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308 Non è dunque possibile avanzare alcuna seria obiezione al memento mori che la sospesa perplessità del malato psichico ci trasmette, né è ragionevolmente invocabile la resurrezione dei morti, se non, ancora una volta, in quella forma condivisa di follia estrema che è rappresentata dalla preghiera, ciambella di salvataggio che la religione lancia ad alleviare l‘insostenibilità del nulla: il volto socialmente accettato, insieme alla creazione artistica, del delirio individuale. La fenomenologia psichiatrica, che in conclusione non ha mai cessato d‘essere una fenomenologia dello spirito, è pertanto tuttora la migliore cassetta degli attrezzi a nostra disposizione per fronteggiare l‘inevitabile stato d‘angoscia che prima o poi accompagnerà la diastole e la sistole del nostro respiro. Essa è l‘unica forma di comprensione del mondo psichico scompensato che vanti la diretta convalida del paziente, e non si limiti all‘assunzione di corretti parametri biologici e neuronali. Sebbene questa seconda conoscenza protocollare sia estremamente utile ed efficace nella cosiddetta «cura» della malattia mentale, e nella corrispondente medicazione dell‘umore, essa non può ignorare quanto alcuni clinici hanno raccolto tramite l‘ascolto dei contenuti delirati dai loro pazienti, che hanno riferito l‘esistenza di determinati «raggi» (in tedesco: Strahlen) dell‘intenzione, sovente visti fuoriuscire dai propri occhi o da quelli d‘altri, come a tracciare immaginarie traiettorie di relazione tra persone e cose, alle quali sono associati, altrettanto spesso, vissuti psichici d‘avvinghiamento, se non di vera e propria persecuzione. Occorre considerare attentamente la natura di questa singolare conferma del principio husserliano dell‘intenzionalità, il quale, nel vissuto di buona parte degli ammalati, caratterizza la visione quotidiana come un‘indubitabile ed ultimativa evidenza. Siamo qui in presenza d‘una conferma empirica – per quanto allucinata – d‘una fondamentale componente della «teoria» fenomenologica, oppure d‘una sua convalida narrativa, in quanto scaturita dal racconto e dall‘ascolto pietoso? Sul crinale di questa ambiguità si giocano buona parte delle sorti d‘una scienza medica – la psichiatria – che, facendo sfoggio del proprio potere, occulta, spesso anche a se stessa, lo scetticismo performativo da cui è attraversata sin dall‘epoca della pubblicazione delle opere di Sigmund Freud. Al di là delle sottigliezze gnoseologiche, e dell‘apporto indubbiamente destabilizzante che la psicanalisi ha conferito alla psichiatria «organica», è comunque chiaro che assieme al nostro fiato ci trasciniamo la nostra malattia, ed è da augurarsi non tanto di far refluire in un canale di scolo il peggiore umor nero che accompagna i nostri risvegli ma, al contrario, di riuscire a distribuire uniformemente questo stesso umore nelle giunture che incardinano un istante nell‘altro, come un lubrificante del tempo che ci aiuti ad affondare meglio nella vita. IV. Un affondare, in definitiva, che lo stesso vecchio Freud avvertì sotto ogni suo aspetto negli ultimi diciassette anni della propria vita, allorché seguì, dapprima inconsapevolmente – tra studi, elaborazioni teoriche, affetti ed analisi – il lento progredire d‘un cancro alla mascella, lo slabbramento dell‘osso ch‘era impalcatura del suo linguaggio e sostegno della sua pipa. Un colare granuloso, una frammentazione, cui ciascuno partecipa, a volte cogliendosi nell‘atto di rimangiarsi le parole, di ricacciare in gola un urlo ch‘è inutile richiamo d‘aiuto. E ci stupiamo, in un attimo spudorato d‘accecante chiarore, di questo sprofondare nella voce, lungo le ulcerate pareti delle nostre faringi, come se, smentendo l‘impianto materiale del logos, revocassimo la condanna che ci governa. Allora, deposta la fierezza d‘essere umani, sottratta la facoltà della parola, ci appare auspicabile l‘ebete felicità dell‘incoscienza.


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