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134 di soggettività dei suoi testi). La scrittura di Ottonieri è la scrittura del pieno, mentre quella di Nove è quella del vuoto, della necessità di mantenere vuoti i buchi lasciati dal soggetto. In Nove, cioè, non sappiamo distinguere tra autore e personaggio non a causa di quello che non si dice, ma a causa di quello che si lascia non detto; tutto il contrario è quello che accade con Tommaso Ottonieri. Eppure c‘è forse uno stigma comune alle due voci. 5. Sarebbe certo ora troppo complesso problematizzarlo, ma il termine che mi pare più si attagli e possa fare da denominatore comune a due scritture quali quelle di Nove e Ottonieri, così diverse, tracciare un contesto, una linea pur negli ovvi tagli, parrebbe quello di manierismo. Anche questo termine potrebbe essere invocato con ogni probabilità dal nostro lettore idiota degli anni cinquanta. Manierismo come: ―manifestazione della differenza, di un discorso altro, a volte esplicitamente e coscientemente alternativo nei confronti della norma dell‘istituzione, e che in ogni caso tenta di contraddirne, se non di rovesciarne, il ruolo egemone‖(29). Non è un caso, allora, che queste due scritture che mettono in crisi secondo modalità completamente differenti gli istituti formali del romanzo siano due scritture pseudonimiche. Alla problematizzazione del genere fa da contraltare la problematizzazione del nome d‘autore. Non poteva essere altrimenti. La sperimentazione narrativa di Nove e quella di Ottonieri, pur così diverse, scaturiscono anche da una messa in questione, dalla chiamata in causa del concetto di autorialità come infrastruttura ideologica del romanzo. All‘abolizione della figura dell‘autore, garante dell‘unitarietà e della correttezza epistemologica del romanzo, a questa perdita di centro (ottenuta attingendo a strumenti e modalità tipiche della poesia lirica), fa da seguito uno smarrimento, una disperazione che si traduce in forma. Ottonieri parla, come abbiamo già visto, di ―sublime strano‖. Ma cos‘è il ―sublime strano‖ se non il corollario di una sorta di furia formale, furia dell‘oggetto romanzesco? In fondo questa furia, già pronta a trasformarsi in disperazione, in manierismo, questa forma della disperazione ha avuto nella tradizione un nome ben preciso: grottesco. Sarebbe probabilmente questo il terzo e ultimo appiglio cui il nostro lettore idiota potrebbe aggrapparsi per entrare in queste due scritture e farne esperienza. Questo ―grottesco per disperazione formale‖ è proprio il carattere precipuo che pone Nove e Ottonieri, sia pur nella loro differenza, a un gradino successivo e ulteriore rispetto ai precedenti esempi addotti di romanzo lirico. Gian Luca Picconi

Note. (1) Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 452n. (2) Italo Calvino, Il midollo del leone, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p 11. (3) Italo Calvino, Lettere, cit., p. 596. (4) Nuove stagioni di Pasolini e Fenoglio, in ―Paragone‖, IX, 114, giugno 1959, p. 77. (5) Pier Paolo Pasolini, Roma e Milano, in Passione e ideologia, in Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 771. (6) È curioso che, di fronte alle tentazioni dell‘ipersoggettivismo poetico pasoliniano, il pubblico abbia decretato Pasolini come il poeta più venduto di questi ultimi anni, mentre la critica ne abbia pienamente registrato (cfr., per esempio, Raboni), l‘estraneità al corpo maggiore della scrittura poetica secondonovecentesca; donde il modello retrivo della confessional poetry pasoliniana, se resta pienamente attivo a livello popolare, è invece confinato a un rango deteriore da chi pratica un tipo di fruizione colta della poesia. È d‘altronde inevitabile riferirsi a Pasolini in un ragionamento sulla dinamizzazione dei generi e delle forme della letteratura nel secondo Novecento. Quando, nel 1964, Pasolini deve fornire alla rivista internazionale ―Gulliver‖ un suo scritto, questo si intitola: Appunti per un poema popolare, ed è di fatto un prosimetro. È una sorta di disperazione formale, nemmeno sempre lucida, quella che presiede a questi tentativi di mischiare le carte della prosa e della poesia: una disperazione formale che non può che dare vita a forme di comico e


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