Compagni di Camera

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Le foto di copertina sono di Lorenzo Capellini

GIANCARLO MAZZUCA

«L’italiano è un popolo che si fa guidare da imbecilli, i quali hanno la fama di essere machiavellici».

compagni di camera

Giuseppe Prezzolini, “Codice della vita italiana”, 1917

giancarLo maZZUca

compagni di camera il "reality" segreto di una legislatura

MINERVA EDIZIONI

Giancarlo Mazzuca, romagnolo di Forlì, già direttore de “Il Resto del Carlino”, del “Quotidiano Nazionale”, de “Il Giorno” e direttore editoriale della Poligrafici Editoriale, è stato inviato speciale del “Corriere della Sera”, vicedirettore a “Fortune” e alla “Voce” di Montanelli, caporedattore a “Il Giornale”, collaboratore di “Panorama”. Ha scritto diversi libri, tra cui “Il leone di Trieste” (con Claudio Lindner), “La Fiat, da Giovanni a Luca” (con Alberto Mazzuca), “I signori di Internet”, “La Voce di Indro Montanelli”, “I Faraoni” (con Aldo Forbice), “La Resistenza tricolore” (con Arrigo Petacco). Ha vinto importanti premi giornalistici come il “Saint Vincent economia”, il “Campione d’Italia”, il “Guidarello”, il “Silone”, il “Montanelli” e, nel 2012, il Premio “Acqui Storia” con il libro “Sangue romagnolo” scritto con Luciano Foglietta per Minerva Edizioni. Dal febbraio 2013 è nuovamente direttore de “Il Giorno”.

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Bilancio di una legislatura. Un giornalista narra, dall’interno del Palazzo, la vita degli onorevoli, detti “peones”, che fanno ugualmente parte della Casta. Amarezze e delusioni (tante), soddisfazioni e gioie (poche), di un lustro dentro Montecitorio nel diario di bordo di un parlamentare che ha spesso perso la bussola ma che, fino all’ultimo, ha cercato di riprendere la rotta giusta, percorrendo, in lungo e in largo, il Transatlantico. Giancarlo Mazzuca racconta, in prima persona, le sue esperienze da deputato: lo “specchio segreto” degli onorevoli, la vita “cameratesca” con i compagni di partito e gli avversari, i veri sprechi che l’antipolitica dilagante ha forse sottovalutato. Nella seconda parte del libro, per concessione di “Panorama”, sono raccolte le puntate migliori della fortunata rubrica “Camera nascosta”, che Mazzuca ha tenuto, in questi anni, sul settimanale: piccole storie, compagni di banco e fatti insoliti che hanno illuminato l’aula sorda e grigia.

€ 15 0 ,0 .

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compagni

di camera il "reality" segreto di una legislatura


compagni di camera Il "reality" segreto di una legislatura

Giancarlo Mazzuca Redazione: Martina Mugavero Impaginazione: ufficio grafico Minerva Edizioni © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-456-6 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Giancarlo Mazzuca

compagni

di camera il "reality" segreto di una legislatura

Minerva Edizioni



Indice

Prologo

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Parte Prima – Cinque anni tra ombre e luci

pag. 13

Capitolo primo «Sono Berlusconi...»

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Capitolo secondo Spadolini o Montanelli?

pag. 23

Capitolo terzo I moribondi di Montecitorio

pag. 29

Capitolo quarto Le speranze deluse

pag. 37

Capitolo quinto L’insabbiato

pag. 46

Capitolo sesto L’eterno candidato

pag. 54

Capitolo settimo Accusa e difesa

pag. 62

Capitolo ottavo Compagni di banco

pag. 68

Capitolo nono Bilancio di una avventura

pag. 78

Capitolo decimo Le ragioni di un addio

pag. 85

Parte Seconda – Panorama su Montecitorio

pag. 89



A Gabriella e a Giovanni, i migliori consiglieri



Prologo «Si ritiene che i politici tendano ad ingannare gli uomini piuttosto che a curarne gli interessi e che siano più astuti che saggi». (Baruch Spinoza, “Trattato politico”)

Sulla mia scrivania è arrivata, l’anno scorso, in maniera fortunosa, (me ne aveva parlato Margherita Boniver) la riedizione, pubblicata da Mursia, di un vecchio libro “I moribondi del Palazzo Carignano” scritto da un deputato-giornalista, Ferdinando Petruccelli Della Gattina, eletto, nel 1861, tra i banchi dell’opposizione, al Primo Parlamento del Regno d’Italia. «Il mestiere di deputato, a farlo con coscienza, è un mestiere a rendere cheto l’uomo più svegliato a capo di tre anni», annotava il giornalista meridionale prestato alla politica, autore di un insolito “réportage” che raccoglieva le sue impressioni, dall’interno dell’emiciclo, sui colleghi parlamentari e sulle debolezze e sui vizi del sistema politico. Parole illuminanti che mi hanno fatto riflettere a lungo. Lo confesso: mi sono ritrovato in molte di quelle pagine, scritte in un italiano arcaico e un po’ retorico, del mio due volte (cronista e parlamentare) collega d’antan. Sono trascorsi più di 150 anni da allora, ma quelle note critiche sono attuali anche oggi, quando è suonato il gong finale della sedicesima legislatura della Repubblica: anche io, come lui, ho voluto tracciare un bilancio sommario della mia esperienza, con la speranza che il piccolo diario

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di scoperte, promesse mancate, piccole gioie, amarezze, delusioni e fatiche inutili possa servire a qualcuno – magari senza dovere attendere altri 150 anni – in grado di cambiare le regole del gioco. Io non ci sono riuscito. E forse, certo, ancora mi illudo perché la politica, con tutte le sue favole belle, è sempre una storia che si ripete, senza che nessuno impari mai niente dagli errori di chi è stato prima di noi. Per certi versi, poi, la situazione è anche peggiorata rispetto ai “sepolcri imbiancati” di Palazzo Carignano perché, oggi, i parlamentari italiani sono nell’occhio del ciclone, bersagliati dalle critiche di tutti i mass media, sbeffeggiati dal cittadino stufo di pagare incomprensibili privilegi, incapaci di rispondere, causa i bizantinismi della politica, ai problemi che affliggono le nostre comunità. Anche io, in tempi non sospetti, ho provato a denunciare tante, troppe, “anomalie”, ma adesso, sotto la spinta della rivolta popolare, c’è il rischio oggettivo di indebolire pericolosamente, nel Paese, il ruolo legislativo che costituisce le fondamenta stesse di una sana democrazia. Basta ricordare cosa successe alla fine della Prima Guerra Mondiale dopo i ripetuti “j’accuse” di Mussolini, sulle colonne del “Popolo d’Italia”, contro un Parlamento debole, esautorato, poco a poco, di ogni dignità. Il mio contributo, che pure mette in luce tante distorsioni e carenze di un rito assembleare troppo spesso inadeguato, vuole, dunque, essere costruttivo e non intendo, così, sottopormi a

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quella specie di “harakiri” collettivo che sembra sia diventato lo sport nazionale degli italiani. Cerco solo, con la mia modesta esperienza, di convincere, chi ha le leve del comando, ad aprire gli occhi su una realtà che deve essere migliorata. E di molto. Ma, nei cinque anni di legislatura alla Camera, ci sono anche stati momenti “camerateschi” e tentativi di rendere l’aula meno “sorda e grigia”, illuminandola con un briciolo di ironia e leggerezza. Non è proprio vero che in Parlamento ci siano soltanto furbetti e ladri, come le cronache giornaliere riportano drammaticamente: ci sono anche tanti colleghi perbene, che purtroppo, però, scompaiono perché non fanno notizia. Così, nella seconda parte di “Compagni di camera” racconto piccoli episodi, fatterelli gustosi visti da dietro le quinte, pubblicati, settimana dopo settimana, nella rubrica “Camera nascosta”, tenuta per due anni su “Panorama”. Un modo per dare nuova luce a Montecitorio: di moribondi bastano quelli di Palazzo Carignano e, anche se la mia esperienza è stata piuttosto amara, continuo, più di prima, a provare per le nostre istituzioni uno slancio e un rispetto che, spero, siano anche i vostri.

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Parte Prima cinque anni tra ombre e luci



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capitolo primo

«sono berlusconi…»

È

il pomeriggio del 14 dicembre 2007, il classico giorno grigio ed uggioso della campagna bolognese. Sono nel mio ufficio a Villanova di Castenaso, periferia estrema del capoluogo emiliano. Da sette anni, oltre al “Quotidiano Nazionale”, dirigo “Il Resto del Carlino”, lo storico giornale di Bologna, fondato nel 1885 da un gruppetto di imprenditori della città. I quattro foglietti, smilzi smilzi, che venivano distribuiti dal tabaccaio come resto per l’acquisto di un sigaro (con una moneta ribattezzata “carlino”) sono diventati, nel tempo, il giornale più amato della città e dell’Emilia-Romagna, interprete, come nessun altro, della realtà non solo petroniana. È da una vita che faccio il giornalista. Ho cominciato proprio al “Carlino”, alla redazione di Forlì, come ragazzo di bottega, a diciotto anni, quando a dirigere il giornale c’era ancora Giovanni Spadolini. Seguivo il campionato di calcio dilettanti della provincia e avevo anche il compito di portare alla stazione, in sella al mio vecchio “Bianchino”, il fuorisacco, una bustona contenente gli articoli e le foto della cronaca di Forlì. Consegnavo il plico al capotreno: nel giro di un’ora, sarebbe arrivato a Bologna e portato da un fattorino alla sede centrale del quotidiano. Quante cose sono cambiate da allora! Il mio “Carlino” ha cavalcato la rivoluzione di Internet

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ed è un giornale all’avanguardia nell’uso delle nuove tecnologie. In quel pomeriggio di dicembre, stavo scrivendo l’editoriale per l’indomani e mi soffermavo, con lo sguardo, su un quadro che campeggiava sulla parete: un ritratto caricaturale, abbastanza famoso, del grande sindaco di Bologna d’inizio Novecento, il socialista Francesco Zanardi, a bordo di una barchetta di carta fatta con le pagine del “Carlino”, sempre pronto a lanciare i suoi “j’accuse”. E, sinceramente, mi sentivo un po’ orgoglioso di trovarmi sulla stessa poltrona occupata da Giovanni Spadolini, dopo aver avuto la fortuna di poter contare su maestri insuperabili come Indro Montanelli, l’altro grande direttore toscano. La mente corre, in quel giorno del 2007, allo spilungone di Fucecchio, l’esatto contrario del professore, pasciuto e bene in carne, di Firenze. Nei miei ultimi anni milanesi, ogni mattina andavo a prendere Montanelli al residence “Villa Clotilde” dove abitava. Senza tanti preamboli, Cilindro mi chiedeva regolarmente quale fosse la notizia della giornata perché, a 85 anni, si era stancato di leggere i quotidiani (ad eccezione della “Nazione”: voleva essere sempre aggiornato sulla squadra di calcio del cuore, la Fiorentina). Cercavo di riassumergli l’argomento da prima pagina mentre lui continuava a ripetermi che, per farsi capire, bisognava trovare una via, una sola, per interpretare i fatti e che si doveva seguire quell’idea senza perdersi in inutili giri di parole: bisognava colpire dritti, sempli-

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cemente, per arrivare alla testa e al cuore del lettore. Durante il tragitto a piedi sino alla sede del giornale, il grande Indro se ne stava silenzioso e muoveva, di tanto in tanto, solo la testa, come se mettesse un immaginario punto al termine della frase che stava già scrivendo nella sua mente. Arrivati al giornale, si piazzava subito davanti alla storica “Lettera 32” e, in men che non si dica, buttava giù il fondo: l’editoriale che aveva “dipinto”, era perfetto e pareva quasi che, sull’argomento, a lui ignoto fino ad un’ora prima, sapesse davvero tutto. Nel 2007 Montanelli era già scomparso da sei anni, ma la sua presenza, forte e amichevole, aleggiava ancora nel mio ufficio. Tanti ricordi bruscamente interrotti dal telefono che squilla. Alzo la cornetta e mi sento dire: «Sono Silvio Berlusconi, sono a Bologna: posso venire a trovarla al giornale?». È incredibile, all’altro capo del filo c’è proprio l’amico-nemico del vecchio Indro. Penso allo scherzo di un vecchio collega molto bravo nelle imitazioni che, già in passato, mi aveva causato qualche problema. Ma il Cavaliere, comprendendo la mia incertezza, ribadisce: «Sono veramente Berlusconi...». Così, finalmente convinto dell’autenticità del Cavaliere, gli fisso l’appuntamento: da lì ad un’ora Silvio sarebbe arrivato in via Mattei, nel bianco palazzo del quotidiano che, una mente fantasiosa, il giorno dell’inaugurazione, aveva ribattezzato “il gigante delle Roveri”. Mi sento piuttosto imbarazzato perché, con l’ex presidente del

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Consiglio, i rapporti non sono particolarmente idilliaci, visto che l’avevo “tradito” per seguire Montanelli nell’avventura della “Voce”. L’avevo incrociato, per la prima volta, negli anni Settanta, nell’ufficio di Franco Di Bella, allora direttore del “Resto del Carlino” che, dopo una breve permanenza a Bologna, sarebbe andato a guidare il “Corriere della Sera”, portando con sé, a Milano, il sottoscritto, allora giovane giornalista economico. Un grande direttore, Di Bella senior, anche se poi scivolò nella drammatica vicenda della P2, compromettendo in maniera irreversibile una brillantissima carriera. A quei tempi, ero giornalista professionista da pochi anni: assunto da Girolamo Modesti, ex corrispondente dagli Stati Uniti del giornale, avevo trascorso un periodo all’Ufficio Province (ingresso alle 20 di sera e uscita alle due di notte per raggiungere i colleghi al ristorante “Don Rodrigo”, nella Bologna allegra e nottambula di quegli anni) per poi diventare il “vice” della pagina d’economia che, come in tanti giornali, era appena nata. Una mattina, passando dalla segreteria di redazione, incrocio un uomo piccoletto e piuttosto tarchiato, che sta aspettando di farsi ricevere da Di Bella. Chiedo alla responsabile dell’ufficio, la signorina Masi, chi sia mai quel tipo un po’ azzimato. «È un certo Berlusconi, un piccolo imprenditore brianzolo che farà molta strada», mi sussurra di rimando lei. Quel “certo Berlusconi” me lo ritrovo, quaranta anni dopo, nello stesso ufficio un tempo occupato da Di

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Bella. Nella visita al sottoscritto è accompagnato dal senatore Giampaolo Bettamio, allora coordinatore emiliano di Forza Italia. Il Cavaliere, entrando, mi fa molta festa, come è capace solo lui: sembra davvero che la diaspora della “Voce” non ci sia mai stata. Avevo lavorato per quattro anni al “Giornale” guidato da Indro, come capo della redazione economica, dopo altre esperienze interessanti (dal “Carlino” al “Corriere”, al “Giorno” – il primo quotidiano che ho letto da bambino perché lo acquistava mio padre mentre io divoravo le pagine del “Giorno dei ragazzi” con le avventure di Cocco Bill – all’edizione italiana della rivista americana “Fortune”). Silvio mi aveva assunto nel 1990 ed era sempre stato, di fatto, il mio editore in via Negri, anche se, nell’ultimo periodo, aveva formalmente ceduto la proprietà al fratello Paolo per poter mantenere il controllo delle televisioni dopo la “legge Mammì”. Debbo dire che, in quel periodo al “Giornale”, il Cavaliere non si era mai intromesso nella gestione delle pagine economiche, nonostante il suo oggettivo interesse per il settore. Solo una volta mi aveva chiesto di intervenire ad una “convention” degli agenti Publitalia al “Principe di Savoia”. Mi aveva accolto come se fossi Montanelli in persona: «Ecco a voi il direttore delle pagine economiche del “Giornale”». E giù applausi: neppure Wanda Osiris avrebbe avuto una simile accoglienza e, considerando che Silvio era il mio datore di lavoro, mi ero sentito un po’ imbarazzato.

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Poi, però, era avvenuto il divorzio tra il Cavaliere e Montanelli e io ero stato uno dei primi transfughi alla “Voce”. Di quella rottura tra il grande giornalista e il suo editore sono state scritte tante inesattezze. Sulla vicenda, credo di saperne più di molti altri per la semplice ragione che ho vissuto in prima persona quei giorni straordinari come vicedirettore del nuovo quotidiano, così ribattezzato traendo spunto dal nome del foglio fondato all’inizio del Novecento da Giuseppe Prezzolini. Un’esperienza indimenticabile che ho raccontato, nel 1995, nel libro-intervista, “Indro Montanelli: la mia Voce”. In effetti, l’uscita di Cilindro dal quotidiano che aveva inventato venti anni prima, dopo aver abbandonato il “Corriere” (per solidarietà con Spadolini appena licenziato dai Crespi), è stata subito strumentalizzata da molti. La verità l’ha messa in chiaro lo stesso Montanelli nel libro: «Non potevo diventare il trombettiere di un uomo politico che, di fatto, era ancora il mio editore». E ancora: «Hanno creduto che fossi un traditore della destra, nel momento in cui la destra vinceva. Di solito chi tradisce abbandona una bandiera che si ammaina. È molto difficile andarsene quando c’è l’alzabandiera. Io ho lasciato una bandiera vincente». Insomma, il divorzio tra Silvio ed Indro era stato traumatico per tutti. Il toscanaccio, comunque, è sempre stato coerente con se stesso e anche nell’occasione del divorzio da Silvio non si è smentito, pagando, come tutti noi che l’abbiamo seguito, un caro prezzo, oltre che l’abban-

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dono dell’amata creatura, il “Giornale”, la sua vera e unica casa. Erano trascorsi più di dieci anni da quel 1994 così infuocato e “memorabile”, ma pensavo che Silvio potesse ancora nutrire qualche motivo di risentimento nei miei confronti: non ero, forse, salito anch’io, con orgoglio, sul carro vacillante del Grande Vecchio? Mi sbagliavo: sembrava quasi che, tra noi, non fosse accaduto nulla. Berlusconi s’illumina con un bel sorriso e comincia, pure, a darmi pacche sulle spalle, così come saluta con grandissimo calore l’editore Andrea Riffeser che, nel frattempo, ci aveva raggiunti, assieme al figlio Matteo. Ma, una volta uscito l’editore dalla stanza, il Cavaliere non perde troppo tempo e viene subito al sodo: mi dice che il governo Prodi è, ormai, moribondo, che i giochi si sono riaperti e che, nel giro di pochi mesi, ci sarebbero state nuove elezioni con il centrodestra in “pole position”. Aggiunge che è molto amato dalla gente e, senza curarsi troppo della mia sorpresa, improvvisa uno spogliarello: si toglie la giacca, la camicia, e, in canottiera, come il suo vecchio amico Bossi, mi fa vedere i lividi neri sulle braccia. È il segno inequivocabile, dice, dell’incontenibile affetto dei suoi “fans”. Perché, mi butta lì Silvio come se nulla fosse, non ci faccio un pensierino anch’io? L’offerta, inutile nasconderlo, mi spiazza completamente. È vero, spesso e volentieri, negli ultimi tempi, avevo confessato agli amici che avrei voluto impegnarmi più concretamente in politica: mi sembrava quasi inutile

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continuare a scrivere articoli di denuncia che restavano tali. Era troppo facile e comodo criticare dalla mia poltrona di osservatore privilegiato ed emettere sentenze durante le apparizioni a “Porta a porta” di Bruno Vespa. Avrei voluto dare – cercavo di spiegare – un contributo concreto, nell’ambizioso tentativo di cambiare qualcosa in questo nostro disastrato Paese. Ma, certo, non mi aspettavo che l’invito a scendere in campo potesse arrivare direttamente dal leader di Forza Italia, già pronto a voltare pagina. Pochi giorni dopo avrebbe tenuto il famoso discorso del predellino di Piazza San Babila, con la nascita di un nuovo partito, il Popolo delle Libertà, in seguito alla fusione con Alleanza Nazionale di Fini. Certo, l’offerta di Berlusconi mi lusingava, anche se rimaneva nel profondo del mio cuore un grande punto interrogativo: sarei riuscito, io romagnolo verace, con un Dna tutto repubblicano, a sopravvivere nella corte del re di Mediaset? I giochi si stavano così definendo, ma non erano ancora fatti.

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