THE DANCER. Storia d'amore e di pugni in 12 round

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NARRATIVA MINERVA Collana diretta da Giacomo Battara


THE DANCER Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Un ringraziamento particolare a: US MANAGEMENT di Ugo Scalise ISBN: 978-88-7381-645-4 MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


LILIANA ERITREI

ADRIANA SABBATINI

7+( '$1&(5 STORIA D’AMORE E DI PUGNI IN

ROMANZO

MINERVA EDIZIONI

12 ROUND



I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione (Cassius Clay)



“Ci spingiamo innanzi sul mare... quando da lungi scorgiamo oscuri colli e il basso lido dell’Italia. Le invocate brezze rinforzano, e già più vicino si intravede un porto, e appare un tempio di Minerva su una rocca. I compagni ammainano le vele e volgono a riva le prore. Il porto è incurvato ad arco dalla corrente dell’Euro; i suoi moli rocciosi protesi nel mare schiumano di spruzzi salati, e lo nascondono; alti scogli infatti lo cingono con le loro braccia come un doppio muro, e ai nostri occhi il tempio si allontana dalla riva”.

Virgilio, Eneide, III libro, (Il viaggio di Enea da Troia a Roma)

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Saltellando al ritmo della sua musica il pugile fende l’aria con i guantoni e c’è un’espressione nuova nel suo sguardo. L’allenatore lo osserva muovere i piedi come se fossero d’aria e stavolta c’è orgoglio puro nei suoi occhi. È arrivato il momento. La porta dello spogliatoio si spalanca e la musica dello stereo si dissolve nell’esplosione ritmica che arriva dallo stadio gremito...

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Due anni prima

In piedi sul ponte della nave, Ben Haim Mbasa guardava la scia bianca di spuma solcare le onde del Mediterraneo e lentamente sorrise. Aveva la faccia di un ragazzo che non aveva paura della fatica, anzi, era proprio per questo che aveva lasciato la sua terra ed era arrivato fin qui, in Italia. Per costruirsi un futuro. Così, senza aggettivi. Non importava che fosse bello o brutto, bastava che fosse. Ben non pensava al ritorno. Non coltivava il sogno di accumulare un capitale per diventare un giovane imprenditore nel paese delle piroghe. Era mosso dal desiderio della conoscenza, che solo l’esperienza del viaggio gli avrebbe potuto dare, l’unico modo per demolire i propri limiti, per cercare se stesso dentro gli altri. Un altro paese, altra gente intorno a te, agitata in modo un po’ bizzarro... pensava con le parole di Bardamu in “Viaggio al termine della notte”. La testa vi gira, il dubbio vi attira e l’infinito si spalanca solo per voi, un ridicolo piccolo infinito e voi ci cascate dentro. Il viaggio, scriveva Céline illuminando la mente di Ben come una fiaccola olimpica, è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni...

Troppo caldo per essere solo primavera, constatò con quello sgomento che sempre più spesso lo coglieva mentre avvertiva le anomale mutazioni degli eventi naturali, quando l’uva maturava troppo presto e poi seccava di 11


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colpo prosciugata dal sole spietato e dall’assenza di pioggia, o quando una catastrofica alluvione autunnale spazzava via in un giorno il lavoro di mesi. Aprì del tutto il finestrino e si asciugò la fronte sudata con il dorso della mano. Era mattina presto e già il calore rendeva liquido l’asfalto, tra qualche ora l’aria densa di salsedine sarebbe diventata quasi irrespirabile. Accompagnato da una sonora grattata, il vecchio furgone discendeva lentamente la strada costiera cosparsa di cespugli di mirto, verso il bianco accecante di Castro Marina. Lì, in quell’antico borgo peschereccio radunato attorno a una rada rocciosa punteggiata di barche, Enea mise finalmente piede in terra d´Italia, l´antica madre, come gli aveva predetto l´oracolo d’Apollo e per la prima volta, a Castrum Minervae, si sentì a casa. Rocco Di Santo era orgoglioso della sua Finis Terrae, come la chiamavano i Romani, talmente orgoglioso da sentire da sempre il bisogno di tributarle qualcosa, di offrirle un suo personale omaggio. Dì pure di prenderti una bella rivincita, gli sussurrò una scanzonata voce di dentro. Sorrise con una smorfia pensando e ripensando come sempre al significato di quello strano sogno che lo tormentava da anni... Il furgone aveva superato l’imponente cancello di ferro ed era entrato nel perimetro della masseria, circondata da alberi d’olivo e filari di viti, splendente di luce rovente. Al suo passaggio un giovane sudamericano dalla faccia simpatica, al lavoro nei campi, sventolò in aria il suo cappello di paglia. “Buenas dias, signor Rocco!” “Hasta la vista, professore” rispose con un paio di colpi di clacson, sporgendosi dal finestrino. ‘Professore’ non era un soprannome. Luis, laureando in Scienze e Tecnologie Viticole ed Enologiche 12


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all’università di Bari, aveva scelto il Salento per preparare la sua tesi: ‘Coltivazioni arboree. La viticoltura a uva da tavola in Puglia: aspetti tecnici’. In masseria lavorava, faceva ricerche e si manteneva agli studi. Tipo solitario, di poche parole, gli mancava la sua lingua e l’unica cosa che lo distraeva dopo ore trascorse a calcolare l’influenza esercitata dal carico di gemme sull’evoluzione della composizione d’uva da vino, era declamare versi in lingua spagnola. Sapeva a memoria intere poesie di Pablo Neruda e ne citava sempre una giusta per ogni occasione: il bel tempo, la pioggia, la fatica e tutta la gamma intera dei sentimenti umani, potevano essere espressi da Luis attraverso i versi del grande poeta cileno. Monica, di ritorno dall’orto con i jeans stinti arrotolati sulle caviglie, chiamava a gran voce Lorenzo. L’esile ragazzino correva a fatica nella terra sabbiosa per far riprendere quota al suo aquilone. Niente da fare, ormai era atterrato. Con un moto di delusione si voltò di scatto e senza guardare attraversò la strada sterrata proprio nel momento in cui stava transitando il furgone. Monica cacciò un urlo e Di Santo inchiodò di colpo, evitando d’investirlo in pieno. Scese e si avvicinò stravolto al bambino, rimasto immobile a un passo dal cofano. “Benedetto curciùlu, ma che mi combini? Vuoi farmi prendere un colpo?” Non sentì l’impulso di abbracciarlo. Pensò soltanto che quel bambino fosse troppo magro, sembrava più piccolo dei suoi sette anni. Lorenzo lo guardò accigliato e con uno scatto riprese a correre verso il mare, trascinandosi dietro il suo aquilone. “Dio mio Signor Rocco...” 13


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Monica si passò un fazzoletto sul collo zuppo di sudore, mentre riprendeva fiato dopo la corsa. Aveva un volto piccolo e punteggiato di lentiggini, sopracciglia folte e nere come i capelli che incorniciavano gli occhi chiari, ingranditi dalla paura. Il sole del mattino le batteva in faccia, già tanto forte da obbligarla ad abbassare la tesa del cappello di paglia sulla fronte. “L’ho visto andare dritto contro di lei, m’è preso un colpo! Itte malannu!” Di Santo risalì velocemente sul furgone. “Aspetti. La signora Elide ha bisogno di parlarle, deve dirle una cosa importante, dice di passare un momento a casa...” “Me la dice poi, faccio prima un salto in palestra, ho preso le tute nuove e le sacche. E pure il pesce fresco per il pranzo.” Finse di non accorgersi dell’espressione inorridita nello sguardo della ragazza e si sforzò di sfoderare un tono convincente, mentre ingranava la marcia. “Dì a mia moglie che poi l’aiuto a imbottigliare l’olio. Promesso.” “Poi, poi... Poi quando?” Monica sospirò rassegnata, mentre il furgone si allontanava gracchiando. Eh, ma lei lo sapeva, lo sapeva che prima o poi la signora Elide si sarebbe ribellata. Le voleva bene, per lei era come la signora Ramsay di “Gita al faro” della Woolf, l’aveva accolta come una figlia, dopo che si era trasferita nella penisola e lì con loro la vita le piaceva, tanto lavoro, tanto sole e poco vento, ringraziando il cielo. Odiava il vento, faceva alzare la sabbia che s’infilava dappertutto, nei capelli, nelle narici, tra i denti. Aveva una bella stanza con il bagno per sé, una libreria piena di libri da leggere e la compagnia di gente interessante e po14


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etica. Avviandosi verso casa, pregò Dio che tutto restasse così com’era. Lei odiava i cambiamenti. A pochi metri dalla masseria, Rocco aveva creato il suo regno: la “Di Santo Boxe”. L’atmosfera era quella delle palestre dei sobborghi newyorchesi anni ’50. Muri screpolati, attrezzature un po’ datate, una “pera” che emetteva un cigolio sinistro ogni volta che veniva colpita, un ring più piccolo di quello ufficiale e soprattutto un sano odore di sudore che neanche la disinfestazione più accurata avrebbe potuto eliminare. “Forza con quella corda!” Mazzancolla, che non si chiamava davvero così ma in tutta Castro e dintorni lo conoscevano con quel nome, nonostante l’età incitava con notevole vitalità i ragazzi a non rallentare con gli esercizi. Era un uomo che dimostrava tutti i suoi anni, forse per colpa della barba grigia, dai tratti scolpiti e scuriti dal vento di mare. “Tre minuti di salti e un minuto di riposo. Su con quelle ginocchia!” Gli atleti seguivano scrupolosamente le indicazioni del maestro, vecchia volpe della boxe che sapeva come riconoscere al primo sguardo i giovani su cui puntare. Giacomo era un bel peso medio sui 25 anni, dotato di tecnica, potenza e di un fisico asciutto e scolpito. Mattia, più giovane, possedeva la stessa tecnica ma non la stessa forza. Poi c’era Zeviv, un ragazzo senegalese che faceva da sparring partner ai due pugili, alto, magro e con un sorriso fisso stampato sulla faccia d’ebano. “Parlare franco e picchiare forte!” Mazzancolla amava ripetere spesso questa frase che era il motto di un grande campione del passato, che lui considerava tra i più grandi pesi massimi di tutti i tempi: Joe Louis. “Conquistò il titolo mondiale nel 1937 e lo conservò 15


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per dodici anni. Un record! Possedeva, nel colpire, la velocità di una pantera, la felinità di un gatto e...” “La precisione di una freccia” terminò la voce di Rocco alle sue spalle. “Quella che manca a te: precisione!” esclamò Mazza voltandosi. “Dovevi essere qui un’ora fa...” “Scusa socio, ma il furgone è diventato nu scassone... So’ passato pure su da Gaetano e ho preso tutto.” “Pure i caschetti?” “T’aggia detto tutto... Diceva che era presto per la divisa estiva ma oggi l’ha sentito pure lui che caldo che fa, c’ha già l’aria condizionata accesa al negozio, ed è solo Marzo!” “Pure il pesce lo sente che fa troppo caldo. Il giorno non si fanno vedere, se ne stanno tutti sul fondo e mo’ tutti pescano col buio, c’è più traffico di barche all’una di notte che alle sette di mattina.” “Non va bene, Mazzancò, troppi uomini che girano di giorno per strada invece che per mare.” “Forza Zeviv, se ti devo accompagnare a Brindisi dobbiamo muoverci, ci metteremo una vita!” disse Giacomo gettando i guantoni in un angolo. Un sincero stupore si dipinse sul volto di Rocco. “A Brindisi?” “Si ricorda?” Il tono di Zeviv esprimeva una punta di timore. “Arriva mio cugino dal Senegal, la signora Elide ha detto...” “Eh? Ah sì, sì... mi ricordo” mentì Rocco, cominciando a estrarre dallo scatolone le maglie con il logo della palestra. Il ragazzo aveva allungato la mano aperta verso di lui. Rocco lo guardò senza capire. “Le chiavi...” 16


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Rocco non mutò espressione. Zeviv si fece di nuovo coraggio. “Le chiavi del furgone. Si ricorda? La signora Elide ha detto...” “Ah... sì, le chiavi” tagliò corto Rocco mettendogliele in mano. “Andate chianu e attento al cambio che gracchia.” I due ragazzi erano pronti per uscire, ma la voce di Rocco li bloccò sulla porta. “Le sardine! Scaricate la cassetta con il pesce a casa, prima.” Zeviv annuì uscendo, Rocco guardò il socio preoccupato. “Cos’è ’sta storia del cugino dal Senegal?”

Le piaceva il profumo dei fiori e dei rami tagliati di fresco. Per tutto il giorno le grandi finestre prive di tendaggi rimanevano spalancate al sole e la luce e la fragranza di fiori e delle erbe speziate costituivano l’elemento essenziale dell’arredamento. Elide riempiva i vasi di ceramica decorati a mano di rose canine, glicini a grappoli e arbusti selvatici, mentre osservava con tenerezza sua sorella estrarre da una valigia gli effetti personali di Lorenzo. Magra e pallida, nervi a fior di pelle, Anna sarebbe stata attraente se i tratti del volto, che lei si sforzava di mantenere distesi, non avessero tradito la costante ansia interiore. Da quando s’era dovuta trasferire a Lecce per lavoro dopo l’improvvisa morte del marito, Lorenzo non aveva fatto altro che peggiorare. Era stato sempre un bambino silenzioso, ma dalla morte del padre qualcosa era mutato dentro di lui. C’era stato un passaggio quasi inavvertibile che 17


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lei non aveva colto ed Elide sapeva quanto se ne sentisse in colpa. “Il dottor Giusti dice che bisogna stargli accanto più che mai, stimolarlo, ma io so’ sola, lavoro tutto il giorno, quello non vuole andare a scuola... E chi lo tiene tutto il giorno un bambino di sette anni con quel tipo di problema, sai quanto ti costano?” Elide le strinse la mano. “Tu non sei sola, che stai dicendo? Io sono felice di potermi occupare di lui. Tu devi stare solo tranquilla, vedrai che Lorenzo con noi starà meglio, all’aria aperta, libero di giocare come vuole... e gli mettiamo pure qualche chilo in più addosso, che non guasta. Vedrai che sabato prossimo neanche lo riconosci!” Anna sorrise. E bastò questo per rendere evidente la somiglianza tra lei ed Elide. Non tanto nei lineamenti quanto nelle emozioni che il volto esprimeva. Un certo brillio negli occhi, un modo di arricciare le labbra, di abbassare il mento, di colpo le rendeva simili l’una all’altra, come un piccolo marchio genetico che le riguardava entrambe. “Mi raccomando, Lorenzo è come l’aria! È capace di rimanere immobile per ore e poi in cinque minuti...” Già, pensò Monica, che non aveva detto nulla del pericolo scampato poco prima col furgone, continuando a piegare le lenzuola fresche di bucato. Chiedendo permesso, si affacciò Zeviv con la cassetta di sardine. L’odore di pesce era forte e intenso. Monica sbuffò di disappunto. Ittu malannu! Pur essendo isolana pura, oltre al vento non sopportava il mare e odiava il pesce, soprattutto quando si trattava di lavarlo e pulirlo. Tutte cose legate alla sua infanzia infelice, non serviva Freud per capirlo. Quante spine di pesce 18


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aveva mandato giù durante gli anni trascorsi all’Istituto delle suore, non solo metaforicamente parlando, lo ricordava ancora troppo bene, nonostante avesse giurato a se stessa che nuova vita avrebbe significato anche rimozione dei ricordi, ma era più difficile di quanto pensasse. Guardò Zeviv poggiare la cassetta sul lavello e le sembrò che quei pesci si muovessero ancora. Non morti del tutto, agonizzanti come il suo passato da dimenticare. Vide l’espressione del ragazzo cambiare quando il suo sguardo si posò su Elide, e fu sicura di vederlo arrossire, se mai fosse possibile accorgersene, sulla pelle così scura. “Signora, mi scusi... È sicura di aver detto al signor Rocco di mio cugino?” Elide guardò il suo volto niuru e come sempre le venne in mente il sole. Era affezionata a Zeviv. Come a tutti gli altri ragazzi che vivevano alla masseria. Anche troppo, le rimproverava spesso il marito. “Non ti puoi prendere sulle spalle la pena del mondo!” Forse aveva ragione. A volte le sembrava di non essere altro che una spugna imbevuta di emozioni umane. Quelle degli altri. Ma sapeva di potercela fare. Era convinta che dare una mano ai giovani sbarcati regolarmente nella sua terra in cerca della sopravvivenza fosse un dovere cristiano, punto. Tutte le chiacchiere demagogiche o politiche per lei non avevano senso, i suoi ragazzi non toglievano ‘posti di lavoro a nessuno’, visto che erano anni che ‘nessuno’ veniva a cercare lavoro da loro. “Stai tranquillo. Porta tuo cugino da noi, ti ho già detto che non c’è problema.” “Il Signor Rocco ha già preso Luis, che è arrivato dal Cile solo sei mesi fa, ci sono io, c’è Monica... Forse non è il caso...” 19


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“Lui fa parte della tua famiglia. Hai il dovere di dargli una mano, almeno i primi tempi. Anche a te qualcuno t’ha aiutato...” Lo sguardo di Zeviv scivolò lontano, verso le colline che sembravano dondolare sul mare, e ricordò quando andava alla Missione Cattolica, costruita a meno di 40 chilometri dal suo villaggio. C’era un padre missionario italiano, Don Bruno, un uomo esile ma d’acciaio che fondava la sua cristianità su un principio fondamentale: “Rivolgi agli altri il bene che ti è dato, sia esso solo un sorriso o un tozzo di pane.” In un istante fu lì, bambino seduto nella capanna che fungeva da scuola, con Ben, Hamud e Livhà, tutti intorno a Don Bruno a ripetere il Padre Nostro e a imparare l’italiano. Dal cortile arrivò il suono di un paio di colpi di clacson del furgone: era Giacomo che stava perdendo la pazienza.

In forma nella sua nuova tuta grigia con la scritta in blu DI SANTO BOXE, Rocco avanzava a passo deciso e fronte aggrottata sulla salita verso casa. La porta d’ingresso si spalancò senza nessuna cortesia. “È mai possibile che il mio parere su certe questioni non abbia più nessuna importanza per te?” esordì in tono brusco. “Guarda che te lo volevo dire del cugino di Zeviv che arriva oggi dal Senegal... ma tu sei troppo occupato anche per ascoltare! Tutto quello che riguarda la palestra te lo ricordi bene, però! Certo, quello è il tuo sogno... ovvero il mio incubo!” Elide aveva usato un tono aspro quanto lui e lo fronteggiava con occhi fiammeggianti. “E poi, qual è il problema? Se ho dato il mio consenso a 20


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Zeviv senza aver potuto chiedertelo, è perché sapevo che saresti stato d’accordo. O no?” “E no!” sbottò Rocco. Monica era entrata con le tovaglie di lino stirate da riporre nel cassettone della biancheria, ma l’atmosfera pesante le fece fare dietro front. “Apposta non me l’hai chiesto” riattaccò piazzandosi di fronte a sua moglie e guardandola irritato. “Perché sapevi che non sarei stato d’accordo. Avevamo detto che con Zeviv che restava fisso, ci saremmo fermati con gli stagionali, è vero o no?” Elide aprì la bocca per rispondere, ma lui proseguì. “Oggi arriva il cugino di Zeviv, domani la fidanzata del fratello, poi i genitori, gli zii con i nipoti... Siamo una masseria, Elide, non una succursale del centro accoglienza!” Lei aprì di nuovo la bocca per parlare, ma... falso allarme, era solo una pausa prima del finale. “E non mi tirare fuori la storia della mia famiglia che solo cinquanta anni fa ha vissuto il disagio e il dolore d’essere emigranti...” continuò Rocco con irruenza. “Non è la stessa cosa!” “Perché?” “Perché era necessario, noi eravamo nel dopoguerra!” “Loro sono sempre in guerra.” Lorenzo, entrato silenziosamente con un cesto pieno di limoni appena raccolti, si era fermato sulla soglia a guardare seriamente i suoi zii. “Non stiamo litigando, piccinnu, ma solo discutendo” disse Elide con un sorriso forzato, appena si accorse di lui. Il bambino guardò con orgoglio il suo cesto e con un gesto trionfante lo rovesciò direttamente sul pavimen21


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to. Almeno una trentina di limoncini verdi si sparpagliarono sul pavimento, rotolando tra i piedi degli zii, mentre Lorenzo scappava per la cucina calciando i frutti da tutte le parti. Rocco, assumendo la posa del “mostro dell’albero”, un suo pezzo forte per far ridere il bambino, gli corse dietro. Elide guardava il marito emettere strani versi e finalmente sorrise. Anche Monica osservava divertita la scena, scuotendo la testa. “Il signor Rocco a volte è come un bambino.” “Sì, che crede ancora nei sogni.”

Sorta in un porto naturale sul mar Adriatico, a prima vista Brindisi appariva nascosta da uno skyline industriale, dove dominavano i colori scuri. Poi, una volta giunto nel porto storico, la città gli svelò la sua vera faccia, il suo fascino misto di autentica città di mare. Un’antica Porta d’Oriente perennemente spalancata, invasa, saccheggiata e ricostruita nel corso delle innumerevoli dominazioni. Una voce familiare, alle sue spalle, arrestò il flusso dei suoi pensieri. “As-tu la paix?” “La paix seulement grace a Dieu” rispose voltandosi. Zeviv lo accolse con il suo contagioso buon umore, senza smettere di abbracciarlo, guardarlo, annusarlo... “Teranga in Italia, Benyi.” Lo chiamava ancora così, ben yi, che nel dialetto wolof significava sorriso, e mai soprannome sarebbe stato più adatto. Giacomo gli strinse la mano, valutandolo con una lunga occhiata dalla testa ai piedi, poi si mise alla guida del furgone. Zeviv salì accanto a lui e Ben 22


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sprofondò nel sedile posteriore, poggiando finalmente la schiena su qualcosa di morbido. “Allora. Raccontami come vanno le cose qui, cugino.” “Eh Benyi. Non è più l’America...” Esprimendosi in italiano per non escludere Giacomo, lo aggiornò brevemente sulla situazione. “Anche gli italiani hanno un sacco di problemi e non tira una bella aria per nessuno. Non sono loro a renderci la vita difficile, sono abituati alla nostra presenza da generazioni. Sono “gli altri” a non volerci. Soprattutto gli europei dell’est... Ora comandano loro. Si mettono nei guai con la legge e mettono nei guai tutti noi, che siamo tranquilli. Ma sai chi sono i peggio? Quelli che hanno rovinato tutto?” “I cinesi” bofonchiò Giacomo con l’aria annoiata di chi ha sentito lo stesso discorso cento volte. “Esatto! Loro arrivano, copiano e vendono tutto: le Lacoste, le borse Vuitton, i foulard Gucci, le Nike... Poi comprano in contanti tutte le aree commerciali e alloggi disponibili, creando le loro chinatown! Loro vengono qua per arricchirsi, noi per integrarci. Loro vendono falsi, noi artigianato etnico, c’è una bella differenza.” Ben ascoltava in silenzio, mentre osservava il volto del cugino. Erano tre anni che non lo vedeva ma non avevano mai smesso di scriversi. Non aveva perso la sua irresistibile aria fanciullesca che lo faceva sembrare più giovane dei suoi venticinque anni, ma nuove pieghe solcavano la sua fronte e i lati della bocca. “È stata dura, vero?” Lo sguardo di Zeviv si oscurò nella lividezza dei ricordi. “Per noi è meno dura che per tanti altri. Parliamo francese, siamo già mezzi europei. A Lecce... lo sai, te l’ho scritto, c’è una comunità di fratelli senegalesi, molto 23


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attiva e integrata, mi hanno aiutato, mi hanno trovato un posto per dormire. Ho fatto di tutto, cameriere in un bar del centro, buttafuori in una discoteca, lavapiatti... Qui il nostro diploma delle superiori non serve a niente. Poi, durante la stagione delle raccolte, un amico mi ha detto che a Castro cercavano braccianti...” I suoi occhi di nuovo s’illuminarono. “Il resto lo vedrai. La signora Elide è come una madre. Una forza della natura. È lei che ci comanda e manda avanti l’azienda, assomiglia tanto alle nostre donne, vedrai... Io le do una mano nella produzione dell’olio insieme a Luis, l’agronomo cileno, e in più lavoro nella palestra di pugilato Di Santo, una cosa seria. Si riga dritto là dentro!” “E tu che fai?” chiese Ben stupito. “Faccio da sparring agli atleti”, rispose Zeviv con un largo sorriso. “Evito cazzotti e loro mi pagano.”

Seduta davanti alla tastiera del computer, Elide ruotò la testa massaggiandosi il collo anchilosato e distese le lunghe gambe sotto la scrivania. Con il programma di grafica aveva ultimato il nuovo logo da apporre sulle confezioni d’olio. 1.500 litri di prima premitura erano stati già imbottigliati in piccoli contenitori numerati. Sulla piccola elegante scatola gialla, una scritta in verde: Tantum olivum e il disegno di un’ampolla medievale. Semplicità e raffinatezza, esattamente come la qualità dell’olio che producevano. Con il telefono cordless incastrato tra l’orecchio e il collo, riusciva a lavorare e contemporaneamente chiacchierare con la sua amica Bianca, con cui puntualmente si sfogava contro quell’insensibile di Rocco. 24


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“Da quando si è messo in testa di portare Giacomo Nardi al titolo italiano non vive che per la palestra. Non è tanto per il fatto che non si occupa di tutto il lavoro che c’è da fare... cavolo! anche se ‘in piccolo’ produrre olio e vino non è mica uno scherzo... ma sono soprattutto io che ci rimetto. La mia vita personale è uno schifo, mai un ristorante, un viaggio, una mostra, un cinema! Mi sembra di essere tornata ai tempi di Vincenzino.” In cucina, sul grande tavolo di marmo erano allineati una gran quantità di limoni. Monica era impegnata a far funzionare uno spremiagrumi elettrico, accanto a una caraffa già piena per metà di spumeggiante limonata. “Giacomo Nardi è pure meglio ma tiene un problema, gli piace troppo mangiare e mangia troppo. Mi tocca pure fare il pranzo ipercalorico apposta per hiddu! Sì, sì... staremo a vedere se ne è valsa la pena...” Il rumore del furgone gracchiante in arrivo sovrastò ogni suono. Uscendo in veranda e osservandolo da lontano le sembrò la copia esatta di Zeviv, più alto, più giovane e più sofisticato nell’aspetto generale. Avvicinandosi, notò il libro di Celine che sbucava dalla tasca, insieme a un quotidiano italiano. Non aveva uno zaino, come la maggior parte, ma un borsone di cuoio con manici e zip. Poche cose, evidentemente l’essenziale pensò, e dopo averlo guardato lungamente negli occhi, con un sorriso aperto gli strinse la mano dandogli il benvenuto. “Mi chiamo Ben, grazie Signora Di Santo.” “Chiamami Elide, solo Elide.” Anche Rocco scrutava con attenzione quel ragazzo dall’espressione assorta e dall’italiano decente. “Non c’è molto da offrirti qui. In attesa di meglio, ti puoi arrangiare” disse piuttosto sbrigativo. 25


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Bastò un sorriso per illuminare il volto di Ben, mentre stringeva con forza la mano di Rocco. Sentendosi osservato, si voltò e incrociò lo sguardo del piccolo Lorenzo che lo fissava senza espressione, come se apparentemente non lo vedesse. Era riccioluto e bruno, secco come un ramo sotto il sole, occhi lucidi come due bottoni e avrà avuto... sì, un paio d’anni più di Diomè, pensò sentendo una stretta al cuore e l’impulso di abbracciarlo.

All’ombra del portico, il tavolo di ferro battuto era apparecchiato per il semplice ma sostanzioso pranzo di benvenuto a base di alici fritte dorate, passate in poche ore dal mare alla tavola. Tutti gustavano la bontà di quel piatto tradizionale tranne Giacomo Nardi, che fissava cupo la sua insalata di ortaggi misti sotto lo sguardo severo del suo allenatore. Zeviv aveva accostato la sedia vicino a Ben e da qualche minuto si godeva l’intima gioia di parlare con il cugino nel loro idioma wolof, chiedendo notizie di parenti e amici. “Dimmi di tua sorella, Benyi. Come sta?” Ben con serietà gli stampò un bacio sulla guancia. “Da parte sua. Mi ha dato questa per te.” Gli porse una lettera che Zeviv afferrò con trepidazione, il solo leggere il nome sulla busta accelerò il battito del cuore: Livhà. Luis, ispirato dall’atmosfera, declamava versi in spagnolo. Monica andava e veniva dalla cucina alla veranda canticchiando un motivetto in lingua sarda. Era tutto un miscuglio d’idiomi diversi, Ben sentì finalmente la tensione e la stanchezza delle ultime ore sciogliersi e dileguarsi. Aveva capito perché suo cugino sorrideva sempre.

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Steso sul letto nell’ampio locale che fungeva da alloggio per i lavoranti, Zeviv fissava il soffitto pensieroso, stretta tra le mani la lettera di Livhà, che non si stancava mai di leggere e di annusare. Profumava di zafferano, mandorle dolci e di casa. Era lì che si trovava ora... Sdraiato sulla terra nuda, tra alberi giganti sotto spicchi di cielo immenso abbaglianti tra il fogliame, un’esplosione di rosso, verde e azzurro in cui mille ricordi saettarono in un istante per finire di colpo nel buio. Poi, lentamente, mentre il soffitto rischiarava punteggiato d’innumerevoli stelle vivissime, la Via Lattea lo cullò come un bimbo attaccato al seno materno. Zeviv, immerso in un orizzonte senza fine, abbracciò affamato la sua nostalgia, chiudendo gli occhi sotto la grande schiena della notte.

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