Volevo dirle tante cose

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Roberta De Santis

volevo dirle tante cose

«Il dolore quando bastona mena forte. Ti pieghi in due, a volte in quattro. Si fa lama e subdolo affonda fino alla fine di te. Scava, meschino scava. Ti trovi oltrepassato da parte a parte, un buco sanguinante che puoi osservare bene. Quel sangue, il tuo sangue, lo puoi toccare pure, perché di dolore non si piange. Si sanguina.»

Minerva Edizioni

Roberta De Santis, di Avezzano in provincia de L’Aquila, è stata responsabile per quindici anni di una libreria nel centro della sua città. Ora si dedica a tempo pieno alla sua più antica passione, la narrativa. Con il racconto Fiore di Iris ha vinto il Primo Premio del concorso letterario edito da “Pagine Aperte” I Rassegna letteraria 2012 “Omaggio a Vittoriano Esposito”, con il racconto Punto perso ha vinto il Primo Premio del concorso indetto dall’agenzia letteraria Ponte di Carta di Avezzano e con il racconto Capelli biondo pane ha vinto il Primo Premio per la sezione racconti del Premio Hombres itinerante IX edizione 2013. Volevo dirle tante cose è il suo primo romanzo.

Roberta De Santis

Volevo dirle tante cose Romanzo

Minerva Edizioni

Volevo dirle tante cose è una storia sull’importanza delle parole, poco usate o usate malamente, parole che fanno male, parole che andavano dette o era meglio tacere. È la storia di Sara, donna bambina, responsabile di una libreria nel centro della sua città, della sua vita apparentemente serena, con una sorella che adora e che la sostiene, un’amica preziosa e i clienti di libreria che in Sara trovano un punto fermo e affidabile. Il romanzo vorrebbe offrire riflessioni, una chiave per dare una seconda chance a chi forse sta sprecando parole e tempo, sicuro di avere ancora mille opportunità per risistemare rapporti dolorosi, che zoppicano.

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara


Volevo dirle tante cose Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Grafica: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di marzo 2014 ISBN: 978-88-7381-576-1 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


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Volevo dirle tante cose Romanzo

Minerva Edizioni


A mia madre


Sono morta più volte nella mia vita. Ho camminato a lungo, scalza, tra i sentieri puntuti della mia anima, a cercar di comprendere le ragioni di tanto dolore. Ma tutto sommato, niente di strano per chi ha ricevuto il marchio di un amore così. E li riconosci, un po’ si appartengono. Quelli che hanno vissuto un amore grande, capace di svuotare e riempire nelle vene il sangue e annullare la vita di questo guscio di carne in cui siamo tutti irrimediabilmente incastrati. Carne sì, solo carne, perché quando lo perdi un amore così, non sai più che cosa sei. Diventi una scatola molle, perché le ossa te le dovevi fare da piccolo. Quando cresci non ne hai più il tempo. Il dolore quando bastona mena forte. Ti pieghi in due, a volte in quattro. Si fa lama e subdolo affonda fino alla fine di te. Scava, meschino scava. Ti trovi oltrepassato da parte a parte, un buco sanguinante che puoi osservare bene. Quel sangue, il tuo sangue, lo puoi toccare pure, perché di dolore non si piange. Si sanguina. La vita, capricciosa com’è, a volte lascia e spesso prende. Ti fa vivere momenti di intensa felicità illudendoti che il peggio sia passato. Poi d’improvviso arriva il tempo di restituire. In un attimo il suo vento gelido strappa tutti i germogli di quella verde serenità, così a lungo desiderata. E frastornata dall’improvvisa caduta, torni ad essere un punto su una carta geografica troppo vasta. Lasciai cadere il cellulare dalla mia mano. Il viso di pietra, in un’espressione eloquente d’angoscia. In quell’attimo mi accorsi che tutto ciò che mi apparteneva, aveva allungato il passo. Ormai ero fuori tempo. La felicità mi salutava col fazzoletto che stringevo tra le dita. Seduta 5


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nella macchina, inerme, come un guerriero sconfitto, girai la testa verso il finestrino. Una nuvola di gambe in movimento traghettava le persone da una parte all’altra del marciapiede di quella strada trafficata. Io immobile. Dentro di me la squallida consapevolezza di aver perso tutto. Ogni gioia. L’ultima parola di lui, era stata come l’ultimo respiro di un malato morente. L’ultima esalazione del nostro amore ormai vecchio. La tristezza attanaglia. Stringe forte alla gola, come un bravo assassino. Si può morire d’amore? Questa domanda da sempre mi tormentava la mente come un macabro ritornello giocoso. Spesso mi ero sentita “capinera”. Protagonista della mia quotidianità gramigna, come la donna in quel libro che amavo. E nel tempo si faceva spazio la consapevolezza che morire non è d’amore. È la tristezza che ti spinge alla morte. La senti. Si fa presenza tutta intorno. Si fa bambina che irrequieta, piange e grida. Le sue urla, sottili sibili, come fischi di un provetto pastore a richiamo delle sue pecore nere, risuonano nella testa, che si fa pesante. Masso in bilico. Avvertivo fisicamente la mia vita ormai sgretolata. I pezzi rotolavano giù come biglie lanciate da una cima. Ero riuscita in qualche mese a raggiungere di buon passo una felicità mai provata prima. Cosa è successo poi? Mi domandavo scossa... Com’è che tutt’a un tratto le funi si sciolgono? Perché quella strada esplode mentre io implodo? Vidi Davide per la prima volta nella libreria dove lavoravo. Rimasi incantata a guardarlo entrare e lui arrossì. Tenero, quel rossore, di chi si accorge e timidamente nasconde. Scuro di capelli, ma il candore della sua pelle sul bel viso risaltava la tristezza del suo sguardo 6


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buono. Quel giorno lui andava di fretta e avrebbe desiderato leggere qualcosa che gli rimanesse dentro, mi confidò. Di getto proposi il libro che più di tutti mi aveva intenerito, la storia malata tra una paziente e il suo psichiatra. Andammo insieme verso lo scaffale della narrativa. Lui si sistemò al mio fianco. Vedrai, ti piacerà..., dissi un po’ impacciata, l’ho letto due volte! Prese il libro tra le mani e accarezzò la copertina nera. Mi piacerà senz’altro! Confermò con un filo di voce. Si era lasciato consigliare docilmente. Mi piacque quel cieco fidarsi. L’atteggiamento. Non si riflette mai abbastanza sull’atteggiamento. Quante cose racconta. Un dizionario muto ma eloquente e particolareggiato della persona. Quel modo di porsi gentile e curato, non impacciato, ma attento e premuroso. Un modo di porsi quasi timoroso di stampare aloni inavvertitamente su un vetro pulitissimo. Lui pagò e andò via. Ma qualcosa tra noi era rimasto. Quell’incontro mi aveva lasciato un gettone nel cuore. Era rimasto un gusto, un aroma dolce, un’amabile sensazione di benessere e piacere. Era rimasta la carta della bellezza della vita, la fresca percezione del nuovo che avanza, il desiderio di rivederlo. Attimi di gioia puri. È entusiasmante assistere al miracolo dell’amore. Rende lucente tutto l’opaco. Mette linfa in steli essiccati, asciutti. Il lento scorrere quotidiano diventa trampolino di lancio e festoso benvenuto alla fresca esperienza che incede. Scossi la testa come per scrollarmi di dosso quella tenerezza sporca dei ricordi. Strana la vita. Quando il miele si fa amaro. 7


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Misi in moto la macchina. Era ora di andare a casa, ma l’intenzione divagava. Volevo solo mettermi in viaggio. Quando si è massacrati dentro è impossibile ignorare il proprio stato. Si può solo assecondare. L’imbocco dell’autostrada era desolato. Sentivo la necessità di svanire, di non pensare. Ero sconfitta e le lacrime mi scendevano incuranti. Accesi la radio e cominciai la disperata ricerca di una canzone. C’è sempre una canzone che ci appartiene più di tutte. Quella che indossi, sotto pelle e ti sta a pennello. Quella che già dalle prime note ti fa capitolare. E la canzone arrivò. Il cuore in gola. Volevo sputarlo. Quelle note, tutto un percorso. Ma quanto potere ha la musica! Un intero periodo di vita si avvinghia inestricabilmente a una melodia. Le mani sul volante servivano anche da tampone per i miei occhi feriti. Asciugavano quel dolore fuso. Con un gesto veloce del palmo, tiravo via quella vita vissuta, liquida, appiccicata. E finalmente lo strazio divenne singhiozzo. A quel punto lasciai le redini di me. Tutta quella disperazione si fece persona che potente mi scuoteva prima di riprendere fiato. In quel momento la vita mi offriva il rewind. Le immagini dolci di quei pochi mesi appena trascorsi mi scorrevano davanti veloci e violente. Buongiorno a tutti! Il tono allegro e le parole ben scandite. Davide era tornato. In libreria cinque o sei persone risposero distrattamente al saluto. Amo la gente che saluta. Quell’educazione d’altri tempi ma sempre attuale. È come presentarsi in modo corto e garbato. Quando si apre una porta non è solo aria smossa. È scuotere un crogiolo d’anime pensose, è incidere un’atmosfera già creata col fendente pre8


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potente dell’arrivo. È infastidire, comunque. Aver delicatezza di tutto ciò è fondamentale. L’uomo accompagnò piano la porta. Occhi azzurri d’impatto immediato. Occhi cielo e mare erano come un marchio appariscente su una confezione glabra. Io pensai che certe cose finiscono per segnarti più di mille altre. L’amore è una polvere buona. Si poggia impalpabile ma visibile sui visi ignari dei prescelti di turno. L’emozione creata dal gusto delle piccolezze si accomoda sul cuore come polvere. Il sorriso, terrazza sul mare, appena accennato. Ciao! La voce amichevole e serena. Volevo ringraziarti del consiglio, gran bel libro! Sottomise lo sguardo, forse il mio si era fatto troppo fisso e interessato. Le mani nei jeans gli permettevano di stringersi nelle spalle ed attutire l’emozione. La mia invece era pura agitazione. Mi sentivo un cucciolo scodinzolante con l’osso di gomma in bocca, in attesa del lancio del padroncino. Figurati! È il mio lavoro e poi l’ho fatto volentieri… Lo guardavo sempre fisso ed ero conscia che quel mio atteggiamento avrebbe peggiorato il suo stato di irrequietezza, ma continuai. Lui alzò lento il viso e accomodò leggero i suoi occhi nei miei. Comunque, io sono Davide! Allungò la mano per ricevere la mia. E io sono Sara! Afferrai la stretta, non vedevo l’ora... In quel momento, ecco, non so ancora bene come accadde, ma avvertii come se il mio essere avesse subito uno scatto improvviso, un balzo imprevisto e dolce, una fulminea accelerata di vita. Mi accorsi che sentivo amore, amore intorno a me, amore ovunque in me. Una sorta di illuminazione trascendentale e la persona diventa dimora. La riconosci. È roba tua. 9


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Quell’uomo da poco incontrato era intrecciato nei fili di tutti i miei giorni. Quell’uomo conosceva già il racconto della mia vita. Faccio un giro! Mi sussurrò schiarendosi la voce. Con dolcezza si staccò da quell’allaccio e prese a controllare i nuovi arrivi, ma probabilmente una sua qualche tensione non gli permise alcuna scelta. Mi salutò con un gesto della mano e decise di andar via. Continuai a lavorare serena e appagata. Avevo trovato qualcosa. E l’avevo trovato per caso, senza cercarlo. Come un regalo di Natale, un dono inaspettato fuori della porta. Ognuno di noi è al volante di questa misteriosa macchina che è la vita. La guidiamo più o meno in fretta a seconda delle esigenze, dell’esperienza, del momento. Incontriamo cartelli ben visibili e con luce intermittente che ci segnalano, la precedenza, la sosta, il divieto di fermata, l’obbligo di svolta a destra, lo stop. All’inizio di ogni nuova esperienza i segnali sono tutti là, evidenti. Ma certe volte, assolutamente in piena consapevolezza, lanciamo quell’auto potente a una velocità così elevata da vederla già schiantata al primo incrocio. Senza alcuna salvezza. Ma senza nessun rimpianto. Quell’uomo aveva stampato in fronte un cartello grande così: “Alt, pericolo, caduta massi”. Ma la mia auto aveva raggiunto ormai la velocità di un missile sganciato in alta quota. Dovevo dirlo a qualcuno. Impossibile gestire da soli un fiume in piena. E io straripavo. Sorrisi al pensiero della prima persona che mi venne in mente. Mia sorella. Lei poteva capire. Era da sempre la mia saggezza, il senno che non ho avuto mai. Lei era il 10


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punto e la lettera maiuscola. Dolce e ferma, roccia ambrata. Rimaneva sempre lì a guardarmi con quel suo sorriso complice, come se avesse già visto quel film. E sì che ne aveva visti di film da me prodotti e interpretati. Tutti tragici flop. Dio come l’amavo mia sorella. Giugno. Fantastico. La primavera lasciava spazio all’estate, il giallo predominava sul verde, la mia esistenza si inchinava al giovane sentimento appena sbocciato. Quel lunedì era pieno di sole. Nella pausa del pranzo decisi di andare da lei. Mi accolse il suo caldo abbraccio. Mi stringevo fino a ripiegarmi a libretto in quel nido disarmante. Mi riportava indietro. L’abbraccio funziona così. Ha la sua singolare capacità di ricostruirti. È come se una forza ultraterrena ti addormentasse per un istante, un istante che dura tutta la vita, e in quell’attimo lenisse con immensa cura e amorevolezza quelle schegge dolenti dell’anima ferita, ricucisse i tagli di una intelaiatura lacerata da traumi, recisa da smarrimenti e sconcerti, estenuata da preoccupazioni e crucci, squarciata da sofferenza e patimenti. Un excursus ristoratore rapidissimo. Riapri gli occhi sembra quasi a nuova vita. Una sorta di resurrezione fulminea e miracolosa. Non c’è nulla di terreno in questo. L’abbraccio appartiene a Dio. Anna mi guardò tenera e arresa. Sapeva che i miei amori guardavano sempre troppo oltre, valicavano quella linea sottile del comune senso del tollerabile. Sentivo il bisogno di amori poderosi, che non dispensassero quiete e fiducia, ma elargissero a piene mani violenti spasmi d’ira, emozioni vigorose e convulse; una pioggia di calore e turbamento che 11


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mi sconvolgesse e affascinasse completamente, con totale sequestro della mia esistenza da cui estorcere obbedienza e assoluta abnegazione. Cominciai a raccontarle convulsamente i due avvenimenti con dovizia di particolari. Ero eccitata, contenta. Il nuovo porta bene sempre, qualsiasi cosa porti. Dopo aver assistito silenziosa e sorridente al mio teatrino spontaneo, globalmente irrazionale, mi bruciò come era solita fare: mi raccomando, proteggiti! Si riferiva a quell’amore. Era il suo modo materno di mettermi in guardia da eventuali delusioni, che già vedeva fuori la porta. Non era l’amore di turno a procurarmele. Ero io. Il mio concetto d’amore che includeva, in modo inconsapevole, la delusione. La delusione come schema delle passioni della mia vita. E questo era il modello di tutte le donne della mia famiglia. Le giornate di lavoro passavano in fretta in libreria. Tiravo su quella vecchia serranda arrugginita ma funzionale. Inserivo la chiave nella toppa. Quel click era il pass per un mondo diverso, il punto di congiunzione tra realtà e fantasia, l’unico varco aperto agli stadi più sottili dell’anima, l’imbocco privilegiato alle infinite strade del genio e dell’immaginazione. Un posto magico, come tutti i posti dove dimorano i libri. Spesso rimanevo sulla soglia. Poggiata di schiena allo stipite, respiravo quell’odore, insieme acre e dolciastro. Nessuno sa di che cosa profumino i libri. E non c’è odore uguale all’altro. Ciascuna opera profuma di suo. È la loro singolare caratteristica. Sembra quasi che l’autore inventi insieme la storia e l’aroma. Ne consegue un amalgama di parole ed essenze, un connubio armonico di vocaboli ed elisir 12


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di lunga vita. Sarà per questo che i libri incantano, ipnotizzano e soprattutto curano. Panacea per chi si lascia incantare. Nel chiaroscuro di quel luogo, le copertine allegre e suadenti sembravano assicurarmi la riuscita di una splendida giornata. Non mi avevano mai tradita. I clienti entravano incerti e uscivano sereni. Non era sempre facile accontentarli. C’era chi morbido si lasciava consigliare e chi invece, qualsiasi titolo suggerissi, non risultava mai la giusta soluzione alla sua ricerca. In quel caso un po’ mi dispiacevo. Il titolare della libreria era un uomo piccolo e simpatico. Un commerciante, dalla mente arguta e intelligente. Aveva gli occhiali da vista poggiati su un nasetto piccolo ma schiacciato, come quello dei pugili, dietro i quali tentava di camuffare lo sguardo dolce, spesso triste, lontanamente malinconico, con una condotta fredda e laconica. La mia personale opinione sul Signor Lucio, dopo anni di conoscenza veloce, si basava proprio sull’atteggiamento. La sua andatura era costernata anche se elegante; la comparavo a quella di un uccello la cui ala ferita e dolorante, si stringeva malamente al fianco, diventato oramai concavo a causa del lungo tempo di degenza e appoggio. L’accenno al sorriso, con il quale si introduceva negli ambienti, risultava poco credibile, scorato. La mano che tendeva come rituale saluto si rivelava cedevole, molle al momento della stretta; ne derivava un commiato floscio, come il suo umore. Il Signor Lucio era un professore di lettere prima che saputo libraio. Uomo di cultura di testi e di vita. Laureato giovane, si diede subito all’insegnamento. Ma evidentemente qualcosa andò storto e smise. Un giorno smise, come se in quelle ventiquattro ore 13


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precendenti, qualcosa l’avesse bruciato. E con l’anima in fiamme non insegnò più. Mi affidava tutto il lavoro e la gestione di quella straordinaria attività. Io, fiera e caricata del peso delle responsabilità, mi districavo nella conduzione, a volte con ottimi risultati, altre volte insoddisfatta e amareggiata. Il Signor Lucio era tutto sommato compiaciuto del mio lavoro e si fidava ciecamente. Veniva di rado in libreria e solamente se necessitava di documentazioni importanti. Organizzavo io gli ordini e il reso. Succedeva saltuariamente che esagerassi nelle ordinazioni. Lui mi chiamava per telefono e mi redarguiva in modo affabile ed educato, ma era una finta malefatta la mia. Adoravo l’abbondanza di copie, l’eccedenza. Il che per una libreria di piccole dimensioni di una non gremita cittadina, faceva la sua gran bella figura. Anche i clienti erano soddisfatti di quei lauti rifornimenti. Il corriere a volte scaricava venti, trenta scatoloni; a Natale bancali interi. Ma i miei migliori acquirenti non c’erano più. La Signora Maria comprava a giorni alterni. Sempre elegante, austera, donnina minuta, assai precisa, ordinata nel vestire, signorile nei modi. Mi piaceva quella nobiltà d’animo, che apparteneva ad un suo storico agiato, intellettualmente elevato. Entrava timorosa. Salutava tutti garbata. A me regalava i suoi migliori sorrisi. Passeggiava tra gli scaffali in cerca del libro che la chiamasse. Mi confidò un giorno che i libri dovevano chiamarla. Non sempre succedeva. Ma quando trovava il libro che la cercava, si presentava in cassa esultante e lieta dell’incontro. Morì dopo sei anni dall’apertura della libreria. Sei anni di visite gentili e sorrisi gratuiti. Passò la figlia qualche 14


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tempo dopo a raccontarmi l’accaduto. Rimasi disorientata, impietrita. È proprio vero che la morte non porta via nulla. Tutto resta. La Signora Maria mi aveva lasciato l’intero di sé, la pacatezza, la solarità, l’eleganza; i capelli sempre raccolti e la ricerca del libro giusto. Ho pianto molte volte quei teneri ricordi. Un altro dei miei preferiti era il Signor Alfonso. Esperto ricercatore, storico qualificato e competente. Un grande uomo e un’ottima mente. Aveva scritto e stampato, per la maggior parte a sue spese, numerose opere di storia locale. Alcuni suoi lavori avevano raggiunto un discreto successo. Non usava sovente venire in libreria. Aveva il timore costante e tenace di disturbarmi. A nulla valevano i tentativi di dissuaderlo da quell’assiduo e irragionevole pensiero. E così le sue visite diventavano rare. Ma ogni incontro risultava un vero e proprio regalo, una perfetta mistura di erudizione e giudizio, quest’ultimo inteso come discernimento, saviezza. Innamorato della moglie dopo cinquant’anni di matrimonio, ancora le regalava romantiche storie d’amore. Ci teneva a sottolineare come lei fosse, dopo tanto tempo, ancora presente in modo forte e costante nel suo cuore. Mentre gli preparavo la confezione regalo, immaginavo la tenerezza nei suoi occhi nel consegnare quel pensiero delicato. Il viso emozionato e sognante della moglie. Una striscia degli eterni innamorati di Peynet. La sola idea mi turbava. Il Signor Alfonso morì cinque anni dopo la Signora Maria. La moglie non guarì mai da quel dolore. Dopo un paio di volte smise di venire a trovarmi.

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