Pastiche #27 online (1)

Page 1

01/2014

n.27

affetta l’arte e la poesia

PASTICHE versicontroversi

mensile gratuito

Olio Moroboshi - Pasticche


Pastiche

Ah, il folle cuore di noialtri tutti. | Jack Kerouac, Visioni di Cody |

Punto di Partenza

rieccomi al punto di partenza sconosciuto a me stesso col cuore e la mente altrove nuova casa vecchi ricordi nuovi sensi unici per le solite vecchie strade vecchi palazzi e nuovi supermercati strascichi di verde tutt’intorno ( ma questa è l’unica cosa pulita ) sentirsi come un topo e avere voglia di essere libero dormire tutto il giorno e sognare scorci d’apoteosi

rieccomi al punto di partenza non ancora pronto alla domesticazione col cazzo e la pancia altrove radioattivo come un atto poetico devastante come un’arma terribile ( se m’innesti potrei esplodere ) forse ho solo bisogno di vomitare tutta la mia pesta umanità e lasciare alle parole campo libero - parole a caso, emozioni a naso – come una crepa da cui passa la luce come un atomo impazzito che cerca di reagire. Paolo Battista

a

PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista. Grafica e impaginazione a cura di

Moodif www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista

Collaboratori:

Chiara Fornesi, Fara Peluso. Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 12 euro ) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza da concordare -, disegni, racconti per immagini, fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a: pasticherivista@ gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1 00176 Roma Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.


Pastiche

E’ solo

che ne ho fatto un’ossessione e ho deciso di lasciarti andare perché tanto non avresti capito proprio mai. qualcuno ha suonato tutti gli strumenti che stavamo trasportando e la mattina dopo ci siamo svegliati con il primo sole ed una vecchina che andava a controllare il suo orto e ci ha fatto assaggiare il latte appena munto. io l’avevo bevuto una sola volta il latte appena munto, in sicilia, quando c’era caldo ed un sole che ti si appiccicava addosso. mi era piaciuto e avevo pensato che il latte appena munto avesse un sapore diverso ogni volta, perché le mucche non potevano fare il latte dello stesso sapore come se fosse stato un panino del mc donald. ci avevo scritto anche un racconto su questa cosa, finito tra le disordinate finestre del mio computer. questo era il latte della vecchina della pianura padana immensa ed era buono, con lei in sottofondo che parlava e rideva e parlava e ci diceva delle cose che non capivo bene, perché io emiliana non sono per niente e nessuno capisce mai di dove io sia, e quando lo confesso nessuno ci crede. allora su quella sedia enorme di legno dove il mio corpo si perdeva, ho pensato che sarebbe stato bello fare una foto alla signora teresina, che si affaccendava a tirare fuori torte fatte a mano, che avevano sapore di casa, la mia, che non è qui. e pensavo che sarebbe stato bello girare per le campagne emiliane a parlare con chi ancora si ricorda com’era tutto prima e fotografare i volti del tempo che passa. ma non avevo la macchina fotografica quel giorno e questa cosa poi non l’ho fatta mai. quando l’abbiamo salutata la teresina mi ha abbracciata ed io ho sentito uno dei miei sensi di colpa abissali per tutte quelle volte che non ho abbracciato mai mia mamma o mia nonna e per tutte quelle volte che buttavo per terra il bisogno che sentivo per renderlo arido. e mi sono sentita come una disadattata quindicenne incapace di mostrare sentimenti, ma di anni ne avevo il doppio e anche più, ed ero in stallo con la dimostrazione dei sentimenti. e mi teneva per le spalle e nell’ultimo saluto m’ha detto che ero bella, ma gli occhi, belleSSa,

NeBBia, poi va via. Quelle nebbie lunghissime che attraversi e ti attraversano pure i pensieri, a questo pensavo. e quelle città infossate e chiuse in se stesse. sotto i portici di bologna, di ferrara, di parma, di modena ci ho sempre lasciato dei pezzi a marcire, dei passati inesprimibili lasciati andare contro un muro, insieme al troppo vino e ad un corpo sempre troppo stanco. e tutti i viaggi verso piacenza, una piattezza che non finiva mai da ogni finestrino. ci buttavo dentro gli occhi e i ricordi. come una volta a fine agosto, che erano le due di notte e la luna era gigante,tonda e rossa e mi sembrava un cocomero e avevo pensato che non fosse proprio possibile che la luna fosse uguale in ogni punto del mondo, perché per me, così, poteva essere solo in quel momento e luogo, con sotto i piedi una distesa immensa ruvida, a sentire un pò di freddo, con una cuffia per uno con dentro Nick Drake. allora abbiamo fermato la macchina e ho detto io non ci torno a bologna, non adesso. e ho deciso di sentire tutta l’erba in mezzo ai capelli, che si sono impigliati e strappati ma andava bene così. e poi mi sono messa anche un pò a piangere, che in quel periodo piangevo spesso, mi sentivo addosso delle distanze immense e mai la spinta per tagliarle. e quindi ti scrivevo di questo, pensavo che potessi capire, ma come si fa a capire senza esserci, questo me lo sono chiesta un miliardo di volte tanto

b


Pastiche sono tristi, perché. non ti ho mai risposto teresina, t’ho ringraziata di tutto abbassando lo sguardo e quando abbiamo riacceso la macchina per ripartire, nessuno ha più parlato. allora ho pensato che i luoghi te li devi sentire addosso per farli tuoi, che non c’è da interpretare, c’è da prendere e fare tuo e ci sono mondi in ogni provincia e c’è sempre qualcosa di bruttissimo che però è anche bellissimo. ci sono tutti gli anziani emiliani con cui vorrei parlare e quelli più giovani con i quali non riesco a dire una parola e mi sento sempre nel momento sbagliato, nell’epoca sbagliata o forse mi piace sempre troppo parlare del passato. penso alla mia città monumentale e tutto il peso che si porta addosso e che mi lancia addosso. penso a tutte le volte che non ci torno e penso ai dettagli brutti, che mi piacciono tutti quei luoghi privi di una pianificazione urbana razionale. ci vedo di più il contatto con l’essere umano interiormente frastagliato. come quando in portogallo mi guardavo intorno e vedevo solo palazzi frantumati e cadenti e ti dicevo che trovavo tutto cosi affascinante da non sapertelo neanche spiegare. che preferisco un decadente porto, più che un’ordinata lisbona, mi ricordava un pò napoli, con questa decadenza in ogni vicolo, con la gente alle finestre che ascolta delle canzoni popolari, le porte aperte che danno su cucine in fermento, che ti fermeresti ad osservare ogni casa ed ogni persona. e ti dicevo che a milano non ci volevo proprio venire, mentre ci ostinavamo a cercare i pezzi della milano che non esiste più descritta da bianciardi, a brera, sui navigli, nelle strade omologate così piene di chiese. milano è piena di chiese, te lo dicevo sempre. ed infatti poi non ci sono venuta, a mescolarmi con delle apparenze laconiche, a sorridere per finta sotto le colonne di san lorenzo, vestita sempre bene per coprirmi tutte le ferite. forse sono fatta per altri luoghi, per prendere un treno e vedere cosa c’è a pioppe, a bere vino con gli anziani della bocciofila di castel san pietro, a san felice sul panaro, a mirandola che crolla a pezzi, a fermarmi a guardare le

rovine, mettermi a leggere nella stazione di sasso marconi con accanto un signore che vede passare i pochi treni, li conosce tutti e me li descrive e quando mi chiede quanti anni ho non ci crede, e quando gli dico da dove vengo si allontana e dopo poco ritorna con due rose tagliate nel campo là vicino, una rossa ed una gialla e penso che più romantico di così non si può. penso che mi piacciono i luoghi piccoli perché mi fanno ritrovare, perché riscopro il piacere dei riti minuscoli, l’andare lento dei passi e dei pensieri. e guardo sempre tutte le foto e vorrei essere in ogni posto e sentirmi addosso ogni posto e tu in macchina dopo discorsi lunghi ore che mi dicevi che sono sempre troppo malinconica e sì, gli occhi tristi che diceva la teresina ce li ho ancora sù, per tutto quello che ho visto e mi ha squarciato il cuore, per ogni punto dove ci ho lasciato un pezzo, di quel cuore. per ogni treno che ho preso per raggiungere un luogo, che poi ho lasciato sempre, insieme a tutto quello che conteneva dentro.

Serena Roazzi c


Dio, Pastiche

un tempo.

Sarebbe comodo un dio, non è così? Uno che trovi a colpo sicuro dietro a qualche nebulosa, o sotto al naso di questa luna ghiotta di storie; comodo averne il sospetto o la certezza; comodo smazzare per lui i desideri e mettere nella sua banca le mancanze; comodo scagliarlo fuor di petto con una bestemmia, e cingerselo di nuovo alla testa in una provvisoria contrizione. Comodo, sì. Scantonare quanto serve per assolversi e salmodiare quando certe nebbie bucano gli occhi. Ma un dio così, se esiste, è a passeggio con qualcuno di più rilassante e meno invasivo. Persuaditi, su. Un dio che ti insapona, un dio così non c’è, e non ti rimane che spegnere i fari, toglierti il make up dalla faccia, riconoscere il tuo odore sul cuscino, e se ti riesce scrivere qualcosa - una canzone, una bestemmia, una poesia - e poi dormire dentro i tuoi soliti naufragi, perché dio – vedi - dio abita nello stesso palazzo di Godot. Avendo tempo da perdere, potresti anche dar lume a un cero e attendere che le tracce del divino siano visibili, assecondarne la traiettoria come quando, da ragazzina, seguivi con un bastoncino la colonna delle formiche – e come allora, avvertire la tentazione di spargere terra sopra a quell’ordine muto, l’istinto famelico di innestare le cose su un percorso alternativo - anche se a otto anni il quotidiano prevedeva orologi lenti e temuti cristi sulla parete, mentre a quaranta prevede orologi troppo veloci e un compianto cristo che si riflette su di te. Pensi a tua madre, a tua nonna, alle domeniche di ecumenica noia, ai vecchi che ti facevano pena su quegli stecchi di pelle e carne piegati sull’asse di legno, in cisposa preghiera lacrimante; tu andavi a prendere il corpodicristo con tua nonna e il prete negli occhi non lo guardavi mai, perché diceva che il corpodicristo va messo in un tempio puro e tu, che mangiavi i dolci di nascosto, e ti toccavi, e dicevi le parolacce giocando con gli amici, non avevi un tempio puro. L’altra ragazzina, quella nel cervello posteriore, rideva a crepapelle. Tu la ascoltavi ridere, e ingoiavi il corpodicristo stando attenta a non masticare, perché la nonna ti osservava di sguincio. Tua nonna poi se n’è partita, senza corpodicristo e con tanti d

corpi ladri nell’intestino – e pure il tuo amico, che votava comunista e credeva nella pace universale; ci credeva così tanto che abolì la guerra con un sorriso e una pera alle sei del mattino: nel sacco l’hanno messo così, senza guerra e con quel sorriso incredibile - e anche tu sei partita, con le alchimie nettamerda del raziocinio (c’è chi lo chiama così), cambiando marce e velocità perché il grigio qualche volta si dipani in nero chiaro, o in bianco. A volte pensi che sarebbe comodo avere un dio per scartavetrare le meningi e svuotare le viscere. Sarebbe comodo, altro che. Ma ti porti in giro da troppi sbagli e troppe intuizioni per annaffiarti di crisantemi e benevolenze d’aldilà. Hai suonato già a quel campanello, e nessuno ha aperto, e nessuno ti ha coperto, così sei risalita in macchina, hai spolverato le scarpe e ti sei fermata a un bar. Forse un cristo intatto e allegro ti offrirà da bere, se sarai fortunata.

Alba Gnazi


Pastiche

Apocalisse /\/ Cristiano Guagliozzi

e


Pastiche

L’ARTE NON PAGA, NON FA UNA PIEGA, CERTO NON DICE MESSA CHI FA LA MESSA IN PIEGA “SI PIEGHI, TOSSICA, DICA TRENTA DENARI” DAMMI TRENTA DENARI SENZA FATTURA, CHE MICA SON TORNATE LE STREGHE! DICA: “TRENTATRE TRENTINI ENTRARONO IN TRENO A TRENTO TUTTI COL BRONCIO TUTTI COL BRACCIO ROTTO, A TROTTO ATTRATTI DA UN TRITTICO” TI PAGO UN BEL TRITTICO. TRITTICO, CRIPTICO. SE VUOI POI TI ALLATTO IL PARGOLO. PARGOLO, PARI MOGOL.

INVECE CHE DARTI L’EURO, POTREI REGALARTI UN EMULO L’HO FATTO CON IL FIMO, È UN GESTO SOPRAFFINO.

INVECE CHE PULIRTI IL TARTARO, POTREI PULIRTI TUTTO IL PORTICO, POTREI PORTARTI IL CANE A SPASSO, OPPURE MASTICARGLI L’OSSO.

SE PROPRIO VUOI CHE IO SIA UN ARTISTA, TI LEGGO DANTE OH MIO DENTISTA TI PAGO IN PROSA LA LISTA DELLA SPESA, SE NON TI PESA (EH)STETISTA! NON PAGO DI ARTE VENDO CARTE, FACCIO CREDITO. CREDO IN UN SOLO DITO. NON T’HO UDITO, CI VORREBBE UN AMICO OTORINO-LARINGOIATRA.

“L’HA RINGOIATA DI NUOVO, SIGNORA? SPUTI, SPUTI!” DI MESTIERE FACCIO LA SPUTACCHIERA, SONO BUONA AD OGNI ORA, ASSAGGIATEMI PURE.

L'ARTE NON PAGA tratto da "Ne prendo atto" di Andrea Coffami e Angelo Zabaglio (Bel-Amì Edizioni)

Sono nel ceto medio come il dito di cui sopra. Ma vivo in una farsa per forza di cose ma vivo in forse per mancanza di forze non butto nemmeno le scorze mi mangio le borse che ho sotto gli occhi cipolla tagliata, ma piango con l'aglio. Quando la luna è in cielo m'ispiro ma c'è il fottuto lavoro che adoro pigiami il pigiama e plagiami baciami il bignami e mangiami. Ci vorrebbe un mecenate...

“HAI CENATO MECENATE?” “HO CENATO TU HAI CENATO?” “MAI CENATO MECENATE” “E DIVENTA MERCENARIO! CENE CON LA MACEDONIA, TE LE DONO FINO A NOIA” “MA MIO CARO MECENATE, VOI COSI’ MI CONFONDETE, PAGHERETEMI LE RATE” “E TU IN CAMBIO DAI RISATE” “VI PROPONGO MISS CUCINA, MISS CAPPELLA LA SISTINA, SONO ADATTE AL SUO CONCETTO” “DANNO IL RETTO?” “DETTO, FATTO” f


Pastiche

Avelleva

/\/ g

Mattia PanĂŹco


Pastiche

h


Pastiche

Eddie Stardust Eppure lo ricordava ancora bene - la porta che ha sbattuto, i passi strisciati, sbiascicati quasi, lungo il corridoio. Erano passate solo alcune ore, e Eddie ricordava bene la magnifica serata. Oh ragazzi, che ridere questa notte! Le luci e gli strobos ancora rimbalzavano nel capo. Avete presente quella sorta di ronzio costante alla fine dei concerti? Ecco! Eddie stava ora lì, molle molle a pancia in giù, con un sorriso da idiota stampato in faccia e con il capo inclinato sulla destra, ad osservare lo spiraglio della porta nel buio. Ascoltava il ronzio della cocaina che, leggera, sfiammava ancora a sprazzi il suo volto, in quel dolce torpore dovuto all'eroina (non sia mai che non si concluda in bellezza, eh!) E pasturava le mani al buio, l'angolo del suo guanciale, ruvido come ogni cosa in quella topaia... D'altronde cosa si poteva aspettare, a mala pena pagava per quel tugurio. Il merdosissimo Hotel sulla strada provinciale di Portland. Con la sua insegna al neon del cazzo: una volta rossa, una volta bianca e poi, per la gioia di tutti i poveri derelitti e tossici del luogo, a strisce rosse e bianche... (Oh, certo che i cazzo di Led hanno cambiato il volto persino a un hotel di merda come questo). L'insegna diceva: ''Oasi Del Gatto – Camere a Prezzi Modici'' Una volta rosso, una volta bianco e poi strisce strisce strisce... che goduria! Impossibile dopo una serata di stravizi non fermarsi come falene. Che poi di stravizi oramai si perdeva il tempo nell'ombra... Quanti giorni è che mi sballo?, si chiedeva Eddie. Da quanto non racimolo un paio di minuti di lucida realtà? Ma sì, cosa importa ormai, alla fine questo sono, si diceva prima di chiudere gli occhi nella topaia. Alla fine cosa posso mai sperare di fare, in questa vita del cazzo! 'Così chiude gli occhi lo sfigato' , aggiungeva poi in preda ai sensi di colpa, che ovviamente sfilottavano veloci alle prime luci di Astinenza del mattino. Perché Eddie, in tutta la sua proverbiale saggezza da tossico, i


Pastiche non si sognava nemmeno più di inventarsi la mitica frase ricolma di speranza: ' da domani smetto'. Col cazzo! pensava. Domani Tom ha la roba giusta, domani Tom mi porta la Siriana.. quella bianca con i granelli neri. Oh sì, domani il tuffo sarà lungo e intenso.. Già pregustava il sapore, quell'ago pungente che gli profanava la vena. Il getto di sangue che saliva e scendeva, saliva e scendeva, appresso allo stantuffo. E... Oasi Del Gatto, che nome imbecille! Ma poi: Del Gatto, sarà il cognome del favoloso imprenditore di questo Meraviglioso letamaio? Chissà! Oh Eddie Eddie, con tutti i cataclismi che hai nella tua esistenza stai a pensare all'egemonico potere del signor/a Del Gatto. Sei proprio uno sfigato! 'In tutto questo chiasso di domande che mi frullano il cervello, una e una sola è la domanda. Tom, si sveglierà presto domattina? No, perché se il porco tira tardi e non risponde al telefono, mi devo scuffiare almeno un paio d'ore di carenza, e non ci ho voglia manco un po' ecco! I soldi ci sono, che facesse il suo mestiere da bravo spacciatore e si svegliasse all'alba per sfamare gli affamati. Sapesse il fottutissimo Tom, cosa mi sono dovuto scopare per avere questi soldi eh, si sveglierebbe alle 5, no che dico, alle 4 cazzo. E... Oasi Del Gatto, che nome di merda. Mi si blocca sull'emisfero destro. Del Gaaaaato... Oasiiiiiiiii Deeeeeel Gaaaaato, con una T sola. Mah. A parte gli scarafaggi grossi come angurie nel cesso, di gatti non ce n'è, quindi è il maledetto proprietario. Domani mi riprometto, dopo aver visto Tom, di chiedere in portineria del maledetto nome, sì! Questo farò domani, giuro!' Il Buio, oramai era totale, e la posa innaturale di Eddie pure. C'era una cosa che non quadrava in tutto questo, oltre alla follia del nome 'Del Gatto' e alla sveglia fottuta di Tom. La cazzo di lucina rossa che Eddie intravedeva dallo spiraglio della porta. Eppure ricordava bene, cazzo. Era entrato nella camera, aveva sbattuto la porta del disimpegno tra cesso e camera da letto e aveva staccato tutte le luci. Se c'era una cosa che odiava, erano le fottute lucine rosse delle tv e di qualsiasi altra fottuta fonte di luminescenza. Buio e ronzio, ronzio e buio... solo questo voleva. Si concentrò per bene, strinse gli occhi un po' di più per focalizzare, anche se dentro di sé sapeva. Sapeva benissimo della fatica immane da compiere per alzarsi dal letto ruvido, provvisto di cuscino ruvido. Fare tre passi tre e spegnere il maledetto interruttore. In confronto il dottor Mosè e la schiera di Ebrei che vagarono per 40 anni, avevano fatto una passeggiata di salute. Ogni parte del corpo di Eddie, ora, era marmo solido. Immobile. Volendo, avrebbero potuto pisciargli in testa: non si sarebbe mosso neanche un po'! Eh, ma la cazzo di lucetta però, batteva proprio sulla pupilla. l

Sembrava un martello Black and Decker, altro che lucetta! 'Non c'è verso di addormentarmi così, no!' 'Su su su Eddie, dove sta il tuo coraggio, dove sta tutta la tua intraprendenza ora che serve.' Gli veniva da ridere. Intraprendenza... che parola arcaica. Che senso di vuoto gli giungeva al solo pensarla, quasi fosse un' eco dentro una grotta, Intraprendenza enza enza enza... Nel mentre echeggiava la parola impronunciabile nel suo cervello, uno scintillio feroce e veloce balenò dritto dritto dalla lucetta a Eddie, perforandogli una cornea. Cazzo era successo? La lucetta intermittente sfolgorava a tratti un bagliore che dava sull'arancione - giallo. Era curioso, curioso perché più Eddie fissava la lucetta, più si accorgeva che non era una lucetta. Cioè, la forma, a osservarla meglio, non era più delineata e tondeggiante. E poi quei colori così vivi, che si riflettevano sui muri.


Pastiche Sembrava ... sembrava quasi come quando da ragazzino andava in campeggio e si facevano i falò. Sì: i colori passavano dal rosso vivo all'arancio fiamma - giallo. 'Che cazzo sta succedendo,' si domandava Eddie. 'Forse sto dormendo, o sono a metà percorso, o forse è la volta buona che mi sono giocato il maledetto neurone che ancora mi circola in testa. E... rosso e arancio e giallo; la misteriosa lucetta, come dire, non sembrava più tanto vicina. Il buio nell'androne/cesso era forte, ma il senso dell'uomo riesce a distinguere anche nel buio la distanza da una fonte di luce, e quella non era più a tre-passi -tre, era a chilometri! 'Qui la storia si fa greve. Cazzo cazzo, forse ho esagerato, forse mi sono giocato il cervello E ora? Come faccio? Come vado da Tom, domani, ridotto così?' Eddie chiudeva e riapriva le palpebre nella speranza che la lucetta tornasse lì dove stava, ma quella non ne voleva sapere, anzi: più chiudeva e apriva gli occhi, più la stronza diventava grossa e brillante. ‘Qui urge che vado a controllare. Ora accendo il cervello, mando un segnale al braccio destro per dirgli: Muoviti, fai leva e solleva il maledetto busto; mentre un secondo comando urla alle gambe: Muooooveteviiiii, piegatevi e fate il vostro dovere... Alzate il maledetto restante di me!!!! Ma cazzo eh, io il comando l'ho mandato pure, come mai nessuno dei citati s'adopera a mio favore! Dai, su su su !! Devo vedere la lucetta, devo vedere la lucetta, devo vedere la lucetta devo vedere la lucetta devo vedere la lucetta devo vedere la ... Il giorno dopo Eddie fu trovato sdraiato sul letto ruvido. Con gli occhi spalancati e il suo bel sorriso beota stampato sul volto. Livido, era ormai morto da 24 ore.

m

Enzo Lomanno


Pastiche Per andare dal tizio col quale scopavo Persi la catena della bici (Che avevo pagato la bellezza di tredici euro E che non sarei riuscita a ricomprare prima della prossima busta paga): Fu come fare sesso a pagamento (E le prestazioni non furono neanche chissà cosa) E fu lì che mi resi conto che La mia vita iniziava ad andare A puttane.

Ancora, ancora, ancora. Frasi abortite, abbandonate a metà, buttate lì come si buttano i mozziconi, senza guardarsi indietro a vedere con che traiettoria cadranno per terra: Scusa se scappo come un ladro, ma Scusa se sono durato poco, ma E io, seduta nuda sul letto, cercando di sorridere (nonostante il buio rendesse i miei sforzi vani) a guardarlo rivestirsi in fretta e furia, e a sussurrare le solite convenzioni: Ma va, stai tranquillo, capita, buonanotte. E pensando nel frattempo, tra me e me: Scusa se mi sono di nuovo illusa, ma -

A volte penso che se non posso avere la celebrità, per le mie pene, che mi diano almeno una malattia mentale. Vanno così di moda oggi, e son così comode da portare addosso: coprono le colpe che è una meraviglia.

ELENA DE LUCA n


Pastiche E fu così che le Nazioni smisero di giocare con plutonio e uranio e cominciarono a inviare i primi semi. Nessuno capì mai perché vennero chiamati così, se per la loro forma a goccia o come buon auspicio di fecondità per la nuova Terra, dopo che tutto era stato portato al collasso su quella vecchia. La prima fu la Corea che spedì Punggye-ri, poi partirono Pokhran II, Canopus, Number six, Ivan, Grapple X, Castle Bravo, Smiling Buddha, Hurricane e Prima Luce, in un vorticoso count down che per la prima volta svelava segreti e responsabilità di ogni paese. Gli invii, che all’inizio erano stati discreti e sporadici, si fecero sempre più frequenti ed evidenti: dopotutto era ancora una questione di conquista, oltre che di sopravvivenza, anche se su scala più vasta. Sui semi non c’era posto per tutti: furono i potenti e i ricchi i primi a partire, mentre il resto venne selezionato tra quelli che non avevano sviluppato forme di tumori, sarcomi, leucemie o disfunzioni genetiche. Ben presto scoppiò la rivolta tra i disperati e falsi semi partirono per la volta celeste: nessuno di questi giunse mai a destinazione, poiché, appena usciti fuori dall’atmosfera, esplodevano senza lasciare a chi li abitasse alcuna speranza. - Capitano Douglas, la stanno aspettando, l’equipaggio è pronto. Michael trasalì e voltò lo sguardo verso la vetrata dello spazioporto: Trinity era lì, testardamente piantata sulla pista, come un’enorme goccia di pioggia che la terra non vuole assorbire. Strinse i pugni per far aderire meglio i guanti della tuta, ma non solo. Se solo Mary fosse stata lì con lui, in quell’ultimo maledetto seme che stava per abbandonare la Terra, per l’ultimo, definitivo, viaggio contro la fine del mondo… Ma non c’era, non c’era più nessuno sulla terra, neanche Mary. Era rimasto solo con quell’unica enorme goccia, pesante esattamente come la lacrima che si affacciava all’angolo degli occhi. Si dice che prima di morire si veda scorrere tutta la vita davanti. Ma Michael vide passare il suo futuro, il futuro che non avrebbe mai avuto con Mary e con la loro piccola Grace. Erano andate via, insieme, e non c’era stato bisogno di nessun seme. Michael guardò Trinity ancora una volta: aveva deciso. Non le avrebbe lasciate lì da sole, non le avrebbe lasciate sole mai più. Estrasse la pistola dalla fondina, si mise al comando del suo seme personale e partì per il suo nuovo mondo. - Signor Presidente, l’ultimo gruppo è stato evacuato. Barak guardò un punto indefinito del cielo, dove presumeva dovesse essere ancora il mondo. Una ruga si contrasse al centro della fronte. - È andato tutto come previsto? - Sì, Signore. La Trinity è decollata come da programma, camuffata nel gruppo alfa. Nessun passeggero ha sospettato nulla, neanche il comandante. L’esplosivo ha completato la missione… - guardò l’orologio - circa dieci minuti fa. Quando era scoppiata la rivolta, Barak aveva dovuto prendere una decisione: erano nati così il gruppo alfa e quello omega, l’inizio e la fine, quelli che sarebbero sopravvissuti da qualche altra parte e avrebbero ricostituito l’umanità e quelli che invece avrebbero dovuto essere sacrificati. D’altro canto la maggior parte della popolazione mondiale si era ammalata e sul nuovo pianeta non ci sarebbe stato il tempo e il modo di curarli. Senza contare le tare genetiche di quelli che sembravano sani. Se l’umanità doveva ricominciare, avrebbe dovuto farlo nel modo migliore. - Dio deve aver pensato qualcosa del genere - pensò Barak e socchiu-

o

__Semi

_______________

L’ULTIMO

TRENO _______________

__Sopravvissuti


Pastiche se gli occhi verso quel punto indefinito dove nella sua mente esisteva ancora il mondo. Brad guardò il corpo del comandante compostamente adagiato nel suo sangue. Era andato a chiamarlo per il decollo per la seconda volta, lo aveva visto turbato, ma non immaginava che lo fosse così tanto. - Che cazzo ha fatto? - gli domandò Larry. - È partito senza di noi - rispose malinconicamente Brad. - Bastardo! -esclamò Larry e cominciò a prendere a calci il suo cadavere. Poi imprecò e alla fine scoppiò in un pianto dirotto, inconsolabile. - E noi come cazzo facciamo, me lo dici? Come ce ne andiamo? - Pensava a Loren, che aspettava ansiosa sulla navicella il suo ritorno e il loro addio al vecchio mondo. Incastrati sulla Terra per sempre. Su un mondo malato che non avrebbe dato più niente, forse solo la morte. - Io non ci sto - piagnuccolò Larry - sentiva la febbre salire, i linfonodi ingrossarsi - Io non voglio morire qui, ti prego, non voglio che Loren mi veda morire! Un’esplosione sullo scafo squarciò il silenzio: la carica esplosiva a tempo era detonata, lasciando Larry e Brad attoniti e spaventati. Corsero alla navicella, senza capire. Gli altri sopravvissuti scappavano dagli scivoli di emergenza piangendo e urlando, anneriti dal fumo. Una luce di consapevolezza si accese negli occhi di Brad, una luce di rabbia affamata di vendetta. - Non preoccuparti - disse a Larry che tastava Loren per assicurarsi che fosse tutta intera - Non preoccupatevi! - urlò a tutti. - Che vuoi fare?- gli chiese Larry, allarmato. - Non capisci? - urlò Brad - Ci volevano morti! Morti nel silenzio dello spazio, lontano dal loro senso di colpa! Ma noi siamo ancora vivi! Vivi! E quella piccola esplosione che lassù ci avrebbe annientati, qui, adesso, è la nostra speranza! - Ma come faremo… ? - disse Larry con lo sguardo vitreo, abbracciando Loren meccanicamente. - È tutto qui, ci hanno lasciato tutto! Abbiamo macchine e progetti, abbiamo le nostre braccia, e soprattutto, abbiamo le armi… nucleari! - aggiunse subito dopo. - Loro sono lassù, da soli, disarmati. Noi siamo qui e possiamo combatterli. - Ma che stai dicendo? - era evidente che suo fratello fosse impazzito. - Esattamente quello che senti! Saremo i padroni del nuovo mondo, ci organizzeremo, ci batteremo e vinceremo! Brad lo guardò senza convinzione: - Allora partiremo? - Partiremo, Larry, te lo prometto. Partiremo!

Stella Iasiello


Tiziano Angri - Bimba Helbones Artist


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.