Scuola Etica - Rapporto Medico-Paziente

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2. Riflessioni sul rapporto medico-paziente Dr.ssa Emanuela Blundetto – medico di medicina generale

Le recenti vicende della cronaca, molto pubblicizzate o, per meglio dire, “cavalcate” dai massmedia, relative al problema dell’eutanasia (caso Welby, caso Englaro, ecc) mi hanno sempre colpito profondamente, evocando in me una ridda di emozioni e facendomi sentire molto combattuta tra le due posizioni contrapposte, favorevole e non, in relazione alla mia figura di medico (in quanto detentore di “sapere scientifico”, razionale, basato sull’evidenza e sulla pratica clinica), di individuo (di volta in volta madre, moglie, figlia che si identifica con gli attori principali del dramma cui assiste) e di cristiana cattolica praticante (e pertanto fermamente convinta della inalienabilità della vita). Quando venni a sapere del corso di Etica Medica che l’Ordine stava organizzando, non ci pensai due volte a mandare l’iscrizione, illudendomi di riuscire così a fare un po’ di chiarezza dentro di me, magari grazie all’esperienza di altri colleghi ed insigni maestri. Tuttavia, già dal primo gradevolissimo incontro e sempre più mentre partecipavo ai successivi, mi rendevo conto che, piuttosto che diminuire, la mia confusione aumentava sempre più. Infatti, nessuno dei presenti aveva delle risposte chiare per sé e tantomeno esportabili ad altri, ma tutti avevano montagne di esperienze personali che li avevano portati a sviluppare una propria “filosofia” di vita, un proprio individuale codice deontologico, parallelo a quello che siamo tenuti a rispettare, che risente del proprio vissuto familiare, professionale, personale e della società che ci circonda. Attenta da sempre, per mia inclinazione personale, alla relazione medico-paziente, che a mio parere non può fare a meno di coinvolgere il medico in tutte le proprie sfaccettature, ho particolarmente apprezzato gli incontri relativi ai valori etici e alle risorse evocabili in tale relazione. In particolare, mi ha colpito la tecnica di Stuart e Lieberman, che non conoscevo, che permette in poche domande di focalizzare il punto fondamentale attorno a cui si è sviluppata la sofferenza ed il disagio di una persona; punto che, molto spesso, è ignoto persino allo stesso individuo che soffre e la cui scoperta permette invece di comprendere la genesi di molti disturbi che altrimenti potrebbero essere interpretati come organici e quindi richiedere numerose inutili, dispendiose ed esasperanti indagini! L’empatia, infatti, è a mio parere la dote principale che un medico dovrebbe coltivare nella propria personalità: a nulla valgono l’aggiornamento scientifico, la capacità clinica deduttiva, la semeiotica, la farmacologia se non si riesce a comprendere il vero motivo che ha portato un paziente nel nostro ambulatorio e se questi non si sente a proprio agio con noi, non si sente ascoltato, accolto, difficilmente ci racconterà magari il sintomo indispensabile per porre una corretta diagnosi e quindi instaurare la giusta terapia senza vagonate di inutili indagini o terapie inefficaci. Purtroppo, l’empatia non si studia sui libri, almeno non in quelli universitari di medicina, non la insegnano nei corsi di laurea che abbiamo seguito e non ricordo di aver mai sentito un insigne clinico soffermarsi sull’importanza dell’ascolto completo del paziente. Tutto è lasciato alla sensibilità personale e alle inclinazioni individuali e spesso è solo l’esperienza, che si acquisisce a volte inconsciamente in anni di professione, che insegna che il tutto non può risolversi in una fredda raccolta dell’anamnesi, seppur puntuale, o in una frettolosa visita semeiologica, seppur scrupolosa.


Quindi, ben vengano iniziative come questa organizzata dal nostro ordine provinciale e speriamo che ci sia un seguito che possa coinvolgere un sempre maggior numero di colleghi, in modo da diffondere la cultura dell’etica della medicina, smuovendo le nostre coscienze dal torpore in cui insensibilmente scivolano, trascinate dalla routine quotidiana che ci porta ad abituarci a qualunque cosa, anche a questa “marea” umana che frequenta i nostri ambulatori, portando con sé un bagaglio di malattia fisica e di disagio psicologico a cui noi non sempre riusciamo a dare voce.


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