Con D'Annunzio al Vittoriale

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Come poteva mancare nella mia collana “I luoghi dei sentimenti” il Vittoriale degli italiani, luogo tanto amato da Gabriele d’Annunzio. L’occasione e la mia fortuna è stata che a presiedere la Fondazione del Vittoriale sia l’amico Giordano Bruno Guerri. A Giordano ho chiesto di accompagnarmi nella visita a quei luoghi ‘sacri’ e raccontare da par suo il tête à tête con il grande Poeta. Così dopo Goffredo Parise e il suo Veneto, la Calabria di Marina Valensise, la Capri di Raffaele La Capria, l’Africa di Alberto Moravia, ecco il Vittoriale di d’Annunzio/Guerri. Lorenzo Capellini


D’Annunzio al Vittoriale con

Giordano Bruno Guerri e Lorenzo Capellini Collana editoriale: I luoghi dei sentimenti diretta da Lorenzo Capellini

Fotografie di: © Lorenzo Capellini www.lorenzocapellini.it lorenzo.capellini@tin.it Retro di copertina: “D’Annunzio e i suoi levrieri”, Giosetta Fioroni

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Impaginazione: Paolo Tassoni

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. © 2015 Minerva Soluzioni Editoriali srl - Bologna ISBN: 978-88-7381-646-1

Finito di stampare nel mese di febbraio 2015 per i tipi di Ediprima art&printproject

Minerva edizioni Via Due Ponti, 2 40050 Argelato (BO) Tel. 051.663.05.57 - Fax 051.89.74.20 www.minervaedizioni.com email: info@minervaedizioni.com


giordano bruno guerri Lorenzo CapeLLini giordano bruno guerri Lorenzo CapeLLini

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IndIce

Io, e Lui, al Vittoriale

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“Tenga, presidente�

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La Santa Fabbrica

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La Clausura

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Vicinanze

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Dirigere un museo, oggi, in Italia

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io, e Lui, aL viTToriaLe Non ricordo quando ho incontrato per la prima volta d’Annunzio, forse alle medie, forse addirittura al liceo. Erano i tempi – allora tanto più di oggi – in cui gli insegnanti lo nascondevano sotto il tappeto del suo presunto essere padrino del fascismo, con venature di pudicizia per il suo essere certamente lussurioso e dissipatore. Non ci raccontavano niente di una vita meravigliosa e – quanto alla sua poesia – la pioggia nel pineto cadeva implacabile sulla cavallina storna. Niente di più. Si ha di meglio da pensare, da ragazzi, e me lo dimenticai – fatti salvi gli esami – fino alla preparazione della tesi di laurea, che era su Giuseppe Bottai. Avevo deciso che sarebbe stato anche il mio primo libro, e non ci fu archivio che non setacciai. Chiesi di accedere anche a quello del Vittoriale, chi sa quali erano stati i rapporti fra l’intellettuale-ministro fascista e il Vate. Mi aveva incuriosito anche una dedica, bellissima, che 6


avevo visto in casa Bottai: “A Viviana e Maria Grazia – sangue del Prode – che nei loro nomi portano la Grazia alla Vita, il Collegiale di Prato”. Non cavai molto dalla cartella “Bottai”, gonfia di risposte a lettere di raccomandazione e di lamentele di d’Annunzio. Ma, poco più che ventenne, ebbi il privilegio raro di poter visitare la Prioria, ancora chiusa al pubblico. Ricordo ancora, come rovesciando gli occhi all’indietro, il mio stupore vedendo l’armonico affastellamento nella Stanza della Leda e il mio fantasticare su quel che poteva essere accaduto su quelle stoffe e fra quei ninnoli. E mi rivedo scoprire con un sussulto (ero anche un secchione) annotazioni di suo pugno in molti libri dell’Officina. Fu quel giorno che Gabriele d’Annunzio entrò nella mia personale galleria di personaggi del Novecento da riscoprire per restituirli il più possibile interi alla verità della loro vita. In meditazione, sotto la finestra del Volo dell’Arcangelo.

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Le bouganville sono un’esplosione di colore e appassiscono tardi, al Vittoriale.

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D’Annunzio era, come aveva scritto Alberto Arbasino nel 1965, il “Cadavere in Cantina fra i più ingombranti di tutte le letterature, di tutti i paesi, vilipeso, conculcato, negletto”, e cominciai a studiarlo, a prendere appunti. Pazienza, se poi il mio primo libro su di lui è uscito più o meno trentacinque anni dopo: il Comandante non mi lasciò più. Non mi lasciò più neanche il Vittoriale. Ci tornai come turista, giornalista, ricercatore, convegnista, seduttore (ottima è una visita qui, in compagnia, a questo scopo), con emozioni sempre più consapevoli e sempre diverse. Finché un giorno un ministro – Sandro Bondi – volle nominarmi Presidente del Vittoriale, il quindicesimo. Non era un incarico molto ambito, essendo onorifico, parola onorevole per dire senza stipendio, ma non mi sembrò vero: ero diventato la vedova di d’Annunzio, come si sono definiti, celiando, tutti i presidenti. Definizione non sbagliata, visto che il presidente ha il compito di conservare e valorizzare il ricordo e i beni del defunto. Da allora, era l’ottobre del 2008, è quel che cerco di fare, sempre provando a capire quel che avrebbe voluto lui. Per questo, quando Lorenzo Capellini mi ha proposto di accompagnarlo nel racconto delle magnifiche foto di questo libro, mi è piaciuta la sua idea di intitolare la premessa con un moraviano “Io e lui al Vittoriale”: dove, beninteso, “io” è lui, d’Annunzio, e “lui” sono io, il monachino di ferro che ambisce a diventare catapulta perpetua. La spiegazione è più avanti. Il pozzo è identico a quello della casa natale di Gabriele, a Pescara, e collega la sua infanzia all’impresa fiumana: si trova infatti nel Cortiletto degli Schiavoni, che rimanda alla Schiavonia, nome veneziano per l’Istria e la costa dalmata.

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‌e che le bandiere vengano lavate almeno una volta al mese.



Il pilo della Vittoria del Piave, un bronzo di Arrigo Minerbi che il Comune di Milano donò a d’Annunzio nel 1935.

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“Tenga, presidenTe” L’emozione della nomina fu niente, rispetto al momento in cui, davanti alle fontanelle dell’ingresso, Michela Rizzieri (ex guida, ex bibliotecaria, ora segretaria in capo) mi disse «Tenga, presidente», e mi mise in mano – come fosse la cosa più normale del mondo – le chiavi del Vittoriale. Rimasto solo, mi guardo intorno, con quelle chiavi in mano e occhi diversi. L’ingresso, che d’Annunzio ha voluto solenne e rigoroso, è oppresso e nascosto dalla fila dei visitatori alla biglietteria, da cestini per i rifiuti, da cartelli che impongono di non fare questo e quest’altro, da pali e catene di contenimento, persino da auto parcheggiate. Come se, per andare ai Musei Vaticani, la folla si accalcasse all’ingresso di San Pietro posteggiando lì davanti. Via tutto. La biglietteria spostata in un ingresso laterale, una biglietteria elettronica, che ti dà l’orario esatto in cui potrai entrare nella Prioria. L’ingresso, dominato dal motto IO HO QUEL CHE HO DONATO, ora è sgombro, restituito alla sua purezza. Unica aggiunta, un busto di bronzo – del Comandante, certo – di Venanzio Crocetti, a salutare i visitatori. Me l’ha regalato, l’ha regalato al Vittoriale, il mio amico Antonio Tancredi. Questo è il viale che conduce alla Prioria.

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Dal lato opposto della piazzetta Giancarlo Maroni, l’architetto di d’Annunzio, ha costruito mura e archi, in stile Vittoriale, per dare omogeneità all’insieme. Su una torretta, tristemente vuota, era evidentemente previsto un soldato di guardia. Non potendo metterci un soldato, chiedo a Ugo Riva uno dei suoi angeli di bronzo, e me ne dà uno bellissimo, femmina a ali spiegate, un piede nudo che muove il passo verso l’ingresso, verso il padrone di casa, come tante donne che fecero quel passo, trepidando. Uomo di disordine, d’improvviso mi scopro bravo casalingo, frenetico nelle pulizie generali e nel riarredo. Nel parco, via tanti cartelli inutili, altre catene. E tutti quei pennoni tristi e solitari? Rimettere le bandiere, ovunque, e che vengano lavate ogni mese. Pettinare tutte le foglie, ripiantare i venti cipressi morti o caduti dal 1938 a oggi. Riconquistare il Vittoriale. Sono quasi dieci ettari. Dopo l’acquisto, nel 1921, della Prioria più un paio d’ettari di olivi e limonaie, d’Annunzio aveva comprato a mano a mano altri terreni, per isolarsi e dare corpo al suo principato: la sistemazione delle sue memorie di pietra e metallo, il MAS, velocissimo motoscafo da combattimento, usato nella Beffa di Buccari, l’aereo del volo su Vienna, la FIAT Tipo 4 con la quale entrò a Fiume, i massi delle montagne della Grande Guerra. L’apoteosi si realizza nel luglio del 1925 quando, con un’impresa che suscitò l’ammirato e divertito stupore del mondo intero, la nave da guerra Puglia venne portata dal mare e incastonata su una collina del Vittoriale: permettere ai visitatori di visitare il museo di bordo, finora chiuso nell’acquario di una vetrata; aprire un altro piccolo museo, con la donazione degli eredi di Silla Fortunato, il giovane ufficiale di marina che compì l’impresa di trasportare, a pezzi, la nave da La Spezia, e la rimontò. Mi piace, piace a tutti, salire su quella nave, che sembra spiccare il volo verso il lago. Pag. 15 in alto: Felicità ossidionale è salire a bordo della FIAT Tipo 4, usata per entrare a Fiume. Pag. 15 in basso: Mi emoziona molto meno la mitica Torpedo Isotta Fraschini di Gabriele, una delle sue ultime automobili, capace di andare a 150 all’ora, fonte di numerose multe per “velocità spericolata”.

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Mi piace salire sul MAS, piacerebbe a molti, mettermi ai comandi e sognare l’impresa, ho pure i siluri (disarmati). Gabriele lo usò fino all’ultimo, per corse velocissime sul lago, dove ogni altra imbarcazione andava ai ritmi della vela, o poco più. Uno strumento di guerra diventato arma di seduzione, per eccitare una preda con la velocità audace. Sono salito anche sull’aereo, quando lo calammo al suolo per restaurarlo. E fu lì che ebbi un’altra, e nuova, percezione di d’Annunzio, della sua audacia. Con che fegato sorvolò le Alpi, su quell’aggeggio di legno e tela, dalle ruote di bicicletta, il viso al vento e senza strumenti di navigazione, per lanciare sul nemico dei volantini irridenti?

Sono salito soltanto per una richiesta di Lorenzo a bordo del MAS 96 (motoscafo armato silurante) della Beffa di Buccari, l’impresa compiuta da d’Annunzio nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, insieme a Costanzo Ciano e a Luigi Rizzo. Fu per questa impresa che il Comandante coniò uno dei suoi motti più famosi: “Memento Audere Semper”, per rendere aulica la sigla tecnica MAS.

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Mi piace anche sedermi sul sedile di pietra di d’Annunzio nell’Arengo, dove radunava i suo compagni di guerra e i suoi legionari. Le radici delle magnolie l’hanno dissestato, hanno spezzato i sedili, e non ho ancora trovato i soldi per restaurarlo. Così ho fatto togliere, almeno, le foglie secche che d’Annunzio voleva fossero lasciate al suolo: avevano un senso con l’Arengo perfetto, ora lo farebbero sembrare un luogo abbandonato. Interpretare d’Annunzio, capire cosa voleva dal – e con il – Vittoriale.

Il trono dell’Arengo nel boschetto di magnolie. Qui il Comandante riuniva i fedeli fiumani per le cerimonie commemorative. Ora le magnolie sono cresciute, e le radici hanno dissestato i sedili. Ci occorreranno molti soldi per rimettere tutto a posto.

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La natura si è rimangiata buona parte del parco, anno dopo anno. Le Vallette – dove scendono a riunirsi nel Laghetto delle Danze i due torrentelli dell’Acqua Savia e dell’Acqua Pazza – sono inaccessibili: tormentate da frane, le ha ricoperte una vegetazione da bosco primitivo. Capitozzare, capitozzare tutto. I bravi giardinieri si mettono al lavoro, mese dopo mese, con asce, seghe e pennati. Capitozzano e capitozzano. Si ripropone il problema filologico, sempre. Cosa voleva Gabriele, dalle Vallette? Nella mia mente lo chiamo sempre per nome, come faccio con tutti i protagonisti delle mie biografie. È normale, passando insieme tanti giorni e condividendo tanti pensieri. Giuseppe, Curzio, Galeazzo, Italo,

Giù per le Vallette scorrono i rivi dell’Acqua Pazza e dell’Acqua Savia, l’uno festoso e l’altro quieto, che si riuniscono nel Laghetto delle Danze.

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Maria, Ernesto, Filippo. Solo pensando a Gabriele, ogni tanto, mi sfugge un Comandante, mai un Vate o un d’Annunzio. Ecologista ante litteram, riteneva che la Natura sia inviolabile, e che vada difesa. Il cantore della comunione tra uomo e bosco, creatura e mare, essere animale e creato, protesta contro l’arbitrio umano, contro l’arroganza di chi uccide il bello indifeso: «Seppi ieri che furono abbattuti i bei cipressi della darsena, lungo la riva lacustre! Perché?», scrive a Maroni: «Io che mi rattristo per un filo d’erba calpestato». Sì, ma quando c’era lui, le Vallette erano fatte per passeggiarci, lo dimostrano i vialetti sepolti e i molti ponticelli divorati dalla vegetazione.

Il ponte delle Teste di ferro, realizzato su disegno di Gian Carlo Maroni nella Valletta dell’Acqua Pazza: i proiettili sono austriaci, ma le Teste di ferro erano un gruppo di arditi italiani.

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Eccolo, il Laghetto delle Danze, riaperto dopo decenni nel 2013. L’architetto Maroni lo disegnò con la forma della cassa armonica di un violino, a ricordo di Gasparo da Salò: “Non si sa se stia aprendo il petto per trarne il violino o se stia aprendo il violino per mettervi il cuore”, scrive Gabriele a proposito della statua con la quale Salò ha voluto ricordare il suo concittadino.

Qui Gabriele organizzava dei concerti eseguiti dal Quartetto “Veneziano” del Vittoriale. Oggi ci facciamo anche noi dei concerti, ma serve soprattutto alle coppie di innamorati, per tubare. Pag. 23: Un percorso riportato alla luce da poco: sembra la via Krupp di Capri, ma conduce da Villa Mirabella al Laghetto delle Danze.

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