche

i massi sferici del lago Qarun

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da sinistra: Il Sahara, sculture nella pietra, oasi e dromedari nel deserto nero

questo deserto rinasce nel 1874 con la celebre spedizione del tedesco Gerhard Rohlfs, che sta ancora alla base delle moderne ricerche sul deserto libico. Ciò non toglie che in tutti i secoli il deserto fosse regolarmente attraversato da carovane prima di asini, poi di cavalli ed infine di dromedari utilizzati per il trasporto delle merci dalla Libia all’Egitto e viceversa, e ovviamente, tutte le piste carovaniere transitavano per le oasi. La prima sosta nel Deserto Occidentale la facciamo a Jebel Qatrani. È uno dei siti più importanti al mondo per la presenza di fossili marini: per quanti ne raccogliamo per le nostre improvvisate collezioni, altri emergono dalla sabbia, in una lotta impari che ci vede soccombere. Incontriamo altri fossili sulla strada per raggiungere il lago Qarun: sono quelli di una foresta pietrificata che giace orizzontale sul terreno. I tronchi sono mastodontici, non li possiamo raccogliere anche se ingenuamente alcuni di noi hanno tentato, il peso è troppo elevato. I romani li utilizzarono per lastricare una strada. Il lago Qarun appare come un miraggio: una striscia azzurra invade l’orizzonte

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fino a conquistare tutta la nostra visuale. Come ai tempi dei Faraoni è alimentato da un braccio del Nilo. Esistono ancora tracce della presenza greca e romana. Parte del lago è circondata da enormi massi sferici apparentemente tutti uguali di cui nessuno conosce l’origine e sa dare una spiegazione. Poco più oltre incontriamo la fortezza di Ksar es Sagha il cui tempio era dedicato al dio coccodrillo Sobek. Il pranzo viene allestito e consumato nei pressi della rovina della città tolemaica di Dimeh Es Sebu, un tempo lambita dal lago. Le rovine sono caratterizzate da alti muri di 9 metri in mattoni crudi e dai resti di un tempio in pietra scoperti da una missione archeologica italiana. Wadi Heitan La prima emozionante tappa volge al termine. Ci accampiamo nel deserto dove finalmente ci riappropriamo della luce del sole al tramonto, della calotta celeste dove di notte brillano, e par di toccarle, tutte le costellazioni, ma ci facciamo sorprendere anche dall’alba che con delicatezza illumina l’orizzonte. In Italia vanno di moda le vacanze in agriturismo, peccato che quelli che hanno maggior successo siano dotati di piscina e vasca Jacuzzi e i clienti non abbiano nessun desiderio di vedere l’alba o il tramonto. L’unica aspirazione che nutrono è quella di cibarsi di prodotti genuini che di genuino hanno solo il nome. Il deserto è forse “l’ultima spiaggia” di chi veramente vuol vivere con la sola luce del sole ed essere in perenne contatto con l’orizzonte che non si nasconde per 360°. Finalmente le onde ricetrasmittenti si perdono nell’etere, siamo privi di televisione, computer, telefonino, anche se i tentativi di acchiappare il satellite non mancano. In questo ambiente ci rendiamo conto di quanto l’acqua sia un bene prezioso e, quindi, la centelliniamo. Di buon mattino riconquistiamo il posto sui nostri fedeli “sottomarini” per raggiungere Wadi Heitan, la valle delle balene fossili, paradiso che fortunatamente è stato preso in consegna dall’Unesco. Quattrocento balene hanno deciso di fermarsi qui, per sempre, perché questo è un luogo magico, attraversato da imponenti e suggestive sculture, piccole e grandi, di color avorio, che fanno da cornice alle balene coricate qua e la nel deserto. Ho una visione ad occhi aperti: a notte fonda vedo le sculture trasformarsi nelle note di una melodia e le balene danzare in loro compagnia. Sì, perché anche loro possiedono un’anima e, come scritto nel “Libro dei morti degli antichi egiziani”, le anime possono rivivere. Abu Muharrik La seconda notte si dorme in albergo, nell’oasi di Bahariya. Dobbiamo rifornirci di viveri, acqua, gasolio e cogliere dalle palme datteri maturi che qui crescono in abbondanza e sono una carica energetica formidabile in cui il potassio regna sovrano. L’indomani sarà una giornata memorabile per chi ama cavalcare il deserto: dobbiamo restare tutto il giorno in compagnia della grande duna Abu Muharrik, la regina di questo territorio, larga svariati chilometri lunga 600 chilometri. I nostri ”sottomarini” perdono completamente la testa, non rispondono più ai comandi, corrono all’impazzata su e giù per le dune: finalmente si sentono a casa e vogliono fare bella figura. Ad ogni duna superata ci aspetta un nuovo panorama e siamo tutti presi dall’ebbrezza che ci trasmette questo ambiente.

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da sinistra: albergo, nell’oasi di Bahariya, fumatore di narghile; nella pagina accanto dall’alto: accampamento nel Deserto Bianco, la fortezza di Ksar es Sagha e Cairo con le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino

Djara Cave La terza sera giunge in un batter di ciglio, si dorme nel deserto, i fedeli “prodieri”, come sempre, allestiscono il campo, si mettono ai fornelli per preparare le vivande calde che consumeremo comodamente seduti e, alla faccia di tutte le guide gastronomiche, “nel ristorante più stellato del mondo”, sorseggiando i frizzantini portati dall’Italia. Le nostre “suite” sono sparse nel deserto dove ognuno di noi le ha posizionate. Ci attende un’altra notte in compagnia delle stelle che a tarda ora si nascondono con l’avanzare di una luna quasi piena che emana una luce imperiale. Durante la notte un’innocua volpe sorveglierà l’accampamento in attesa del premio mattutino: il cibo che lasceremo anche per i suoi piccoli. Oggi giochiamo ancora a nascondino con le dune, le rincorriamo per recarci in un luogo raro a vedersi nel deserto: la meta prende il nome di Djara Cave, così si chiama la grotta che ci appare all’improvviso. L’ingresso è piccolo e sbuca sul pianale ciottoloso che stiamo attraversando. Scoperta dall’esploratore tedesco Gerhard Rohlfs nel 1875, fu poi “dimenticata” e riscoperta meno di quindici anni fa da una missione tedesca. È una grande caverna, una delle poche, ma sicuramente la più interessante, di origine carsica, dell’intero Sahara. All’interno stalattiti scendono dal soffitto e si infilano nel pavimento coperto da vari metri di sabbia, almeno sei accumulatasi nei millenni. Nei pressi dell’ingresso si notano alcune pitture rupestri, a testimonianza che la grotta era conosciuta e abitata in tempi preistorici. La sensazione che si prova entrando in questa grotta è la medesima che si prova entrando in un santuario, non importa di quale religione. L’ambiente, delicatamente illuminato dalle candele, trasuda spiritualità: siamo alcuni metri sotto il deserto del Sahara e l’eternità sembra di toccarla con mano. Non c’è tempo per pregare, ma la voglia resta.

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Il Deserto Bianco Ci aspetta un lungo trasferimento inseguiti da un anonimo deserto ciottoloso: dobbiamo raggiungere la meta più ambita di questo viaggio, il Deserto Bianco che si trova nelle vicinanze dell’Oasi di Farafra. Qui metteremo le tende e finalmente potremo, per un’altra intera notte, colloquiare con le torri d’avorio che fanno da cornice al nostro accampamento. Peccato addormentarsi: il gioco di luci impresso dalla luna piena rende vive queste sculture che cambiano progressivamente volto. Siamo tutti vicini alle nostre tende, vorremmo che la notte non finisse mai, il gioco di luci ci affascina, la dea luna presto cederà il passo al dio sole egizio che già preannuncia all’orizzonte la sua inconfondibile presenza. Poche ore di sonno, domani dovremmo raggiungere l’oasi di Farafra per rifornire la cambusa e fare un bagnetto ristoratore nei pressi di una sorgente d’acqua calda termale, dove è consentito immergersi (nell’oasi ce ne sono tante), poi visiteremo l’atelier dell’unico artista del luogo che ritrae all’infinito il suo deserto, di cui, noi turisti, sappiamo cogliere solo una minima parte. Un altro versante del deserto bianco ci attende per l’ultima notte in sua compagnia. Siamo circondati da sculture bianche alte 50-100-200 metri, una differente dall’altra ed ognuna ci riempie di emozione nell’ammirarla. Sembra di entrare nello studio di uno scultore che ha dato libero sfogo alla propria creatività; è impossibile non commuoversi e non provare una gioia infinita sapendo che passeremo un’altra note in loro compagnia, l’ultima purtroppo. La nostalgia già ci assale. Le macchine fotografiche scalpitano, sono pronte ad immortalare altre visioni paradisiache.

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Oasi di Bahariya Il programma prevede quindi un tragitto nel Deserto Nero, meno appariscente, ma sempre interessante da vedere. Sosta per il pranzo all’Oasi di Bahariya dove è possibile bagnarsi nella grande vasca in cui si tuffa la sorgente termale con acqua tiepida molto apprezzata anche dai dromedari. Nel pomeriggio prendiamo confidenza con l’oasi che conserva una necropoli risalente al I e al II secolo a.C., di epoca tolemaica, in cui si possono visitare alcune tombe sotterranee. Baharyia fu visitata negli anni ’90 da una missione archeologica, diretta dal dott. Zahi Hawass, la quale scoprì una vasta e ricca necropoli risalente al I-II secolo d.C., che si stima possa contenere più di 10.000 mummie. I reperti sin qui trovati sono tuttora in corso di studio. Alcune mummie, dette “mummie d’oro” per avere il volto coperto con questo metallo, sono state collocate nel piccolo museo. Esse rappresentano una delle scoperte archeologiche più sensazionali degli ultimi anni. È esaltante visitare il museo che le conserva: hanno 2000 anni di età e alle loro spalle una cultura che conta tremila anni. Sono rimasto estasiata nell’osservare queste mummie, che pazientemente mi hanno aspettato. In realtà, ho provato ad immaginare un nesso tra le imponenti sculture del Deserto Bianco, lo spirito religioso che emana dalle mummie e le immagini del culto egizio riportate sui muri delle tombe tolemaiche. Ho intravisto i prodromi di una religiosità in itinere, germogliata molto prima di 5000 anni fa e che, nel tempo, ha ceduto “cromosomi” alle tre fedi monoteiste che oggi si stanno disputando le anime del bacino del mediterraneo e non solo. É l’ultima notte in albergo a Baharyia, l’indomani si ritorna al Cairo per poi volare verso la quotidianità.

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Brevi note sulla civiltà egizia caratterizzata dalla successione di tre religioni: Egiziana (politeista), Cristiana e Mussulmana (monoteiste). Sintetizzare la storia dell’Egitto in poche righe comprensibili non è agevole. Ci viene in aiuto Erodoto che parlando del primo sovrano dell’Egitto unificato lo chiamò “Narmer”: siamo nel 3000 a.C. Uno dei più preziosi documenti egizi è la “Pietra di Palermo”, una lastra di diorite conservata in questa città. Vi sono incisi gli Annali Reali sino alla V dinastia faraonica (2510-2460 a.C.) e contiene anche raffigurazioni anteriori alla prima dinastia. È un reperto basilare per gli archeologi, in quanto fissa la fine della preistoria e l’avvio della storia egizia, storia che ebbe inizio 5000 anni fa e si concluse dopo 3000anni (332 a.C.). In questo intervallo di tempo si sono succedute in Egitto trenta dinastie e 210 sono i faraoni di cui si ha certezza in base ad iscrizioni geroglifiche. Questo periodo, che va dal 3100 a.C. al 332 a.C., per i cambiamenti politici che si sono verificati, è stato suddiviso dagli storici in: ANTICO REGNO (3100-2181): comprende le prime sei dinastie; PRIMO PERIODO INTERMEDIO (2181- 2060): termina con la IX dinastia; MEDIO REGNO (2060-1786): termina con la XII dinastia; SECONDO PERIODO INTERMEDIO (1786-1551): si esaurisce con la XVII dinastia; NUOVO REGNO (15511070): si conclude con la XX dinastia; TERZO PERIODO INTERMEDIO (1070- 656): dalla XXI alla XXV dinastia; BASSA EPOCA (656 -332): dalla XXVI alla XXX dinastia (ultima dinastia egiziana). Seguono una dominazione persiana e una macedone in cui viene concesso per volontà divina il titolo di Faraone ad Alessandro Magno. Periodo Tolemaico (305 al 30 a.C.). La dinastia macedone dei Tolomei si fregia del titolo di Faraone. Si succedono sul trono 14 re-faraoni e la dinastia ha termine con la disfatta di Cleopatra ed Antonio sconfitti da Ottaviano. Questi fa dell’Egitto una provincia dell’impero romano d’occidente, che va dal 31 a.C. al 395 d.C.; per divenire in seguito provincia bizantina fino al 476 d.C. In questo periodo si diffuse il Cristianesimo. L’Egitto fu conquistato definitivamente nel 642 d.C. dagli arabi che imposero, come è loro costume, la propria cultura, legge, lingua e religione. Ad essi succedettero gli islamici ottomani. Restò immutata solo la lingua liturgica della religione copta, oggi professata dal 10% della popolazione. A Napoleone il merito se gli archeologi europei tornarono ad interessarsi dell’Egitto, ciò che avvenne appunto in occasione della campagna napoleonica in quel paese (1798). Il francese J.F. Champollion nel 1822 decifrò i 580 geroglifici di cui si compone la lingua scritta degli Egizi la qual cosa permise di conoscere con certezza quella civiltà che rivive nei monumenti che ci ha lasciato, in primis le piramidi. Solo nel 1922 l’Egitto riacquista l’indipendenza, ma sotto tutela britannica. La repubblica fu quindi proclamata nel 1955.

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Informazioni I Viaggi di Maurizio Levi tel. 02 34934528 www.deserti-viaggilevi.it

lago Qarun massi sferici

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Camaiore Di Isabella Piaceri foto di Luca Bracali

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Oltre il giardino. Cosa è Camaiore?Una cerniera tra la feconda piana di Lucca, capitale di uno stato antico e longevo, l’enclave marittima viareggina e la Versilia propriamente detta che va dal Cinquale ai capitanati di Pietrasanta, Seravezza e Stazzema, a lungo fiorentini. Ma più che mai è uno stato mentale. Citando quello che il giardiniere sognatore di un celebre film, interpretato da un vissuto Peter Sellers negli anni ’80, dice a proposito della vita, si può certo ammettere che questa conca tra mare e monti, verdeggiante come l’Umbria e riparata come un antro ritroso, affine alla silente operosità ligure più che all’esuberanza graffiante di altri toscani, è anche un modo di pensare. Oltre che di essere e di vivere. Verso l’ombra di un campanile, che poi è la torre civica del centro storico medievale, divenuto castello indipendente intorno al 1300, si volge il nostro vagare. Vogliamo toccare il cardo e il decumano ancora vivi della romana Campus Major, con tratti di mura e porte e quel piglio sornione al mattino che si sveglia presto e brulica alto. L’obiettivo non perde uno scatto. Qui sfocia la Freddana e si erge il monte Gabberi, come un sipario custode delle vestigia di una civiltà antica e doviziosa. Camaiore dista neanche dieci chilometri dal mar Tirreno e di lui mantiene la voglia: è una combinazione di panorami e scenari diversi che ne fanno un giardino di sabbia e verde. Per raggiungerla da Viareggio e dal suo Lido basta imboccare una strada diritta che apre la vista alle Alpi Apuane, montagne così dette perché acute e cangianti a seconda di stagioni e clima. Dalla costa comincia così il nostro viaggio che ci fa viandanti senza meta, tra paesaggi di salmastro dannunziano e freschi borghi, intercalati dalle botteghe e dall’aria del capoluogo. Un territorio di oltre ottanta chilometri quadrati e più di trentamila abitanti la rende città, ma la sua anima è di paese campanilista e un po’ sbigottito, da poco famelico di novità. Camaiore a prima vista non si concede e nemmeno si protegge. Per questo è ‘oltre’, oltre la città. E come ogni viandante,che non sia solo turista, andremo d’istinto, quasi per caso, seguendo un itinerario alternativo che sia di dettagli conservati e non di leggi e costruzioni. A Lido di Camaiore regna, tra le altre, un’oasi di soleggiata qualità: è lo stabilimento balneare ‘Mascotte’, di fronte alla via del Secco, che associa spiaggia, mare e piscina olimpionica. Ombrelloni e tende fresche, cabine comode ed una struttura che si sposa a pennello con l’ambiente circostante: anni di esperienza dei proprietari ne fanno una delle mete preferite dai ‘bagnanti’, che possono pranzare al ristorantino sulla passeggiata e godersi intimità e divertimento. Oltre il turista. Nell’arrivare, scavalcando l’ultima rotonda verso monte, quella del Ponte alla Gora che costeggia il fiume, omonimo di Camaiore, abbiamo la sensazione di trovarci ad un bivio: il presente della riviera, che negli anni ’60 vide fiorire la Bussola di Sergio Bernardini, mecenate di ritmi e divi di voce tra cui Mina e Renato Carosone, lo lasciamo alle spalle e il passato, rimasto vergine con tratti di delizie naturali e dell’uomo, ci viene incontro. A due chilometri ecco il centro del capoluogo, a cui si aggiungono a raggiera ventiquattro frazioni: qui è ospitato un percorso di monumenti e botteghe dalla piazza principale, dedicata a San Bernardino da Siena dove si trova la Collegiata del XVI secolo in onore della Madonna Assunta in cielo. Vicino, il Palazzo del Vicario, sede di mostre e davanti il palazzo del Comune fiancheggiato dall’arco della Vergine

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e più in là da quello Trionfale del secolo XVI, detto degli Straccioni che un tempo vi sostavano chiedendo carità ed asilo, uno degli accessi all’antica città medievale. Questo è il fulcro, l’incrocio dei cardini, inteso come agorà, da cui prendono il passo le strade tagliate da contrade storiche che in estate si cimentano in un palio sportivo, il Palio dei Rioni, in cui si contendono lo stemma blu amaranto del Comune. Più avanti, seguendo il tracciato della via centrale intitolata al re Vittorio Emanuele, popolare come via Di Mezzo, si incontra la piazzetta Diaz, bombardata durante la seconda guerra mondiale e ricostruita, su cui si affaccia il primo gioiello di storia e fascino: il Museo d’Arte Sacra, situato lungo la via Francigena dei pellegrini verso Roma e Santiago di Compostela, che raccoglie testimonianze della Vicaria di Lucca, con la Sala dell’Arazzo di storie evangeliche di Peter de Pannemaker (sec. XVI)dove si tengono convegni e presentazioni di importanti testi di autori anche locali. Uno sguardo esperto e sensibile verrà subito catturato dalla Madonna lignea della scuola del Civitali (sec. XV), fanciulla delicata in attesa del figlio, uno degli esemplari di Vergine Annunciata più noto e

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moderno, posta nella sala adiacente e più oltre da una sorta di intensa sala laboratorio con arredi e paramenti sacri. Il Museo ha un terrazzo con arcate ,risalente al secolo XVII, che diviene giardino in occasione della processione del Corpus Domini in giugno, quando il priore della città si affaccia per recitare la messa solenne e accingersi a calpestare i tappeti di segatura colorata lungo le vie del centro. Una tradizione secolare di Camaiore che raccoglie visitatori da ogni parte del mondo e che nel 2014 volerà a New York. Lo stesso luogo, come tutti quelli più significativi, prenderà fuoco , insieme alle facciate delle case, di semplici fiammelle ad olio durante la Triennale di Gesù Morto che si tiene il venerdì santo con la luminaria e il passaggio di un carro ligneo portato a spalla: il Crocione del 1500 e le statue di Gesù, della Madonna dei Dolori, del San Giovanni Battista e della Maddalena del XVII secolo. Il linguaggio di Camaiore va dunque oltre l’apparenza e sfiora la metafora di una lingua di abitudini e confidenze che va oltre il profano, dall’amore per la terra e il contadino al sacro. Attaccato alla Chiesa dei Dolori, da cui parte la processione, si trova il Teatro dell’Olivo, un gioiello di architettura che conta poco più che duecento posti e che

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vive una nuova stagione di spettacoli dopo la riapertura di dieci anni fa. Un tempo era una un tiratoio della lana, poi il suo proprietario, caduto in disgrazia, fuggì nel corso del 1500 e a metà del secolo successivo l’Accademia dei Deboli, un’associazione di cittadini, chiese di riaprirlo per ospitare commedie e rappresentazioni sacre. Durante il ‘700 vennero eseguiti numerosi interventi e verso la fine del secolo la Compagnia del Teatro sceglie come suo vessillo un ramoscello carico di olive che fungono da condimento, balsamo e rischiarano l’aria illuminista. Oggi è simbolo della città culturale, musa figlia della memoria: piccolo esempio di perfetta armonia. Oltre il profano. Nel cuore cittadino le botteghe si susseguono incalzanti e tra osterie tipiche, in un percorso del gusto genuino e curato, sono culle di oggetti fatti a mano. Spicca tra loro il laboratorio di Claudio Zemmi, artista camaiorese doc, autore di icone e lavori in legno di sapore sacro: la sua bottega lungo la via centrale pullula di storia e reca i segni dell’evento che lo ha spinto a scegliere questa strada in un momento di difficoltà spirituale. Non è un luogo da turista, ma da viaggiatore goethiano, in cui si viene attratti per istinto, come in un guizzo di fantasia che diviene coscienza del suolo religioso della città. Tra assi, pennelli e volti si può perdersi e ne siamo felici. La giornata ideale del viaggiatore, che al mattino, dopo aver assaporato il salmastro di Lido di Camaiore, si concede una passeggiata nel centro storico a caccia di monumenti e spuntini di torta di pepe e focaccia, potrà proseguire nella frescura di un luogo magico, pronto a diventare un pezzo della geografia sacrale del mondo: Candalla, spostata a monte del capoluogo, da raggiungersi attraverso una via che lambisce il complesso della Badia benedettina, di stile romanico (sec XIII), tappa anche lei della via Francigena e sede di associazioni culturali e mostre oltre che, sul piazzale, di un mercato agro zootecnico durante l’annuale Fiera di Ognissanti. Da qui si raggiunge Vado e poi Lombrici e si sale diritti. Candalla è un insieme di rocce, fiume e piccoli laghetti con opifici sparsi lungo l’alveo. Candalla è il mulino di ‘Taccone’, vecchio mugnaio che incarnava il mestiere per anima e corpo: adesso di proprietà del Comune, il mulino, arroccato sul versante del monte e collegato al sentiero da un ponticello che sembra dipinto, invita alla sosta con i piedi nell’acqua fresca, quasi gelida anche in pieno agosto, ad una merenda nell’osteria omonima lì accanto e all’arrampicata sull’antica mulattiera che conduce a Casoli, uno dei borghi più belli. Qui i ragazzi da anni ed anni fanno il bagno nelle ‘polle’ per refrigerarsi dalla calura estiva. Candalla è il giardino fresco di Camaiore. A ritroso, al bivio di Lombrici, con qualche chilometro di salita, si può incontrare l’assolata Metato: un pugno di case come un presepe, come castagne sparse da cui deriva il nome. Il metato era infatti il luogo dove le castagne venivano messe a seccare per poi trarvi la farina dolce per il ‘ castagnaccio’ con arancia, pinoli e la ricotta di contorno, un dessert semplice e povero, ma gustoso. O i necci, frittelle calde più piccole che si cuociono sui ‘testi’, piastre rotonde di ferro da scaldare sul caminetto. Qui si mangiano in autunno come specialità tipiche. Ecco, Metato è come il suo sapore: si scioglie farinoso in bocca e lascia un retrogusto dolciastro e tiepido da freddare con il companatico. L’architetto novarese, ma oramai acquisito a Camaiore, Stefano Viviani ha restaurato molti rustici del borgo creando un complesso residenziale d’elite, che mantiene architettura ed arredi del luogo e si staglia sulla vallata dando

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una visione del mare e dell’infinito ‘sublime’,a detta del viandante professore. Si tratta di piccole casette di sasso, con vasche come piscine scavate nella roccia. Si tratta di case più grandi distribuite sul versante collinare con poggi e giardinetti che sfiorano le pareti del monte in un divertente saliscendi. Si accede da un piazzale che raggiunge la chiesina dedicata a Santa Maria, il lavatoio che a Natale ospita il presepe, il bed and breakfast ‘Salvia e rosmarino’ con terrazza panoramica e cucina casalinga ma raffinata. A Metato la calura si scioglie solo alla sera, per riportarci al nostro vagabondare di ritorno verso la città che si illumina in agosto di bancarelle e antichità per ‘Le Follie di ferragosto’, una settimana intensa di eventi e storia. Possiamo decidere allora di cenare lì in una delle osterie o di lanciarci verso quello che è considerato un tempio della cucina toscana: da Angelo, a ‘Il merlo’, ai Frati di Camaiore, sulla via che torna verso mare. Chianina, ravioli come di velluto, tortellini girati a mano, pesce freschissimo e intingoli elaborati da una cucina secolare semplice, rivisitati da Angelo Torcigliani e dalla mamma Romana. Una signora bottega di alimentari che si è allargata in una stanza enoteca di stile rustico e da qualche anno anche in un’ala moderna con veranda all’aperto dove si mangia egregiamente e da dove i cantucci, biscotti secchi con mandorle, sono stati inviati nientemeno che a Barak Obama. L’enoteca è rifornita di vini e champagne al pari di un’osteria gourmet francese di Mougins o di Les Baux. Oltre Camaiore. Se poi decidiamo di fermarci un poco più di tempo e fare una digressione dal discorso ‘città’ in senso stretto, il cammino ci invita verso la piana lucchese attraverso le fronde lecciose di Montemagno ed una natura toscana pura, di declivi e rustici, che buca la Freddana e giunge in San Martino. Da qui si sale ancora ad una radura protetta, Castagnori, ricca anche lei di castagne, di viti ed ulivi da cui si traggono nettari preziosi. Vi sorge la seicentesca Villa Colfranco, una delle celebri ville lucchesi, con portico ad arcate e pianta quadrata, il giardino all’italiana ed un fascino intatto di particolari come una pellicola di Luchino Visconti. Nei rustici adiacenti un piccolo museo di vecchi arnesi in ferro battuto del tutto inatteso ci sorprende. Oltre il giardino, più in basso, la castellana Lucca si adagia come una fiera sparsa. Tante torri, campanili e chiese come a Camaiore.

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Oltre il cibo. La cena al ‘Merlo’ si è svolta tra noi, come in famiglia, ma più delicata: con Angelo Torcigliani che, sempre più somigliante ad un novello Depardieux, ti si avvicina al tavolo rotondo con un sorriso ruvido ed aperto e la parlata sana. Illustra i piatti e attende con occhio vigile solo un attimo la reazione dell’ospite, che è sempre di stupore ed assenso. Un professore, un fotografo, un’assessore ed altri commensali: il primo, della giunta del sindaco trentenne Alessandro Del Dotto, è Carlo Alberto Carrai, che segue il turismo e che è stato il Virgilio del viaggio appena descritto. Galeotto il contatto con gli amici viaggiatori Alessandro Pisani ed Elena Conti della E.C. di Viareggio che organizza eventi in ogni dove. Il signor Carrai, che non arriva ai 40, ama bere bene e condividere come qualità della vita. E’ stato lui a recarsi da padre Angelo Ciccone, nella missione di Saint Joseph in Swaziland, per portare anche laggiù un poco di Camaiore ed il suo senso di umanità donando ai ragazzi, salvati ad una triste sorte, tanti giochi e sorrisi.

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Oltre il pontile. Infine, quando scende il buio, scendere al pontile di Lido di Camaiore come da pellegrini, in piazza Giacomo Matteotti, uno degli slarghi più frequentati da turisti in estate e ospiti dei bagni della riviera, significa reinventare quel giardino che si fa di sabbia e si getta per oltre cento metri nel mare. Alla fine puoi gustarti un diversivo da bere o una tisana ai frutti per chiudere il giorno al caffè del Pontile guardando la notte, voltandoti quasi per caso verso le Apuane. Godendo l’odore di quel miscuglio di paesaggi tra mare e monti: nel mezzo ed oltre il giardino, immagini ancora Camaiore che dorme e forse la rimpiangi. Pensando con Kundera che vuoi tornare là, perché ‘la vita è sempre altrove’.

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www.lucabracali.it http://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Bracali http://www.facebook.com/luca.bracali.3 http://www.artribu.it/index.php/carica_biografia/load/48 Copyright Luca Bracali © All rights reserved. E’ vietato ogni tipo di utilizzo, diffusione o riproduzione delle immagini di questo servizio.

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Amsterdam festeggia i 400 anni dei suoi canali

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CL

Events

L’Olanda festeggia! Di Paola de Groot Testoni

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Anno di festeggiamenti questo 2013 per l’Olanda e per Amsterdam in particolare: ricorrenze storiche, appuntamenti artistici e culturali e un pizzico di storia patria (il nuovo re e la nuova regina stanno salendo in questi giorni sul trono) sembrano si siano dati appuntamento per festeggiare tutto, assolutamente tutto, proprio quest’anno. IL SECOLO D’ORO (E D’ARGENTO) Per non rimanere subissati andiamo per ordine e cominciamo ovviamente dal primo dato storico: precisamente 400 anni fa nasceva la cintura di canali semicircolari e concentrici, e attualmente patrimonio dell’UNESCO, che formano oggi il cuore di Amsterdam e che, nei secoli, hanno spesso fatto definirare la capitale olandese, la Venezia del Nord. In realtà, al contrario della città lagunare, Amsterdam nasce alla foce del fiume Amstel intorno ad una diga costruita da dei pescatori probabilmente alla fine del XII secolo. I canali, vere e proprie vie d’acque per i trasporti, difficoltosi sulla terra morbida e paludosa della zona, nascono in un secondo tempo a tavolino. Fatta eccezione per il Singel (da cingulus, latino, per cintura) il canale di difesa della città medievale scavato nel 1300 a ridosso della prima cinta muraria, gli altri canali maggiori: Herengracht, Canale dei Signori, Keizersgracht, Canale dell’Imperatore, e Prinsengracht, Canale dei Principi, sono stati scavati dall’uomo nel 1600, secondo uno specifico piano urbanistico unico per quell’epoca. Nuovi canali, dunque, e nuove case per rispondere al boom di urbanizzazione del Secolo D’Oro: Amsterdam era veramente il centro del commercio mondiale, sedeva su un enorme impero coloniale (Asia, Africa e Americhe) e chiamava a sè una moltitudine di persone attratte dalla ricchezza e dalle molteplici occasioni di guadagno. DALLA RUSSIA CON MODERNITÀ Tra questi, in incognito, arrivò anche lo Zar Pietro il Grande (1672-1725), deciso a rubare i segreti della costruzione dei veloci galeoni olandesi, per creare finalmente una flotta, degna di questo nome, da affiancare al suo fortissimo esercito. Per fare questo il grande zar (anche fisicamente, era alto 2,04 metri) visse in una piccola casa di legno presso i cantieri navali di Zaandam, a pochi chilometri al nord di Amsterdam. Era l’anno 1697 ma la casa esiste ancora e da allora è diventata luogo di pellegrinaggio di re e imperatori (da Guglielmo I a Napoleone) e di semplici turisti. Restaurata di recente, grazie ai finanziamenti di privati russi, è visitabile oggi come un museo (www.zaansmuseum.nl). Ma non è tutto: questa visita, viene ricordata proprio quest’anno, dedicato ai rapporti Olanda-Russia, con una mostra all’Hermitage di Amsterdam, inaugurata in aprile dalla Regina Beatrice e dal Presidente Putin, e dedicata al grande zar. www.hermitage.nl I CANALI: LA VENEZIA DEL NORD? Per chi invece volesse approfondire gli aspetti legati alla storia e all’arte del Secolo d’Oro altre mostre di eccezione sono organizzate quest’anno nella capitale olandese. A partire dalla grande esposizione all’Amsterdam Museum “Il Secolo d’Oro: laboratorio del nostro mondo” (fino al 31 agosto www.amsterdammuseum) che rappresenta uno sguardo curioso, e talvolta irriverente, ai miti di un secolo che

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d’oro e d’argento fu per l’arte e la grande ricchezza creata, ma che ebbe pure i suoi lati oscuri che la sensibilità dell’uomo di oggi, difficilmente non può non captare. Chi vuole invece approfondire gli aspetti archiettonici e urbanistici dell’Amsterdam secentesca, può sicuramente visitare la Grachtenhuis (www.grachtenhuis.nl) il museo-attrazione sull’Herengracht che riesce a fare della storia qualcosa di coinvolgente e incredibilmente affascinante. Con la tecnologia di ultimissima generazione, grazie ad oleogrammi e mezzi audiovisivi, e alla stupenda location in una delle più belle case patrizie del centro storico, con vista mozzafiato sui canali, il coinvolgimento è assicurato. Per gli amanti delle case patrizie: la Grachtenhuis non è certamente l’unica. Allora perchè non visitarne altre, con i loro ampi saloni, le perfette suppellettili, i quadri, gli stucchi e tutto quello che necessita per rivivere l’atmosfera di un secolo lontano? Per scegliere tra le più belle vale la pena consultare il sito www.amsterdamheritagemuseums.org dove potrete scoprire tutto sulle dimore storiche compresa quella forse più caratteristica che ospita “Our Lord in the Attic” , un segreto ben custodito che vale assolutamente la pena di scoprire. VIVERE AD AMSTERDAM NEL 1600 Si tratta dell’ultima delle chiese nascosta che per tre secoli, dopo la riforma calvinista nel 1580, vennero utilizzate dai cattolici della città per continuare il culto della propria religione senza dover incappare nei divieti di legge. Proprio nell’attico di questa lussuosa dimora di ricchi mercanti, troviamo questo gioiello nascosto, completamente originale e diligentemente restaurato e conservato. Non si pensi ad una piccola cappella: nell’attico troverete invece una vera e propria chiesa con doppio matroneo che arriva facilmente ad ospitare oltre 150 persone. Assolutamente da vedere! (www.opsolder.nl) Per chi vuole indagare l’aspetto umano dell’urbanizzazione del XVII secolo, in un’Amsterdam che in cinquant’anni triplica il numero dei suoi abitanti, può visitare l’ultima delle mostre dedicate al Secolo d’Oro: si tratta di “Booming Amsterdam” (fino al 19.5) presso il Stadsarchief www.stadsarchief.nl Dopo 10 anni ha riaperto il Rijksmuseum, 8.000 pezzi esposti in 80 sale festeggiano 800 anni di storia olandese

Lo Stedelijk Museum

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IL RIJKSMUSEUM 10 ANNI DOPO Anche musica e arte non mancano a questo appello e festeggiano anche loro degnamente questo spettacolare 2013. Lo fa alla grande con la riapertura il 14 aprile, dopo una ristrutturazione durata dieci anni, il Rijksmuseum, il Museo di Stato che racchiude oltre 8.000 tesori tra cui la celeberrima “La Ronda di Notte” di Rembrandt, le tele gioiello di Vermeer (quattro opere, tra cui la “Stradina”) e gli stupefacenti quadri di Frans Hals. Il museo che possiede una delle più grandi collezioni di arte orientale fuori dall’A sia (grazie anche a 400 anni di colonie indonesiane) è stato completamente restaurato dallo studio degli architetti Ortiz y Cruz e parzialmente riportato alla sua architettura originaria come fu voluta e progettata dall’archietto Pierre Cuypers nel 1885. www.rijksmuseum.nl Dal primo di maggio anche il Museo Van Gogh riaprirà i battenti dopo 7 mesi di lavori di ristrutturazione, e le tele del famosissimo pittore che avevano trovato asilo temporaneo all’Hermitage ritorneranno quindi nella loro collocazione tradizionale, che festeggerà ovviamente l’avvenimento e i suoi primi quarant’anni di vita, con una mostra intitolata “Van Gogh all’opera”, che permetterà di osservare da vicino lo sviluppo artistico del grande pittore e di ammirare le sue importanti opere. La mostra si poggia su un ampio e ambizioso programma di ricerca svolto per otto anni dal Museo Van Gogh.

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Skyline di Rotterdam

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dall’alto: Frans Hals “Il suonatore di liuto” e “La Ronda di Notte” di Rembrandt al Rijksmuseum, Chiostro e torre del Duomo di Utrecht

VAN GOGH RITORNA A CASA Circa 200 opere mettono in luce lo sviluppo della pittura del pittore olandese e dei suoi contemporanei, con tele provenienti dalla collezione del museo e da collezioni private. Inoltre, saranno esposti anche disegni su carta, lettere e oggetti personali dell’artista come i suoi taccuini. I visitatori potranno così vedere da vicino quali materiali venivano utilizzati dall’artista, in quali condizione lavorò, da dove trasse ispirazione e con quali altri artisti condivise le proprie idee in campo artistico. www. vangoghmuseum.nl. Le sorprese che il Museo Van Gogh ha in serbo non sono finite: verrà infatti realizzata una nuova entrata prevista per il 2014. Questo progetto ha lo scopo di collegare lo spazio espositivo, realizzato dall’architetto giapponese Kisho Kurokawa nel 1999, all’edificio principale del museo progettato da Rietveld. Il flusso dei visitatori sarà in questo modo meno caotico, e consentirà l’accesso diretto all’ala espositiva di Kurokawa nella quale solitamente si allestiscono mostre temporanee. La nuova entrata sarà inoltre ben integrata con le entrate degli altri musei: il Rijksmuseum, appunto, e il nuovo Stedelijk, il museo di arte moderna e contemporanea, famoso per i pezzi di design, che si affacciano sulla Museumplein, la piazza dei Musei appunto, che con il suo prato all’inglese e le sue panchine rappresenta il cuore verde e culturale dei quartieri chic della città. MUSICA E SHOPPING Non a caso si trova a meno di duecento metri dalla P.C. Hooftstraat la strada dello shopping di lusso e dei brands della moda internazionale: da Armani a Valentino, da Chanel a Gucci, da Hermes a Cartier, da Bulgari a Vuitton: sono tutti presenti con le loro iconiche boutiques su questa strada che corre parallela al Vondelpark. Quartiere d’arte ma anche e di musica perchè è proprio su Museumplein che ha la sua imponente facciata anche il Concert Gebouw, il famoso Teatro di Musica Sinfonica, che, guarda caso, sta festeggiando anche lui, insieme alla sua orchestra, un anniversario importante: 125 anni di vita. Per l’occasione sarà organizzata una serie di 21 concerti che si aprirà con la prima assoluta di Era, una partitura espressamente commissionata al componista finlandese Magnus Lindberg, per questa occasione. www.concertgebouw.nl VINCENT IS BACK Per gli appassionati di Van Gogh, ricordiamo anche la possibilità di visitare il Museo Kröller-Müller di Otterlo, che possiede la seconda collezione di Van Gogh più grande

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al mondo e che dal 6 aprile al 22 settembre organizza la mostra “Vincent is back parte II: La terra della luce”. Si tratta della seconda parte di una mostra che racconta in due riprese la parabola artistica di Van Gogh: la prima parte, “La terra nativa” (in esposizione fino al primo aprile 2013), pone l’accento sul periodo olandese di Van Gogh (1881-1886), e questa seconda parte, “La terra della luce” appunto, che sposta l’attenzione sulle opere del periodo francese (1886-1990), corrispondente alla piena maturità dell’artista. La mostra “Vincent is back” illustra anche la straordinaria storia della collezione di questo museo, nato dalla passione di Anton e Helene Kröller-Müller, che tra il 1908 e il 1929, assistiti dal critico d’arte H.P. Bremmer, acquistarono senza badare a spese 91 dipinti e 180 opere su carta di Van Gogh. Il Museo Kröller-Müller si trova nel Parco Nazionale “De Hoge Veluwe” ed è famoso in tutto il mondo per la ricca collezione di opere del XIX e XX secolo, tra cui l’eccezionale raccolta di dipinti e disegni di Vincent Van Gogh e le opere di altri artisti famosi come Picasso, Renoir, Monet e Mondrian. www.kmm.nl AMSTERDAM DALL’ALTO Un compleanno speciale lo festeggia invece Felix Meritis il centro scientifico ed artistico d’ispirazione illuministica che apre, per la prima volta al pubblico, in 225 anni di esistenza, il suo osservatorio nell’imponente e lussuoso edificio sui canali del centro storico. Una curiosità per gli amanti dell’arte contemporanea: dall’osservatorio posto sul tetto dell’edificio si potranno vedere le opere al neon che lo scultore iracheno, ma olandese di adozione, Joseph Semah, ha nascosto in giro per la città, e che costituiscono la mostra “Amsterdam of above. Amsterdam of below” (dal 18 aprile) www.felixmeritis.nl Chi invece compie 100 anni (ma non li dimostra!) è il Frans Hals Museum ad Haarlem. Questa storica cittadina che ha dato il suo nome al quartiere nero di New York (sì, c’è stato un tempo che la metropoli americana si chiamava New Amsterdam ed era una colonia olandese) è stata anche la patria di adozione di uno dei più famosi pittori del secolo d’oro. FRANS HALS NELLA SUA HAARLEM Frans Hals, nato nel 1582 ad Anversa, in Belgio, si trasferì bambino nella cittadina olandese e qui iniziò la sua sfolgorante carriera che fece di lui uno dei pittori prediletti da Van Gogh e dagli Impressionisti, affascinati dalla sua maniera veloce e moderna di dipingere, così lontana dai canoni di precisione e di amore al dettaglio, cari ai suoi contemporanei. E per fare comprendere ancor meglio la sua modernità (di lui si diceva che la sua pittura non era perfetta ma lo sembrava!) che il museo, che prende il suo nome, ha organizzato la mostra “Frans Hals: occhi negli occhi con Rembrandt, Rubens e Tiziano”. L’idea funziona: grazie al confronto diretto dei quadri, spesso con soggetti simili ma dipinti in maniera completamente diversa, l’originalità artistica del pittore risalta in maniera stupefacente. I volti ridenti, (in un’epoca in cui la morale calvinista considerava un peccato anche il solo sorriso) ma anche i suoi ubriaconi, i suoi pazzi, i suoi strimpellatori di liuto, la sua pennellata veloce, l’amore per il movimento, sempre presente nei suoi quadri, e soprattutto la ricerca di rendere, nelle sue tele, non solo i tratti del volto ma soprattutto il carattere della persona dipinta, fanno di Hals un artista di sensibilità moderna che sentiamo incredibilmente molto vicino a noi. www.franshalsmuseum.nl

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da sinistra: La sede dell’Archivio Civico che ospita la mostra Booming Amsterdam illustrante il piano urbanistico della città secentesca, il Concertgebouw festeggia i suoi primi 125 anni eveduta della piazza Dam di Amsterdam nel XVII secolo

IL GIOIELLO CHIAMATO UTRECHT L’ultimo viaggio all’interno di questo specialissimo 2013 deve essere dedicato a Utrecht. A meno di un’ora da Amsterdam troviamo questa cittadina, deliziosa nella sua quiete ricca di atmosfera e di intimità raccolta. Nata come città romana nel primo secolo dopo Cristo, questo piccolo accampamento di frontiera insediato oltre il confine (ultra trajectum appunto da cui deriva il nome Utrecht) diventerà prima sede vescovile (ancora oggi è sede del Primate d’Olanda) e poi baluardo della civiltà romana in un mondo ancora barbaro. Oggi la sua impronta di civiltà la si può assaporare nei suoi vicoli tranquilli e puliti (così diversi da quelli di Amsterdam!) dagli angoli raccolti e da stupendi canali ombreggiati da alberi secolari. Dopo essere saliti sulla torre del Duomo (oltre 400 scalini, ma ne vale la pena!) un giro in battello, è un must da non perdere. Uno degli edifici più antichi e meglio conservati è la Paushuis, cioè la Casa del Papa. Sì, forse non tutti sanno che l’unico papa olandese della storia era proprio di Utrecht. Ma questa è anche la cittadina dello shopping elegante. Al contrario di buona parte d’Olanda invasa ormai dalle grandi catene commerciali, qui regna ancora il negozietto col prodotto di nicchia, il manufatto artigianale, la cafétérie con prodotti rigorosamente home made. L’ARTE DI FARE PACE E Utrecht cosa festeggia? Ma il suo Trattato, naturalmente! Infatti proprio 300 anni fa, delegazioni di tutti i paesi europei si riunirono proprio in questa città e decisero, per la prima volta nella storia, di concludere una guerra, quella della successione al trono spagnolo, tramite un accordo, senza dover arrivare a soluzioni belliche. Si era nel 1713 e la diplomazia non era certo qualcosa di scontato: il concetto era assolutamente nuovo e rappresentava un cambio decisivo di mentalità. Per ricordarlo, la città ha organizzato un anno all’insegna dei festeggiamenti: festival musicali. concerti e soprattutto mostre come quella al Centraal Museum e al Catharijneconvent Museum. L’iniziativa più curiosa? Trajectum Lumen, una maniera tutta nuova di esplorare la città di notte, una traccia luminosa nel suolo vi condurrà

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a scoprire un percorso cittadino inusuale formato da opere d’arte contemporanea e luoghi storici www.trajectumlumen.com, mentre per il programma dettagliato www.treatyofutrecht.com oppure www.visit-utrecht.com ROTTERDAM: TRA ARCHITETTURA E CITYFARMING A questo punto non possiamo dimenticare l’altra grande città olandese: Rotterdam. Per decenni famosa per il suo porto (fino a pochi anni fa il più grande del mondo), la seconda per popolazione tra le città dei Paesi Bassi, si sta costruendo una fama di tutto rispetto nel mondo del design e dell’architettura contemporanea grazie anche all’imponente Erasmusbrug, il ponte ad un’unica arcata sulla Mosa, che, dal 1996, collega il centro città con il nuovo quartiere di Kop van Zuid, la vecchia zona portuale dismessa che per il numero di opere contemporanee presenti, firmate da architetti di fama internazionale, tra le quali anche il grattacielo progettato da Renzo Piano, ha portato a Rotterdam il titolo di Città dell’Architettura 2007. Design avveniristico ma anche grande ospitalità, per questa città con una sensibilità particolare all’ambiente e che è all’avanguardia nel settore del cityfarming: più di un tetto dei grattacieli della città è stato trasformato in orto con coltivazioni superbiologiche con tanto di arnie per le api. Per chi vuole visitare questa nuova Rotterdam ricca di fascino, amante di arte e moda (da non perdere una visita al museo Boijmans van Beuningen o lo shopping d’avanguardia da Margreeth Olsthoorn o nella boutique di Marlies Dekkers) può avere tutte informazioni necessarie consultando il sito www.rotterdam.info TRONO E CORONA Non vi basta questo quadro per programmare una visita in Olanda? Allora non ci resta che appellarci alla famiglia reale: importante cambio della guardia ai vertici degli Orange-Nassau. Beatrice, regina dal 1980, ha abdicato in favore del suo primogenito Willem-Alexander che salirà al trono insieme alla consorte Principessa

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Le nozze del Principe Willem-Alexander con la Principessa Mรกxima nel febbraio del 2002, nella Nieuwe Kerk di Amsterdam, la stessa chiesa dove, in aprile, sono diventati re e regina dei Paesi Bassi

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I girasoli di Van Gogh� nel museo omonimo e Interno dello Stedelijk Museum, con arte moderna, contemporanea e molto design

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L’Hotel Karel V a Utrecht, costruito sull’antico accampamento romano su cui nasce la città, il suo ristorante è stato premiato con una stella Michelin

Máxima, il 30 di aprile. Se siete ad Amsterdam in quel periodo, non potete perdervi la grande cerimonia nella Nieuwe Kerk, trasmessa life sui maxischermi di tutta la città e partecipare alla grande festa organizzata dalla capitale che include un corso acquatico. Nella stessa chiesa, fino al 18 agosto, si potrà rivivere l’atmosfera di quel giorno grazie ad una mostra che ripercorre i 200 anni della famiglia reale olandese e le cerimonie delle investiture (nei Paesi Bassi non c’è l’incoronazione) dei sette sovrani, avvenute in questi due secoli, www.nieuwekerk.nl. IN CITTÀ Non si deve dimenticare che nella maggior parte delle città olandesi il traffico ha un’ulteriore dimensione: quella dell’acqua. Vaporetti di linea non ce ne sono ma fare un giro turistico in battello resta un must e aggiunge una prospettiva unica, e forse la più autentica, alla visita della città. Ad Amsterdam poi i battelli sono molteplici e vi possono portare negli imbarcaderi dei vari musei oppure fare una navigazione a tema, ma offrono anche un aperitivo a bordo, una pizza o una romantica cena a lume di candela, per maggiori informazioni www.amsterdamcanalcruises.nl oppure www.canal.nl. A Utrecht: per un giro istruttivo o romantico, anche accompagnato da stuzzichini www.rondvaartutrecht.com oppure www.schuttevaer.com A Rotterdam: per la navigazione sulla Mosa www.spido.nl Per spostarsi ad Amsterdam e zona limitrofa, va ricordato anche il servizio UBER, l’alternativa efficiente e chic all’uso del taxi. Il servizio ormai presente nelle maggiori capitali europee e americane, offre ad un prezzo poco superiore a quello di un auto a nolo, la possibilità di muoversi dentro e fuori città con autista privato e vetture di calibro. Si può scaricare gratuitamente l’app sul proprio cellulare, e chiamare UBER premendo solamente il tasto del telefono. Il satellitare farà il resto, facendo arrivare dopo pochi minuti (potete seguire il percorso sullo schermo) la limousine con l’autista. Il costo sarà automaticamente addebitato sulla vostra carta di credito. www.uber.com

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DOVE DORMIRE AMSTERDAM CENTRO Sono vari gli hotel a 5 stelle del centro storico che offrono la perfetta location per una visita della città: fra i migliori segnaliamo il Sofitel Legend The Grand, che occupa un edificio del XV secolo che da convento fu trasformato prima nella sede dell’ammiragliato e quindi nel Municipio prima di essere definitivamente convertito in hotel dall’architetto Sybille de Margerie insieme a nove studenti dell’Accademia di Design di Eindhoven. Il risultato è un edificio ricco di charme e con stanze e suite personalizzate che offre tutti i confort del grande hotel, dalla piscina, con spa, hamman e sauna fino servizio maggiordomo, insieme ad un’atmosfera intima e sofisticata. Perfetti i prodotti del set bagno di Hermès. Il rinomato ristorante interno è decorato da un affresco del 1949 di Karel Appel. Camera doppia deluxe a partire da 300 euro a notte www.sofitel.com. Chi vuole unire al lusso e al confort un’incantevole vista sul fiume Amstel può scegliere invece l’Hotel de l’Europe. Decorato con opere appartenute alla collezione privata di Alfred Heineken, all’interno di uno dei palazzi più belli della città (viene spesso definito l’altro Palazzo Reale) ha all’interno della sua hall elegante uno dei ristoranti più quotati della città: Bord’eau a pochi mesi dalla sua apertura ha già ottenuto una meritatissima stella Michelin. Camera doppia con vista sul fiume a partire da 398 euro, un menu degustazione a partire da 38 euro. www.leurope.nl Un’esperienza diversa quella che offre il Grand Hotel Amrath grazie alla grandiosa struttura in cui è ospitato: la lussuosa sede delle compagnie armatoriali del porto si è trasformata infatti in questo cinque stelle pieno di arte e cultura. A cominciare dalla struttura dell’edificio a forma di nave in autentico stile Scuola di Amsterdam per continuare con l’arredo tutto originale e dall’affascinante sapore retrò. Piscina, whirlpool, sauna e bagno turco completano questo incantevole soggiorno. Grand cuisine co nlo spazioso ristorante Seven Seas. Una doppia a partire da 199 euro. www.amrathamsterdam.com.

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L’Hotel The Grand nel cuore di Amsterdam: l’edificio, risalente al XVI secolo, ha ospitato prima un monastero, poi l’ammiragliato ed infine, nel secolo scorso, il Municipio della città

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AMSTERDAM SUD Nel quartiere dei musei due sono i 5 stelle da segnalare: l’Hilton progettato dall’architetto Maaskant con la particolare forma a V famoso per il bed-in for peace che organizzarono John Lennon e Yoko Ono durante la loro luna di miele nel 1969 rilasciando interviste dal loro letto sul tema della pace nel mondo. Il ristorante Roberto’s è uno dei più frequentati e rinomati della città. www.hilton.com Quasi dirimpettaio del Museo Van Gogh, è invece il Conservatorium Hotel che, occupa l’antico edificio della scuola musicale. Da segnalare il ristorante lounge diventato in breve tempo il salotto bene dell’Amsterdam culturale e artistica. www. conservatoriumhotel.com UTRECHT Karel V è l’unico hotel a 5 stelle della città e di per sè vale una visita. Collocato nella parte più antica di Utrecht (nella recente ristrutturazione sono stati trovati reperti archeologici) offre un confort altamente personalizzato in una location da sogno. In occasione dei festeggiamenti per il Trattato di Utrecht, l’hotel offre un pacchetto speciale che include un pernottamento in una Luxe Executive Room nell’ala romana, colazione speciale nel Grand Restaurant Karel V (una stella Michelin), uso del centro wellness, sauna, jetstream, bagno turco, solarium e zona fitness, pranzo della Brasserie dell’hotel ed un pacchetto informativo per visitare la città di Utrecht. La possibilità di parcheggiare nel terreno dell’hotel e un piccolo dono completano questa offerta per 109 euro a persona in una camera doppia. ROTTERDAM Di fronte alla stazione, in uno dei più bei grattacieli del centro, si trova l’unico 5 stelle della città, il nuovissimo hotel Manhattan che possiede tutti i confort di un grande albergo più una vista mozzafiato sulla città. Se scegliete una business room avrete accesso alla Sky Lounge con offerta illimitata di wifi, bibite alcoliche e analcoliche e vari stuzzichini. www.manhattanrotterdam.com COME VIAGGIARE KLM collega sei aeroporti italiani all’Olanda con più di 170 voli settimanali. Potete arrivare direttamente ad Amsterdam da Torino, Milano Linate, Venezia, Bologna, Firenze e Roma. Le tariffe con partenza da Milano vanno da € 99, andata e ritorno, comprese di tasse e supplementi. Una curiosità: KLM è la prima compagnia aerea ad integrare l’attività di social networking con il proprio sistema di prenotazione: i passeggeri che hanno acquistato un biglietto su un volo KLM, possono collegare il proprio profilo Facebook o LinkedIn alla prenotazione ed accedere così ai profili di chi è sullo stesso volo. www.klm.it Call center: 892 057.

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Food&Wine

Le Cantine Ferrari

Alla scoperta dello spumante italiano per eccellenza. Di Roberta Filippi

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Basterebbe sfogliare l’album dei ricordi per accorgersi come lo spumante Ferrari accompagni da sempre il mondo dell’arte, della cultura, del cinema, della musica, dello sport e dello spettacolo: da Andy Warhol, il più grande interprete della pop art che riprodusse una bottiglia Ferrari su un piatto poi donato alla Casa trentina, fino a Margaret Tatcher, Ronald Regan, François Mitterand, La Regina Elisabetta II. Anche durante il vertice italo-russo o il G8 di Genova i grandi della Terra brindavano Ferrari. Erano bagnate di Ferrari le vittorie della Testarossa: sul podio si stappava un magnum trentino, anziché di champagne. E anche la Coppa del Mondo conquistata dall’Italia nella finalissima contro la Germania allo stadio Santiago de Barnabeu di Madrid nel 1982 fino ai più recenti mondiali 2006. E non ci si deve meravigliare se nel 2000 il Giulio Ferrari e il Dom Pérignon uscirono a pari merito dalla degustazione cieca di una commissione d’esperti del “Gambero Rosso”, una delle riviste enogastronomiche più autorevoli. Passato, presente e futuro È nel lontano 1902 che Giulio Ferrari (enologo diplomato alla Regia Scuola Agraria di San Michele all’Adige, successivamente allievo della prestigiosa Scuola di Viticoltura di Montpellier e studente specializzato in chimica enologica Geisenheim, sul Reno, per tornare infine a Epernay, l’Atene dello Champagne a capirne i segreti da trapiantare nel suo Trentino) creò il Ferrari. Poche, selezionate e costosissime bottiglie che non bastavano mai a soddisfare le richieste degli estimatori, in una Trento ancora provincia dell’Impero austro-ungarico. Famiglia di nobili origini, i Ferrari, proprietaria di latifondi coltivati a vigneto, e imparentata con altri nobili, come attesta lo stemma gentilizio sul portale del palazzo di Via Belenziani 39, a soli 150 metri dalla bottega di Largo Carducci, punto di ritrovo di intenditori e buongustai. Tant’è che la frase “Ne veden dal Lunel”, ci vediamo dal Lunelli, divenne una parola d’ordine. Dopo la seconda guerra mondiale, al suo ritorno in città nel 1945, Giulio Ferrari si accorse con sua grande sorpresa che lo spumante, rimasto in cantina da ormai sei anni, aveva resistito egregiamente non soltanto ai bombardamenti, ma anche alle ingiurie del tempo. Nacque così la prima Riserva. Fautore dalla qualità, Giulio Ferrari non cedette alle lusinghe del mercato e della moda al punto che si prefisse un tetto massimo di poche migliaia di bottiglie. Per scoraggiare la clientela occasionale aveva alzato il prezzo a livelli stratosferici: 4 corone contro le 2,40 dell’Asti spumante. Probabilmente Giulio Ferrari tenne alta la qualità per un’innata vocazione alla parsimonia (era solito annotare sul suo diario anche i soldi che spendeva per il caffè al bar e per la corsa in corriera TrentoCalceranica) e per separare il grano dal loglio: chi avesse veramente

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Gino, Bruno e Mauro Lunelli


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Bruno Lunelli davanti alla storica enoteca

insistito per comprare la cantina, nonostante le astronomiche pretese del proprietario, quegli avrebbe dimostrato, con la sua caparbietà, di esserne all’altezza e di meritarsela. E fu così che, nel 1952, Giulio Ferrari cedette l’azienda a Bruno Lunelli, che aveva acquisito dal fondatore un coriandolo di cantina: neppure diecimila bottiglie l’anno. Grazie a un lavoro minuzioso, combinato con l’innato piglio imprenditoriale, Bruno Lunelli aumentò progressivamente la produzione portandola fino a centomila bottiglie l’anno. Saranno poi i suoi cinque figli, Franco, Giorgio, Gino, Carla e Mauro, ad accompagnare definitivamente il Ferrari all’apice della qualità e della notorietà, rimanendo sempre fedeli agli insegnamenti di Giulio Ferrari che rimase in azienda fino al 1965, anno della sua morte. Aveva 86 anni. E la famiglia Lunelli continua il percorso anche nella terza generazione. Mauro, infatti, dal 1997, è affiancato nel suo ruolo di direttore tecnico dal nipote Marcello, figlio di Franco, che ha studiato agraria e si è specializzato in enologia. A giudicare dall’impegno, dalla

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competenza e dall’entusiasmo di Marcello il futuro dello spumante italiano per eccellenza è assicurato. Le Cantine Ferrari, leader in Italia Lo spumante Ferrari, senza troppa pubblicità, diventa un’istituzione: basta la qualità. Il passaparola valica ben presto le frontiere, facendo dialogare gli appassionati dei vini di qualità e anticipando una nota di distensione anche quando il mondo era ancora diviso dalle cortine di ferro. Una griffe così consolidata si potrebbe sfruttare per la creazione di un’intera linea di prodotti enologici di sicuro successo, ma i fratelli Lunelli preferiscono non dissipare un’eredità secolare e si cimentano nei bianchi usando il loro cognome affiancato a quello dei poderi. A partire dal 1987 nascono così tre bianchi: il Lunelli Villa Margon, il Lunelli Villa San Nicolò e il Lunelli Villa Gentilotti. Ma i signori del bianco decidono di mettersi alla prova anche con i rossi: nel 1985 acquistano il Maso Mantalto, sulle pendici del Bondone, e il Maso Le Viane,


Altagamma Contemporary Excellence

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Cantine Ferrari

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Locanda Margon

nel Basso Trentino. Dieci anni dopo la prima vendemmia e finalmente nel 1999 vedono la luce il Maso Le Viane, un uvaggio di Cabernet e Merlot, e il Maso Montaldo, un Pinot nero. Ma non è finita e i Lunelli arrivano anche in Toscana acquistando la tenuta di Podernovo (Pisa) e un’altra in Umbria, nella zona di Montefalco, dove si fa il Sagrantino. Con 110 anni di storia e un albo d’oro pieno di premi e riconoscimenti, le Cantine Ferrari sono leader in Italia e tra le prime dieci al mondo. Dagli anni Ottanta, nel segno di una strategia di diversificazione nell’eccellenza del bere, la famiglia Lunelli ha affiancato al Ferrari anche una grappa, Segnana e un’acqua minerale, Surgiva. Di recente apertura, infine, il ristorante di casa Ferrari, la locanda Margon, con a capo lo Chef Alfio Ghezzi. È nato così il Gruppo Lunelli, le cui creazioni si distinguono perché espressione di un’esasperata ricerca della qualità e della valorizzazione del proprio territorio. Non è facile essere un mito e continuare ad esserlo, annata dopo annata per oltre un secolo. Per farlo ci vogliono passione, attenzione, rispetto per la tradizione, così come in ogni piccolo gesto tra i filari delle vigne e nel buio pensoso della cantina. Ci vuole cultura, anche, e quel pizzico di estro che permette di dare vita a una vera e propria collezione di spumanti classici di ineguagliabile livello. Capolavori nati dall’arte e dall’ingegno di una famiglia, i Lunelli, che dediti da tre generazioni al culto dell’eccellenza, con il loro impegno quotidiano hanno fatto del Ferrari un marchio unico, apprezzato, premiato, ricercato, celebrato dagli esperti di tutto il mondo.

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Villa Margon

Lo stile Ferrari si declina in undici etichette: Giulio Ferrari riserva del Fondatore, un cru che matura per dieci anni, che tra i vini italiani è il più premiato, i millesimati Ferrari Riserva Lunelli, Ferrari Perlé, Ferrari Perlé Rosé, Ferrari Perlé Nero, e poi Ferrari Maximum Brut, Ferrari Maximum Rosé, Ferrari Maximum Demi-Sec, dedicati alla ristorazione ed infine le etichette storiche della casa, Ferrari Brut, Ferrari Rosé, Ferrari Demi-Sec.

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Marcello, Camilla, Matteo e Alessandro Lunelli

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FERRARI F.lli Lunelli S.P.A. via Ponte di Ravina, 15 - 38123 Trento info@cantineferrari.it - www. cantineferrari.it

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Rocca delle MacĂŹe di Maria Letizia Tega

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A Rocca delle Macìe a volte sembra di sentire soffiare un vento che arriva dal Piemonte, si respira nell’aria il nome di un imprenditore che ha fatto la storia, lasciandoci troppo presto: Adriano Olivetti. Quella dedizione verso l’azienda, la visione dei lavoratori come una risorsa, come parte di una grande famiglia, la necessità di investire risorse nella cultura e nei giovani, che hanno caratterizzato il geniale e precursore Olivetti, oggi sembrano rivivere in Sergio Zingarelli, patron di Rocca delle Macìe. La sua visione può racchiudersi facilmente in una metafora sportiva a lui cara, mi piace pensare alla mia azienda come ad una grande squadra di calcio: ogni giorno scendo in campo con i miei collaboratori e tutti insieme giochiamo la partita con entusiasmo e determinazione, uniti dal comune obiettivo di fare Gol, dichiara Sergio Zingarelli.

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Rocca delle Macìe nasce nel 1973, quando Italo Zingarelli, il produttore cinematografico di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, e anche della fortunatissima serie di film con la coppia Bud Spencer e Terence Hill, decise di coronare il sogno della sua vita, acquistando la tenuta Le Macìe - 140 ettari di cui solo due coltivati a vigneto - per dare vita ad un’azienda vitivinicola nel cuore del Chianti Classico. L’amore e la passione per la terra toscana vengono tramandate da Italo ai figli Sergio, Sandra e Fabio. Nel 1985, infatti, Sergio inizia a lavorare con il padre e dal 1989, affiancato dalla moglie Daniela, assume la guida dell’ azienda. Da allora, Sergio, in collaborazione anche con la sorella Sandra, consolida e sviluppa l’azienda paterna imponendola definitivamente all’attenzione mondiale con vini che ottengono numerosi riconoscimente sia in Italia che all’estero. Oggi l’azienda dispone di circa 600 ettari di cui oltre 200 coltivati a vigneto e 50 ad oliveto, suddivisi tra le sei tenute di proprietà: Le Macìe, Sant’Alfonso, Fizzano e le Tavolelle nella zona del Chianti Classico, Campomaccione e Casamaria in Maremma nella zona del Morellino di Scansano.

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La storia di Rocca delle Macìe è sempre stata caratterizzata da un solido rapporto con il territorio da un lato e dall’innovazione e la ricerca volte al miglioramento della qualità dall’altro. I suoi successi si fondano innanzitutto su un accurato lavoro nel vigneto e su moderne ed avanzate tecniche di vinificazione ed affinamento nelle cantine, ampliate e rimodernate nel corso degli anni. Rocca delle Macìe oggi produce ben 17 diverse tipologie di vino, una profumata grappa, il Vin Santo e l’esclusivo olio extravergine d’oliva prodotto nel frantoio di proprietà all’interno della Tenuta Riserva di Fizzano. Rocca delle Macìe offre la possibilità di visitare l’azienda e degustare i propri vini in abbbinamento ai piatti più tipici della cucina locale presso il ristorante di proprietà presso la Riserva di Fizzano. Inoltre le strutture ricettive dell’azienda, il Relais Riserva di Fizzano e il Torrione, ricavate dall’attento restauro di antichi borghi medioevali curato dall’architetto Fabio Zingarelli, offrono la possibilità di soggiornare nel cuore del Chianti Classico, immersi in un panorama naturale unico e indimenticabile. I vini prodotti sono i testimoni migliori della filosofia aziendale, improntata su una ricerca costante della qualità: ben 17 referenze, dai cru dell’azienda (Chianti Classico Tenuta Sant’Alfonso e Chianti Classico Riserva di Fizzano), alla Riserva di Chianti Classico Famiglia Zingarelli passando per il Campomaccione Morellino di Scansano e il Vermentino Occhio a Vento, ai due Igt Ser Gioveto e Roccato. Al vino si affiancano gli altri prodotti tipici dell’agricoltura chiantigiana: un olio extravergine di oliva a bassissima acidità (l’azienda conta circa 8mila olivi e dispone di un proprio frantoio), un miele biologico (13 ettari sono destinati a coltivazione floreale) ed un Vin Santo del Chianti Classico.

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Copyright Robin T. Photograpy Š All rights reserved. E’ vietato ogni tipo di utilizzo, diffusione o riproduzione delle immagini di questo servizio.

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nelle foto a destra, fila centrale: Daria Filardo, Simona Gavioli, Sergio Zingarelli e Daniele Cernilli; fila in basso: foto di gruppo, Massimo Cerofolini con Simone Fazio e Donata Cinelli Colombini


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Al ristorante Brunello di Dubai Intervista allo Chef Deff Haupt. Di Fabiola Cinque foto di Claudio Falappa

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Incontrare uno chef europeo a Dubai forse non è unico ma sicuramente un privilegio per pochi. Solo gli hotel più esclusivi hanno chef italiani, francesi o comunque di origine europea, contro la media indiana, filippina o di origini africane ed asiatiche. Ho la fortuna di incontrare lo chef del Ristorante Brunello del Kempinski Palm Jumeirah che preparerà per noi una degustazione di tutti i piatti locali rivisitati dalla sua esperienza. Deff Haupt è nato a Dortmund in Germania e cresciuto vicino Francoforte, va inizialmente a scuola di lingue. La maestra di francese era la migliore amica di sua mamma che l’ha stimolato ad imparare tante lingue diverse. Così Deff si appassiona alle lingue e, oltre alla madrelingua tedesca, impara l’inglese, il francese ed il portoghese. Ama viaggiare e sperimentare diverse attività ma ben presto, e dopo tante esperienze di diversi lavori, capisce che la sue vita era fare lo chef. Così ci racconta: “A 15anni e mezzo ho iniziato a lavorare in cucina ad un Hilton vicino Francoforte. Lo chef dell’hotel mi ha stimolato molto ad imparare e dopo tre anni di apprendimento e il militare, ho deciso di andare in Francia. Qui per sei anni (alla fine degli anni ‘80), ho collaborato con diversi chef francesi, tutti tre stelle Michelin, nei più importanti ristoranti della Francia. La formazione e l’esperienza si arricchiscono attraverso le collaborazioni con Paul Bocuse e Joël Robuchon fino all’incontro determinante con Emile Jung. Qui ho conquistato una mia clientela, tutta di altissimo livello, di cui sono molto orgoglioso, da George W. Bush a Bill Clinton, da Gerhard Schröder a Claude Chabrol. A 26anni, nel 1992, me ne andai a valle Nevado in Cile e nel 1994 in Brasile per seguire il mio amore (la prima moglie è brasiliana) e qui fui chef in una compagnia di ristoranti. Ma 1999 sono tornato in Germania ed ho aperto, creando una società insieme ad altri, il mio primo ristorante Theodor Tucher a Berlino. Anche qui sono venuti personaggi famosi come George W. Bush ed José María Aznar nel 2002, Jacques Chirac e Roman Polański. Ma data la posizione della località, il business dell’attività ci spingeva ad essere un luogo turistico e quindi non mi permetteva più di variare il menù e fare le mie sperimentazioni. Così, nel 2005, ho nuovamente lasciato la Germania per andare a lavorare con una società del gruppo a Montreal, in Canada. Ho viaggiato molto con questa catena finché mi hanno offerto di aprire il loro hotel ad Abu Dhabi e quindi ho iniziato questa esperienza entusiasmante nel 2012 con il Kempinski dove in questi 12 mesi ho avviato il Ristorante Brunello”. Qui la cucina rispetta le tradizioni europee così come quelle locali. Infatti, ci spiega che la carne che prevalentemente si mangia qui, essendo vietato il maiale, è prevalentemente di pollo, vitello, e qualche volta, cammello che è una carne rossa molto fibrosa, magra e abbastanza rara. Ci ricorda che il Ramadan inizia con la luna nuova e dura un mese di 28 giorni. Quando lo incontriamo è la settimana che precede il Ramadan e quindi ci si prepara. Durante il ramadan non si mangia, né si beve o si fuma dall’alba al tramonto, poi il “lufta” è il momento del tramonto in cui si può bere succo di frutta e mangiare datteri. Poi si prega e la notte si può mangiare tutto, il più nutriente ed abbondante possibile. Durante il Ramadan si mangia il tipico “shish taouk”. E ci fa portare tante di quelle specialità, apparecchiate meravigliosamente su un tavolo che poteva accogliere cibo a volontà, di cui cominciamo a sentire il profumo durante la sua descrizione. Assaggiamo i vari sapori, speziati e non, semplici ed elaborati, dove l’arte culinaria originaria da tutto il mondo attraversato nella sua vita, si esprime al massimo della sua poesia.

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Le dimore di Bacco I VINI BACIATI DAL MARE

Piccoli viticoltori per un grande vigneto, quello di Mandrarossa a Menfi nel cuore della Sicilia occidentale. Di Paola Cerana e Giancarlo Roversi

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Secondo i Greci, il vino è opera di un dio, Dioniso, che attraverso la fermentazione penetra nell’uva e in noi esseri mortali, sublimandoci col piacere dell’ebbrezza. Tuttavia, osservando il paesaggio siciliano dove il profumo dei vitigni s’accorda con quello di uliveti, agrumeti e ogni immaginabile ‘ben di Dio’, pare non esserci dubbio: il vino è opera dell’uomo, anzi della donna e dell’uomo. In particolare, la regione attorno a Menfi (AG) è un susseguirsi di morbide vigne che hanno stretto un’amorevole alleanza con il mare africano lambito da spiagge dorate. È una fetta di Sicilia ancora poco frequentata dal grande turismo e questo suo naturale pudore ne accresce il fascino. È qui, tra orti, giardini, bagli e templi senza tempo che la vite trova le condizioni ideali per crescere, benedetta dalla qualità del terreno (da limoso a calcareo, da argilloso a sabbioso), dal calore del sole e dalla brezza del mare (Bandiera Blu). Viene spontaneo inoltrarsi lentamente tra queste colline, sottovoce per non violare il ritmo dei vignaioli che scompaiono dentro l’abbraccio del verde, mentre i trattori colmi d’uva brulicano per le vie. E al cospetto di queste ritualiche cadenze, s’intuisce il pensiero dei Greci: perché la vigna curata dalla mano dell’uomo diventa un fatto spirituale e non solo vegetale.

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Donne e uomini Un territorio vocato alla viticoltura non avrebbe valore senza la passione delle persone che, ogni giorno, coccolano e crescono i frutti della terra. I volti di donne e uomini parlano chiaro: c’è entusiasmo negli sguardi di chi ha deciso di investire risorse economiche e umane qui, a casa propria. È una comunità fondamentalmente rurale questa, forte di una tradizione che si tramanda da generazioni. Una comunità che sorprende per la naturale armonia tra nonni, padri e figli, uniti dall’amore per le stesse radici: i giovani hanno preso le redini di un bagaglio culturale prezioso, arricchendolo con creatività e spirito d’iniziativa. La freschezza portata dalle nuove leve, che s’imbevono d’esperienza all’estero per tornare a casa più forti, è tangibile. Oltre a giocare un ruolo fondamentale nell’organizzazione del lavoro, l’alleanza tra giovani e anziani ha creato un humus socioculturale eccezionalmente fertile. Il ruolo della donna è altresì strategico: la Brigata delle Donne di Menfi, nata dall’esperienza di 25 donne selezionate per la fedeltà alle tradizioni culinarie locali e guidata da Bonetta Dell’Oglio, è portavoce nel mondo di prelibatezze di alta gourmetteria siciliana. Un esempio di come la semplicità possa tramutarsi in alta cucina grazie all’intraprendenza di donne finalmente protagoniste anche fuori casa.

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Settesoli e Mandrarossa Nata nel 1958 a Menfi per iniziativa di un gruppo di viticoltori, Settesoli è maturata sotto la presidenza di Diego Planeta. Non si tratta semplicemente di una Cantina ma di un vero e proprio distretto vinicolo: con 2.000 soci, una superficie vitata di circa 6.000 ettari, quattro stabilimenti e una capacità lavorativa di circa 500.000 quintali di uve l’anno, Settesoli rappresenta la maggiore azienda vitivinicola siciliana nonché il più grande vigneto d’Europa. Il 70% delle 5.000 famiglie presenti qui è coinvolto in Settesoli e questo è un ulteriore punto di forza in un Paese dove è tanto difficile per gli imprenditori riuscire a fare squadra. Questa sinergia favorisce un rapporto qualità prezzo assolutamente competitivo, in Italia e all’estero. Nei vigneti Settesoli sono privilegiati gli allevamenti tipici a contro spalliera e le potature tradizionali, nell’assoluta tutela dell’ambiente. I vini, tutti a Indicazione Geografica Tipica, sono ottenuti da uve selezionate portate a maturazione e vinificate nella zona di origine, che integrano metodi tradizionali e innovazione tecnologica: autoctoni come Nero d’Avola, Grecanico, Grillo, Inzolia e internazionali come Syrah, Merlot e Cabernet Sauvignon. Inoltre, Settesoli è inserita nella Strada Del Vino Delle Terre Sicane, che comprende Menfi, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Margherita del Belice e Sambuca di Sicilia, scenari scolpiti nel tempo e resi eterni dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Mandrarossa rappresenta l’eccellenza all’interno di Settesoli, è una specie di favola divenuta realtà. Il suo nome significa mannara rossa, ossia stazzo rosso, per via del color della terra che dà vita alle uve. Il neo Presidente Vito Varvaro, forte di una lunga esperienza manageriale anche all’estero, è convincente quando afferma che “Le previsioni future prevedono una crescita esponenziale per Mandrarossa, i soci saranno pagati di più e una nuova classe di giovani vignaioli e amministratori emergerà. La neonata Doc Sicilia può essere un trampolino di lancio per l’export su cui dobbiamo investire nuove risorse”. Già vincente in Inghilterra e nel Nord Europa, Mandrarossa rappresenta una sfida anche per gli Stati Uniti e nulla teme dalla concorrenza di Cile e Australia: è straordinario che una regione italiana tenga testa a intere nazioni. Mandrarossa opera come una grande famiglia allargata che, grazie a un’intensa attività di sperimentazione in vigna, ha maturato vitigni autoctoni e internazionali. Così, accanto ai classici Nero d’Avola e Grecanico, si coltivano gli internazionali Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Chardonnay e i più sperimentali Viogner, Fiano, Sauvignon Blanc, Chenin Blanc, Petit Verdot e Alicante Bouschet. I nomi dei vini Mandrarossa alludono al profondo legame con il territorio e parlano di contrade, di mare e di zolle. Ma è solo sorseggiando un Urra di Mare o un Santannella, un Timperosse o un Cartagho che le parole incontrano il piacere del buon bere. Il Mandrarossa Vineyard Tour Settembre è il periodo più bello per visitare il Menfishire. Durante la vendemmia tutta la campagna è in festa, le vigne sono fulgide e la comunità celebra la vita, dedicandosi alla raccolta delle uve alle prime luci dell’alba o la notte, quando l’aria è fresca. Il Mandrarossa Vineyard Tour anche quest’anno - dal 4 all’8 settembre - ha aperto le porte delle case dei vignaioli ai visitatori. Un viaggio multisapore articolato in degustazioni, laboratori sensoriali, eco tour a cavallo, in kayak, in veliero o in deltaplano, insieme a tanti momenti dedicati al contatto con la gente, per scoprire i segreti del dialogo tra persone e territorio. L’accoglienza è emozionante e insieme ai sapori dei piatti e ai profumi dei calici, si apprezza la generosa spontaneità degli abitanti. Piccoli resort, agriturismi e B&B immersi nel verde

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offrono un’atmosfera calda e famigliare che fa sentire a casa, mentre i ristoranti corteggiano i palati più esigenti con armonie di mare e terra, condite con oli e vini locali. Il piacere della vita agreste s’anima nelle case di campagna - salotti all’aria aperta e dimore d’autentico buon gusto - e il Mandrarossa Vineyard Tour ne propone un vasto assaggio. Imperdibile è Casa Natoli, splendido baglio del 1830 e sede della Cucina Mandrarossa, che incanta con gli affreschi interni, il cortile lastricato e la fioretta, un rigoglioso giardino di piante secolari e palmizi. Mentre a Casa Mangiaracina, Casa del Grano e dell’Olio, si può degustare il pane prodotto con il lievito madre, grigliato e condito con olio da olive Nocellara, Biancolilla e Cerasuola, in abbinamento al Cavadiserpe; a Casa Lombardo, Casa dell’Orto e delle Erbe, si assaggiano le verdure appena colte, cucinate sulla brace e insaporite con olio e sale marino, in abbinamento al Santannella; nella Pineta Molinari, Casa del Mare, il pesce appena pescato è servito in abbinamento al fresco Urra di Mare, di fronte a una spiaggia che incanta. E dopo una giornata squisitamente bucolica, al calar del sole prende vita Villa Varvaro, Casa dell’Arte e della Musica: elegante dimora ottocentesca nel cuore Menfi, dove si ascolta musica brindando alle stelle.

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DOVE DORMIRE Casa Mirabile www.casamirabilerelais.it Tra le soffici colline di Menfi sorge l’Antico Baglio di Casa Mirabile. Completamente restaurato, il Relais offre tutto il gusto della sicilianità condita dal sorriso del padrone di casa, Lillo Barbera, che vizia gli ospiti con le aragoste appena pescate, le inimitabili caponate e un’infinità di sposalizi tra invitanti effluvi di terra e di mare. E dopo i vizi, una bella piscina all’ombra degli ulivi sazierà definitivamente ogni desiderio.E’ un piccolo angolo di paradiso indicato oper chi ama ritemprearsi lo spirito, ma anche il corpo grazie appunto alle tentazioni gastronomiche di Lillo tutte ispirate alle fragranze della tradizione siciliana tra cui il pane cunzato che alla prima colazione lo stesso patron prepara per deliziare e dare il buon risveglio ai suoi fortunati ospiti. Il Vigneto www.ristoranteilvigneto.com Si trova anch’esso a Menfi, a circa 1 km dal mare. Per la sua ottima posizione e la tipologia dei servizi è l’ambiente ideale per chi desidera una vacanza all’insegna della tranquillità senza rinunciare allo sport nella natura. Le camere e la suite con vista su mare e campagna si traducono in spazi dedicati al godimento estatico più assoluto. Casina Miregia www.casinamiregia.it Questo piccolo Relais adagiato sulle colline di Menfi offre, insieme alla squisita ospitalità, tramonti mozzafiato che inebriano gli occhi ed emozionano il cuore, mentre il corpo è coccolato dai sapori buoni della cucina. DOVE MANGIARE Da Vittorio www.ristorantevittorio.it Il Ristorante Albergo Da Vittorio, a Porto Palo di Menfi, si articola in due spaziose sale, una interna e una affacciata sulla spiaggia sabbiosa. Propone piatti della migliore tradizione locale, dagli antipasti di pesce crudi e cotti fino ai dolci di mandorle. La carta dei vini è altrettanto golosa e spazia tra le più note etichette del panorama enologico siciliano. Vittorio opera nel settore della ristorazione sin dai primi anni settanta e da allora non delude mai: impossibile non tornarci. Hostaria del Vicolo www.hostariadelvicolo.it Il Ristorante nasce con Nino Bentivegna nel 1985, nel cuore di Sciacca. L’accoglienza e il menù mescolano sapientemente raffinatezza e semplicità, fedelmente alla tradizione siciliana. I sapori di pesce, pasta e carni sono valorizzati da una presentazione che appaga l’occhio prima del palato. Particolare attenzione è dedicata a piatti vegetariani e senza glutine nonché, naturalmente, alla selezione di vini locali, connubio perfetto per piatti perfetti. Enoteca Strada del Vino Terre Sicane www.sistemavinomenfi.it Nello storico Palazzo Planeta di Menfi, l’enoteca, in collaborazione con SI.STE.MA Vino (associazione delle aziende vitivinicole del territorio), promuove l’enogastronomia siciliana attraverso eventi tematici e corsi di degustazione, oltre ad essere punto di riferimento per acquistare vini e prodotti della gastronomia locale.

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Informazioni Mandrarossa - Cantine Settesoli SS 115/92013 Menfi (AG) info@mandrarossa.it www.mandrarossa.it www.cantinesettesoli.it

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Il silenzio e l’attesa

Il restauro dei grandi Moai dell’isola di Pasqua narrati dal realismo poetico del reportage di Luca Bracali Di Lamberto Cantoni foto di Luca Bracali

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CoverStory

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Con una certa approssimazione possiamo classificare i reportage attraverso il riferimento a tre sotto generi: i servizi d’attualità, il reportage avventuroso e quello documentarista. Con il primo restituiamo al lettore il reale informativo che arbitrariamente selezioniamo tra i fatti possibili che succedono nella nicchia semiologia pertinente ai nostri interessi immediati. Il secondo coinvolge il fotografo come testimone oculare di un reale in divenire il cui intreccio si annoda intorno ad una istanza narrativa dal forte contenuto passionale. La definizione della terza dimensione del reportage e’ un po’ piu’ complicata: nell’effigie del reale fattosi documento, riconosco un desiderio di mostrare le cose come sono, evitando l’abbellimento che altera l’integrità/autenticità della realtà. Mi rendo conto che l’arbitraria e provvisoria decostruzione del concetto di reportage proposta risulta alquanto traballante. In quasi tutte le esperienze di testimonianza fotografica entrano in gioco l’attualità, l’avventura e il documento. Tuttavia siamo in grado di cogliere le diverse sfumature di significato tra le riprese di un paparazzo che segue come un’ombra un personaggio pubblico documentandone le banalità o le stranezze; i coraggiosi scatti di un fotografo che riprende una drammatica scena di guerra; e il naturalista che documenta con infinita pazienza i rituali di un animale, la crescita di un vegetale, lo stato di un frammento dell’ambiente che sta attraversando. Se dovessi definire la struttura di senso che connette tutte le forme di reportage documentabili opterei per l’istanza narrativa che mi pare evochi sia come significanza implicita dell’immagine (che rimanda ad un’altra immagine) e sia come dipendenza nei confronti della didascalia. Per quanto riguarda l’estetica del reportage si può osservare un doppio movimento: da un lato il desiderio di fedeltà al reale sembra orientare la documentazione visiva di un servizio lungo una strada stretta non percorribile insieme alle dimensioni che normalmente definiamo artistiche. Da questo punto di vista il reportage dovrebbe privilegiare l’utilità sociale della testimonianza sulla veridicità di un evento, oppure

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dovrebbe funzionare come una sorta di denuncia...In breve un reportage dovrebbe utilizzare le immagini per un sapere utile (alla conservazione o al cambiamento, non importa). Ma se osserviamo la storia della fotografia non possiamo non accorgerci che gli effetti di progetti di reportage dichiaratamente allestiti con lo scopo di documentare il reale, in realtà hanno funzionato dal punto di vista del loro impatto sul pubblico anche come un potente dispositivo estetico. Penso alle immagini di W.Evans e D.Lange commissionate dalla Farm Security Administation sulle desolanti conseguenze della crisi economica tra gli agricoltori degli Stati Uniti negli anni trenta. Ma potrei citare le foto di L.Hine di inizio novecento sulle spaventose condizioni dei lavoratori a New York. Per non parlare dell’impatto sulla sensibilità del pubblico dei fin troppo celebrati reportage dei fotografi Magnum (Seymour, Cartier-Bresson,Capa, Rodger, Bishop, E.W. Smith etc.). A distanza di decenni quando guardiamo queste immagini non pensiamo a tracce del reale ma a vere e proprie epifanie fotografiche che aldilà del loro effetto documento ci impressionano per la loro forza persuasiva, per la capacita’ di mobilitare le nostre emozioni , per il loro rigore, per la loro bellezza. Il servizio sulle grandi sculture en plein air dell’isola di Pasqua di Luca Bracali si ricollegano a ciò che sopra ho definito il reportage avventuroso. Ovviamente mi rendo conto della fragilità del nostro linguaggio: perché non definire queste immagini semplicemente con un riferimento alla documentazione naturalistica (i Moai dell’isola sembrano oggi appartenere piu’ alla natura che alla cultura degli attuali indigeni)? In definitiva le foto di Luca Bracali sarebbero state a casa loro su una rivista come National Geographic che in effetti ha pubblicato in home page la notizia in anteprima. Dal punto di vista tecnico sono perfette, la spazialità e l’estetica di molti scatti familiarizzano con i celebri reportage naturalisti della mitica rivista americana.

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Ma nello stile di Luca Bracali trovo sfumature che non sempre sono riscontrabili altrove. Per esempio, senza rinunciare alla precisione e alla spazialità rispettivamente della foto documento e dell’immagine naturalistica, il fotografo sembra spingerci sino al contatto con l’oggetto-soggetto che sceglie di mettere davanti al mirino. Per raggiungere questo effetto non e’ sufficiente la tecnica. Credo dipenda dall’angolazione, dal punto di vista e dal timing preliminari allo scatto. Attraverso la regolazione di queste dimensioni che fanno assomigliare l’atto fotografico ad una ripresa cinematografica il fotografo riesce a trasmetterci qualcosa che trascende l’istanza documentarista; qualcosa che potremmo definire la poesia dei Moai. E’ chiaro che il sevizio sull’isola di Pasqua aveva ragioni di partenza oggettive che andavano rispettate. Si trattava di documentare l’eccezionale lavoro di restauro effettuato dal prof. Lorenzo Casamenti della scuola Lorenzo de Medici di Firenze. Se osservate con attenzione le foto pubblicate da Creativity che accompagnano le mie parole spero che noterete quanto il lavoro degli archeologi-restauratori sia mostrato con grande precisione. Ma anche in queste immagini mi pare di scorgere l’impronta dello sguardo del fotografo che avvicinerei al realismo poetico dei reportage di Doisneau, W. Ronis e Boubat. Quando guardo le foto dei restauratori ho la sensazione di percepire l’amore necessario per rendere delicato e deciso l’atto di rimozione delle muffe che mangiano la pietra. Mi pare di poter indovinare il senso della partecipazione del fotografo sulla scena. Esattamente come quando riprende il Moai in sito riesce a trasmetterne la presenza, a trasformare l’ammasso di pietre in volti che comunicano la poesia del silenzio di una attesa infinita.

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Quanto c’è di calcolato dal fotografo in questi effetti legati alla fruizione delle immagini e quanto c’è di soggettivo (ovvero di mio)? Impossibile dare una risposta coerente. Tuttavia il caldo umanesimo che trasuda da tutte le immagini di Luca Bracali mi fa congetturare che la sua scelta di stile che ho evocato nei termini di realismo poetico, non sia solo una sorta di preferenza legata alla configurazione delle forme, ma significhi un impegno in termini di disposizione del contenuto. L’esperienza dell’avventura che ho avvicinato al concetto di reportage in ultima istanza e’ la creazione di un incidente di percorso che coinvolge tre elementi co-presenti nell’occhio-obiettivo del fotografo: l’oggetto e il suo contesto, il cuore del fotografo (le emozioni che prova anche se si costringe a negarle nel nome dell’obiettivita’ fotografica) e l’ombra del pubblico che guarderà quell’immagine, in questa fase originaria (e quindi mitica come tutte le origini) presente nella mente dell’autore come pura promessa di senso. Mi piace definire la sincronia tra i tre elementi una avventura per la sua improbabilità (altrimenti non esisterebbero i fotografi della domenica) e per la sua casualità. Ma non tutto ciò che e’ casuale avviene per caso. Ecco perché le foto di Luca Bracali mi trasmettono, W. Benjamin mi perdonerà, un’aura di maestria che si accompagna al forte sentimento di attesa per una narrazione che non c’è dal momento che e’ esattamente il lavoro mentale che l’autore vuole con cortesia e piacere impormi.

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Indistruttibile come la pietra. Questo detto popolare pare non troppo vero o quanto meno è anacronistico rispetto a quanto accade dall’altra parte del mondo. Sono i Moai, le gigantesche statue dell’isola di Pasqua a lanciare l’allarme e, pur nel loro enigmatico silenzio, mostrano tangibili segni di sofferenza. È il lichene il loro male, un fungo che si radica dentro la pietra, penetra in profondità e con il tempo provoca la frammentazione della pietra stessa ed il conseguente distaccamento di parti più o meno grandi. Sebbene negli anni passati questo problema fosse già stato affrontato e con importanti esborsi economici da parte del governo, la soluzione praticata non ha dato nel tempo i risultati sperati. La pietra dei Moai si è nuovamente macchiata di chiazze giallo-grigiastre, segno evidente dell’attacco di nuovi licheni e, per cercare una soluzione valida al problema, si è aperta una sorta di gara d’appalto dove questa volta sono stati gli italiani a spuntarla. Il Conaf, la massima autorità dell’isola che gestisce il patrimonio archeologico di Rapa Nui, ha cosí incaricato la scuola Lorenzo de Medici di Firenze, presieduta dal celebre Fabrizio Guarducci, di effettuare il restauro prendendo in analisi uno degli esemplari maggiormente danneggiati, il Moai solitario che si erge sulla collinetta della spiaggia di Anakena, proprio quello ri-eretto da Thor Heyerdal nella sua spedizione Kontiki del 1955. “Ci sono voluti oltre un paio di anni di studio - ci spiega il prof. Casamenti, responsabile del restauro della Lorenzo de’Medici - per mettere a punto in collaborazione con la CTS di Vicenza uno speciale biocida in grado di attaccare quel particolare tipo di lichene, e randicandolo in maniera definitiva dalla pietra”. L’intervento è perfettamente riuscito, ma lo scopo del progetto è stato anche un altro, quello di insegnare questo trattamento ai Rapanui, gli abitanti dell’isola, in modo che possano esser loro stessi anche in futuro ad intervenire direttamente sui Moai, preservando così la naturale bellezza del loro più grande patrimonio artistico e culturale.

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Informazioni www.lucabracali.it Istituto Lorenzo de’ Medici www.lorenzodemedici.it Copyright Luca Bracali © All rights reserved. È vietato ogni tipo di utilizzo, diffusione o riproduzione delle immagini di questo servizio.

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Fashion

Damiani style Di Roberta Filippi

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L’avventura dei Damiani comincia quando nel 1924 Enrico Grassi Damiani, gioielliere di fiducia delle più importanti famiglie piemontesi decise di creare la propria azienda. Per tutti gli anni a venire, Damiani si afferma nella gioielleria italiana come massima espressione di classicità, equilibrio e preziosità. Damiano, figlio di Enrico, continua la tradizione di famiglia, facendosi guidare da una grande creatività e da un alto spirito imprenditoriale: gioielli dallo stile inconfondibile e inalterabile nel tempo, con un forte investimento nella ricerca e nella creazione di nuove soluzioni. L’abilità nel lavorare l’oro bianco e la creatività nel design, permisero ai Damiani di diventare un punto di riferimento per tutto il settore. La loro capacità di innovare all’insegna della qualità divenne mitica. Le lavorazioni dei gioielli e le rifiniture erano perfette. La cura nella ricerca dei materiali preziosi, impreziosita dalla collaborazione di esperti gemmologi, non ha mai conosciuto cedimenti. Comprare e indossare un gioiello Damiani divenne qualcosa che andava aldilà della preziosità del bellissimo oggetto. Indossare Damiani significava aderire ad uno stile di vita raffinato, elegante, distintivo.

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Probabilmente i Damiani sono tra i pochi gioiellieri capaci di trasformare un prodotto di élite in un’esperienza che mette in gioco valori che trascendono le normali funzioni del gioiello. Nel tempo l’azienda si trasformò in un brand conosciuto in tutto il mondo e pur mantenendosi fedele alla tradizione di alto artigianato delle origini cominciò a diffondere concept store nelle città più importanti. Nel 2002 Damiani entrò nel settore dell’orologeria con prodotti di eccezionale contenuto di design, disegnati dall’ufficio stile dell’azienda. Probabilmente il segno della eccezionalità di questa azienda leader del made in Italy è ben rappresentato dai numerosi De Beers Diamond International Award (i premi Oscar al gioiello) vinti dalla famiglia giunta, oggi, alla terza generazione. Di questo prestigioso premio Damiani ne ha vinti 18, come nessun’altra azienda al mondo. Tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ’90, Damiani progetta e realizza con successo un nuovo stile di comunicazione che associa l’immagine dei gioielli a personaggi di grande notorietà, individuati prevalentemente nel mondo del cinema e dello spettacolo: i testimonial vengono ritratti dai migliori fotografi del mondo e associati all’immagine dei prodotti Damiani. Nella comunicazione di Damiani

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si sono avvicendati personaggi noti come Isabella Rossellini, Brad Pitt, Nastassja Kinski, Milla Jovovich, Gwyneth Paltrow, Sharon Stone e Sophia Loren. Oggi il gruppo Damiani, guidato dai nipoti del fondatore, oltre ad essere leader incontrastato nel mercato italiano della produzione e commercializzazione dei gioielli, sta velocemente espandendosi nel mercato globale del lusso. L’avere saputo fondere tradizione con l’innovazione ha garantito alla marca autorevolezza e spettacolarità, trasformandola in un prezioso testimonial del Made in Italy. L’artigianalità e il design dei gioielli Damiani Dall’idea al prototipo Presso lo Studio Disegnatori del Laboratorio Damiani, perviene il design del gioiello realizzato dallo studio design Damiani di Milano: si tratta di un disegno realizzato a mano libera, in alcuni casi prospettico a due dimensioni, in altri casi semplicemente dato da uno schizzo tracciato a penna o matita. Il disegno viene successivamente modellato in 3D dai disegnatori CAD dell’azienda che, grazie a programmi specifici e macchine prototipatrici, creano accurati modelli manufatti: il disegno prende “virtualmente” forma.

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Dal prototipo dei gioielli Damiani alla produzione in serie Con lo stampo del prototipo, che può essere in ottone, in cera o in resina, si dà inizio allo sviluppo della produzione in serie: tutte le gomme, controllate nella loro corretta funzionalità, vengono numerate, catalogate e archiviate al reparto cera. Reparto cere, inizio della produzione dei gioielli Damiani In questo reparto si utilizzano macchine ad iniezione di cera liquida, sottovuoto, con le quali si producono in serie le cere necessarie per la produzione. Radunate per ordini e quantità, le cere vengono poi montate sul cosiddetto “alberello”: da un basamento in gomma si erge il “tronco” in cera, dal quale si diramano i vari “rami” alle cui estremità sono fissate le cere. Microfusione a cera persa Dopo aver rivestito l’alberello con del gesso per fusione, si procede allo scioglimento delle cere inglobate nel gesso tramite calore. Dopo un lungo procedimento, si attiva il meccanismo di fusione sottovuoto, attuando la colata dell’oro nel gesso per colmarne ogni forma vuota. Dopo opportuno raffreddamento, dal laboratorio fusione si passa al banco da lavoro, step successivo nella realizzazione del futuro gioiello Damiani. Lavorazione al banchetto Realizzata la fusione, i prodotti vengono raccolti e catalogati per ordine e distribuiti agli orafi, che hanno il compito di rifinire l’oggetto e successivamente assemblare il gioiello Damiani con metodi di saldatura tradizionale. Le creazioni vengono punzonate e marchiate al banco per indicare il marchio di fabbrica, il titolo della lega e il marchio d’identificazione. Il gioiello Damiani assemblato passa poi nelle mani delle pulitrici e dei controlli di qualità, effettuati per ogni processo di lavorazione. Reparto incastonatura Le pietre preziose e i diamanti Damiani, prima di essere incastonati, vengono opportunamente analizzati e selezionati. Tra le gemme maggiormente utilizzate: zaffiri, rubini, smeraldi, acque marine, onici, ametiste, quarzi, turchesi, perle bianche, nere e rosè e diamanti, i simboli per eccellenza della gioielleria Damiani. Rodiatura L’ultima fase eseguita sui gioielli Damiani in oro bianco o platino è la rodiatura, un bagno in cui si riveste la superficie del metallo di un sottilissimo strato di rodio, che contribuisce ad aumentare la luminosità e lucentezza dell’oro bianco o del platino. Dalla fase iniziale a quella esecutiva, gli artigiani compiono un lavoro fatto di scoperte e segreti custoditi gelosamente, che ogni maestro ha acquisito con l’esperienza e che portano alla nascita di creazioni uniche, come uniche sono la sapiente artigianalità e il raffinato design dei gioielli Damiani, prodotti interamente italiani che hanno fatto del marchio un ambasciatore del Made in Italy nel mondo. Damiani S.p.a. Piazza Damiano Grassi Damiani, n.1 15048 Valenza

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Italia Independent Di Roberta Filippi

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Lapo Elkann, nell’edizione di Pitti (la fiera di moda maschile di Firenze) del 2007 disse ai giornalisti che lo incalzavano, di aver avuto l’idea di I-I, quando cominciò a ragionare sulle conseguenze dell’impatto della globalizzazione sul mito della tradizione italiana nel design e nella moda. A suo avviso il famoso Made in Italy aveva bisogno di manutenzione. Andava quindi aggiornato, messo al passo con i tempi, con forti innesti di creatività. Gli stereotipi del passato cominciavano a rivelare problemi seri. Bisognava innovare e in qualche caso rompere con la tradizione. I tradizionali appelli alla qualità evidenziavano problemi di sintonia con la rapidità dei cambiamenti globali. Bisognava pensare a un Made in Italy 2.0. Lapo Elkann, pur essendo uno degli italiani più famosi al mondo, dimostrò di essere poco incline ai proclami ad effetto. Per dimostrare la sua coerenza tra il dire e il fare, lanciò la sua azienda di ricerca, proponendo una serie di prodotti/concetto che proiettavano nel reale le idee enunciate sopra. In cosa consiste l’innovazione per I-I? Innanzitutto nel sperimentare e usare nuovi materiali. Come esempio posso citare il tuxedo jacket, il vaso in tessuto, la borsa in Klevar, gli occhiali in carbonio. Poi mixare gli stili, evitando l’eccesso di coerenza che produce il déjà vu a rischio di banalità. L’appello alla eterogeneità aiuta il progetto a trovare l’algoritmo creativo che allude alla differenza. Senza differenza subiamo la noia delle ripetizioni. Uno dei prodotti che meglio esibisce la visione di I-I sono gli occhiali. Fin dal primo modello fatto interamente in carbonio, l’applicazione del principio di innovazione e creatività del design, ha prodotto oggetti che hanno rivoluzionato l’occhialeria di qualità. Anche l’abbigliamento focalizzato su capi basici, si distingue per l’utilizzo di tecniche costruttive originali, in sintonia con una ricerca di stile d’avanguardia capace di trasformare una semplice felpa o t-shirt in un oggetto di tendenza. La particolarità dell’azienda è di non avere limiti applicativi. I-I sembra capace di rivitalizzare qualsiasi prodotto, proiettandolo su una scena dominata da una forte percezione di contemporaneità aperta al futuro. Devo dire che le parole dette da Lapo Elkann al Pitti, quando annunciò l’inizio della sua avventura imprenditoriale sembrano a tutti come una sorta di profezia e come tale poco realistiche. Ebbene bisogna riconoscere che ogni tanto le profezie si avverano. Storia e Milenstones Italia Independent S.p.A., è stata costituita il 1° agosto 2006. La nascita del brand Italia Independent risale al gennaio 2007, con la promozione ed il lancio di un unico prodotto dalle caratteristiche innovative e cioè un occhiale da sole realizzato a mano in Italia in fibra di carbonio, al prezzo di 1.007 Euro. La strategia del Gruppo è stata fin dall’origine di focalizzazione e di differenziazione, con l’obiettivo di ottenere la massima attenzione a livello mediatico sul brand Italia Independent e di veicolare la diffusione della “filosofia” del brand. Nel giugno 2007, i fondatori del Gruppo danno vita all’agenzia Independent Ideas al fine di capitalizzare le proprie expertise nelle attività di comunicazione. Sempre nel 2007 il Gruppo acquisisce una quota di minoranza pari al 17,5 % della società

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We Care S.r.l., detentrice del marchio Care Label, specializzata nella produzione di denim di alta qualità, a fronte della prestazione di attività di supporto nella attività dibranding, comunicazione e sviluppo prodotto. Nel 2008 viene costituita la Società, concepita come holding a capo del Gruppo, attraverso la quale sono state razionalizzate le attività imprenditoriali di Lapo Edovard Elkann, degli altri soci fondatori e del top management del Gruppo nel campo dell’occhialeria, del design e della comunicazione. Il 2008 è anche il primo anno in cui il brand Italia Independent ha una diffusione significativa, con il lancio della prima collezione di occhiali da sole e di alcuni prodotti di abbigliamento, oltre a segnare l’inizio delle prime collaborazioni con importanti brand quali Borsalino (cappelli), Arfango (scarpe), Iveco (automobili) e Pantofola d’Oro (calzature). L’agenzia Independent Ideas stabilisce inoltre nuove relazioni professionali con partner creativi internazionali e incomincia a sottoscrivere accordi con i clienti terzi, tra cui Breil, Fox, La Stampa, Levi’s, Moschino, Meltin’Pot, Pantofola d’Oro, Film Commission Torino Piemonte. Viene altresì avviata l’attività della start-up I Spirits S.r.l., di cui il Gruppo possiede il 50% del capitale sociale, per la produzione di una vodka italiana a marchio I Spirit Vodka, sviluppata con Arrigo Cipriani e Marco Fantinel e con il supporto del Gruppo nella definizione della corporate identity e del brand. Nel 2009 il Gruppo decide di concentrarsi sul core business dell’occhialeria concedendo in licenza la produzione dei capi di abbigliamento alla società Brama Sportswear. Nel settore dell’eyewear, il Gruppo introduce i primi modelli di montature da vista e l’inizio di una gestione integrata e diretta del modello organizzativo. La distribuzione raggiunge circa 220 clienti in Italia e viene avviata anche la distribuzione all’estero; viene inoltre aperto un temporary store a Saint Tropez. Parallelamente, alle collaborazioni con Arfango e Borsalino, che proseguono,

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si aggiungono quelle con Spy (azienda produttrice di maschere da sci) e Alfa Romeo. Sempre nel 2009, il Gruppo costituisce Sound Identity S.r.l., di cui il Gruppo possiede il 30% del capitale sociale, agenzia specializzata in progetti di comunicazione basati sulla musica. Independent Ideas continua il proprio sviluppo acquisendo nuovi clienti, tra cui Virgin Radio (per la quale crea la campagna “Rock Save Italy”) e Fiat, con cui realizza il progetto “Fiat 500 by Diesel”, grazie ai quali ottiene visibilità a livello nazionale e internazionale. Nel 2010 la gamma di prodotti di Italia Independent viene allargata attraverso la presentazione dei primi occhiali in velluto (I-velvet). La rete di distribuzione raggiunge circa 650 clienti in Italia e prosegue l’espansione anche all’estero. Vengono inoltre avviate nuove collaborazioni con Dinh Van (società che produce gioielli da uomo), Meritalia (attiva nel campo dell’arredamento), Diesel (jeans) e Vans (azienda calzaturiera). Il Gruppo continua a prestare grande attenzione agli aspetti legati alla comunicazione, con il restyling del sito www.italiaindependent.com e l’ulteriore espansione della struttura di Independent Ideas, che acquisisce, tra gli altri, i clienti Vogue Italia, Skitsch e La Rinascente. Sul piano commerciale, il Gruppo sottoscrive un contratto di licenza che prevede la possibilità di utilizzare il marchio storico “Fiat 500” c.d.“vintage” per lo sviluppo di specifici elettrodomestici e mobili di design. Nel 2011 il Gruppo estende ulteriormente l’offerta di prodotti introducendo sul mercato la famiglia di occhiali I-thin e allargando la gamma di modelli e i colori disponibili. La distribuzione raggiunge circa 1.000 clienti in Italia. Vengono inoltre sviluppate nuove collaborazioni con Orciani (produttore di cinture), bStripe/Blossom (produttori di sci), Toy Watch (orologi) e Meritalia (collezione arredamento ispirata alla Fiat 500 storica). Nel 2011 vengono inaugurati anche i primi negozi monomarca in franchising ad Alassio, Alessandria e Courmayeur e prendono avvio la campagna di comunicazione con i personaggi storici e la campagna “Be Independent. Everywhere” in Giappone e Scandinavia. Per maggiori informazioni si rinvia alla Sezione Prima, Capitolo 6, Paragrafo 6.1.3.4. Prosegue ancora la crescita di Independent Ideas, il cui portafoglio clienti si allarga a Bic, Gucci, Caffè Vergnano, Unicredit e Pinko. Il Gruppo si espande con la costituzione di Independent Value Card S.r.l., società di cui il Gruppo detiene il 50% del capitale sociale e il cui core business è il design di carte di credito con combinazioni di materiali pregiati o tecnici. Lo sviluppo del Gruppo continua nel 2012, grazie all’introduzione della famiglia di occhiali I-cons e della famiglia I-teen, prima famiglia espressamente pensata per bambini e teenagers. La rete di distribuzione del Gruppo conta circa 1.400 clienti in Italia e si consolida la presenza anche all’estero. Nel corso del 2012 vengono avviate nuove collaborazioni con importanti partners, tra cui Juventus (relativamente alla creazione di occhiali per la vittoria del campionato di calcio di Serie A nel 2012, replicata nella stagione 2012/2013), Eclectic (giacche da uomo), Invicta (borse), K-way (giacche sportive), Bear (costumi), Mark Mahoney (linea occhiali dedicata), Victoria’s Secret (linea occhiali dedicata), Smeg

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(frigoriferi), Vertu (telefoni cellulari) e Able to enjoy (carrozzine per disabili). Prende altresì avvio il progetto “shop in shop”, ossia l’allestimento di corner Italia Independent presso ottici selezionati, con l’obiettivo di creare traffico presso gli stessi e aumentare le vendite di occhiali. Vengono inoltre inaugurati 5 nuovi negozi monomarca in franchising a Bergamo, Porto Montenegro, Bologna, Torino e Sestriere, oltre che il primo outlet presso la sede di Torino. Alla fine del 2012 termina la licenza concessa alla società Brama Sportswear per la produzione dei prodotti lifestyle ed il Gruppo avvia la produzione internamente. Il Gruppo inizia il processo di internazionalizzazione del marchio: nel settembre del 2012 viene costituita Italia Independent USA Corp. con sede a Miami per la gestione del mercato americano e unità locali in Francia e Spagna; sono altresì conclusi alcuni contratti di distribuzione in Medio oriente, Giappone e altri paesi. Continua lo sviluppo di Independent Ideas, che sottoscrive nuovi importanti contratti, ad esempio con Ferrari, Baglietto, Juventus, Jeep, Smeg, Vertu.

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Lapo Edovard Elkann (Presidente) nato a New York (U.S.A.) il 7 agosto 1977. Dopo aver studiato negli Stati Uniti e essere stato assistente di Henry Kissinger, è divenuto Brand Promotion Manager di Fiat Auto grazie all’energia e alla creatività che infonde nei suoi progetti e nel marketing below the line. A partire dal 2006 ha deciso di dedicarsi al settore della moda e del brand management attraverso la creazione del brand Italia Independent, e ha poi fondato l’Emittente. Collabora con Ferrari S.p.A. sul progetto Ferrari Tailor Made. Andrea Tessitore (Amministratore Delegato) nato a Torino il 25 maggio 1973. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Torino, ha ottenuto un LLM alla University of Virgina School of Law e dal 2001 è membro della New York State Bar Association. Ha poi lavorato nel dipartimento M&A and Finance degli studi legali Latham e Watkins e Gianni

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Origoni dal 1999 al 2004. Andrea Tessitore è attualmente Amministratore e Group Chief Executive Officer e siede nel Consiglio di Amministrazione di diverse società, tra cui I Spirits S.r.l., Independent Ideas S.r.l., e Tecnologie per l’Energia S.r.l. Alberto Fusignani (Amministratore – Managing Partner Communication) nato a Novara il 12 ottobre 1978. Dopo aver conseguito la laurea in Economia nel 2001 Alberto Fusignani ha iniziato la propria attività nel industria pubblicitaria presso gli uffici di Milano di Saatchi & Saatchi. Dal 2003 ha collaborato in Fiat Auto nel team di Lapo Edovard Elkann come Event Manager del gruppo Fiat. Nel 2006 è stato nominato direttore dell’area marketing below the line di Lancia. A partire dal 2006 ha preso parte alla fase di start-up di Italia Independent divenendone poi socio fondatore. Nel 2007 ha fondato Independent Ideas di cui è attualmente Chief Executive Officer. Giovanni Accongiagioco (Amministratore – Managing Partner Eyewear e Prodotti Lifestyle) nato a Napoli il 21 aprile 1979. Dopo aver conseguito la laurea in Marketing e Comunicazione, Giovanni Accongiagioco ha ottenuto nel 2003 un MBA presso la LUISS Guido Carli Business School. Ha iniziato la propria attività presso Fiat Group Automobiles in qualità di direttore dell’area marketing below the line per il brand Fiat. A partire dal 2006 ha preso parte alla fase di start-up delle attività di lancio del brand Italia Independent e divenendo socio fondatore e consigliere di amministrazione dell’Emittente e di Italia Independent. Giovanni Accongiagioco è attualmente Amministratore e Managing Director di Italia Independent ed è anche stato membro del Consiglio di Amministrazione di ANFAO (Associazione Nazionale Fabbricanti Articoli Ottici). Pietro Peligra (Amministratore – Managing Partner Business Development and Investor Relations) nato a Vittoria (RG) il 5 giugno 1978. Dopo un’intensa esperienza come brand manager di Vodafone, Pietro Peligra ha lavorato per DN Capital, un fondo di Venture Capital con uffici a Londra e a Palo Alto (California). Pietro Peligra ha lavorato poi per un anno presso Italia Independent S.p.A come CEO Apparel. Si è laureato in Ingegneria nel 2002 e ha ottenuto un MSc in Marketing presso il Cefriel – Politecnico di Milano nel 2003 ed un MBA presso la Harvard Business School nel 2008, dove era presidente dello European Club. Attualmente ricopre la carica di Amministratore e Director of Business Development di Gruppo, gestisce leattività di Investor Relations ed è membro del Consiglio di Amministrazione oltre che dell’Emittente anche di Independent Ideas, di Sound Identity S.r.l. e di Independent Value Card S.r.l Informazioni Italia Independent Group S.P.A. C.so XI Febbraio, 19 - Torino Via Pestalozzi, 4 – Milano

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Colori, grazia e poesia della piÚ antica tradizione dell’alta moda Coreana ambientati nella natura lussureggiante dei paesaggi tropicali. Di Fabiola Cinque

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Nella meravigliosa cornice del Constance Ephelia Resort sull’isola principale di Mahe delle Seychelles, si è tenuta una sfilata di moda della famosa designer coreana: Kim Hye-Soon. Questo particolare evento, the Fashion Show Hanbok, è stato organizzato da Dong Chang Jeong, il Console Onorario rappresentante di Seoul, Corea del Sud, in collaborazione con il Tourism Board delle Seychelles. Questa partnership tra i due paesi, come afferma il Console Onorario, è stata il risultato della visita ufficiale in Corea del Presidente delle Seychelles James Michel. Infatti la collaborazione tra Seoul e Victoria alle Seychelles è stata sempre più forte dopo la visita a Seoul del Presidente James Michel. Queste iniziative vanno ad incrementare i numeri di arrivo dei visitatori provenienti dalla Corea con segnali di crescita positivi. In questa occasione la stilista Coreana Kim Hyesoon ha dedicato una serie di scatti realizzati con modelle creole delle Seychelles che indossavano le sue creazioni, nella meravigliosa ambientazione delle bianche spiagge, incorniciate dalla struttura dell’Ephelia Resort. Da questo reportage è nato un prezioso calendario che raccoglie le suggestive immagini e racchiude tutto il romanticismo e la poesia di questa cultura che si riflette nel bagliore di un paesaggio tra i più belli al mondo. Così abbiamo voluto indagare più a fondo questo personaggio per conoscere e comprendere in modo più completo la sua arte. Ecco che allora abbiamo incontrato la stilista Coreana, ed abbiamo appreso che è la massima esperta della storia del costume della Corte Reale Coreana e Direttrice del “Korea Costume Science Foundation”. Hyesoon Kim è famosa non solo nella sua bellissima terra, la Corea del Sud, ma ha sfilato nelle sedi più rappresentative del mondo come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Whitehall Palace Banqueting House di Londra, a Mosca, a San Francisco, in Argentina, alle Seychelles, in Cina, in Giappone ed in Francia a Parigi ed a Cannes, ma ancora mai in Italia! Ma nel 2008 Hye-Soon Kim ha disegnato una borsa per Fendi che è stata eletta tra le migliori 10 al mondo. Ci sono state diverse collaborazioni con il mondo “tecnologico” come con la Sansung Electronic Design e nel 2012 con la LG “Who” per le cover degli smart phone. Dato che le sue radici culturali sono ben radicate nella sua arte le abbiamo chiesto come crea il connubio tra la tradizione e la tecnologia all’avanguardia. “La silhouette del costume tradizionale coreano è molto importante nel nostro immaginario ed io la rendo il più possibile in accordo ed in sintonia con il nostro modo di essere e la natura che ci circonda. La nuova silhouette che creo riflette i colori e le atmosfere naturali. Negli abiti tradizionali come quelli del Re e della Regina mantengo lo stile, i tessuti e l’iconografia del colore coerenti all’abito tradizionale ma lo interpreto in chiave moderna. E’ soprattutto sulla parte superiore, sul top, che ridisegno con nuova creatività la linea”. Allora le chiedo se anche i materiali e le stoffe adoperate sono tipiche della Corea e Hyesoon Kim ci spiega che per gli abiti del costume tradizionali sono usate solo sete naturali. A queste, lei aggiunge una “pelle di una pianta” che è un suo segreto professionale in aggiunta a tessuti recuperati dalla carta, da foglie e dal legno dei tronchi degli alberi. Anche le tinture sono estratti da piante e producono colori totalmente naturali. “La mia tavolozza di colori si arricchisce grazie ad ogni tipo di frutta e pianta endemica del territorio della Corea, come ad esempio l’uva, dai quali traggo i miei colori. Così anche dalle foglie e dai boccioli di fiori estraggo i colori della natura”.

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da sinistra: Console Onorario Dong Chang Jeong, Fabiola Cinque con il Sindaco e la First Lady Sud Korea e Kim Hye-Soon tra i Capi di Stato della South Kore

Le chiedo il significato del lungo abito denominato appunto “Blossom” e qui lei ci racconta che è un inno alla bellezza della natura ed un abito-augurio. Infatti è dipinto a mano un augurio di lunga vita e felicità, ed in calligrafia cinese sul retro c’è un altro augurio con le tre parole “longevità, felicità, salute”. Per quanto riguarda gli abiti tradizionali del Re e della Regina rispetta i simbolismi, come del Drago per il Re, dipingendoli sul retro della gonna. Prima di salutarci e scambiarci un augurio reciproco, le chiedo se conosce e se le interessa la moda italiana. Hyesoon Kim risponde: “Mi ha sempre affascinato la cultura italiana, e chiaramente la sua moda così famosa nel mondo. Mia figlia è venuta a studiare moda a Milano. Io sono stata invitata in tutto il mondo, così come in Europa sono stata in Manifestazioni importanti a Londra, Parigi ed al Festival del Cinema di Cannes, ma mai a Roma ed alle sue manifestazioni di Haute Couture”. Le

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parlo di AltaRoma e mi auguro che un giorno possa sfilare sulle nostre passerelle. È tanti anni che non abbiamo più stilisti dall’A sia. Una volta ad AltaRoma sfilavano alcuni orientali, ora sfilano tutti italiani fatta eccezione per i due stilisti Libanesi, medio orientali, presenti da diverse edizioni nel programma ufficiale. Il suo calendario è un dono prezioso per me, ed un augurio per un futuro incontro. La poesia e la grazia dei volti sapientemente dipinti, lo sfarzo delle acconciature, lo scintillio dei colori ed il fruscio delle sete ha reso magica la serata. Anche il suono degli strumenti che arricchivano la performance, ed il canto delle modelle, nella rotazione della passerella, ci ha fatto conoscere una creatività, intrisa di delicatezza e sensualità, difficile da paragonare alle nostre ultime passerelle dove tutto, dal colore al suono, è puro chiasso.

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Tradizioni indiane ed arabe fuse al design sperimentale. Incontro con lo stilista ESSA di Dubai. Di Fabiola Cinque foto di Claudio Falappa

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Eccomi nell’atelier ed abitazione di Essa. Accolta ad un piano alto di un palazzo nel centro della città, l’appartamento sembra una galleria d’arte. Infatti qui l’arte è presente in tutte le sue forme: nell’arredo con mobili di design, in fotografie e quadri che rivestono quasi interamente le pareti, e nelle suppellettili ed accessori che padroneggiano lo spazio. Lui è un bell’uomo, molto alto e con una struttura fisica importante, che porta con fierezza i suoi capelli lunghi raccolti dietro la nuca. Essa è di origine indiana, ma dalla sensibilità araba dato che è nato e cresciuto tra gli Emirati Arabi e gli Stati Uniti. Si è anche giudicato, per due anni consecutivi, nel 2011 e 2012, la nomination per “Designer of the Year” di Grazia. Si è laureato con un MBA in marketing management ed economia, poi, grazie alle sue capacità nutrite da esperienze nella moda, ha creato un design dalla fusione dei tessuti e tradizioni locali con regole formali, concetti tradizionali, ed innovazione e sperimentazione. Con tessuti vintage, provenienti da Asia ed Europa dalle rare finiture d’epoca, integrate da cuciture futuristiche, crea “Desert Paradise kaftani” dai colori cangianti ed iridescenti. Altri sono creati in neoprene costruendo volumi nuovi. È un uomo molto socievole ed incuriosito dal nostro “punto di vista” occidentale. Nasce da subito una discussione molto piacevole che si consuma anche a tavola durante un pranzo dove ci fa assaggiare tutte le specialità del luogo in una fusione culinaria che attinge dalla sua cultura indiana d’origine. Essa crea i suoi abiti partendo dalla cultura locale e dalle esigenze che la religione impone. Crea dei caftani con tutte le gamme di colore perché ci spiegava che la donna araba, nel momento in cui può levarsi l’Hijab, l’abito ed il velo nero che la ricoprono totalmente, le piace stupire ed osare, ed il colore è un ottimo veicolo. La collezione dei caftani realizzati da Essa, spaziano dal fucsia al giallo limone, dal verde al blu con cinture o ricami d’oro. La sperimentazione del materiale lo porta a realizzare dei soprabiti in rafia intrecciata, nel colore originale del giallo paglia, o nella tintura del nero con una fodera di seta dal colore verde pistacchio a contrasto che ci ha assolutamente conquistato. Lui gioca con i materiali, compone stoffe a fantasia con sete lucide, ed enfatizza altri contrasti con inserimento di pieghe o sbuffi e arricciature, così come il taglio obliquo che ci sorprende nell’orlo di una giacca. Essa ci ha conquistato con la sua grazia e la poesia del design nelle forme strutturate. Le sue sfilate, di cui ci ha mostrato immagini, sono dirompenti e d’impatto. Siamo certi che se decidesse di venire a sfilare in Europa avrebbe un bellissimo successo. Ma al momento, come dice lui, il mondo è, o passa, da Dubai. Quindi ha modo comunque di incontrare e virtualmente girarlo tutto pur non uscendo mai dalla sua città adottiva. Ed ora che conosciamo un po’ di più la magia di questa metropoli, non possiamo che credergli.

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Il fashion reportage perfetto

The Great Fur Caravan, pubblicato nell’ottobre del 1966, può essere considerato uno dei reportage storici della moda; un monumento al talento del trio Vreeland, Avedon, Veruschka, negli anni in cui Vogue America raggiungeva uno dei culmini del suo secolare successo. Di Lamberto Cantoni

Diana Vreeland aveva le idee chiare su come andavano preparati i suoi famosi reportage di moda. Ecco un breve elenco dei fattori costitutivi di una narrazione visuale di grande impatto, secondo il programma estetico leggibile negli innumerevoli servizi orchestrati dalla celebre direttrice di Vogue: una location prestigiosa o straniante, una modella dalla bellezza stravagante, un grande fotografo sensibile ai valori visivi elevati dalla direttrice al rango di piccoli vangeli di stile, la cura maniacale per la messa in scena di ogni singolo scatto fotografico. Cosa manca a questo elenco? Manca la struttura che li connette, dando ad essi una direzione precisa, in vista di una narrazione pregnante. Ovvero, i fattori elencati presi uno per volta possono certo garantire un buon livello esecutivo. Ma un vero reportage dovrebbe avere una dimensione olistica che trascende la singolarità degli scatti che lo punteggiano. E’ a questo livello logico che mi pare si possa riconoscere il talento del fashion editor, ovvero il contributo forse più rilevante donato da Diana Vreeland alle riviste che anche grazie a lei sono entrate nella storia della moda.

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Come possiamo definire la peculiarità del punto di vista sulla moda di questa grande interprete della messa in scena editoriale del grande stile? Non credo sia una questione di pura conoscenza. Diana Vreeland aveva compreso che la rappresentazione della moda dipendeva soprattutto dalla visione che con la sua non comune fantasia trasformava abiti iconici in potenti narrazioni. In un libro recentemente apparso, Memos (Rizzoli, 2013), Alexander Vreeland, ha pubblicato i rari documenti scritti con i quali la direttrice trasmetteva il suo pensiero ai collaboratori. In molti passaggi e’ sorprendente registrare con quanta passione e determinazione la direttrice seguiva i lavori sul campo di stylist, fotografi e modelle. Quando programmava i reportage di punta della rivista, costringeva i protagonisti, modelle e fotografi, a entrare nelle sue fantasie. Più della fotogenia o della bellezza fotografica sembrava interessata alla recita, all’interpretazione del tipo di donna ideale che secondo la sua opinione doveva emergere dalle pagine di Vogue. Per esempio, nel famoso reportage apparso nel 1966, The Great Fur Caravan, suggerì a Veruschka e Avedon, di leggere uno dei suoi libri preferiti, The Tale of Genij, scritto da Murasaki Shikibu intorno all’anno 1000 Sembra ragionevole supporre che si ponesse l’obiettivo di avvicinare la modella e il fotografo allo stato emotivo favorevole per catturare secondo i modi della fotografia, un concetto di bellezza difficile da afferrare con parole del vocabolario inglese. Quale tipo di bellezza affascinava Diana Vreeland? Sia la parola beauty che glamour non esauriscono certo le possibilità di senso delle immagini che ci ha lasciato. Infatti i giochi di linguaggio centrati sul concetto di Beauty risultano troppo compromessi con il desiderio e, nella vulgata dei discorsi glamour, quasi sempre riconosciamo piu’ la seduzione mielosa che lo chic da ammirare alla giusta distanza. Sfogliando i vecchi numeri di Vogue dei sessanta, dei quali Diana Vreeland e’ stata l’indiscussa protagonista, mi e’ sempre piaciuto trovarvi una grazia che l’editoria attuale sembra avere smarrito. Ma e’ anche vero che Diana Vreeland amava veder emergere nelle foto di moda che licenziava, energia, spirito d’avanguardia, una irriverenza sotto controllo. Potremmo risolvere il problema sottolineando la possibilità dei diversi gradi di fusione tra i concetti sinora enunciati e parlare di una grazia vigorosa, di un glamour che cede qualcosa in disinvoltura per trovare un punto di purezza formale. Insomma, Diana Vreeland propendeva per immagini che irradiassero una scarica di energia (estetica) suscettibile di non dissiparsi subito in uno sguardo di piacere, ma che chiedevano di essere guardate con più attenzione. Non posso sapere se trovate le mie parole convincenti. Quando interroghiamo la bellezza da questa angolazione siamo soli, con il nostro linguaggio privato. Ma se per Diana Vreeland l’immagine della donna ideale familiarizzava con la bellezza della geisha, con questo riferimento qualcosa voleva pur dirci. C’è un concetto nella cultura giapponese che in parte sintetizza le idee che la direttrice ci ha trasmesso con la forza delle sue immagini. Il filosofo Kuki Shuzo, nel suo libro La struttura dell’Iki (Adelphi) ci ha fatto conoscere un concetto, che si apparenta a ciò che noi occidentali definiamo grazia strappandolo pero’ al destino di una categorizzazione rigida. L’Iki e’ un concetto plastico che si riferisce ad un processo estetico: un movimento che porta la naturalezza, passando attraverso la grazia, a sublimarsi in un momento di perfezione formale.

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In nessun reportage curato da Diana Vreeland l’iki della bellezza e’ emerso con tanta grazia e vigore come in The Great Fur Caravan. Il reportage che potete ammirare in tutti suoi scatti pubblicati su Vogue, e’ il racconto di un viaggio nel quale la protagonista incontra l’amore. Le foto di Avedon furono effettuate in alcune isole nel nord del Giappone, dopo lunghe ed estenuanti ricerche, per immergere la moda in contesti che a quel tempo rappresentavano per la maggioranza dei lettori delle vere e proprie scoperte visive. Diana Vreeland era molto rigorosa nei riguardi delle location. Credo di non esagerare se sostengo che fu una delle prime rappresentanti dell’editoria fashion a capire la valenza estetica dello straniamento geografico. Portando l’alta moda nei deserti, tra le rovine di antiche civiltà in Siria, Turchia, Egitto, in luoghi esotici, catturava la fantasia di lettrici avide di avventura, di viaggi favolosi. Con queste sue scelte contribuì a rinnovare l’ecologia per immagini della moda, strappandola ai luoghi metropolitani o alle ambientazioni aristocratiche sino a quel momento dominanti. Se e’ vero che negli anni sessanta anche l’alta moda, non senza resistenze, usciva dai suoi palazzi e scopriva la “strada”, Diana andò oltre, portandola ovunque potesse evocare una realtà da sogno. Molti pensavano che fossero scelte stravaganti. Io preferisco immaginare che questi luoghi improbabili rappresentassero il reale che interessava a Diana: piccoli mondi di natura, storia, arte in dissolvenza incrociata con le astrazioni oniriche delle forme ideali di bellezza. Erano reportage costosissimi, ai quali la direttrice aggiungeva spese faraoniche per dettagli e allestimenti che lasciavano perplessi gli uomini dei numeri della Conde Nast. A tal riguardo The Great Fur Caravan e’ stato definito il reportage più costoso mai prodotto da una rivista di moda. I problemi che Polly Mellen, la editor sul campo, collaboratrice di Diana fin dai tempi di Harper’s Bazaar, dovette risolvere per soddisfare la devastante immaginazione della direttrice, implicavano lunghe e costose fasi di studio e di preparazione. La creatività di Diana Vreeland non si materializzava in un progetto coerente e completo fin dall’inizio. La sua fantasia necessitava di continui feedback con il reale della moda. Per esempio, se apparentemente per un reportage servivano una mezza dozzina di cappelli ne faceva preparare molti di più. Lo stesso per le scarpe e altri accessori. Aveva inoltre una non comune sensibilità per i colori e per le proporzioni che sentiva “giuste” per l’occasione. Spesso la sua ostinazione a rincorrere visioni che solo lei coglieva in anticipo rispetto agli esiti fotografici, la portava a rivedere, rifare, aggiungere, riprogrammare, gettando nella disperazione i collaboratori. Per spiegare o giustificare tutto ciò amava dire: “You must exaggerate in photographs to be unique”. In The Great Fur Caravan, Veruschka doveva interpretare il ruolo della giovane donna innamorata di un giapponese. Era tra le sue modelle preferite. Di origini aristocratiche e con una bellezza fuori dai canoni, aveva due doti che colpirono Diana: amava enormemente trasformarsi e giocare con il proprio corpo; di conseguenza trasmetteva un fascino pieno di energia. Nasceva tuttavia un problema: come fare per metterle a fianco un uomo che assoggettasse la vitalità selvaggia che trasmetteva? Veruschka era una modella altissima per la sua generazione e di grande carattere, come trovare un modello asiatico capace di reggere l’urto che la forza della sua immagine irradiava nel campo fotografico? La direttrice convinse il suoi collaboratori ad effettuare un lavoro di ricerca per niente agevole. Dopo alcuni viaggi a vuoto li

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convinse a concentrarsi sugli atleti che gareggiavano nelle manifestazioni dedicate al sumo. E finalmente individuarono un gigante alto 2,30 m., con l’ossatura facciale giusta per le significazioni che Diana Vreeland cercava: un volto asiatico dai tratti scolpiti che poteva essere letto come espressione di una forza dirompente ma anche come una rassicurante e protettiva dolcezza. Il gigante giapponese e Veruschka componevano una coppia mai vista nelle rappresentazioni della moda. Anche se la modella appare nella maggioranza delle volte sola, sono le immagini che la vedono protagonista insieme al lottatore di sumo ad essere le più significative. Richard Avedon, era uno dei fotografi preferiti di Diana, e non la deluse. Io credo che in questo servizio rinuncio’, almeno in parte, al suo stile, per aderire il più possibile alle fantasie della direttrice. Mise da parte la teatralità con la quale conferiva ironia, intelligenza e vigore alle sue immagini, concentrandosi sulla visualizzazione di una storia d’amore nella quale ritrovare l’immaginario amoroso nel quale Diana credeva. Una donna di grande personalità, bellezza ed eleganza, innamorata, che dona il proprio cuore al suo principe. Avedon sapeva benissimo che Diana con tutte le sue stramberie e stravaganze rimaneva nel suo intimo una donna romantica e passionale. Il reportage doveva anticipare la moda invernale e quindi le riprese furono effettuate in un clima congruente con i contenuti. L’inverno, la neve, il viaggio conferirono agli scatti una bellezza struggente rara negli anni sessanta. Avedon, ancora una volta fece un capolavoro. La presentazione grafica del servizio fu all’altezza dell’interpretazione dei protagonisti e della maestria del fotografo. Non credo di esagerare se annovero questo reportage nella cerchia ristretta dei reportage di moda da non dimenticare. Con i fotografi e le modelle che sapevano come prenderla, Diana Vreeland si dimostro’ generosissima. Henry Clarck, per esempio, oggi deplorevolmente dimenticato, deve moltissimo alla direttrice di Vogue. I suoi reportage pubblicati sulla rivista erano

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fantastici. Non ho dubbi sul fatto che presto verranno riscoperti. Alcuni sono veramente degni di far parte di ciò che, con molto entusiasmo, potremmo definire il canone d’eccellenza della rappresentazione della moda. Non so se questo canone avrà mai la consistenza che un tempo garantiva una sorta di gerarchia delle opere e dei grandi artisti. Se nemmeno l’arte tout court, oggi, riesce a stabilizzare i suoi protagonisti in una assiologia condivisa, e’ difficile immaginare che cio’ avvenga nella fotografia di moda. Ma se mai ci sarà, allora, in questo canone, al trio magico Vreeland , Veruschka, Avedon con The Great Fur Caravan, un posto privilegiato bisognerà assicurarlo. Non posso terminare questo breve commento al sevizio di Vogue senza sottolinearne una dimensione che dopo gli anni della Vreeland e’ andata perduta. Il reportage di moda che vi ho presentato ha un’altra protagonista, forse minore rispetto la fotografia, ma tuttavia ben presente. Mi riferisco alla scrittura in forma di racconto del viaggio per mano di Mary Evans. In quel periodo i reportage di moda volevano farsi leggere e non solo sfogliare. In seguito la moda ha deciso che la scrittura andava allontanata dai suoi domini, per far emergere la forza inebriante delle belle immagini. Gli esiti mi sembrano discutibili. Le riviste di moda sono divenute intrattenimento o poco più. Forse, una moda afasica promette una maggiore aderenza con le logiche del desiderio auspicate da chi la produce. Ma nel tempo tutte queste immagini perfette, senza narrazioni che le ancorino a significazioni emergenti, trasformano il messaggio di stile e bellezza in qualcosa di tossico e indigesto. Per fortuna che ogni tanto mi capita di sfogliare un vecchio numero di Harper’s o di Vogue. Non so voi, ma su di me fanno l’effetto di una sana boccata d’aria fresca dopo giorni di spaventosa umidità.

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Art&Photo

Metafisica dell’Altra Città. Di Lamberto Cantoni

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Il punto di vista di Gilberto Mora sulla fotografia e sulla città, il soggetto che per ora ha esplorato con una certa consistenza, presenta esiti decisamente eccentrici rispetto le abitudini estetiche del momento. In primo luogo la macchina fotografica nella mani di Mora sembra essere uno strumento per disegnare qualcosa di ben determinato, vedremo più avanti di cosa si tratta, che pur partendo dalla realtà verrà lavorato da un secondo tempo concettuale ed estetico, secondo una logica che definirei da bricoleur. Questa dimensione di gioco mi sembra assolutamente rilevante. Ovviamente per gioco non intendo tanto sottolineare la componente ludica del suo lavoro, bensì la curiosità, la scoperta, il piacere di trovare la forma ideale che, apres coup, movimenta i fantasmi artistici dai quali indubbiamente l’autore è tormentato, fissandoli in un momento cruciale nel quale l’immagine di partenza trova la sua inconsapevole verità.

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Dal punto di vista fenomenologico l’atto creativo di Gilberto Mora mi sembra sufficientemente chiaro e lineare. In qualsiasi parte del mondo si trovi l’autore, terminate le incombenze burocratiche del suo lavoro, probabilmente tra le 17.00 e le 19.00, grazie ad una passeggiata per la città cattura alcuni scatti degli edifici che ne caratterizzano il paesaggio. Quasi sempre il colpo fotografico tende ad esaltare la verticalità. In tal modo gli edifici ripresi dal basso verso l’alto conserveranno una certa formalità, un po’ come fanno le persone che ci salutano irrigidendo il corpo, metacomunicandoci la distanza loro necessaria per una interazione che preservi la loro identità niente affatto amichevole. G. Mora ama la luce diffusa e uniforme, poco contrastata. E questo è un altro tratto di stile: l’autore detesta i cieli troppo azzurri in genere amati dai cultori dei paesaggi di qualsiasi tipo; la tonalità è quasi sempre sul cupo, una sorta di cielo tragico, sul quale riesce difficile proiettare le significazioni del nostro immaginario naturalistico. Si può dire che lo sfondo delle sue foto assuma una impostazione teatrale. Quando introduce un colore, lo fa esercitando l’effetto dirompente del contrasto accentuato. Questa prima pellicola di realtà verrà poi risistemata secondo sintesi aggiuntive, le quali renderanno obliqua l’impronta originaria del riverbero della luce sull’oggetto preso di mira. Intendiamoci, la foto non subisce ritocchi o riscritture, bensì cercherà la sua metamorfosi a partire dai tagli e dai materiali scelti post quem; decisioni che incalzeranno la foto dal di fuori e che le conferiranno lo statuto di oggetto artistico. Abbiamo quindi nelle sue opere la traccia dell’immediatezza fotografica e il supplemento dell’atto estetico prodotto dai tumulti interiori dell’artista, posto di fronte al problema di trovare un senso altro alla forma che ne aveva catturato l’attenzione. dall’alto: la torre a Berlino e Gilbero Mora, l’autore delle foto

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All’inizio del processo dunque c’è qualcosa che possiamo immaginare come una specie di collezione di impronte di strutture di città apparentemente morte, nel senso che in esse mancano riferimenti umani, tra le quali il fotografo si aggira come un flaneur di baudleriana memoria. Dovete immaginarlo proprio come un non-turista, senza guide o itinerari particolari, che attraversa senza pesantezze esistenziali o culturali la città. Indifferente a tutto ciò che normalmente interessa le persone che vogliono conoscere questo o quest’altro, guarda il paesaggio urbano con l’occhio disincantato di chi si sbarazza delle idee altrui.


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La città di G. Mora è molto diversa, per esempio, da quella di Davide Bramante, altro straordinario interprete dei mood metropolitani. Le doppie e più esposizioni del fotografo siracusiano ci restituiscono con efficacia il caos e lo stordimento che proviamo nell’attraversare una metropoli post-moderna. Per contro, G. Mora preferisce il silenzio straniante; preferisce l’ordine apparente che questi edifici sembrano diffondere tra un’umanità che tuttavia non trova spazio per raccontarsi. Più vicine alla sensibilità di Mora potrebbero essere le foto di Berlino di Roger Hutchings, anche se il realismo struggente e drammatico del fotografo inglese manca di ironia e la troppa partecipazione sociale lo allontana dall’atteggiamento disincantato necessario per farci intendere l’alterità di edifici per i quali l’abitabilità non rappresenta il senso primario. Mi piace raccordare il punto di vista di Mora nel solco scavato da Alfred Stigliz (posso citare “From My Window at the SheltonWest” del 1931), ma anche in questo caso devo prendere atto che il formalismo e il modernismo del celebre fotografo americano, rappresentano proprio ciò che il nostro fotografo/ artista vuole oltrepassare, pur conservandone le stimmate. L’attenzione alla forma e all’ordine semiotico degli edifici che caratterizza i bellissimi scatti che Ugo Mulas dedicò negli anni sessanta alla città industriale, sono pieni di silenzio e del senso di vuoto che indubbiamente cerca G. Mora. Ma trasmettono troppe informazioni, sono soprattutto documento di una forma di vita che muta. Così come le straordinarie immagini di città di Gabriele Basilisco, penso ai suoi scatti a Milano nel 1996, hanno a che fare con una geografia urbana che pur denunciando la rottura umanistica della città post moderna, prendono senso sempre a partire dal contrasto tra i diversi modi di valorizzare l’abitare. Non credo che nelle foto di G. Mora questi valori siano determinanti. Il suo punto di vista manifesta l’aspetto pungente di un incontro con un edificio aldilà del registro umanistico. Ecco perché suggerisco di indovinarne le significazioni partendo da un salto metafisico, come se alla domanda cos’è un edificio, la risposta della struttura rappresentata nelle sue opere fosse: un edificio è un edificio… E nel vuoto di senso di questa tautologia, non potessimo che udire il suono sgangherato di una ghignata. Indifferenza ai valori umanistici dell’abitare, derealizzazione delle strutture imponenti che nel nostro immaginario identificano il paesaggio urbano, emersione di una visione che trasforma il pieno dell’edificio- simbolo (molte foto raffigurano grattacieli), in un vuoto, in un paradossale buco che ci rinvia a ciò che ho definito l’Altra città.

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Come segnalavo sopra, mi piace ritrovare il tratto blasé della visione di G. Mora nelle caratteristiche formali dell’immagine. Mi ripeto, le sue foto sono scattate preferibilmente tra le 17.00 e le 19.00, quando il cielo delle città si presenta azzurro grigio o biancastro. Questa scelta mi ha indotto a pensare che l’artista non voleva cadere nella trappola del naturalismo o degli stereotipi fotografici. Non vedo nemmeno nelle sue immagini l’aspetto spesso un po’ ebete della bella fotografia, tutta forma e contenuti rispettabili. Aggiungerei che G. Mora è indifferente anche nei confronti del perbenismo fotografico, il punto di vista che vorrebbe vincolare le immagini ad un a-priori etico, schierandosi nettamente su posizioni che potremmo definire scettiche o ciniche (rispetto l’attuale assiologia dei valori fotografici). Ma se accettassimo questa impostazione dovremmo definire il punto di vista del fotografo uno sguardo critico (sulla città, sugli edifici più evidenti di una metropoli etc..). Il problema è che più ci penso e maggiore è l’impressione che G. Mora si ponga aldilà della critica o dell’analisi (dei punti di rottura o di forza) delle città che mette nel mirino. Definirei pertanto la visione di Mora, uno sguardo dadaista sulla metacittà. Ovvero l’emblema architettonico che finisce davanti al suo obiettivo, sembra subire di colpo uno straniamento che ne annulla le magnificenze, destinandolo ad un gioco di interpretazioni dal sapore nuovo. Le composizioni di fotografie di diversi edifici, esaltano il bricolage di significazioni che frantumano l’idea che queste strutture abbiano i valori abitabili e rassicuranti che in qualche modo ho messo in discussione sopra. La bellezza di questi polittici insensati dal punto di vista della logica delle immagini, ha più a che fare con ciò che nella cultura giapponese viene definito wabi-sabi, piuttosto che appellarsi al To Kalon greco. Wabi è la bellezza dell’asimmetria, dell’imperfezione; Sabi significa solitudine ovvero l’assenza dell’entusiasmo tipicamente occidentale di fronte alla bellezza intesa come eccitamento. G. Mora usa il wabi-sabi per ricordarci, attraverso le immagini degli edifici di solito presentati come il culmine delle passioni costruttive dell’uomo, il retrogusto leggermente amaro della loro ruvida inadeguatezza, dell’imperfezione scivolosa che in ultima analisi li rende Altri rispetto le nostre vite. Suppongo che sia la percezione della loro non-esistenza rispetto al nostro senso dell’abitare a rendere così squisita ed evocativa la loro visione.

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JULIAN SCHNABEL Pino Pascali, 1985 Olio su pannelli di legno, cm 277x370 Collezione privata

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Julian Schnabel Il cinema del neoespressionismo Di Francesca Flavia Fontana

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JULIAN SCHNABEL Roman Painting, 1985 Olio su tavola, cm 161x42 Collezione privata

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Julian Schnabel è l’artista americano più famoso sulla scena internazionale sia per la produzione pittorica che per quella cinematografica, vive e lavora a New York. Esponente di spicco di un neoespressionismo che risente delle influenze europee e anche della Transavanguardia italiana, Schnabel ha elaborato una ripresa della pittura in assoluta indipendenza tecnica e contenutistica. Conosciuto dal 1976 quando allestisce la sua prima mostra al Contemporary Arts Museum di Houston. Nel 1979 presenta due mostre personali alla famosa Galleria Mary Boone di New York, realizzando dipinti a cera e su lastra. I critici celebrano il suo lavoro definendolo “il ritorno alla pittura”. Il 1980 vede la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia, dove conosce Francesco Clemente. Comincia a sviluppare una pittura “selvaggia” e gestuale per cui i critici coniano l’espressione neo-espressionista. E integra nei suoi quadri oggetti rinvenuti, usati, esposti alle intemperie, che divengono elemento essenziale del suo lavoro. Le sue opere di pittura e di scultura su tela cerata, fondi di teatro giapponese, rivestimenti di pavimenti di ring da pugilato, tutti materiali “con una storia”, spesso di dimensioni gigantesche come la serie realizzata nel 1990, sono conservate nei musei e nelle collezioni di tutto il mondo dal MoMA di New York al Guggenheim di Bilbao, al Museo Pecci di Prato. Genio eclettico anche nel linguaggio filmico, nel 1995 realizza un film sul suo amico pittore di Brooklyn Jean Michel Basquiat, il primo artista nero della Street Art, scomparso a soli 28 anni e oggi riconosciuto a livello internazionale. Nel 1999 dirige Prima che sia notte sulla vita dello scultore cubano esiliato Reinaldo Arenas, che vince nel 2000 il Gran Premio della Giuria e la coppa Volpi per il miglior attore, Javier Bardem, al Festival del cinema di Venezia; nel 2007 realizza il suo terzo film Lo Scafandro e la farfalla, tratto dal romanzo di Jean Dominique Bauby, con cui vince il premio per il miglior regista al Festival di Cannes. Alla 64° edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia fa parte della Commissione del Venice Movie Stars Photography Award. In Italia ha esposto nel 1996 in una grande JULIAN SCHNABEL Mi vida es una cumbre de mentiras, 1992 Olio su tarpulin, cm 275x244 - Collezione privata


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JULIAN SCHNABEL Untitled - Running Bird (Audubon), 1990 Stampa vintage, resina e stoffa su carta montata su tela, cm 161x210 - 64x83 1/2 Collezione privata

retrospettiva alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, nel 2004 alla Galleria Cardi & Co di Milano e nel 2007 in due grandi mostre personali a Roma e Milano, dove si presenta alla conferenza stampa di apertura in pigiama di seta, divenuta la sua cifra stilistica. Recentemente l’artista ha tenuto una grande personale nella sede di Los Angeles della Galleria Gagosian. Le opere esposte alla mostra del ‘96 Sono esposti quattordici lavori di grandi dimensioni che esemplificano il lavoro dell’artista dal 1985 sino al 2008: otto opere appartengono al grande gallerista Gian Enzo Sperone, che conosce profondamente Schnabel, suo vicino di casa a New York e così lo descrive: “Con Julian Schnabel, che ho conosciuto parecchio tempo fa in un ascensore di West Broadway che portava da Leo Castelli, ho incominciato un discorso che non si è ancora esaurito. Strano parecchio, perché la grande parte egli artisti che ho esposto, amato e sostenuto, non li vedo più...

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La persona è debordante per energia e stazza, non si sottrae al dialogo, anzi lo esige, non elude e richiede molta attenzione...Come pittore, Julian ha una capacità d’intonazione fuori dal normale, con slanci e finezze talvolta in controcanto con il resto, magari cupo, del quadro: mai retorico...Il quadro, alla fine, incombente o sbilenco che sia, funziona sempre e mantiene negli anni il forte slancio che ne ha caratterizzato la genesi: una freschezza impressionante...La sua pittura picchia duro, su telacce d’accatto, formati vertiginosi, colore non steso, ma spalmato con le mani. Scritte insolenti, a volte ovvie a volte fulminanti, mai tremolanti” (dal volume Julian Schnabel Dipinti 1976-2007, Skira). Gli altri sei lavori, sempre di grandi dimensioni, appartengono a un collezionista milanese che ha accettato di prestare le sue opere al CIAC per completare il percorso della mostra. Tre opere sono state esposte a Roma a Palazzo Venezia nella mostra del 2007, le tre altre non sono mai state esposte. Tra questi sei lavori l’opera-capolavoro JMB realizzata dopo il tragico suicidio dell’amico Basquiat, esposta una sola volta a Toronto e richiesta a New York per la fine dell’anno, che rappresenta, scrive Italo Tomassoni - “il culmine del suo linguaggio e della sua accorata testimonianza. Emozione, visionarietà, passione ed evocazione potente e tragica. La tensione spirituale dell’artista si misura in quest’opera trasfigurando il ricordo con il tragico quotidiano che trova nella tela un memoriale d’oltretomba che trascorre incessante dal qui all’altrove”. “In Schnabel l’intero bagaglio iconografico dell’Espressionismo - continua Tomassoni - viene sottoposto a una manipolazione radicale che scarta ogni grammatica e spinge la materia dentro la sua opulenza, nella finitezza della sua caotica fenomenologia, tracciando percorsi indeterminati in cui lo smarrimento dell’identità e dell’autobiografia si presentano come l’unica esperienza autentica. In questo senso Schnabel, in linea con l’orizzonte culturale dell’eclettismo nuovayorkese, azzera storia e geografia, stabilizzandosi in un asse che è tanto più forte quanto più è antropologico, materiale e inaccessibile a una traduzione definita”. Una occasione dunque unica per apprezzare la potenza poetica e cromatica di un grande artista sempre alla ricerca di nuovi stimoli e suggestioni da riportare nelle sue opere grandiose, che hanno segnato in modo indelebile l’arte contemporanea internazionale degli ultimi cinquant’anni.

JULIAN SCHNABEL Adieu, 1995 - Olio e resina su tela, cm 274x243 - Collezione privata

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Motors

Una rossa italiana nel Paese dei balocchi. Di Fabiola Cinque foto di Claudio Falappa

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Per delle donne italiane, neanche particolarmente appassionate di auto, andare a visitare l’Inside Ferrari World Abu Dhabi sembra davvero un controsenso. Infatti, con tutte le remore possibili, sono andata a visitare quello che immaginavo come un grande museo a cielo aperto della nostra meravigliosa rossa. Invece il Ferrari World ad Abu Dhabi è il più ampio parco divertimenti del mondo coperto, dedicato agli appassionati della Ferrari, alle loro famiglie ed a visitatori di tutte le età. Nel parco ci sono più di 20 circuiti ispirati alle competizioni dei gran premi e del mondo delle corse della Ferrari. Un mondo che ruota intorno a un’auto indiscutibilmente leader nel mondo per le sue prestazioni tecniche, di velocità e di allure grazie anche ai suoi campioni che l’hanno guidata e portata in testa alle classifiche. Inoltre, particolare di non poco conto, rappresenta l’italianità, la bellezza ed il lusso del nostro Paese e così, qui, è giustamente affiancata dagli altri settori leader nel Made in Italy come ad esempio il nostro cibo. Ci immaginavamo i ristoranti italiani con la solita “bolognese” che non assomiglia neanche vagamente a nessuna nostra ricetta, invece, con piacere, abbiamo assaggiato la pasta con il nostro Parmigiano Reggiano e poi la mozzarella e tutto ciò che di tipico abbiamo, qui fedele per sapore e qualità. Chiaramente non può mancare la “unique shopping experiences” che rende questi luoghi imbattibili. L’intrattenimento più avvincente è sicuramente percorrere il circuito su una Formula Rossa: il divertimento è assicurato se si fa l’esperienza unica delle montagne russe più veloci del mondo! Per gli amanti del brivido, e per una scarica di adrenalina, si può vivere l’esperienza in una Ferrari turbo. II passeggero può prendere posto in una carrozza F1 Ferrari che a razzo percorrerà le piste raggiungendo da 0-100 km/h in

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meno di due secondi e l’accelerazione a 240 km/h. La Formula Rossa simula la corsa al cardiopalma di ciò che è come guidare una Ferrari F1 Racer e vedere ad alta velocità e da più di 50 metri da terra, se si ha anche il coraggio di volgere lo sguardo altrove, il panorama di Yas Island. Gli ospiti devono indossare occhiali protettivi per proteggerli dalla forza del vento generato da g-force della montagne russe e per la velocità strabiliante alimentata dallo stesso tipo di sistema di verricello idraulico usato per lanciare aerei a reazione. La Galleria Ferrari è una zona interattiva di alta tecnologia che ripercorre la storia ispiratrice dell’epocale sviluppo della Ferrari dal 1947 ad oggi. È la più grande galleria del mondo Ferrari fuori Maranello ed è una splendida vetrina per una raccolta di firme Ferrari classiche e contemporanee. Molte delle Ferrari in mostra sono in prestito da rare collezioni private dei proprietari orgogliosi di condividere i loro tesori con un pubblico globale. Un ampio touch screen multimediale porta gli appassionati nel mondo dei veggenti, i driver, gli ingegneri automobilistici e artisti che hanno fatto la Ferrari il marchio più rappresentativo nel settore automobilistico. La galleria dispone anche di reperti, filmati e documenti relativi alla storia della Ferrari che non sono mai stati visti al di fuori del perimetro di Maranello. Poi ci sono così tanti altri percorsi come il “G-Force”, il “Fiorano GT Challenge”, “Viaggio in Italia” e tanti altri per vivere l’emozioni di un viaggio aereo indimenticabile tra la campagna mozzafiato o i paesaggi urbani che ritroviamo in tutta l’Italia, ispirato anche al celebre Mille Miglia road rally. La corsa simulatore multisensoriale combina immagini lussureggianti di borghi, coste e boschi con i movimenti, suoni, aromi e gli effetti speciali, tra nebbia e vento

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per portare veramente il viaggio di vita. L’attrazione permette di catturare lo spirito della classica corsa su strada italiana. Oppure ci può illudere di guidare accanto a Fernando Alonso in un film interattivo che ricrea la sensazione di essere sul sedile del passeggero di una delle vetture più potenti del pianeta, guidati da una leggenda delle corse mentre scivola nelle curve strette o attraversa superfici bagnate vivendo per qualche minuto l’esperienza di guidare una monoposto sul circuito di Fiorano. I fan hanno anche la possibilità di vivere il centro di operazioni di F1™ e sperimentare in prima persona l’energia, l’entusiasmo e l’intensità che va dietro le quinte delle corse Gran Premio più importanti del mondo e le attività del team ai box.

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É impossibile descrivere tutte le attività, i giochi, le sale e le esperienza che si possono fare in una giornata negli oltre 700.000 metri quadrati del Ferrari World di Abu Dhabi in 2.500 ettari di estensione nell’isola, costruito su una collina artificiale a 50 metri di altezza e che supera tre milioni di metri cubi coperti in un parco che celebra la passione, l’eccellenza, le ineguagliabili performance e le innovazioni tecniche che questa nostra azienda rappresenta in modo così unico ed ineguagliabile nel mondo. Creare una celebrazione tale in una vetrina pubblicitaria mondiale come questa, in una veste così globale ed in un paese così distante dal nostro per cultura e non solo, è sicuramente l’aspetto più lodevole del brand. Ma allo stesso modo non possiamo fare a meno di ammettere con rammarico che noi non ne possediamo uno simile, anche più piccolo, per farlo godere da tutti gli italiani che amano la Ferrari, ma che magari non hanno la possibilità di venire sin qui a visitare il loro mito e vivere allegramente un sogno tale da esaudire il desiderio di competizione che è dentro ognuno di noi.

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