IL CAPANNO SUL PORTO

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il capanno sul porto

italo cucci

Italo Cucci, nato a Sassocorvaro nel 1939 è stato allievo di grandi giornalisti come Severo Boschi, Gianni Brera, Aldo Bardelli, Enzo Biagi. È stato direttore del “Guerin Sportivo” (per tre periodi diversi, rinnovandolo totalmente nel 1975), del “Corriere dello SportStadio” (ancora tre volte), del “Quotidiano Nazionale”, del settimanale “Autosprint” e del mensile Master. Collaboratore di numerosi quotidiani. Ha insegnato giornalismo alla LUISS di Roma e Sociologia della comunicazione sportiva alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo. Per Minerva Edizioni ha pubblicato anche: Bad Boy. Da un Mondiale vinto a un Europeo perso (2012) e Elettroshock. Sono ancora vivo (scritto insieme al figlio Ignazio, 2014).

la prima biografia completa del fondatore del Guerin Sportivo e dell’a.c. Cesena, castigatore del calcio corrotto, profondo e appassionato conoscitore del pallone, che ha reinventato il calcio italiano: il conte Rognoni.

italo cucci

il capanno sul porto Storia di Alberto Rognoni il conte del calcio con un racconto di Francesca Rognoni e un contributo di Mario Pennacchia

Minerva Edizioni

Il Conte Alberto da Calisese di Cesena trascorse un’intera nottata a riscrivere lo Statuto del calcio, il Nuovo Testamento che sarebbe passato alla storia come Lodo Barassi, dal nome del famoso presidente federale che aveva salvato la mitica Coppa Rimet durante la seconda guerra mondiale. Era il 1951 e si doveva varare la riforma dei campionati. L’Autore – noto editore, dirigente di società e animatore di dibattiti e convegni – era ospite dello stesso hotel fiorentino sul Lungarno che ospitava diciotto alti papaveri. Trascorsa la notte insonne, il Nostro si avviò di buonora verso la hall ma prima attraversò il corridoio prospiciente l’Arno sul quale si affacciavano le camere dei potenti. Come usava a quei tempi, ognuno aveva lasciato davanti alla porta le scarpe da lucidare. Ce n’erano trentasei. Il Conte ne prese due paia alla volta, con calma, e le gettò nel fiume. Quando fu l’ora della riunione i delegati, travolti dall’insolito evento, prima furenti poi stressati e arrendevoli, si presentarono in ciabatte e pedalini ad ascoltare quel che Barassi – leggendo le note di Rognoni – aveva da comunicare. Così rinacque il calcio. Così il Capanno sul porto di Cesenatico del potentissimo Conte Rognoni divenne la Mecca del Pallone...

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Italo Cucci

IL capanno sul porto Storia di Alberto Rognoni e della corte del Conte

con un racconto di Francesca Rognoni e un contributo di Mario Pennacchia

Minerva Edizioni



INDICE

TATARCORD? AMARCORD

pag. 7

IL CONTE IN CAPPARELLA

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IL PROCESSO AL CALCIO

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IL CAPANNO SUL PORTO

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SIGNORI GRANDI FIRME

25

L’AZZURRO DI ARPINO

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ROSSODIBRERA

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L’ORA DI PALUMBO

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UMBERTO E RAIMONDO

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E LA GENTE GRIDAVA «VIVA MOGGI!»

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ENZO BIAGI E IL CAV. ROCCO

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IL PRINCIPE DI GALLIA

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IL DOTTOR BERNARDINI

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ADDIO DANDI

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PASQUALE COME GIUFFRÈ

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“ROMAGNA LIBERA!”

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LA RESURREZIONE DI SAN LAZZARO

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18/6/2014. CONTE, IL CESENA È IN A!

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PENNACCHIA E L’INQUISITORE

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GIAMPIERO, L’AMICO VERO

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IL RICORDO DI FRANCESCA ROGNONI

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GLI ANNI PIÙ BELLI DELLA NOSTRA VITA

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TATARCORD? AMARCORD

Dicono che questa dovrebbe essere la biografia di Alberto Rognoni, il conte Rognoni, il personaggio che ha dominato il calcio italiano per mezzo secolo, quasi sempre sfuggendo all’attenzione dei media pur avendo spesso “gestito” i più importanti e famosi giornalisti italiani, quindi la politica dei giornali più qualificati. In realtà, queste pagine sono solo un tardivo atto d’amore per un uomo che più d’ogni altro mi ha insegnato il mestiere, coinvolgendomi spesso nelle sue scelte rivoluzionarie, nelle manovre sotterranee o alla luce del sole che ispirava – e alle quali dava contributi concreti – con un atteggiamento non ambiguo ma contrastante: da una parte spendeva sarcasmo per un gioco che meritava di crescere e di diventare un’Impresa, dall’altra frenava gli impulsi affaristici dei ‘padroni del vapore’, nel tentativo di salvaguardare lo spirito del suo tempo, le bandiere, i colori della passione, l’onestà non cogliona, la voglia di una permanente rivoluzione intrisa di passione campanilistica e di scaltrezza. Stratega illustre e tattico sopraffino conquistava gli uomini con squisita signorilità e li piegava ai suoi voleri – sempre elegante, peraltro – facendo temere l’iradiddio. Così l’ho avuto maestro e insieme persecutore, incapace di tenerezze, di abbandoni paternalisti, fustigatore dell’ignoranza e della sgrammaticatura che non tollerava non solo nei giornalisti – apprendisti o celebri – considerando la conoscenza del Bell’Italiano un dovere anche se, più o meno scherzando, celebrava il primato della Romagna e del Romagnolo, terra e lingua del suo cuore, arrivando al punto di condannare padre Dante a un secondo esilio, da Ravenna alla Toscana, e a invocare il ritorno nella sua terra del Vate Unico Giovanni Pascoli al quale accostava con emozione Renato Serra, non il mitico “Luciano Serra pilota” eroe della filmografia fascista, come spesso si equivocava, ma lo scrittore, poeta e critico cesenate che in un percorso di vita di appena trent’anni seppe celebrare come pochi – al fianco di Giosue Carducci e Severino Ferrari prima e di Giuseppe Prezzolini, Giuseppe De Robertis e Benedetto Croce poi – i fasti della cultura italiana e insieme i valori del combatten7


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te, lui, già nipote di un patriota delle Cinque Giornate di Milano, in prima linea nella Grande Guerra, dove cadde trentunenne sul monte Podgora partecipando alle battaglie dell’Isonzo. Del suo ispiratore morale il Conte citava l’opera più significativa, Esame di coscienza di un letterato, pubblicato poco prima della morte in guerra e proprio alla guerra dedicato, quasi una premonizione: ”La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno; non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente nulla, nel mondo. Neanche la letteratura”. Alla ricerca del Conte perduto, così difficile da intrappolare in una biografia logica e da estrarre razionalmente dal reparto sentimentale, ho trovato la sua tomba proprio accanto a quella di Serra, come se il destino avesse voluto riavvicinare l’eroe e il suo fervente adoratore dal quale avevo saputo, e lo raccontava con le lagrime agli occhi, come Renato si fosse avviato alla guerra e alla Bella Morte dopo che una donna amata l’aveva abbandonato per un altro uomo. Ecco, solo in quei rari racconti ho potuto conoscere l’Alberto Rognoni diverso da quello che ormai apparteneva alle leggende metropolitane che ritroveremo, paradossalmente veritiere, nel corso di questo racconto. Era d’inverno, quando sono entrato in quel cimitero ordinato e sereno insieme a due compagni che l’hanno seguito per tutta la vita, Dionigio Dionigi e Edo Lelli; mi sono appartato e mi è parso possibile ascoltare tutte le sue storie, anche quelle a me sconosciute, e anche di parlargli, gli “amarcord” e i “tatarcord” rifiorendo in chiave felliniana, perché di Fellini mi parlò la prima volta che c’incontrammo, quando non ero ancora “uno dei suoi” e mi voleva alla prova, sapendomi riminese, su un racconto che pensava di pubblicare su un giornale prezioso che andava costruendo – “Lui e Lei”, settimanale bifronte, con due copertine per l’Uomo e la Donna da aggiungere a “Le Ore” e all’elegantissimo “Voi”– e in verità non arrivò mai all’edicola: finì sparso, foglio su foglio, fra menabò e prove di stampa, sui tavoli del suo ufficio milanese in Piazza Duca d’Aosta 8 b. «Cosa la colpisce» mi chiese «quando si muove da Rimini a Bologna?» Più che un direttore pareva un inquisitore. Il tono della conversazione, kafkiano. 8


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«Dice in treno o in auto?» «In treno e in auto». «Vedo donne, donne, donne…Quando passo col treno, vedo sui campi donne chinate a raccogliere verdure e mostrano ai viaggiatori assiepati davanti ai finestrini dei culoni appetitosi fasciati da gonne strette e lunghe…Ma quando il treno è più vicino si alzano, si girano verso il treno, con una mano si detergono il sudore della fronte, con l’altra accennano a un saluto ondivago…». «E in auto?» «M’è capitato di far la via Emilia la mattina presto, ha presente quella lunga fila di donne in bici che vanno a lavorare all’Omsa? Hanno le stesse gonne strette sotto le quali nascondono il sellino… Pedalano e chiacchierano a voce alta…Posso dire una cosa?» Silenzioso alzò gli occhi sopra gli occhiali scivolati sul naso, per ascoltare. «Non saranno come le dolicocefale bionde o brune che ho visto sulle copertine delle Ore ma se permette sono tremendamente sexy…E quelle argentine che gli modellano il busto, quei seni che puntano il cielo…» Finalmente si mise a ridere. Solare, non tenebroso. Forse felice di quell’omaggio alla bellezza romagnola. Poi ancora domande. «Mi dicono che lei è calcisticamente incompetente ma s’intende di musica: conosce Gianni Morandi?» «È venuto a trovarmi a Stadio quand’era ancora il ragazzino che cantava la mamma e il latte…Era con Lucio Dalla, un bassetto ricoperto di peluria, volevano che gli presentassi Bulgarelli e Pascutti e li ho portati all’antistadio a farsi fare gli autografi…» «Mi dicono che Morandi stia fuori Roma…» «A Casalpalocco, dalle parti di Capocotta…Ricorda Wilma Montesi e il pediluvio?» (Per chi non c’era, o non ricorda, i Capocottari furono al centro di uno degli scandali più famosi del dopoguerra, quando la ventunenne Wilma fu trovata morta sulla spiaggia – si parlò di pediluvio e cocaina – e per qualche tempo fu accusato del delitto Piero Piccioni, figlio del presidente della DC Attilio). «Ricordo…Per noi scrive Leone Piccioni, il fratello di Piero… Vedo che ne sa…La chiamerò…Lavoreremo insieme…» Il giornale non uscì, il mio pezzo sulle donne di Romagna finì chissadove, 9


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ma un giorno del Sessantotto salii a Milano anch’io, a Piazza Duca d’Aosta 8 b. I sogni si realizzano. Un Amarcord a lieto fine. Già, Amarcord. Mi vien da ridere quando penso alla notorietà di questa parola riminese immortalata da Fellini. Quando Dario Zanelli, critico cinematografico del “Carlino”, annunciò in anteprima la nascita del film non pensò di doverne spiegare il significato e un giorno dopo su altri quotidiani ne leggemmo di tutti i colori: l’interpretazione più diffusa fu che quel titolo era d’origine araba. Quanti pataca, in giro per l’Italia. Ripensai a loro quando vidi la scena del nonno che in mezzo alla nebbia, ispiratissimo, disse “’te cul!”. Amarcord: se avrete la pazienza di seguirmi, vedrete apparire sulla scena dello spettacolo costruito per ricordare il Conte decine di protagonisti di quel tempo, del suo tempo; tutti, ovviamente collegati a lui ch’era diventato, come dicono a Foligno, lu centru de lo munnu. Protagonisti illustri e meschini che hanno fatto anche la mia vita di fortunato corista cresciuto accanto ai tenori.

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IL CONTE IN CAPPARELLA

Apparve una sera a Rimini, davanti all’Embassy dove noi sfaccendati attendevamo il buio per iniziare il viaggio nella notte. Ai tavolini del bar eravamo seduti io, l’Aspirante Giornalista, Lelo, quello della catena di giornali, ovvero un’edicola in piazza Tre Martiri, Gianni Plum con la sua voglia di Svezia, William il Capitano, Rino, quello del Baseball, Mario The Tic, ballerino snodato: vestiti di tutto punto – andava lo shangtung, seta selvaggia e brillante – sembravamo pronti per un matrimonio, in verità vitelloni à la page, bollettari travestiti da ricchi appena sopportati da Elio il barista (“un ragazzo sempre in vista”, lo cantava Fred Buscaglione) che ci riservava un tavolo perché facessimo da richiamo e ci serviva bicchieri di Polo Nord, o Alaska: acqua fresca con cubetti di ghiaccio, fettina di limone o rametto di menta e cannuccia da risucchio. Della gente che passava – qualcuno ancora in zoccoli e mutandini da bagno, proletari da spiaggia in cerca di pizzeria o piadina e squacquerone – tracciavamo profili istantanei, dando voti soprattutto alle donne, straniere o italiane, giovani o decrepite, belle o inguardabili, classificate secondo una terminologia da affamati di sesso: “Pasta Barilla” le più belle, “Pasta Ghigi” le digeribili, “Pasta Combattenti” meglio di niente. E buon appetito. Dal lato opposto di via Vespucci, l’Hotel Ambassador esponeva tutt’altra vita, gente bene o danée, su poltrone di vimini e gran passaggio di camerieri con vassoi che puntavamo con invidiosa fame. Di solito sedeva lì un giornalista famoso, Bruno Castellino, caporedattore del “Corriere Lombardo” che da tempo cercavo d’incontrare per avere una spinta in un giornale ma inutilmente perché lì i birri – noi, personaggi postfelliniani da cronache di poveri amanti – non li facevano neanche avvicinare; mentre Lui riceveva benevolo, spesso senza neanche alzarsi dal trono, attori attrici e cantanti di media spinta, quelli che non potevano concedersi il Grand Hotel. E lì, sulla Rive gauche di Marina Centro, si presentò un soggetto da attenzione, subito fotografato dal nostro tavolo: alto, dritto con posa da conquistatore, uno smoking ben tagliato e sulle spalle – 11


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per quello ci colpì – una capparella da Passator Cortese. Portava occhiali scuri e baciava rapidamente la mano alle signore pipianti che gli si facevano intorno come se fosse Rodolfo Valentino; e infatti aveva i capelli scuri impomatati e il modo di porgere hollywoodiano. Una visione. Inutili i tentativi di identificarlo, passammo in rassegna personaggi del jet set e io, il Fissato della Stampa, dissi la mia: «È di sicuro un signore dei giornali», anche perché Castellino s’era degnato di alzarsi dal trono per salutarlo. «T’è dett bèn, hai detto bene,» precisò un tizio del tavolo accanto al nostro: «è un editore di Milano, uno che conta, anzi il Conte...Il Conte Alberto Rognoni editore delle Ore...» Ci voltammo tutti insieme dalla parte del suggeritore, presentandoci a nostra volta, Italo, Leo, Rino, Mario, William...E lui: «Ferruccio Lamborghini», e tese la mano. Noi, fulminati; Lelo, lo sciccoso, non riuscì a trattenere un “soppia!” (versione romagnola del soccmel bolognese, esclamativo di apprezzamento) dedicato contemporaneamente al Conte e al re dei trattori, l’unico che girava da quelle parti in Ferrari e si diceva fosse pronto a mettere sul mercato una vettura tutta sua; Ferruccio era una persona alla mano, generosa: un giorno, saputo che mi ero fatto una ragazza carina da portare a ballare al Paradiso, il posto più chic di Rimini, mi allungò al solito tavolo le chiavi della Ferrari, «Vai, ragazzo, fai bella figura!» ma rifiutai cortesemente dicendomi indegno – e preoccupato – di tanto lusso; in verità, ero senza patente e continuai per mesi a offrire ai miei sogni d’amore un ruvido trasporto in Lambretta carenata. Era il 1959. Avevo vent’anni. Non vi dico che emozione aver visto il conte Rognoni, era come se l’avessi conosciuto e già fantasticavo d’essere un giorno ai suoi ordini in quel giornale che dettava legge, a quel tempo, in fatto di qualità e di coraggio: “Le Ore” di Rognoni – diventato dopo il Settanta, quando lo cedette a Adelina Tattilo, un vero e proprio magazine del sesso – era un rotocalco raffinato con una grafica elegante e una scelta fotografica rivoluzionaria. Fin dalla copertina. Un giorno il caporedattore del settimanale tedesco “Stern” – ammirato dell’impaginazione delle “Ore” – chiese a Rognoni chi fosse l’ardito e originale “tagliatore” delle foto: era lui stesso, in realtà, ma l’idea di fare uno scherzo ai “tognini” gli suggerì di segnalargli un tipo di Milano che fu subito assunto e presto licenziato: non 12


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sapeva far niente, semplicemente perché non era un grafico ma un fattorino del Conte. Mentre “Oggi” e “Gente” erano la vetrina dei re e dei principi più o meno in esilio, dei papi e dei protagonisti della cronaca nera altolocata, delle star sul viale del tramonto e dei primi divi della tivù, il settimanale di Rognoni – diretto da Salvato Capelli, un signor giornalista – sparava in copertina bellezze spesso inedite che di lì balzavano al successo. Ho ancora in mente la preziosa Antonella Piaggio, poi moglie di Umberto Agnelli; e ancora Elsa Martinelli, indossatrice fascinosa presto attrice di successo, e Nicoletta Rangoni Machiavelli, così strepitosamente donna – capelli neri, incarnato d’avorio, occhi scuri e ammalianti, un corpo scultoreo degno di Frine, la cortigiana d’Oriente ritratta in statua da Prassitele, una classica bellezza mediterranea – che Dino De Laurentiis le propose di impersonare Eva ne “La Bibbia” di John Huston il quale, tuttavia, finì per ingaggiare una Eva all’americana, bionda e giunonica, Ulla Bergryd, tipica femmina del Nord. E ancora in copertina un frutto acerbo, una “ninfetta”, la giovanissima Stefania Sandrelli, scoperta in Versilia da Paolo Costa, un fotografo romagnolo che aveva avuto successo in Germania ed era finito alla corte del Conte fra le prime firme de “Le Ore”, come Federico Patellani, un altro maestro. Paolo soggiornava stabilmente all’Ambassador – almeno quando non era su altri lidi o al Festival di Venezia, o a Roma a caccia di dolcevitieri – e almeno con lui riuscii a parlare di Rognoni e del suo mondo senza che ciò esaudisse il mio desiderio di diventare giornalista: il Conte – mi diceva Paolo – era un tiranno illuminato, dotato di un gusto straordinario per l’immagine e la scrittura; sceglieva una foto fra cento, ospitava sul giornale firme di successo come Alberto Bevilacqua e Vittorio Bonicelli, pubblicava “Il falso e vero verde”, una rubrica di Salvatore Quasimodo, che aveva appena vinto il premio Nobel per la letteratura e tuttavia lasciava che il Conte – e non solo per ragioni tipografiche – tagliasse o arricchisse le due paginette che gli consegnava settimanalmente. Un filo di speranza – per me – poteva nascere dal mio essere riminese: «Vicino a lui» mi disse Paolo «c’è sempre gente di Romagna». Venne, dieci anni dopo, il grande giorno dell’incontro e del reciproco innamoramento; ma quando Rognoni seppe ch’ero riminese d’adozione (“Già un difetto, caro 13


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lei. Ricordi quel che disse Mussolini: Rimini, feccia della Romagna e rifiuto delle Marche!”) cominciai a capire, felice, che mi aveva assunto al “Guerin” non per mere questioni territoriali; e addirittura sopportò con parole compassionevoli la notizia, accogliendola tuttavia con sarcasmo, della mia nascita nel Montefeltro marchigiano, del che fece scandalo con amici e colleghi fin quando potei contraccambiare rivelando la sua nascita in quel di Ferrara. Ma questa è un’altra storia. In quel lontano 1959 feci di tutto per mettermi in luce entrando a far parte di una famiglia giornalistica che produceva le prime cronache mondane – oggi si direbbe gossip – in concorrenza con “Il Corriere delle Vacanze”, la rubrica di pettegolezzi soft che aveva portato migliaia di lettori alle “Ore”. Mi proposi come pettegoliere adriatico al settimanale “Lo Specchio” di Roma che mi mise alla prova e alla fine mi arruolò. “Lo Specchio” era un giornale della destra andreottiana ben introdotto anche in Vaticano perché il suo fondatore/direttore, Giorgio Nelson Page, detto “l’Americano di Roma”, era in grande amicizia con il Cardinale Ottaviani, principe della Chiesa conservatrice. Per anni ho pubblicato i miei articoli accanto a quelli del barone Enrico de Boccard (“Cronache Bizantine”), di Olghina di Robilant (che narrò per prima la folle notte di Aiché Nana, la danzatrice nuda del Rugantino di Roma), di Fiora Gandolfi (poi moglie di Helenio Herrera) agli ordini di Ninni Pingitore, l’inventore del “Bagaglino”. Spaziando anche in altri campi, come la politica, la cronaca e lo sport, sfiorai il primo incontro con Rognoni nel ’61, quando “Lo Specchio” mi mandò a Milano a raccontare la “scandalosa” storia d’amore di Antonio Valentin Angelillo – bomber dell’Inter, ancor oggi titolare del record di gol segnati in un campionato, 33 – con Ilya Lopez, una cantante che il Mago Helenio Herrera trasformò in famelica divoratrice di uomini, una Circe, per togliersi di torno il “troppo bravo” argentino, uno dei mitici “angeli dalla faccia sporca”. Per l’occasione mi incontrai con Gianni Reif, editore di “Supersport”, il settimanale che sarebbe diventato concorrente accanito del “Guerin Sportivo” di Rognoni, e fui invitato a collaborare usando lo pseudonimo Vittorio del Sasso; di lì a poco mi fu offerta la collaborazione al “Guerin Sportivo” dove mi firmavo Giorgio Rivelli e dove final14


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mente potei conoscere di persona il mitico editore Conte Alberto Rognoni da Calisese. Fra quei due giornali, come Scilla e Cariddi, mi mossi tuttavia disinvolto durante lo scandalo del “Bologna Doping”: avevo bisogno di soldi e mentre Vittorio del Sasso parteggiava per i rossoblù (effettivamente nel mio cuore) Giorgio Rivelli raccontava molto più freddamente, anzi talvolta “alla lombarda”, le loro colpevoli sofferenze, tuttavia aggiustando il tiro settimana dopo settimana fino a quando il Triplice Firmatario – Italo Cucci di Stadio e i suoi gemelli del Guerin e di Supersport – poté gridare “Innocenti!” e “Vittoriosi”. Era il ’64 e Giovanni Spadolini mi aveva appena sbolognato dal “Carlino” costringendomi a fare il giornalista sportivo. (Il motivo dell’epurazione – situazione che ben conoscevo per l’esperienza patita da mio padre, epurato nel ’45 eppoi “liberato” dall’amnistia di Palmiro Togliatti – risaliva a un’inchiesta straordinaria che avevo condotto per “Lo Specchio” nel Triangolo della Morte, anticipando di almeno vent’anni Giampaolo Pansa. Spadolini, da giovane fervente fascistello, autore di articoli dal non vago tono razzista, a trent’anni si dava ancora da fare per costruirsi una fama da antifascista e non aveva gradito la mia ricerca sui delitti commessi dai partigiani comunisti in Emilia). Successe di tutto, in quegli anni, e continuavo a scrivere per il Guerin di Rognoni, di Don Ciccio (Bruno Slawitz, direttore delle querele e raffinato musicologo cui Parma ha dedicato un raffinato museo della musica) e Gianni Brera (direttore di nome, talché una volta che osai chiamarlo così, anni più tardi, quando andai a lavorare ai suoi ordini, mi mandò a quel paese: “Il direttore è Lui – neanche lo nominò – il romagnolo Passator del Mese come quel Pelloni del Carlino che ben conosci”). Ma con Lui non ebbi mai a che fare, mi faceva chiamare da Willy Molco, un ragazzo educatissimo, perfetto allievo del Conte Maestro, e dovevo sorbirmi la pedissequa descrizione del pezzo che avrei dovuto scrivere al punto tale che un giorno protestai: «Ma perché non ve lo scrivete voi?!», e lui calmo: «Ma lo paghiamo a te». Anche bene, con me il Conte era generoso. (Quel vezzo del pezzo “dettato” lo feci poi mio e quando diventai direttore del “Corriere dello Sport” ricordo che chiesi il fondo del giorno a quel gran signore di Andrea Barbato, spiegandogli ben bene cosa volevo e lui, ridacchiando, «Ma perché 15


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non lo scrivi tu?» «Perché lo pago a te,» risposi ridendo. E bene: mezzomilione, come a Mughini e al grande Ferdinando Camon). Scrivevo per il Guerin ma il mio giornale era “Stadio”, la mia casa verde dove crebbi accanto a un altro grande maestro, Aldo Bardelli, che sapeva della mia collaborazione di contrabbando e non mi rimproverava nonostante a quei tempi la concorrenza fra fogli sportivi fosse molto forte; e un giorno seppi perché: c’era anche lui sulle pagine del “Guerin” e si firmava Antonio Frediani. Era comunque il settimanale delle grandi firme, quello, che poteva concedersi il lusso di arruolare Camilla Cederna, Alberto Bevilacqua, Indro Montanelli, Pier Paolo Pasolini, Leone Piccioni, Mino Mulinacci e tanti altri, compresi quelli “coperti” che, proprio per il fatto di non rivelarsi, scrivevano pezzi audaci come voleva il Conte che al tempo stesso poteva manipolarli a piacere, come faceva con Salvatore Quasimodo. Alla vigilia del Mondiale del Sessantasei fui sul punto di essere inviato in Inghilterra: «Se l’Italia va avanti,» mi disse Bardelli. Ero sicuro che ce l’avrei fatta. L’Italia di Edmondo Fabbri era bellissima, aveva vinto tutte le partite premondiali…E invece fu Corea. Una tragedia. Al ritorno da Middlesbrough, Bardelli mi chiamò: «Verrà con me a Cesenatico, il Conte Rognoni rifà il processo al calcio, io faccio parte del tribunale, lei racconterà la cronaca…»

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IL PROCESSO AL CALCIO

Il Conte Rognoni ci aveva già provato a portare in piazza – si fa per dire – gli eroi illustri e meschini del calcio con il “Guerin Parlato”, pubblico dibattito di fine campionato sui temi più polemici della stagione. Ma fu a Cesenatico, nella sua Romagna dove già aveva fama il suo capanno sul porto, che riuscì a coronare il suo sogno, grazie all’intraprendenza di Primo Grassi e Marta Zani dell’azienda di soggiorno. Così nacque, nell’estate del 1965, il “Processo al calcio”, grande spettacolo teatrale la cui regìa – laboriosa e grandiosa, degna di un Cecil De Mille del pallone – fu del Conte che riuscì, grazie al suo nome e alla sua potenza, a portare nella cittadina adriatica i personaggi più famosi, calciatori, dirigenti, allenatori, giornalisti e protagonisti delle cronache, in genere avversari, spesso nemici, comunque orgogliosi di essere chiamati a vivere l’emozione di un pubblico dibattito processuale “alla Perry Mason” con tanto di giudici, avvocati e, naturalmente, imputati, tutti conquistati dalla genialità di Rognoni e dalla tavola di “Zampa di velluto” del “Gambero Rosso”, il ristorante sul molo, come dalla gara di tiro al piattello che anticipava l’evento e la possibilità di trascorrere qualche giorno al mare, possibilmente nell’Hotel Internazionale di Giorgio Ghezzi (il mitico Kamikaze di Milan e Inter, debuttante a Rimini) dove soggiornavano stabilmente Dario Fo e Franca Rame, assidui frequentatori del night più famoso di Romagna, il “Peccato Veniale”. Come dicevo, la mia prima partecipazione al “Processo” (anni dopo riesumato da Aldo Biscardi in versione televisiva) fu nel 1966, fra il 24 e il 26 agosto: sotto accusa la Nazionale di Edmondo Fabbri castigata dalla Corea del nord con un gol del famigerato tipografo Pak Do Ik. Questo l’ambizioso programma dell’evento. Mercoledì 24 agosto Ore 11.30, Stand tiro a volo. Sfida di tiro al piattello fra una squadra composta dai presidenti di serie A capitanata da Giuseppe Pasquale, presidente della Federcalcio, contro una squadra di gior17


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nalisti capitanata da Gianni Brera. Presente alla gara il bolognese Ennio Mattarelli, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokio 1964 Ore 13.30, Ristorante Gambero Rosso, colazione ufficiale con premiazione dei vincitori della gara di tiro al piattello Ore 18, Stadio comunale di Rimini, incontro di calcio Rimini-Bologna Ore 21.30, Stadio comunale di Cesena, incontro di calcio CesenaCagliari Ore 23, Ristorante Casali di Cesena, pranzo ufficiale offerto dal presidente dell’A.C. Cesena Dino Manuzzi Giovedì 25 agosto Ore 16, Galleria d’Arte “Il Bragozzo” (Palazzo del turismo): inaugurazione della mostra del pittore Luciano Casali Ore 16.30, Palazzo del Turismo. PROCESSO AI MONDIALI: dibattito con la partecipazione dei più autorevoli giornalisti e esponenti del mondo del calcio italiano. Questi i protagonisti del processo: TRIBUNALE Presidenti: Giorgio Bocca del “Giorno” di Milano e Gualtiero Zanetti direttore della “Gazzetta dello Sport” di Milano Relatore: Severo Boschi del “Resto del Carlino” di Bologna Giudici: Enzo Ferrari, Concetto Lo Bello, Nicolò Carosio, Giampiero Boniperti, Alberto Barbè Pubblico Ministero: Gianni Brera Difesa: Rizieri Grandi del “Messaggero” di Roma, Nino Nutrizio direttore della “Notte” di Milano, Aldo Bardelli caporedattore di “Stadio” di Bologna Parte civile: Antonio Ghirelli direttore del “Corriere dello Sport” di Roma, il senatore Franco Servello, vicepresidente dell’Inter, Annibale Frossi, commentatore del “Corriere della Sera “ di Milano, Aldo Biscardi di “Paese Sera” di Roma Testimoni: Angelo Schiavio, Giuseppe Meazza, Silvio Piola e Eraldo Monzeglio, campioni del mondo; Ottorino Barassi, “salvatore” della Coppa Rimet; Giuseppe “Gipo” Viani detto “Lo Sceriffo”, in quel periodo al Genoa; Ferruccio Novo, presidente del grande Torino, Paolo Mazza, presidente della Spal, Giorgio Ghezzi, Fulvio Bernardini e Walter Mandelli 18


Italo Cucci

Ore 22, Ristorante Gambero Rosso, pranzo ufficiale con consegna dei premi agli arbitri vincitori del referendum del “Guerin Sportivo”. Targa d’oro a Giulio Campanati e Concetto Lo Bello. Fischietto d’oro a Antonio Sbardella. Medaglia d’oro agli arbitri anziani Alessandro D’Agostini, Bruno De Marchi, Francesco Francescon. Medaglia d’oro agli arbitri rivelazione Sergio Gonella, Mario Bernardis, Antonio Vitullo. Fischietto d’oro a Enzo Barbaresco (miglior arbitro della serie C). Il pranzo si concluderà con la consegna della Papera d’Oro a Nicolò Carosio per festeggiare i 35 anni della sua attività di radio telecronista RAI. Doveva esserci anche Edmondo Fabbri, imputato principale della disfatta coreana per aver fatto giocare Giacomo Bulgarelli infortunato: a quei tempi non era prevista una sostituzione e quando il capitano rossoblù si ruppe e uscì, i “ridolini” nodcoreani (così li aveva definiti Ferruccio Valcareggi dopo averli visionati in un’amichevole premondiale) dilagarono e vinsero. Ma Fabbri, detto “Mondino”, era sparito dopo le violente polemiche e la rivolta popolare. Stavo per partire per Cesenatico quando Bardelli mi chiamò: «Vada al convento dei frati di Camaldoli, Fabbri è lì nascosto, chieda di parlargli, so che ha qualcosa da raccontare». Quando arrivai al convento, il padre guardiano mi fece superare l’entrata e arrivò Fabbri, magro, stralunato; non parlò, mi consegnò una busta e sparì. Rientrai a Bologna, a “Stadio”, invece di raggiungere la compagnia del Conte che il giorno successivo avrebbe dato vita al “Processo”. Bardelli prese la busta, tirò fuori alcuni fogli e si mise al lavoro. La mattina successiva, mentre a Cesenatico i famosi giornalisti oziavano in attesa dell’evento, uscì “Stadio” con uno scoop sensazionale: “FABBRI: HANNO DROGATO GLI AZZURRI!” Il dossier che mi aveva consegnato “Mondino” conteneva dichiarazioni firmate da Giacinto Facchetti e altri azzurri che accusavano un medico federale di avergli fatto bere fiale di uno strano liquido roseo, probabilmente – dicevano – una droga debilitante. A Cesenatico, nel pomeriggio, successe la fine del mondo e il “Processo” – quanto mai vivace, con scontro durissimo fra accusatori e difensori – fu trionfale: un pubblico eccezionale seguì per ore 19


Il capanno sul porto

il dibattito che alla fine condannò comunque i federali e l’allenatore, che fu licenziato e privato dello stipendio contrattuale. Solo dopo alcuni mesi – era Natale – un intervento di Alberto Rognoni sul presidente federale Giuseppe Pasquale ottenne il perdono per Fabbri e la liquidazione delle sue spettanze. Pasquale – sapemmo poi – era il finanziatore del “Guerin Sportivo”. E qualcosa di più, come racconteremo.

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IL CAPANNO SUL PORTO

Dopo la rasserenante visita al cimitero, Dionigio Dionigi mi ha accompagnato al capanno. Mancavo da trent’anni e ho vissuto un’emozione vivissima nel ritrovare intatto, anzi ben ristrutturato, quello che chiamavo il Capanno dei Sogni dove si ritrovava il Gotha del calcio, dell’economia, della politica durante l’estate, dai Cinquanta ai Settanta, gli anni folli del pallone prima sfiorati eppoi spenti dagli anni di piombo. Il capanno è una tipica casetta da pesca verso la fine del porto di Cesenatico disegnato da Leonardo da Vinci, dopo una teoria di vele adriatiche coloratissime. Grande la rete col verricello, sempre pronta a calarsi nel braccio di mare per tirare su una squisita frittura o quei pesci modesti e saporiti destinati a realizzare il brodetto romagnolo. Oggi, dall’altra parte della strada, sorge un albergo nuovissimo tirato su da Alberto Zaccheroni con i proventi delle sue ricche panchine. Ma Zaccheroni, classe 1953, era appena un bambino quando da quelle parti si ritrovavano i “padroni del vapore”. Come davanti alla tomba del Conte, lì mi sono trovato alle prese con i fantasmi del passato, ritrovandoli nelle stesse atmosfere vissute di straforo, ospite quasi invisibile perché non contavo nulla e riuscivo giusto a sorbire un bicchiere di sangiovese – mentre gli altri andavano a champagne – perché mi aveva in simpatia Rino Foschi che allora non era ancora un Signore del calcio ma solo un aiutante di Rognoni (me l’ha ricordato qualche anno fa, al Rotary di Palermo, catturando l’attenzione di un uditorio smemorato eppur curioso al quale poi porsi un ritratto avvincente di Raimondo Lanza di Trabia, presidente del club rosanero nei Cinquanta e, come vedremo, illustre ospite di quel luogo ove si decidevano i destini del calcio, dunque anche il suo). Non fossi stato giornalista, quindi tenuto ad osservare una condotta distaccata, avrei fatto una messe di autografi. Ed ecco ritornare – come viventi – tutti quei personaggi che un giorno avrebbero dato vita al “Processo” ma già erano in rapporti d’amicizia con l’illustre ospite che, contrariamente allo stile tenebroso sempre esibito, aveva per loro un sorriso, una 21


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parola, talvolta anche una concione terribilista sul futuro del gioco amato. Non ho l’intenzione – e neanche la possibilità – di elencare tutti gli ospiti del Conte, e tuttavia voglio ricordare i più noti con i quali, anni dopo, ebbi a che fare per lavoro. Dico di Angelo Moratti, il grande presidente dell’Inter; Aldo Stacchi, poi presidente della Lega, gentiluomo squisito; Remo Giordanetti, presidente della Juve esente da ogni divismo; Paolo Mazza, detto “Pavlòn” dagli amici, patron della Spal e supermago del calciomercato; Andrea Arrica, costruttore del fantastico Cagliari che con Gigi Riva e Manlio Scopigno avrebbe vinto lo scudetto; Gioacchino Lauro, figlio del grande Achille signore di Napoli, presidente del club azzurro che si rovinò acquistando allevamenti di polli in Romagna poi devastati da una terribile peste; Orfeo Pianelli, detto anche il signor Bonaventura, presidente del Torino-scudetto che esibiva un curioso latinorum; Nello Baglini, produttore di inchiostri per la stampa, a suo volta vincitore di uno scudetto con la sua Fiorentina; il Conte Francesco Marini Dettina, presidente della Roma detto anche Furtiva Lacrima dopo che le sue notevoli sostanze s’erano volatilizzate; e ancora i rappresentanti della Juventus Giampiero Boniperti, più tardi superpresidente, con Enzo Amapane, suggeritore dell’avvocato Agnelli, e Vittorio Caissotti di Chiusano, a sua volta presidente bianconero nei Novanta; presentissimi anche Franco Carraro, il giovin signore erede del Milan poi autorità assoluta nel mondo pallonaro e non solo; Federico Sordillo, grande avvocato penalista a sua volta presidente del Milan e della Federcalcio quando l’Italia vinse il Mondiale dell’Ottantadue; l’onorevole Franco Evangelisti, più tardi presidente della Roma e braccio destro di Giulio Andreotti, reso celebre da una esilarante imitazione di Alighiero Noschese; Andrea Zenesini, produttore di televisori, presidente del Mantova, il “piccolo Brasile” che con la guida di Edmondo Fabbri – e dell’esordiente Italo Allodi – aveva colto tre promozioni, dalla D alla C, dalla C alla B e alla serie A; Alfonso Vigorita, il magistrato che guidò per anni la Corte d’appello federale; rammento infine, anche se la fama del personaggio avrebbe meritato l’apertura dell’elenco, una visita molto privata al capanno dell’ingegnere e commendatore Enzo Ferrari, detto il “Drake”, creatore dell’auto più bella del mondo cui la famiglia dell’eroe 22


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Francesco Baracca di Lugo concesse l’uso del cavallino rampante dipinto sul muso dell’aereo ch’era stato abbattuto dagli Austriaci. Ferrari, che amava il Conte ma non la sua miracolosa corte, sempre evitata, era stato eletto da Rognoni “romagnolo honoris causa”, possedendo una villa a Viserba accanto a quella dello scrittore di Cesenatico Marino Moretti, altro mito del Conte, romanziere e poeta crepuscolare, come Renato Serra arruolato dall’esercito italiano nella Grande Guerra, non da combattente ma da infermiere. A Viserba, Ferrari trascorse brevi dolorose vacanze insieme al figlio Dino, malato di distrofia muscolare che lo portò a morte appena ventiquattrenne. Fui amico di Ferrari quando mi volle direttore del settimanale “Autosprint” e mi assegnò l’ambito premio intitolato a Dino, ma proprio nel ricordo della tragedia famigliare avemmo uno scontro durissimo fortunatamente risoltosi con un’ancora più forte amicizia. Nei giorni di Romagna, Enzo e Dino erano saliti insieme a San Marino sulla Torre più alta e – secondo Cesare De Agostini, autore di una sua biografia da me pubblicata nell’85 per l’editore Conti – Enzo era stato improvvisamente colto dalla disperazione e aveva pensato di gettarsi nel vuoto abbracciato allo sfortunato figlio. Quando uscì il libro, Ferrari mi fece una telefonata violentissima: «Non vi basta quel che faccio per voi, conferenze stampa, interviste, non mi sottraggo mai alle vostre cure, e adesso devo leggere anche i miei pensieri…Lei dopo tanti anni di buon lavoro è tornato lo scribacchino del Guerin Sportivo.» Gli feci notare che quella nota non l’avevo scritta io e che ai tempi del “Guerin” proprio lui, Ferrari, mi aveva dedicato una paginetta amichevole sul famoso “Flobert”, raccolta di punzecchiature dedicate a giornalisti e personaggi famosi come Mike Bongiorno, Maurizio Barendson, Alberto Bevilacqua, Gianni Brera, Enzo Biagi, Arrigo Levi, Indro Montanelli, Nino Nutrizio, Giuseppe Prezzolini, Enzo Tortora, Alberto Rognoni. Ecco dunque la “scheda” di Rognoni scritta da Ferrari, preceduta anche da una breve biografia datata 1976: “Alberto Rognoni è nato a Ferrara il 12 novembre 1919. Scriveva per Paolo Grassi, sul “Giornale della Scuola” allievi ufficiali, quando nel 1950 Emilio De Martino lo invitò a collaborare per “lo Sport”. Nel 1952 rilevò la testata del “Guerin Sportivo”, conducendolo da direttore editoriale prima con Slawitz poi con 23


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Brera. Scrive per il “Guerin Sportivo” e “La Gazzetta dello Sport”. Ha pubblicato “La Romagna”, raccolta di personaggi del calcio. Premio Caveja d’Oro. Targa Romagna. Premio Cesenatico. ‘Conte Alberto, principe di Romagna, signore del paradosso, imperatore del sogghigno. Essere graffiati dal suo bruciante sberleffo è passaporto per la notorietà. Prototipo di quella razza eletta – lui, ferrarese di nascita! – per la quale o sei romagnolo o sei nessuno. Tollerati i sudditi emiliani, il resto è barbarie. Con me è stato sempre tenero perché vanto appendici romagnole con mia madre, che era di famiglia forlivese. ‘Lei, Ferrari – sentenzia ogni volta che m’incontra – ha sbagliato mestiere. Come costruttore non ha fatto molto, poteva diventare un grande giornalista”. Sapone all’olio di visone. Telefonargli al ‘Guerino’, quando la Redazione era ancora a Milano, era un’impresa:’Il conte non c’è, è in riunione, impossibile disturbarlo’. Il Maestro stava componendo, chiuso in una stanza con il pittore Marino, inimitabile interprete del suo sarcastico geniaccio. Così nascevano le famose vignette del ‘Guerino’, la grande forza del giornale. Mi nominò una volta giurato di quel suo ‘processo al calcio’ che con la connivenza di Gualtiero Zanetti si teneva annualmente – dove, se no? – a Cesenatico. Altro giudice Gino Bramieri, tanto per intenderci sul tipo della manifestazione, Gianni Brera pubblico ministero, Rognoni alla difesa, Edmondo Fabbri l’imputato, per la disfatta con la Corea. Secondo l’arringa di Brera, Fabbri, oltre tutto brevilineo e brachicefalo, era colpevole di tutto, anche del cedimento del ginocchio di Bulgarelli. Rognoni chiese subdolamente l’assoluzione ‘per manifesta incapacità d’intendere e di volere’. Povero Fabbri! Fu assolto, tra un uragano di applausi. Anche se non c’è più Marino, la fantascienza sportiva e politica di Rognoni, all’insegna del paradosso, mi diverte molto. L’intelligenza merita riconoscimento”. Firmato: Enzo Ferrari. A proposito: uno dei felici bersagli di Enzo Ferrari era uno dei fedelissimi del Conte, Giancarlo Fusco, spezzino, scrittore sui suoi giornali e vacanziere a Cesenatico; un narratore fantasioso, già attore e pugile, affabulatore e battutista che rese celebre a sua volta una battuta di Aimone di Savoia, provvisoriamente Principe di Croazia. Rivolgendogli un deferente ossequio e chiamandolo “Sua Altezza” si sentì rispondere “Uno e novantacinque”. Nel “Flobert” 24


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del Drake il “ritratto” di Fusco è uno dei più belli: “Capitò a Maranello negli anni Sessanta, quelli del boom automobilistico. Appunto per questo fenomeno gli interessava la figura del costruttore, da inserire in una collana di ritratti che insieme a Giovanna Gagliardo componeva per “il Giorno”. La rubrica era ‘L’Elicottero’. Risposi con dubbiosa perplessità alle sue domande svagate, roche, squinternate. Dovetti poi stupirmi della sfilza di note e impressioni, tutte centrate, che riuscì a confezionare da quella nostra unica conversazione. Una chiara sintesi in tre colonne di com’era andato, come andava, come sarebbe finito il romanzo di una vita. Enzo Ferrari? ‘Naso forte in mezzo a due lenti scure, medico di giganteschi scarabei in un ambulatorio nudo e pulito’. Ho continuato a leggerlo, qua e là dove lo trovo. Una moderna satira disinvoltamente corposa, venata da tanti malinconici ricordi, certi volti della giovinezza, certe peripezie di guerra, certe estati letterarie al Forte dei Marmi, che mi associano al senso struggente del trascorrere del tempo”. Non sto a elencare i tanti giornalisti famosi e autorevoli frequentatori del Capanno, mi limito a citare il maestro Alberto Giovannini, amico di Mussolini rispettato anche dagli avversari più faziosi, e il mitico avvocato Giuseppe Colalucci, direttore del “Tifone”, il settimanale romano sempre in paradossale guerra con il “Guerin Sportivo”: “Cola” soffriva la potenza del Conte, essendo a sua volta ispiratore delle scelte del CONI e della Roma, e pubblicava articoli polemicissimi e parodie dei giornalisti più noti, pungendo in particolare Aldo Biscardi, detto “il Roscio” o “l’Alicetta di Larino”, e Mario Gismondi, direttore del “Corriere dello Sport” la cui rubrica quotidiana “Sarò breve” veniva trasformata in “Sarò greve”. Sempre al fianco di Rognoni, il dottor Giuseppe Pasquale, imprenditore e grande faccendiere, e Gualtiero Zanetti, detto “il Maresciallo”, potentissimo direttore della Rosea che sfornava editoriali quotidiani “Senza Titolo” firmati con tre stelle. E fu proprio al Capanno che Rognoni, Zanetti e Pasquale decisero la rivoluzione dell’editoria sportiva

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SIGNORI GRANDI FIRME

Giuseppe Pasquale, convinto dai due amici, decise di assumere la gestione della “Gazzetta dello Sport”, di proprietà del Conte Cesare Bonacossa, e del “Guerin Sportivo”, diventato nel frattempo troppo oneroso per il Conte Rognoni, il cui importante capitale era via via stato corroso dalle avventure editoriali; Pasquale e i suoi suggeritori organizzarono la più grande campagna acquisti di Grandi Firme. Accanto a Zanetti si presentarono in breve tempo Gianni Brera (già giovanissimo direttore della Rosea accanto al romagnolo Giuseppe Ambrosini, gran profeta del ciclismo e fondatore del “Guerin”), Renato Morino (prima firma di “Tuttosport”, raffinato gentiluomo e scrittore eccellente), Aldo Bardelli (prima firma di “Stadio”, ex Ct della Nazionale, con Mazza e Novo, nella sfortunata spedizione di Brasile ’50, quando gli azzurri raggiunsero la sede del Mondiale non in aereo ma in nave, presto eliminati con disdoro) e altri giornalisti già “svezzati” dal Conte, fra i quali il sottoscritto, “strappato” a “Stadio” per diventare redattore del “Guerin” e collaboratore della “Gazzetta”. Al Capanno fu anche siglato “l’acquisto” per il “Guerin” del grande scrittore Giovanni Arpino che Brera definì “il mio Nobel personale”, precisando sottovoce a me, Willy Molco, Elio Domeniconi, al grande Aldo Giordani, l’”indipendente” inventore e curatore del basket e altri “guerinetti”, “Vi farà fare un figurone”, quasi un’anticipazione della feroce polemica che li avrebbe divisi negli Ottanta. L’ingaggio di Arpino tuttavia sfumò, come testimonia questa lettera del 3 settembre 1969: «Caro Rognoni, mio splendido amico, è successo qualcosa di nuovo alla ‘Stampa’, strettamente nei miei riguardi, e il nostro accordo temo debba essere accantonato, almeno per il momento. Ci tenevo moltissimo a collaborare con lei, con Brera, con il Guerino, inoltre questa collaborazione mi sarebbe risultata meno faticosa e rugginosa che non su una pagina sportiva variamente difficile e arcaica. Ma oggi stanno maturando cose nuove, e non posso chiudere gli occhi. Inoltre, venendomene via subito, mi darei come sconfitto, 27


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e questo non è bello in sé e neppure utile. Possiamo rimandare tutto a un’altra volta? E tenere in sospeso sia i miei desideri sia le sue belle proposte? Gliene sarei molto grato. Creda all’amicizia e al più vivo saluto di Giovanni Arpino.» Come spesso accade nel mondo dell’editoria, la richiesta di un potenziale concorrente finisce per “aggiustare” un contratto sgradito: Arpino diventò la prima firma della “Stampa” per anni, conquistando quella fama – e quei denari – che non aveva ricevuto pubblicando libri favolosi. (Nota per il mio editore: Carmina non dant panem). Quel “qualcosa di nuovo”, disinvoltamente non precisato da Arpino, era stato in realtà un evento storico: era morto da poco (il 21 dicembre del ’68) Vittorio Pozzo, lo storico tecnico della Nazionale vincitore di due Mondiali, nel ’34 e nel ’38 (doppietta consecutiva che nessuno Ct è mai più riuscito a ripetere) – divenuto nel Dopoguerra, una volta lasciata la Federazione, prima firma del quotidiano degli Agnelli. Ho avuto l’onore e il piacere di lavorare con Pozzo che mi veniva affidato nelle sue trasferte bolognesi al seguito della Juventus. Pur ottantenne e fisicamente male in arnese, il Colonnello degli Alpini grande capo degli Azzurri, sopportato da Mussolini che non sapeva dargli ordini, continuava a seguire la Juve e la Nazionale in tutto il mondo e non era amato dai colleghi più anziani – ricordo Giglio Panza di “Tuttosport” e Alfredo Toniolo della “Gazzetta del Popolo” – per la sua prepotenza e – si diceva – cattiveria. Con Brera, poi, era in guerra – anche in tribunale – perché il Giuàn gli aveva dedicato note feroci, accusandolo di incompetenza e senilità. Nelle occasioni che mi furono offerte di incontrarlo a Bologna, portarlo a cena da “Rodrigo” e a dormire al “Baglioni”, cercai, felicissimo, di rubargli ricordi e sentenze, alla faccia dei miei colleghi coetanei, molti dei quali lo consideravano un vecchio superato. Non dimenticherò mai una scena che li lasciò allibiti: si giocava a Trieste una partita fra Italia e Inghilterra “Under 21” e il Colonnello non se la perse. A un certo punto, nell’hotel in cui soggiornavamo tutti si presentò una delegazioni di giornalisti inglesi per consegnare a Pozzo una pergamena e un ricordo, omaggio alla sua grandezza universalmente riconosciuta, fuorché in Italia, dove ancora qualcuno lo tacciava di “fascista” perché aveva vinto 28


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due Mondiali nel Ventennio. Per Alberto Rognoni, ammiratore del Brera scrittore, non del fondatore del Partito Nazionalcomunista, Pozzo era semplicemente un padre della patria. Alla sua morte, il capo delle pagine sportive della “Stampaâ€?, Paolo Bertoldi, uomo mansueto e perennemente indeciso, non volle promuovere al ruolo di prima firma un collega, indeciso fra Bruno Perucca e Giulio Accatino, e finĂŹ per investire del ruolo il grande scrittore piemontese.

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L’AZZURRO DI ARPINO

La fulminea apparizione di Arpino nella famiglia del “Guerin” non solo illuminò il progetto ambizioso che il Conte aveva in mente ma lasciò anche un segno nella mia vita personale e professionale. Per questo quando ci lasciò per sempre, pur non essendo io uno specialista in “coccodrilli”, lo ricordai con grande rimpianto. Giovanni era nato nel ’27. È morto nell’87. Sessant’anni divorati dalle sigarette. Ci manca tanto da vent’anni e hanno ben pensato di ricordarlo ristampando “Azzurro tenebra”, romanzo “sportivo” del ’77 – forse il più bello in assoluto – dedicato alla penosa esperienza del ’74 in Germania della Nazionale di Valcareggi, di Riva e Chinaglia, di Rivera e Mazzola che detti così sembrano coppie di gemelli e invece erano calcisticamente divorziati l’uno dall’altro. E per questo finì male, quella spedizione: fummo cacciati da Stoccarda in una mezza sera di giugno ad opera di una Polonia comunisticamente scalcinata e tuttavia abbastanza orgogliosa da rifiutare l’offerta italiana di versarle un mucchietto di milioni perché non vincesse. Volevamo soltanto non perdere, bastava per andare avanti, ma non ci riuscimmo, nonostante – da leggere d’un fiato – Zoff, Spinosi, Facchetti, Benetti, Morini, Burgnich, Wilson, Causio, Capello, Chinaglia, Boninsegna, Mazzola, Anastasi, i famigerati tredici “milionari” sospinti inutilmente contro la soldataglia di Kasymir Gorsky. La resa fu firmata da un gol di Capello (Fabio segna soltanto per la storia, illustre o meschina, come il 14 novembre del ‘73, quando a Wembley aveva sconfitto per la prima volta la perfida Inghilterra a casa sua) dopo le segnature di Szarmach il Secco e Deyna il Moro. Alle 17.45 del 23 giugno gli “italiani di cermania” si raccolsero incazzati sotto la tribuna stampa per insultare l’Italia sconfitta e noi che ne narravamo le imprese. Noi. Ricordo che scelsero Brera, il giornalista famoso, come capro espiatorio, e Giovanni continuò imperturbabile a picchiare sui tasti dell’Olivetti mentre lo insultavano: tutto quel chiasso non degnò di un guardo, strinse solo più forte la pipa fra i denti. Era il suo popolo – il nostro popolo – che ci mandava affanculo. Regolare. Fu allora, mentre si tornava 31


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in pullman nei ritiri di Sindelfingen (cantavo ogni mattina, scrutando l’autostrada boscosa, “Sindelfingen tu sei la mia patria” ormai abbrutito da stinchi di maiale e gargarismi al Malteser) che l’altro Giovanni – Arpino – decise di scrivere il suo libro sulla disfatta degli uomini, non dei calciatori, di un’idea, non di una squadra. Suo interlocutore – non ancora celebrato conducator azzurro di Argentina e Spagna – Bearzot detto “il Vecio”, e le tante figurine e figuracce che si muovevano sul palcoscenico di Ludwisburg, il sontuoso ritiro azzurro affittato da Italo “Miliardo” Allodi che ho avuto amico e non ho mai giudicato. Detestava i giornalisti sportivi, Arp (così si nominò nel romanzo) dividendoli in Jene e Belle Gioie. E anche i lettori non gli stavano molto a cuore, se è vero che al Vecio che gli chiedeva «Già scritto l’articolo per domani?», rispondeva «Il solito paraponzi da prima pagina. Tre battute ironiche per gli intenditori, due capoversi per il tifoso baluba, l’eterno dubbio tecnico cotto nel rosmarino del centrocampo. Servire bollente e gratinato in una colonna e mezza di piombo». Feroce autocritica? Tutto vero. Le biografie raccontano di un Giovanni Arpino famoso e competente giornalista sportivo, gli agiografi precisano che con Azzurro tenebra “spezzò il monopolio dei libri di Gianni Brera” ed è per questo che a vent’anni dalla morte hanno deciso di ripubblicarlo. Pensate che occasione persa per riportare piuttosto alla vita romanzi come La suora giovane, Un delitto d’onore, Una nuvola d’ira, L’ombra delle colline, Un’anima persa, Il buio e il miele. «Arpino è il mio Nobel personale», scriveva Brera quando ancora si amavano (?). E io, nel mio piccolo, i libri di Arp li ho letti tutti, a partire dal primissimo, Sei stato felice, Giovanni, che pareva il bilancio di una vita e ne era invece l’incipit felicissimo: era il ’52, aveva venticinque anni. Che stile. «Erano lì, all’angolo. Olga me l’aveva detto. “Ci sono tutti e tre. Fa’ attenzione. Sono senza giacca ma fa’ attenzione”. Era importante che non avessero la giacca, nelle tasche dei calzoni si porta raramente il coltello, mai quando lo credi necessario. Già due volte erano venuti a cercarmi, da quella sera…Sdraiato sul letto li avevo sentiti scendere le scale bestemmiando sottovoce…». Ah, Giovanni, quante volte ho pensato che mescolarti con le Jene e le Belle Gioie – e anche con gli scribacchini come me – avrebbe spuntato la tua penna. Molti scrittori si esibivano nel calcio per 32


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soldi e il Conte Rognoni lo aveva “acquistato” per le pagine del Guerin Sportivo prima che se lo contendessero a suon di milioni La Stampa e Il Giornale di Montanelli. Quando, proprio in quel triste ’74, Il buio e il miele diventò un film di successo firmato da Dino Risi e interpretato da Vittorio Gassman (“Profumo di donna”, poi diventato “Scent of a Woman”, remake del 1992 con Al Pacino) gli dissi scherzando ma non troppo: «Adesso fai un sacco di soldi, Giovanni», e per poco non m’investì di contumelie: «Li farà l’editore, semmai. Di diritti mi tocca un niente, per poco neanche me lo dicono, che ci facevano un film». Peccato. Lo avrei voluto vedere libero con le sue trame da grande romanziere, lontano dalla tribuna stampa, da un linguaggio che pian piano veniva influenzato dalle banalità dei mestieranti. Un giorno – eravamo in Spagna al seguito del Cagliari, autunno del ’70, per tenere a battesimo i sardi in Coppa dei Campioni contro l’Atletico di Madrid – decidemmo di trascorrere la vigilia a Toledo. Fu lui a portarmi nella casa di Domenikos Theotokopulos, El Greco: e davanti a ogni quadro un racconto, e le sue grandi mani che spiegando ridisegnavano con parole magiche le figure magrissime, tormentate, colorate di morte. Dopo, un piatto di jamon serrano sotto una pergola, e non potei non dirgli «Ma perché uno scrittore come te si spreca in mezzo a noi?», e lui, convinto di valere, mi piantò in asso e mi tolse il saluto per anni. Finché una volta, a Dresda – eravamo sempre in Coppacampioni, con la sua Juve – in una notte piena di fantasmi nella città dei morti, mentre si passeggiava in silenzio mi accorsi che per terra c’era un uccellino incapace di volare: lo raccolsi. «Dammelo,» disse Arp, e se lo pose nel cavo della mano e lo riscaldò con l’alito, poi lo lanciò con un largo movimento del braccio e l’uccellino sparì volando. Fu quello, per sempre, il mio Giovanni Arpino. Dopo, quando fui forzato testimone delle sue amare diatribe con Brera e del disagio fisico e spirituale che lo colse, capii che si era consumato un momento importante della nostra vita.

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ROSSODIBRERA

Erano passati lunghi operosissimi anni e fu la vittoria dell’Italia in Spagna, nell’82, a minare se non l’amicizia almeno il rispettoso rapporto fra Arpino e Brera: il primo – amico di Bearzot – aveva vinto il Mondiale, il secondo lo aveva perduto e s’era guardato bene di presentarsi, come aveva promesso, vestito da frate alla processione di San Zenone. Nel frattempo, A&B erano praticamente diventati le prime firme dello sport, il primo come aedo delle Torinesi (l’Avvocato e “Radix” Radice i suoi idoli), il secondo sacerdote celebrante i fasti meneghini (era amico dei Moratti e chiamava “capitano mio capitano” Confalonieri, amico di Berlusconi) e le loro carriere si incrociarono con effetti personali devastanti mentre Rognoni soffriva a leggerli su fogli “nemici”. Brera fu invitato nel ’79 da Indro Montanelli (di suo, originario di Fucecchio, tifoso della Fiorentina) a scrivere sul neonato “Giornale”, nel cui primo articolo di fondo Indro aveva tenuto a precisare che la sua creatura non avrebbe trattato le storie di Riva e Rivera e invece battezzò proprio con il Giuàn il numero del lunedì. Il rapporto durò poco, anche perché Brera, fondatore del platonico Nazionalcomunismo, si presentò candidato alle elezioni – purtroppo per lui come acchiappa voti, specchio per le allodole – prima per il partito di Craxi poi per quello di Pannella, ovviamente sgraditi a Montanelli, il quale – indovinato? – al suo posto ingaggiò proprio Arpino. Anche Eugenio Scalfari, presentando il primo numero di “Repubblica”, spiegò ai lettori che non avrebbe trattato lo sport se non nei limiti dell’informazione; e infatti nell’Ottantadue ingaggiò Brera per il Mundial senza tuttavia regalargli il numero del lunedì, cosa di cui Giuàn soffrì, condannato per la prima volta nella sua vita a predicare il suo vangelo DOPO gli altri scribi, a partire da Gino Palumbo – nemico storico con pubblica scazzottata – che intanto portava al trionfo la Rosea. Dai due fronti Arpino e Brera consolidarono la ormai eclatante rivalità arrivando ai dispetti e agli insulti. Fin quando Arpino se ne andò per sempre, nell’87, distrutto dalle sue sessanta sigarette al giorno. Brera lo seguì dopo cinque anni, 35


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nel ’92, “salendo al cielo su un carro di fuoco”, vittima di un incidente stradale, e il Conte – che aveva già perduto la sua Dandi – fu ulteriormente piegato dal dolore: era stato non solo amico ma il primo editore di Brera, e non solo per avergli affidato la direzione del “Guerin”, avendogli pubblicato almeno quattro dei primi suoi libri, “L’atletica a scuola”, “L’Avocatt in bicicletta” dedicato a Eberardo Pavesi, “Il sesso degli Ercoli” e “Atletica regina delle Olimpiadi (Giuàn era espertissimo di tutti gli sport, atletica e ciclismo in particolare). Al doloroso addio di Brera contribuii con un articolo pubblicato sul “Corriere dello Sport”, di cui ero direttore, che mi piace riportare in queste pagine dedicate alla corte del Conte. “L’avete sentito più d’una volta – in quella ribalta televisiva che si concedeva da Arcitaliano per il denaro che gli procurava, involontariamente sventolando la bandiera di Leo Longanesi sulla quale è scritto ‘tengo famiglia’ – l’avete sentito più d’una volta, stizzito, rifiutare il titolo di Maestro. ‘Dottore’, precisava, come ogni buon piccolo borghese che ha rispetto e orgoglio per una laurea ottenuta con l’ingegno proprio e i sacrifici di una famiglia modesta. Maestro, Gianni Brera, non è mai stato. Semmai, cattivo maestro: per i tanti presunti allievi – in realtà pedissequi e sciocchi imitatori – che hanno brereggiato per decenni, sconfinando senza passaporto nei territori così speciali da lui e solo da lui scoperti. I suoi Pascoli del Cielo. Se oggi l’Italia intera gli offre un tributo di lutto, o soltanto di mera attenzione; se tutti accorrono a celebrare la sua apparente bonomia, la sua eccelsa antipatia, la sua passione gastronomica esauritasi con l’ultima notte di epatiche follie nella celebrazione di un rito pagano in omaggio al Cotechino; se il quotidiano cimento della scrittura pretende oggi, da chi gli dedica un saluto e un pensiero, maggiore accuratezza, quasi un deferente riguardo a un Padrone della Lingua: tutto ciò è dovuto al fatto che Brera è stato e resterà in assoluto Originale e Inimitabile. Ha insegnato agli scrivani che la gloria si ottiene con l’invettiva rivolta ai Grandi; molti d’essi han creduto opportuno misurarsi dunque con lui per sentirsi essi stessi grandi: e nani sono rimasti, mancandogli gli argomenti, la cultura, semplicemente la conoscenza degli uomini e delle cose cui si perviene quando si è baciati da Dio, quando si onora l’intelligenza, quando si consegna l’esistenza al diritto-do36


Italo Cucci

vere di sapere; sapere per se stessi, sapere per comunicare, sapere per godere quella rara felicità che ti può dare solo una pagina già scritta da altri o partorita dalla tua anima benedetta. L’ultimo Brera, proprio quello televisivo del “Processo”, è stato seguito da molti con pena. Da alcuni con soddisfatta pena. Poveraccio: si fa insultare, e tace. Si fa togliere la parola, e tace. Si fa comparsa – lui nato protagonista – e tace. Lascia che intorno esplodano tempeste dialettiche: e tace. Povero Brera. Stanco? Svuotato? Rimbecillito? Gli imbecilli – felici – si specchiavano nella sua figura assente, un pennacchio di fumo, un borbottio confuso, un colpo di palpebre assonnate. Insomma, dicevano (dicevamo, talvolta): la messinscena del Genio dopo la caduta. Poi leggevi certe sue cronache piene di freschezza, e quelle riposte ai lettori ognuna recante il segno inimitabile di un’anima viva, e allora – meditando – capivi: capivi il suo perenne oltraggio alla pochezza altrui, un infinito peccato di superbia: ma perché mai dovrei rispondere a costoro? Una volta me lo chiese, con una battuta secca: “Italo, chi sono questi?”. Ho sempre temuto di essere anch’io contato fra i moscerini che gli volteggiavano intorno creandogli poco più di un’uggia. Anche lui aveva la delicatezza – talvolta – di dedicarmi un cicinin d’affetto: perché mi aveva conosciuto ragazzo, perché gli avevo portato la valigia, perché una volta gli avevo detto ‘che bel cappotto di cachemire ti sei comprato’, perché sapeva che lo leggevo con amore e dispetto (odiava l’indifferenza), perché sopportava la mia romagnolità fatta di Sangiovese, di caplètt d’la mama così poteva sfottermi, maramaldeggiare…Un po’ d’affetto perché all’antivigilia di Natale del 1969 – lavoravamo insieme al Guerin Sportivo,a Milano: lui direttore – era rimasto chiuso nell’ascensore fra il sesto e il settimo piano del palazzo di Piazza Duca d’Aosta (lui, da solo, con due cartoni di vino omaggiatigli da chissachì) e lo intrattenni per ore in un dialogo sconclusionato, romanzesco, finché non giunsero tardivi soccorsi e lo trovarono ormai senza fiato ma sereno, e accarezzava come un bambino un Barolo d’annata. Dice suo figlio che Giovanni desiderava morire proprio com’è morto: in un incidente d’auto. Oso affermare che in lui era vivissimo il senso della morte, di quella altrui soprattutto; in realtà, l’ho visto soffrire per un’unghia incarnita, ma tale era la sua carica di gradasso esibizionismo che si 37


Il capanno sul porto

presentò ad un ballo a Cesenatico in perfetto riga di gesso, camicia bianca e cravatta e un paio di zoccoli ai piedi: ‘Bella signora, permette un ballo?’. Non portava ancora la barba, ostentava una contadina faccia da schiaffi, era tono bassotto: ma grazieggiava nell’inchino, baciava beffardo una manina come un lord impomatato e volteggiava nel valzer come le disneyane creature di ‘Fantasia’. So che vorreste ricordata la sua passione per il tatticismo, per il gioco ‘all’italiana’, per l’atletica; la sua capacità di esibirsi in pronostici audaci, spesso sballati; la sua provocazione costante ai meridionali, testimonianza non di razzismo ma del rispetto che si deve a rivali di diversa matrice etnica e culturale; so che per fare una bella pagina ce ne sarebbero tante da scrivere, a cominciare dal suo fantasioso vocabolario che – fermi restando i sostantivi e gli aggettivi che già gli abbiamo rubato – sarà bene dimenticare, o bruciare, affinché i frustrati dal confronto non lo saccheggino provocando in noi un rimpianto perenne e lacrime di nostalgia ch’egli accoglierebbe con scherno. Giovanni Brera fu Carlo, nato da una povera notte d’amore, morto nella nebbia della sua Padania, va a fare i conti con quel santiddio che diceva di non riconoscere e con tutti quelli che l’hanno preceduto trascorrendo dal mondo della pedata al paradiso dei micchi o all’inferno degli assatanati. Lo aspettano amici e nemici, Rocco e Carosio, Viani e Dall’Ara; Arpino, Pozzo e Bernardini; e Marino Guarguaglini che li immortalava sulle pagine del vecchio Guerino e che, andandosene troppo presto, s’era portato via – di tutti – la seconda anima: quella che si coglie senza dover fare ricorso al misero metro della morale ma solo scrutando l’interlocutore con gli occhi dell’amicizia. Non sono mai stato amico, di Brera, perché in questo sottile gioco di sentimenti bisogna essere almeno in due. Semplicemente, gli volevo bene per un gesto di tenerezza di cui mi fece dono in un giorno amaro. E basta. Brera era egoista, spesso cattivo, offriva bonarietà così come porgeva un bicchiere di buon vino: gli costava poco; si raccontava ma non si svelava, acchiappava più mosche con l’altera sufficienza che con la dolcezza. Ma era grande, grandissimo, nel disordine privato come nel ruolo pubblico. Ostentava il benessere raggiunto con la gioia di un bimbo povero sommerso di giocattoli costosi. Era nato povero, aveva conquistato la ricchezza lavorando. Lavorando come 38


Italo Cucci

un operaio, faticando cioè, anche se i suoi polpastrelli correvano e saltavano sull’Olivetti come le dita di Mozart sulla tastiera. Ha lasciato una montagna di scritti che all’improvviso diventeranno storia del calcio. Senza continuazione. Adesso che non c’è più, siamo tutti pari, tutti normali. E il calcio tirerà un sospiro di sollievo. Diventando mediocre pur lui vivente, il gioco del pallone d’ora in avanti sarà per i mediocri – se qualcuno vorrà confrontarsi con lui – o per i giovani, se sapranno dimenticarlo. Gli è stata negata – entro in cronaca diretta – la visione scoraggiante di una Nazionale senza testa né palle in cui non gioca più l’Uomo ma il Divo. Il proletario Giovanni, inventore del Nazionalcomunismo, merita dunque di essere ricordato con poche righe che un attento cronista d’agenzia ha rispolverato: ‘L’uomo che non lavora per sé e per la propria comunità non è libero, né può nutrirsi quanto basta per conservare energie anche dopo il lavoro, cui viene costretto fino all’alienazione…Non scopro niente di nuovo né di sulfureo se rapporto i giochi al lavoro, la voglia di starnazzare e divertirsi a quel plus-calorico di cui ovviamente non ha parlato neppure Marx. Il diritto allo sport è venuto quando il primo dovere è stato onorato: la conquista più o meno compiuta della libertà dal bisogno’. E lo dicono ancora maestro di giornalismo sportivo”. Manca soltanto, in questa affascinata visita ai Sepolcri del giornalismo, un ricordo del vero avversario di Brera, quello che gli si oppose con la forza delle idee e degli scritti (parlava poco, mai in tivù) e anche a pugni nudi: dico di Gino Palumbo, che godeva dell’infinita stima di Rognoni e di una certa invidia “territoriale” del Giuàn, perché Gino era napoletano ed era approdato al “Corriere della Sera” di Milano grazie alla “spinta” di un altro “conterroneo”, Antonio Ghirelli, trasformando il giornalone di via Solferino in “Partenope Sera”. Anche se il direttore, Alfio Russo, era un siciliano di Giarre, il vero “padrone” del “Corriere“ finiva per essere il mitico Stagno, pure napoletano, che s’era trovato a ingaggiare una dura lotta editoriale con il nascente “Giorno” di Italo Pietra gestito da un milanese verace come Angelo Rozzoni, giornalista e factotum del prodotto dell’ENI, figlio di un rotativista del “Corriere”. Ecco da che parte si schiera Brera, cercando alleati per una “lotta di liberazione dai napoletani” che, non conten39


Il capanno sul porto

ti di comandare al “Corriere” avevano messo le mani anche sulla “Gazzetta”, primo amore del Giuàn che n’era stato giovanissimo direttore (nei tempi di Giuseppe Ambrosini, romagnolo, storico fondatore del “Guerin”, grande amico del Conte, polemicissimo réputé del ciclismo). Ecco, da questo groviglio di interessi editoriali e campanilistici nasce la verità sulla rivalità di Brera e Palumbo, formalmente affidata al “difensivismo catenacciaro” dell’uno e al “qualunquismo offensivo” dell’altro. Li divideva la perpetuamente insoluta “questione meridionale” rappresentata dai lumbard con la solita scenetta di Totò e Peppino in “Miracolo a Milano”; li divideva la cultura, che entrambi possedevano, ma Brera la gridava; li divideva il tifo, l’uno – ehm ehm – genoano, l’altro naturalmente azzurro; li divideva la personalità, ruvido esibizionista il primo, timido manovratore il secondo.

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