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186 La poesia è passiva e tale debolezza disarmata esige un accumulo sproporzionato di forze per mantenere la posizione. Se la poesia intende scaricare le immani sollecitazioni statiche su fondamenta di sicurezza, quali il discorso o immaginarie confraternite, vuole dire che ha scavalcato il confine che la assicurava nel suo unico destino di essere corpo. Dal punto di vista energetico, la passività della poesia è enormemente dispendiosa. Questo sentimento della poesia sembra immobilizzare ogni positività del dire poetico a favore di una tautologia del perduto, della quale il verso è traccia e imitazione, con ciò producendo la propria fine con l‘aria di fare un colpo di mano. Quando succede che il verso non sta più in piedi, per incredulità propria e smentite continue dei parlanti, può irridere se stesso prolungando il gioco o prendere atto che è arrivato il tempo non della fine ma di un ulteriore accanimento. Tale accanimento può avvenire nel ripristino delle ragioni che non lo assolvono, ma lo esigono. Il verso è stato tradito dalla letteratura che è il suo mercato, non dalle ragioni sue proprie, le quali, comunque vada, sono sempre ragioni lampeggianti e brucianti, rimorsi più che progetti. Si tratta sempre di regolare conti prima ancora di escogitare, per cui, c‘è da supporre, il lavoro non manca. La sua sacralità è nel contrastare, dal suo remoto cronicario, la salute che fa più morti della malattia. Aleggia forse nell‘aria l‘idea che la poesia possa curarsi con la prosa? È come dire all‘ammalato che la morte lo guarirà, come per altro è vero. Il verso è sempre ammalato, allo stesso modo che è sempre un‘ infrazione. Se penso a una speranza di verso, non posso sperare che abbandoni la sua posizione insostenibile. È là che esercita la sua funzione intollerante di ogni risultato. Questo sacrificio di rappresentare sparizioni, vincolandosi ad esse, con ciò equivalendo nel destino, non penso appartenga soltanto alle ossessioni personali, ma a un procedere che deve essere costantemente riportato sul posto, là dove è avvenuto il misfatto. Non è una soluzione, è un sacrificio. Si tratta di un arcaico scambio simbolico? Si tratta di appartenenza a una cultura manuale e a un tempo psichico nel quale il passato non cede che passo passo al futuro? Siamo ancora a pronunciare i ―Nove miliardi di nomi di Dio‖ (racconto di Arthur Clarke)? Erano secoli che i monaci tibetani eseguivano il compito, alla fine del quale sarebbe finito anche il mondo. Stanchi del lavoro senza fine, invitarono i tecnici dell‘IBM con un potente calcolatore, il quale si mise a decifrarli in tempo breve. I tecnici, temendo che i monaci se la prendessero a male per la profezia fasulla, lasciarono il monastero mentre il calcolatore finiva il suo compito. Nella discesa videro che una stella si spegneva, poi l‘altra, poi l‘altra. Si tratta dunque di regredire? Si tratta di stare faccia a faccia con gli inconvenienti invece che essere definiti e portati avanti dalla meta irresistibile? Si tratta di salvare la pelle? Se penso a un verso che non proponga seduzioni servili, penso alla pantonalità di Schoenberg, incluso il destino della musica seriale di non avere avuto futuro se non di vecchiaia, come ha fatto in tempo a constatare T.W. Adorno. Sperare nella dissonanza è come sperare nel dolore, ma si tratta di un dolore di cui il mondo risuona, originario, nitido, senza ritorsioni. Si incontrano, su questa strada, i concetti di verso continuo e bipolare. Qualcosa di simbolico e qualcosa di artigianale si attiva sotto questi termini. Il verso continuo è un verso di perdono per la cesura iniziale in virtù della quale le parole non si donano, ma si espongono. L‘inizio che chiamava verso di sé, per cui il verso era tutto su quel confine, viene preso alle spalle, a partire da un punto ingenuo.


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