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GUIDO MAZZONI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla questione dei generi)? Comincerei ricordando una cosa ovvia che però, come succede spesso alle cose ovvie, rischia di sfuggire alla riflessione. Per le abitudini della nostra cultura, la prosa costituisce il medium ordinario del discorso, mentre la poesia è uno scarto rispetto alla norma. La prima è oratio prosa, «discorso che procede in linea retta», la seconda è legata al rituale del versus – «linea», «riga», ma anche «ciò che è girato indietro». La prosa è percepita come un discorso di grado zero, la poesia come un discorso coperto da un ornamento. Quest‘ultima si trova dalla parte dell‘artificio da oltre due millenni, cioè da quando la cultura greca antica, seguendo l‘esempio di Anassimandro, comincia ad affidare i propri discorsi veridici a frasi che non vanno a capo seguendo un rituale. Da quel momento, la versificazione diventa un tropo, cioè una svolta rispetto al corso ordinario del linguaggio. La storia della poesia è anche la storia dei tentativi di legittimare il verso, cercando di mostrare come questo rito permetta di accedere a una dimensione originaria del linguaggio, a uno strato di senso che sfugge al discorso piano. A partire dalla seconda metà del Settecento, la scrittura in versi subisce l‘egemonia del genere che oggi chiamiamo lirica, la forma di poesia nella quale una prima persona espone contenuti personali in uno stile che vuole essere personale. A ben vedere, l‘idea che si possa fare della poesia usando la prosa nasce dalla stessa svolta da cui ha origine la poesia moderna. Da quando lo spazio letterario della poesia cominciò a identificarsi con la sfera della soggettività, il tratto distintivo del genere non fu più la scansione metrica, come era accaduto per millenni, ma l‘espressione autentica di sé, il pathos lirico in quanto forma dell‘individualità. Nella logica di questa metamorfosi è implicita l‘idea che nulla obblighi la soggettività libera ad andare a capo. Si può dunque scrivere, senza rispettare il rituale del verso, un testo che appartiene, per slancio lirico, al territorio della poesia. La riflessione sulle origini serve a creare una morfologia elementare della poesia in prosa. Distinguerei due grandi famiglie: quella che, per compensare la perdita di marche letterarie legata alla perdita del verso, rafforza i tratti stilistici della lirica moderna (il patetismo sentimentale, l‘oscurità, il metaforismo, i giochi col linguaggio); e quella che usa la prosa per recuperare temi e forme esclusi dal territorio della lirica. La più diffusa è la prima. Appartengono a questa tendenza i testi che cercano di rendersi interessanti attraverso uno straniamento linguistico e metaforico, come accade nel poème en prose di origine simbolista o surrealista, o in molti degli esperimenti usciti dalla seconda stagione delle avanguardie novecentesche. L‘altra famiglia ha una tradizione mossa e una genealogia più sfrangiata. Personalmente non ho mai avuto interesse per la poesia in prosa del primo tipo, che ai miei occhi replica, in minore, i rischi di chiusura gergale caratteristici della poesia moderna. La seconda invece mi attrae molto, perché rompe il rituale artificioso del verso, perché allarga il territorio del dicibile e perché consente di narrare e di riflettere, cioè di recuperare due giochi linguistici che la lirica moderna espelle o emargina dal proprio territorio. Nel corso del XX secolo, la poesia moderna ha cercato di praticare la narrazione e la riflessione per lo più attraverso la forma-poemetto. In Italia, il poemetto conosce la sua età di maggior fulgore fra gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, un‘epoca nella quale il rapporto degli scrittori con la politica è intenso, la cultura italiana scopre le scienze umane e la letteratura italiana scopre le grandi costruzioni antiliriche della poesia modernista in lingua inglese. Molti scrittori sentono il bisogno di oltrepassare il territorio egocentrico della poesia soggettiva e di mostrare le circostanze politiche, sociali, antropologiche che si nascondono nell‘apparente immediatezza delle esperienze personali. I poeti di «Officina» e i poeti della neoavanguardia trasformano il poemetto in


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