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IN QUESTO NUMERO Sudtirolo: ecco perché non è il Kosovo di Carlo Romeo Balcani: da sempre una polveriera. Intervista a Stefano Bianchini La pulizia delle opzioni La storia di Thomas Martinz Libri: miniguida a tutta storia

STORIE rivista periodica a cura del museo storico in trento, anno primo numero uno, novembre 1999

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ltreStorie” Vuole essere una rivista di divulgazione storica, uno strumento per chi, con curiosità, si avvicina agli avvenimenti che accadono intorno a noi, ma non solo. Siamo consapevoli che “AltreStorie” nasce in una realtà provinciale e regionale piccola e caratterizzata. È proprio da qui che “AltreStorie” partirà per compiere ragionamenti e riflessioni di più ampio respiro. In sintesi: prendere spunto da una realtà come quella del Trentino - Alto Adige percepita non come ombelico del mondo, spazio chiuso intacca bile e intoccabile, ma entità capace di essere propositiva e dalla quale avviare discussioni e approfondimenti. Solo così riteniamo che ambizioni e progettualità di una terra di confine possano trovare di-

gnità e ascolto. È proprio per questo che abbiamo deciso di chiamarci “AltreStorie”. Un nome, un programma, si potrebbe dire. Qualche cosa di diverso, di “altro”, potremmo dire, più realisticamente, anche sulla scorta del seguito o meno che questa iniziativa del Museo Storico in Trento susciterà. Emblematico è il tema che affrontiamo in questo primo numero. Le guerre in ex Jugoslavia, con particolare riferimento al Kosovo, non possono non farci riflettere su che cosa sarebbe potuto succedere in Alto Adige/ Südtirol. Perché, fortunatamente, l’Alto Adige/Südtirol ha compiuto in questi decenni un seppur difficile ma stabile processo di convivenza tra i tre gruppi linguistici ed etnici? Abbiamo chiesto su questo un

intervento allo storico Carlo Romeo. L’ampio tema del futuro dei Balcani è affrontato con un’ intervista ad uno dei più attenti osservatori dell’area quale è Stefano Bianchini. A seguire, il tema delle opzioni, antesignano esempio di pulizia etnica in epoca fascista. Mauro Scroccaro affronta questo argomento nel suo ultimo studio, in fase di ultimazione. Ve ne proponiamo un’anticipazione con la storia di Thomas Martinz, contadino della Val Canale in provincia di Udine. Sono alcuni spunti e riflessioni che non intendiamo abbandonare o lasciare a questo primo numero. Ci auguriamo di poterli riprendere successivamente. Con l’esordio di “AltreStorie” inizia un percorso che speriamo possa essere sostenuto e trovare un suo spazio. Ci contiamo!


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STORIE Alto Adige/ Südtirol: ecco perché non è il Kosovo di Carlo Romeo

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l frequente riferimento alla “soluzione” altoatesina può sconcertare chiunque consideri la dimensione tragica che assumono per i Balcani le medesime parole (conflitto etnico, identità etnica) che in Alto Adige/Südtirol rivelano sempre più i caratteri della funzione e finzione. Chi conosce almeno un poco questa provincia sa che i problemi “reali” sono il mantenimento del benessere acquisito, le prospettive della “globalizzazione” e, sotto il profilo etnico, l’improrogabilità di garantire rappresentanza ad una realtà mistilingue sempre più ampia. L’armamento identitario in A/S fa parte degli strumenti cui ricorre dal 1992 una politica di «gestione del conflitto etnico controllato» (A. Pelinka). Certo, ogni conflitto etnico mostra affini meccanismi di radicalizzazione (sbilanciamento numerico tra i gruppi, rapporto città-mondo rurale, monopolizzazione etnica di ambiti economico-sociali) e affini dinamiche psicologiche collettive (uso nazionalistico e rivendicativo della storia, mobilitazione interna, etc). Ma la trasferibilità di micro-modelli è condizionata dagli equilibri politico-nazionali dell’area circostante. Solo la stabilizzazione dell’intera area balcanica, una sua lenta integrazione europea, potrà far sì che una qualunque soluzione istituzionale per il Kosovo possa rivelarsi efficace. La lotta nazionale nel Tirolo storico ha poco a che vedere con le rivalità nazionali balcaniche sullo sfondo del disfacimento del-

Kosovo, 1999

l’Impero ottomano, nel sanguinoso “piano di faglia” tra Occidente e Oriente in cui popolazioni vicine e affini si sono avvertite reciprocamente con i caratteri della più ostile diversità. L’A/S non ha conosciuto nemmeno lontanamente la violenza delle pulizie etniche balcaniche. Il progetto di italianizzazione si orientò dapprima all’assimilazione linguistico-culturale; la scarsità numerica della popolazione italiana e la mancanza di forti elementi identitari italiani - Druso non è diventato un re Lazar - mitigarono l’attrito tra i gruppi. Il ribaltamento degli equilibri numerici fu poi perseguito in forme certamente odiose ma non arrivò mai a prospettare espulsioni di massa o violente persecuzioni etniche. Nemmeno nel 1939 si giunse ad un trasferimento forzato, per via del principio di volontarietà e individualità dell’opzione. In quegli stessi mesi decine di migliaia di Volksdeutsche venivano “rimpatriati” forzatamente dai territori orientali, in seguito a sbrigativi e segreti accordi. È nella propaganda nazista e nell’esaltazione tolomeiana che le opzioni sono interpretate come Rückwanderung. Gli anni 1943-45 corrispondono al periodo di massima tensione, “sospesa” comunque dall’incerto status e dalla lontananza dal fronte di guerra. Quest’ultimo fu invece fattore dirompente nei Balcani, scatenando le efferate “rese dei conti” etniche, la cui memoria ha minato alla base la coscienza “nazionale” jugoslava post-bellica. Per l’A/S il dopoguerra segna

Luserna, 1941

l’inizio di una fase qualitativamente nuova, collocata in una prospettiva già “europea”, caratterizzata dall’internazionalizzazione delle garanzie alla minoranza e dal costituzionalismo che è alla base dell’autonomia e dei suoi successivi sviluppi. Va ridimensionato il ruolo del terrorismo sudtirolese degli anni Sessanta nelle dinamiche che portano al “Pacchetto”: urgevano necessità diplomatiche, rapporti europei, integrazione economica. Il problema jugoslavo invece non consisteva nella mediazione tra la sovranità di uno Stato e la rivendicazione di autonomia di una minoranza, ma nell’ equilibrio tra diverse nazionalità federate. Le stesse vicende dell’autonomia kosovara - quasi “sovrana” nel 1974, limitata nel 1981 e abrogata nel 1989 – rispondono ai rapporti di forza tra le Repubbliche e direttamente dal capovolgimento della tradizionale politica federale titina (una “debole” Serbia in una “forte” Jugoslavia). Dayton ha confermato che la “morte” della Jugoslavia ha portato a un assetto di tipo meramente etnico, giocato sulle “percentuali” di territorio e non sulle garanzie e sui diritti civili delle popolazioni. È solo in questo senso che il micro-modello dell’A/S, soprattutto per i suoi principi di compartecipazione, può assumere la responsabilità di un segno di orientamento ideale: in un contesto di stabilità, democrazia e di collaborazione internazionale dovrebbe essere possibile costruire autonomie non fondate sull’omogeneità etnica.


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STORIE “I Balcani rimangono una polveriera” “Ricostruire dal basso in un’ Europa che sia Stato” Intervista a Stefano Bianchini

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a ricostruzione in Kosovo e in Serbia è assolutamente indispensabile per la pacificazione dell’area. È però necessario che essa riguardi tutti i Balcani. Se le grandi infrastrutture non vengono ricostruite non si danneggia solo la Serbia, ma anche i paesi limitrofi, la Slovacchia o la Bulgaria, ad esempio”. Su questo Stefano Bianchini docente di storia e istituzioni dell’Europa orientale alla facoltà di Scienze politiche di Bologna sede di Forlì e responsabile del network Europe and the Balkansè categorico. “La ricostruzione trascende i regimi politici, è una questione generale che potrebbe essere gestita senza ricercare l’accordo con i Governi statuali dell’area. La logica potrebbe essere quella della reintegrazione, bypassando l’opposizione dei Governi centrali”. E in che modo? “Gli aiuti dovrebbero arrivare direttamente dai gruppi di opposizione a organizzazioni non governative, a comunità e ammi nistrazioni locali attraverso accordi bilaterali. Così facendo si potrebbe attenuare il ruolo dominante della sovranità centrale.” I Balcani sono destinati a rimanere una polveriera o si avviano verso un processo di pacificazione? “Al momento rimangono una polveriera. Non vedo all’orizzonte alcun processo di pacificazione. Siamo in un momento di stasi che non prelude a nulla di buono perché manca una strategia globale verso l’intera area. Fino a quando l’area non verrà considerata omogenea e interdipendente la soluzione al problema dei Balcani non ci sarà. E poi bisogna uscire da una logica nazionalista, dalla logica dello Stato nazione etnicamente inteso. I Balcani devono trovare una forma Kosovo, 1999

di integrazione, ma altrettanto si può dire per l’Europa. Fino a quando l’Europa non si trasformerà in Stato, rimarrà sempre debole e fragile, incapace culturalmente di affrontare i problemi balcanici”. Dal punto di vista culturale fa sempre una certa impressione sentir parlare, a giustificazione di guerre che nulla hanno di santo, battaglie di cento anni fa, di dighe all’invasione mussulmana dell’occidente cristiano. Penso alla battaglia del Campo dei Merli datata 1389. “Attenzione. Anche nella cultura occidentale c’è un approccio di questo genere. Solo che in occidente non è dominante, nei Balcani sì. Dirò di più. Questo tipo di atteggiamento, nei Balcani, è figlio di una cultura che viene dall’Europa occidentale. Penso alla cultura etno-nazionale di Herder o del romanticismo antiilluminista in Germania, alla revanche francese di Petain, alla cultura dell’irredentismo italiano. Sono questi i referenti politici e culturali validi anche per i Balcani. E poi, una cultura che si fonda sulla cittadinanza di sangue anziché di suolo si può trovare anche attualmente in certi movimenti di destra in Europa occidentale. In definitiva, bisogna ragionare non in termini di contrapposizione Oriente-Occidente, ma di trasversalità. Ci sono culture occidentali che dialogano benissimo con quelle balcaniche partendo dal dato comune di un rifiuto del concetto etno-nazionale. Diversamente, un altro tipo di cultura presente nei Balcani non è diversa dal razzismo occidentale che sgorga dai settori più cupi della cultura francese, italiana e tedesca”. Perché sono scoppiate le guerre sul territorio della ex-Jugoslavia? Ragioni politiche, economiche? “La motivazione è prettamente politica. Le ragioni economiche vanno ricercate, eventualmente, solo nel processo di disgregazione della Jugoslavia e non certo nel fatto che agenti esterni abbiano avuto interesse ad intervenire per appropriarsi di determinate risorse. In questo conte-

sto, dopo un decennio nel corso del quale non si è riusciti al elaborare una politica economica condivisa tra le Repubbliche, è maturata la convinzione che solo dividendosi sarebbe stato più facile accedere allo sviluppo. Cioè: uno Stato etnicamente puro in cui tutti parlano la stessa lingua, hanno la stessa cultura, religione, tradizione e il rapporto tra governati e governanti è immediato, costituisce un fattore molto più solido di sviluppo rispetto alla complessità di una vita in comune tra le varie Repubbliche. A dimostrazione di questo, basti pensare a come, per la dirigenza serba, la responsabilità della crisi jugoslava sia da attribuire agli sloveni che dirigevano le banche e i ministeri economici. Per gli sloveni invece la colpa era di Belgrado che divorava tutti i soldi e non li ridistribuiva in maniera equa. Sono solo alcuni esempi che però avvalorano la tesi che alla base della crisi vi siano principalmente motivazioni politiche”. Come può essere interpretato il ruolo che hanno avuto e hanno gli Stati Uniti nel teatro balcanico? “Vi sono diverse ipotesi. Io propendo per la tesi secondo la quale gli Stati Uniti siano stati trascinati nel conflitto senza avere avuto una chiara strategia. Hanno pensato, di volta in volta, di porre fine ad una situazione che dava fastidio in quanto le tensioni maggiori e più importanti sono quelle dell’area mediorientale. Insomma, usare la mano forte e risolvere il problema rapidamente, visto che gli europei non riuscivano a mettersi d’accordo e avere una politica comune. L’establishment americano sottovaluta il fragilissimo equilibrio di vasi comunicanti che caratterizza l’area balcanica. Intervenire in un settore senza avere una strategia complessiva non fa altro che spostare il problema. Qualche cosa si romperà da un’altra parte e quindi bisognerà intervenire nuovamente. Alla fine si rischia che tutto si rompa in mille pezzi e non si riesca a tenere insieme il complesso”.


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STORIE Forum per la pace: ”Una coraggiosa cultura non violenta” intervista a Vincenzo Passerini

Forum per la pace: IDENTIKIT

Via Bernardo Clesio, 3 38100 TRENTO Tel. 230482, fax 237418

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iuscire a sviluppare una cultura della non-violenza come cultura dei forti e non dei deboli. Viviamo in un mondo caratterizzato da conflitti etnici e guerre civili, dai problemi che derivano dalla convivenza di tante minoranze. Tutto questo richiede un approccio nuovo anche da parte della grande politica. In questo senso, la strada può essere quella di una politica della nonviolenza intesa come approccio forte, coraggioso e significativo in una prospettiva di convivenza”. Vincenzo Passerini, presidente del Forum trentino per la pace, vede così il futuro prossimo del Forum, le sue linee di indirizzo. Costituito con legge provinciale nel 1991 (“Promozione e diffusione della cultura della pace”) il Forum è una struttura incardinata nella presidenza del Consiglio provinciale di Trento. “Il Forum è un organismo un po’ atipico nel panorama italiano, costituito da un’assemblea e da un consiglio. Raccoglie infatti associazioni spontanee, rappresentanze di istituti e politico- istituzionali”, afferma Passerini. Tracciamo un bilancio dell’attività svolta in questi anni. “Si è cercato di fare in modo che questa entità fosse un punto di riferimento per le associazioni che si occupano di pace, di solidarietà, di diritti umani e

di aiuto internazionale, non sostituendosi ad esse ma sostenendole. Molte sono state poi le iniziative promosse e alle quali si è partecipato, nazionali e internazionali. Dall’assemblea dell’ONU dei popoli alle marce della pace, ad esempio. Si è poi elaborato un progetto formativo scolastico per l’educazione alla pace e alla non violenza in un’ottica interculturale. Questo è un fronte importante, vista la sempre maggiore presenza di alunni stranieri nelle scuole trentine”. A proposito di questo, in quali termini lei vede possibile un approccio positivo ad una società multietnica come si sta configurando anche nei nostri ristretti “confini” regionali e provinciali? “La convivenza è la grande scommessa del futuro unita a quella della consapevolezza che anche le altre società, non solo quella regionale che per sua natura è interetnica, dovranno fare i conti con tante minoranze tra loro profondamente diverse e spesso conflittuali. Questi fenomeni rischiano di aumentare la conflittualità. Bisogna imparare ed educarci ad affrontarli con una cultura che non ignori questi problemi ma li fronteggi dal punto di vista della conoscenza, della comprensione e della capacità di risolverli”. I problemi balcanici, la pacificazione e la ricostruzione. Il

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Forum se ne occuperà? “I Balcani rappresenteranno, per il Forum, un terreno di prova per i prossimi anni. Ci sarà bisogno di non dimenticare, di non fare finta di aver risolto questi problemi. Nei prossimi anni saranno presenti nei Balcani non solo gli Stati ma molte associazioni non governative. C’è bisogno di formare gli operatori volontari che andranno sul posto partendo da una considerazione: il vero volontariato non è fatto solo di generosità e spontaneità ma di competenza. Su questo fronte il Forum, assieme ad altri organismi provinciali e nazionali, sta valutando la possibilità di dar vita ad un Osservatorio sui Balcani. Dovrebbe essere un luogo dove acquisire le informazioni necessarie per poter essere efficacemente presenti nei Balcani, sia per i volontari ma anche per gli organismi nazionali. È un’iniziativa che mi auguro vada in porto”. In conclusione, Passerini, chiosa: “La vera cultura pacifista non è rappresentata dal semplice rifiuto della guerra. È una cultura che cerca di prevenire i conflitti. Ci vuole quindi competenza, serietà di approccio e larga partecipazione. Se vogliamo che non si ripetano le guerre a cui abbiamo assistito, ciascuno, nel suo piccolo, deve fare la sua parte”.

l Forum Trentino per la Pace nasce nel 1991 con legge provinciale(“Promozione e diffusione della cultura della pace”) ed è incardinata nella presidenza del Consiglio Provinciale. È una legge che intende sollecitare e sostenere la conoscenza dei problemi di pace, dei diritti umani, della solidarietà tra i popoli, delle modalità non violente di risoluzione dei conflitti attraverso studi, ricerche e attività formative da realizzarsi in stretta collaborazione con le associazioni, le istituzioni culturali e gli Enti territoriali che si occupano di questi temi. L’Assemblea del Forum è composta: dall’Assessore provinciale alla cultura, dal Presidente del Consiglio Provinciale e da tre Consiglieri provinciali di cui due nominati

dalle minoranze, da due rappresentanti degli enti locali scelti tra quelli che partecipano al coordinamento Comuni per la Pace, dai rappresentanti del Museo storico in Trento, del Museo storico italiano della guerra di Rovereto, della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto, dell’Università, dell’Istituto provinciale di ricerca, aggiornamento e sperimentazione educativi. L’Assemblea elegge il Consiglio, il Presidente e il Vicepresidente e rimane in carica per la durata della legislatura. Il Forum è formato da 44 componenti di cui 32 rappresentanti delle associazioni. Presidente è il consigliere Vincenzo Passerini, vicepresidente Lucia Coppola.

ALTRESTORIE Periodico di informazione Supplemento alla rivista “Archivio trentino”, periodico semestrale registrato dal Tribunale di Trento il 20.2.1997, n. 944 Direttore responsabile: Sergio Benvenuti

In redazione: Paolo Piffer, Giuseppe Ferrandi, Rodolfo Taiani, Patrizia Marchesoni Museo storico in Trento onlus - http://www.museostorico.tn.it; e-mail: museostorico@museostorico.tn.it


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STORIE AGENDA

“SU TUTTE LE VETTE È PACE” Il film di Gianikian e Ricci Lucchi Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, di origini armene lui di Lugo di Romagna lei, non sono certo nuovi del mestiere. Già con il precedente “Prigionieri della guerra” avevano costruito, con materiali di archivio, l’epopea dei campi di prigionia durante il primo conflitto mondiale. Disarticolare il fotogramma, rifilmare, virare, le loro parole d’ordine. In “Su tutte le vette è pace” il soggetto è la guerra, la Prima, in montagna. Il paesaggio, l’uomo soldato, gli animali, gli oggetti del lavoro dei due registi. “Su tutte le vette è pace”, presentato in prima mondiale alla biennale lo scorso anno, è una produzione del Museo storico in Trento, del Museo storico italiano della guerra, del Comune di Rovereto e della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto, consulenza storica di Diego Leoni. 72 minuti resi possibili grazie anche al sostegno finanziario della Provincia autonoma di

Trento. Il film ha ottenuto alcuni premi internazionali ed è stato presentato recentemente anche alla Cinemateque di Parigi. “Su tutte le vette è pace, in VHS, è in vendita, a £. 35.000, nelle maggiori librerie e al Museo storico in Trento.

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ei mesi di settembre e ottobre il Museo storico ha collaborato all’organizzazione di due importanti convegni internazionali tenutisi a Trento. Il primo L’UMANITÁ OFFESA: STERMINI E MEMORIA NELL’EUROPA DEL NOVECENTO, XVII settimana di studio dell’Istituto storico italo germanico, ha affrontato temi quali il cambiamento del concetto di umanità tra Otto e Novecento e la sua ricaduta nei vari settori dello scibile. Il Museo storico ha proposto una sezione espositiva sul Lager di Bolzano. Il secondo convegno LA VILLE DANS LA MONTAGNE-LA MONTAGNE DANS LA VILLE, organizzato dall’Associazione internazionale per la storia delle Alpi e dal Dipartimento di economia del-

l’Università degli studi di Trento, ha affrontato il tema del concetto di area alpina intesa come sistema di relazioni capace di arricchire e trasformare una civiltà per troppo tempo considerata chiusa in se stessa.

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ei mesi di ottobre e novembre il Laboratorio didattico del Museo storico in Trento propone un corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie e superiori sul tema: LA SHOAH E I GENOCIDI DEL XX SECOLO. MEMORIA, STORIOGRAFIA, DIDATTICA.

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ell’ambito del progetto STORIA REGIONALE DEL NOVECENTO, attivo da circa un anno, il Museo storico ha organizzato il 15 ottobre scorso un incontro con il prof. Peter Hertner sul significato del termine “regione” nell’uso storico-economico cui è seguita la presentazione del volume di Barbara Curli “Italiane al lavoro:1914-1920” con gli interventi, oltre che di Hertner, di Maria Pia Bigaran e Lidia Menapace.

Scegliamo qualche libro GHETTI. L’ANTICAMERA DELLO STERMINIO di Gustavo Corni Giunti; pagg. 61; Inserto di Storia e Dossier n.140 luglio-agosto 1999 Gustavo Corni è docente di Storia contemporanea alla Facoltà di Sociologia di Trento. In questo breve saggio analizza l’istituzione dei ghetti ebraici che accompagna l’avanzata tedesca nei territori orientali: Polonia fin dal 1939 poi Unione Sovietica. Lodz, Varsavia, Minsk, Kaunas. “Quella dei ghetti è una storia ancora in buona parte da scrivere”, recita la quarta di copertina. “Una storia fatta di sofferenze, ambiguità, eroismi e paure”. LA GUERRA IN CASA di Luca Rastello Einaudi; pagg. 260; £. 24.000 “Questo è un libro di storie, non di storia. Si tratta di storie che hanno tutte un versante italiano e che hanno origine nell’esperienza del Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino, fondato nell’inverno del ‘92” precisa Luca Rastello - direttore di “Narcomafie” del gruppo Abele nella premessa. Storie rigorosamente vere di profughi e volontari, generali e soldati delle Nazioni Unite, “qui” a Torino e “lì” nella ex Jugoslavia.

L’OLOCAUSTO di Wolfgang Benz Bollati Boringhieri; pagg.120; £. 24.000 Wolfgang Benz dirige a Berlino un importante centro di ricerche sull’antisemitismo. Il saggio affronta una questione sempre attuale e mai da dimenticarsi bensì da ricordare e divulgare alle nuove generazioni. L’Olocausto è collocato all’interno della più generale storia del nazismo e del Terzo Reich, se ne mostrano i nessi con gli altri aspetti della politica hitleriana, cercando di spiegare il genocidio. DAI BALCANI AGLI URALI. L’EUROPA ORIENTALE NELLA STORIA CONTEMPORANEA di Andrea Graziosi Donzelli editore; pagg.120; £. 28.000 “Gli eventi che da qualche anno insanguinano i Balcani e le vicissitudini attraversate dalla Russia e dagli altri paesi che fecero parte dell’Urss, costituiscono l’evoluzione di fenomeni che hanno come origine comune il disfacimento di tre grandi imperi russo, asburgico e ottomano - sotto la pressione del processo di formazione, anche in quelle regioni, dello Stato nazionale moderno”. Questa la tesi del lavoro di Graziosi, docente

dell’Università di Napoli. LA DISTRUZIONE DEGLI EBREI D’EUROPA (Nuova edizione riveduta e ampliata) di Raul Hilberg Einaudi; pagg.1479; £.170.000 Un’opera ponderosa, riveduta e ampliata, rispetto alla prima edizione del 1985. Hilberg, austriaco emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali, torna in Europa nelle fila dell’esercito americano. A contatto con l’orrore provocato dal nazismo nasce la vocazione dello storico. Cinquant’anni di ricerche, una mole sterminata di documenti e testimonianze, la ricostruzione minuziosa di un agghiacciante meccanismo di distruzione. VIA DALLA MIA TERRA. IL DIARIO DI SADBERA. LA GUERRA IN KOSOVO NEGLI OCCHI DI UNA RAGAZZA di Sabdera Gashi Mondadori; pagg. 88; £. 20.000 “Siamo tutti in cantina, sono seduta per terra perché non ho un posto dove dormire. I bombardamenti non sono ancora fermi. La luce non c’è. Sto scrivendo con la luce di una candela...” Sab-

dera Gashi ha 19 anni, è di Pristrina, Kosovo. Prima le angherie dei serbi poi i bombardamenti della Nato. Un diario di vita quotidiana. AI CONFINI DELL’UMANITÁ KOSOVO: IMMAGINI E STORIE DALLA MISSIONE UMANITARIA IN ALBANIA di Piero Cavagna e Sergio Damiani Symposium; £.10.000 Piero Cavagna e Sergio Damiani, fotografi e giornalisti, hanno seguito la missione umanitaria trentina a Kukes in Albania. Ne è nato questo libro di immagini e storie, ritratto di un girone infernale. Un’odissea, quella del popolo kosovaro, simile ad altre, fotografie che riportano alla mente esodi biblici del passato remoto e prossimo.


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STORIE La pulizia delle opzioni. La storia di Thomas Martinz, contadino della Val Canale

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urono 198.784 i cittadini della provincia di Bolzano che nel 1939 optarono per la Germania. 13.083 quelli della zona mistilingue allora della provincia di Trento e con esse altre migliaia di ladini fassani e bellunesi, mocheni, lusernesi, trentini in genere, sloveni e tedeschi della Val Canale in provincia di Udine. Le popolazioni delle aree di madre lingua tedesca sul territorio italiano furono in pratica “invitate” a lasciare la propria terra per la Germania, forza lavoro al servizio dei sogni espansivi del nazionalsocialismo. L’accordo italo tedesco siglato a Berlino non portò ai frutti sperati, l’unione delle popolazioni tedesche da una parte, una subitanea italianizzazione dell’Alto Adige e della Val Canale dall’altra. “Solo” in 75.000 si trasferirono realmente. “Il trasferimento nel Terzo Reich era stato stabilito sopra le teste dei sudtirolesi e dei valcanalesi, pur concedendo loro la possibilità di scelta individuale”; “L’atmosfera era satura di voci bisbigliate, di minacce, di speculazioni. La guerra e la disfatta militare del fascismo e del nazionalsocialismo impedirono comunque che siffatti piani e vociferazioni si traducessero in realtà”. Sono alcune considerazioni, tratte dal bel catalogo che accompagnò la mostra sulle opzioni di dieci anni fa a Bolzano, che ben illustrano il clima di pulizia etnica strisciante che permeava le realtà territoriali soggette alle opzioni. Mauro Scroccaro, storico mestrino, che già in passato si è occupato di minoranze, torna sull’argomento. “Dall’aquila bicipite alla camicia bruna. Trentino, Sudtirolo, Val Canale 1919-1939: optanti ed opzioni nelle nuove provincie” è il titolo di un saggio che verrà stampato prossimamente. Una lunga e accurata ricerca negli archivi di Bolzano, Trento, Udine, Trieste, Roma e Lubiana. In anteprima, quello che vi proponiamo è uno stralcio, significativo, tratto dall’introduzione del saggio di Scroccaro. È la storia di Thomas Martinz, contadino di Coccau, frazione di Tarvisio in Val Canale, provincia di Udine.

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uando il 20 dicembre 1896, a Coccau, da Martin Martinz e Lucia Wedam, contadini originari di Valbruna, quarto di nove figli, nacque Thomas, Coccau, anzi Goggau come fino ad allora tutti l’avevano chiamata, era una piccola frazione di Tarvis all’inizio della Val Canale nella parte meridionale della Carinzia ai confini dell’Impero austro ungarico. Secondo il censimento austriaco del 1910 era abitata da 408 persone, 191 uomini e 217 donne, delle quali 401 erano cattoliche e 7 protestanti. Il censimento, anche se in forme piuttosto discutibili, rilevava tra l’altro anche il dato etnico attraverso la lingua d’uso, la Umgangssprache, e dava a Goggau una popolazione pressoché compatta di 403 tedeschi, mentre complessivamente nel resto del comune si registravano 3.480 tedeschi, 93 sloveni e 198 genericamente definiti “altri”. Nel 1914 allo scoppio della prima guerra mondiale Thomas, giovanissimo, venne arruolato assieme a due suoi fratelli e inviato sul fronte russo in Galizia, dove nel 1915, assieme ad uno dei fratelli, viene fatto prigioniero. ………. Terminata la guerra nel 1919, dopo non poche peripezie, Thomas riesce a tornare a casa dove riprende la sua vita di contadino. La Val Canale nel frattempo è

stata occupata dagli italiani e Klagenfurt, il capoluogo della Carinzia, è rivendicata e minacciata dal nuovo Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni che nel frattempo si è creato a pochi chilometri da Coccau, oltre Weissenfels, dove iniziava fino a pochi mesi prima la regione della Carniola. Attorno al piccolo maso dei Martinz le coordinate politico-geografiche cominciavano a non essere più le stesse, e di lì a poco, in base al trattato di Saint Germain, anche Tarvis con tutta la Val Canale fino a Pontafel, in nome di superiori esigenze strategico militari sarebbe diventata italiana. Goggau diventa allora Coccau, Tarvis Tarvisio, la nuova provincia di appartenenza Udine, mentre ora l’Austria era diventata solo una piccola repubblica il cui territorio iniziava a pochi passi dalla casa di Thomas. …………. Nel 1930, dopo la morte della prima moglie, Thomas si risposa con Aloisia Klavora, di Plezzo nell’alta valle dell’Isonzo, passata anche questa all’Italia nel 1918 con la dissoluzione dell’Austria-Ungheria. ……………….. Tra il 1931 e il 1935 Thomas e Aloisia hanno tre figli, Liliana, Carolina e Giuseppe. Questi i loro nomi all’anagrafe, ma in casa i tre bambini vengono chiamati Lilli, Lina e “Peperle”, di-

minutivo di Joseph. Liliana, la maggiore, nel 1937 inizia a frequentare la scuola e a casa deve spiegare che al familiare “gruss Gott” bisogna sostituire la parola buongiorno, che la storia ha come ombelico del mondo Roma, i romani e i loro discendenti italiani guidati oggi fulgidamente dal Duce verso nuovi traguardi di grandezza e splendore, che gli altri sono solo discendenti di genti rozze e barbare, che la vecchia Austria di Francesco Giuseppe era quel grande oppressore di popoli e nazioni che nel 1918 anche l’Italia aveva contribuito a sconfiggere liberando finalmente dalla tirannia terre da sempre italiane e raggiungendo i naturali e legittimi confini delle Alpi. …………………. Nel marzo del 1938 la Germania di Hitler si annette quel che era rimasto dell’Austria e alle porte dei Martinz, alle sbarre del confine, si cambiano di nuovo colori. Alla bandiera austriaca si sostituisce ora la croce uncinata della grande Germania nazionalsocialista, la Vaterland, la grande patria di tutti i Volksdeutsche, di tutto il popolo tedesco. È un momento di grande inquietudine. In modo sempre più deciso anche a Tarvisio e nella Val Canale si agitano idee, persone ed immagini che richiamano all’unità di tutti i tedeschi. Ciò che prima erano solo delle voci, delle


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STORIE velate allusioni, delle speranze, ora che la potente Germania ha trasformato la piccola e debole Austria in una semplice espressione geografica, la Ostmark, ora tutto sembra possibile. Si riaccende, o meglio si accende del tutto nuovo, un irredentismo pantedesco filo germanico, si parla, anche se impropriamente, di un “ritorno” del Sudtirolo e della Val Canale al Reich tedesco, si profila l’idea che gli italiani se ne vadano, se ne tornino a casa loro. Niente di tutto questo. Troppo rischioso incrinare un’alleanza tra due regimi totalitari per poche migliaia di tedeschi finiti al di qua delle Alpi nel corso dei secoli per qualche balordo scherzo della storia. Ma dato che ci sono e creano un problema, questo va risolto una volta per tutte in forma definitiva e a Thomas e ai suoi compaesani, i “problemi”, entro il 31 dicembre del 1939, verrà imposto di decidere se rimanere tedeschi, quali erano, e dunque trasferirsi nei territori del Reich, oppure di accettare di diventare buoni italiani. Thomas, come molti altri, è dubbioso, incerto, preoccupato, è una decisione terribile e aspetta fino al 20 dicembre: poi, come quasi tutti, deciderà di “votare” per la Germania. Torna perfino suo fratello dal Sudamerica apposta per optare, convinto di poter approfittare di una grossa occasione per sistemarsi per il resto della vita. Così, il 18 settembre del 1940, Thomas, i suoi tre figli e la mo-

Thomas Martinz al lavoro

glie, slovena, ottengono la cittadinanza germanica e in attesa di trasferirsi nei territori del reich diventano tutto ad un tratto stranieri in casa loro. Per ben tre volte Thomas va in Carinzia, nella Rosenthal, a vedere la possibile nuova abitazione completa di campi e segheria. Per ben tre volte rinuncia. Molte cose non lo hanno convinto: le case che vede, ancora arredate come se i veri proprietari per una qualche oscura ragione se ne fossero andati da pochi minuti prima, la lunghezza e l’incertezza della vendita dei suoi beni, l’idea di dover lasciare la propria terra, la propria casa, la propria valle. Nonostante il passaporto pronto fin dal febbraio del 1940, Thomas e la sua famiglia non partono, non vogliono partire e quando, nell’estate del ’42, un camion dell’organizzazione germanica si avvicina a casa per iniziare forzatamente il trasloco, Thomas, riparati i suoi figli in casa esce ed affronta molto energicamente quelli che erano venuti a portarlo via: si mette a gridare che mai lascerà casa sua, che una guerra lui l’aveva già fatta e che tanto aveva già dato, che se ne andassero. Se ne andranno e Thomas Martinz, cittadino germanico, rimarrà a casa sua in Italia, a Coccau, nel comune di Tarvisio in provincia di Udine e i suoi figli, cittadini germanici, continueranno a varcare la frontiera tutti i giorni per andare a scuola a Maglern, appena oltre il confine nel loro “nuovo” paese, la Germania; a mostrare ogni giorno il lasciapassare ad un qualche carabiniere, a marciare nelle file della Hitlerjungend il mattino a scuola, a salutare con il saluto romano qualche gerarca fascista di passaggio per le strade di Tarvisio il pomeriggio, una volta tornati a casa. Piccole anomalie in un mondo sconquassato di nuovo dalla guerra, dagli eccidi, dalle devastazioni. L’8 settembre del ’43 Thomas è ancora a Coccau. Con l’occupazione tedesca qualcosa si norma-

lizza, i suoi figli possono tornare a scuola a Tarvisio nella nuova scuola tedesca e la sua famiglia, per il momento, non è più ospite in una nazione straniera. Thomas ha molto lavoro alla segheria commissionato dalla Wermacht, deve anche prestare servizio con il fratello nella Selbschultz, una sorta di polizia locale incaricata di garantire l’ordine e la sicurezza. Quando il 30 maggio del ’45 Hitler si suicidò nel suo bunker a Berlino e pochi giorni dopo scomparve la Germania nazionalsocialista, Thomas era ancora nella sua casa a Coccau, nei suoi campi, nella sua segheria. In quei giorni un’unità inglese, composta di soldati ebrei, arriva a Tarvisio, gli requisisce del legname senza pagarlo, picchiano il fratello, commettono altri piccoli abusi legittimati dal fatto di trovarsi di fronte a delle persone la cui colpa era di essere dei tedeschi che avevano chiesto di diventare cittadini del Reich e perciò possibili fiancheggiatori dei nazisti. Finisce la guerra e ancora una volta alla porta dei Martinz, alla barriere di confine, si cambiano le bandiere; rinasce l’Austria, mentre il paese della moglie, Plezzo, finisce nella nuova Jugoslavia di Tito, al di là della “cortina di ferro” e di uno dei confini più blindati e delicati di quel momento; di quel mondo diviso in due che aveva definitivamente separato due valli da sempre strettamente in comunicazione. Per i Martinz, ancora cittadini germanici, un altro seccante problema. Thomas riacquisterà la cittadinanza italiana nel 1948, finalmente di nuovo regolare residente in casa sua. Ancora una volta l’anagrafe muterà il nome dei suoi familiari, questa volta in modo definitivo. Morirà cittadino italiano. Per i figli lo sloveno, che la moglie aveva comunque voluto insegnar loro, rimane oggi un ricordo poco praticato; per i nipoti il tedesco è solo una lingua imparata a scuola e parlata al di là dell’attuale confine.


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