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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLI n. 6 - 2015

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Reumatologia il rischio CV nei pazienti con malattie articolari infiammatorie Ipertensione lo studio SPRINT riapre il dibattito sui target pressori ottimali Epidemiologia quale relazione tra terapia con statine e vaccino antinfluenzale Congressi Asma e BPCO all’attenzione degli pneumologi italiani

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

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anno XLI - 2015 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

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Medico e paziente n. 6

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLI n. 6 - 2015

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REUMATOLOGIA il rischio CV nei pazienti con malattie articolari infiammatorie IPERTENSIONE lo studio SPRINT riapre il dibattito sui target pressori ottimali EPIDEMIOLOGIA quale relazione tra terapia con statine e vaccino antinfluenzale CONGRESSI Asma e BPCO all’attenzione degli pneumologi italiani

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Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Folco Claudi Roberta Gualtierotti Pier Luigi Meroni Piera Parpaglioni

p 6

letti per voi

p 10 reumatologia

Il rischio cardiovascolare nei pazienti con malattie articolari infiammatorie Patogenesi, diagnosi e strategie di prevenzione

In questo articolo, gli Autori prendono in esame l’aumentato rischio CV nei soggetti affetti da malattie reumatiche infiammatorie e suggeriscono alcuni provvedimenti volti a ridurre tale rischio Roberta Gualtierotti, Pier Luigi Meroni

p 20 pneumologia

La BPCO nell’ambulatorio di Medicina generale Percorso diagnostico e cenni di terapia

Il paziente con bpco giunge all’attenzione del medico solo quando i sintomi sono di una certa gravità, compromettendo almeno in parte la possibilità di un trattamento efficace Folco Claudi

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi)

>>>>>>

sommario

p 24 pneumologia

La SINDROME da sovrapposizione ASMA-BPCO

La medicina di base nella gestione di un’entità clinica di recente descrizione

Piera Parpaglioni

p 30

congressi

• Congresso nazionale SIR 25-28 novembre - Rimini • Congresso nazionale AIPO-FIP 11-14 novembre - Napoli • Meeting annuale ASH 5-8 dicembre - Orlando (Florida, USA)

p 36

Farminforma

p 42

segnalibro

Un viaggio attraverso la storia della neurologia a Genova Il volume è stato presentato in occasione del Congresso nazionale SIN 2015 e ripercorre la storia della Clinica neurologica dell’Università di Genova a partire dalla sua inaugurazione avvenuta nel 1933 fino a oggi

Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

www.medicoepaziente.it

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letti per voi Ipertensione

Abbassare la PAS a valori inferiori a 120 mmHg riduce mortalità ed eventi CV in pazienti ad alto rischio, ma non diabetici: lo studio SPRINT riaccende il dibattito sui target pressori ottimali £

Lo studio SPRINT di recente pubblicazione sul New England Journal of Medicine e presentato al Congresso annuale AHA 2015 è destinato a far discutere. Il trial in sostanza suggerisce che un trattamento antipertensivo aggressivo che mira a portare i valori di pressione arteriosa sistolica (PAS) al di sotto dei 120 mmHg apporta vantaggi significativi in termini di riduzione

di mortalità e di eventi CV maggiori, nonostante un aumento degli eventi avversi correlati al trattamento. Le indicazioni statunitensi del JNC 7, pubblicate nel 2003, indicavano una soglia di 140/90 mmHg per la maggior parte dei soggetti adulti, a eccezione di chi era affetto da diabete o da nefropatia cronica che doveva puntare a 130/80 mmHg; hanno inoltre creato una nuova

categoria, quella dei pre-ipertesi, cioè persone sane che dovevano raggiungere PA di 120/80 mmHg. L’edizione delle linee guida JNC 8 del 2014 riportava evidenze forti solo per valori desiderabili di 150/90 mmHg in pazienti di 60 anni o più, eliminando i target pressori più bassi per pazienti diabetici o con nefropatia, per i quali gli obiettivi erano fissati in 140/90 mmHg. SPRINT è un trial randomizzato, controllato in aperto multicentrico, che ha arruolato 9.361 pazienti, di età superiore ai 50 anni, con valori di PAS ≥130 mmHg (e inferiore a 180 mmHg) e ad alto rischio cardiovascolare. È il più grande studio di questo tipo fino a oggi condotto per esaminare se mantenere la pressione arteriosa sistolica a un livello più basso di quello attualmente

£ Sebbene l’introduzione della trombolisi sistemica (tPA) abbia dato una svolta nella terapia dell’ictus ischemico acuto Qual è il trattamento migliore questo rappresenta tuttora un evento temibile. La terapia dello stroke acuto è ancora in gran parte da definire. La trombolisi per l’ictus ischemico acuto: con tPA, come noto, presenta un importante limite: la finestra la trombolisi sistemica terapeutica entro cui si può intervenire è di solo 4,5 ore. Ecco perché si stanno esplorando alternative terapeutiche. La tromo la trombectomia meccanica? bectomia meccanica endovascolare è una procedura che si sta Una metanalisi cerca di dare affermando e che sta portando risultati positivi in termini di recupero della funzionalità. Si tratta comunque di una proceduuna risposta in merito ra non priva di rischi e per la quale dovrebbero essere meglio definiti i criteri per la selezione dei pazienti. Questa metanalisi pubblicata su Jama si è proposta di confrontare i due apporcci, fibrinolisi e trombectomia endovascolare per cercare di fare un po’ di chiarezza e valutare gli effetti delle due procedure in termini di outcome clinici. Gli Autori hanno selezionato dai principali database (Medline, Embase, Cinahl, Google Scholar e Cochrane Library) gli studi randomizzati e controllati che mettevano a confronto un trattamento endovascolare meccanico con lo “standard of care” farmacologico ovvero trombolisi sistemica con tPA. Nel complesso gli studi selezionati sono stati 8 per un totale di 2.423 pazienti con età media di 67,4 anni: 1.313 sono stati trattati con trombectomia meccanica e 1.110 con trombolisi tPA. Gli outcome sono stati il miglioramento dello score alla modified Rankin scale (mRS) a 90 giorni, l’indipendenza funzionale (score mRS 0-2) e la mortalità per tutte le cause a 90 giorni. La terapia endovascolare correlava con maggiori benefici in termini di mRS score (OR 1,56; CI 95 per cento 1,14-2,13; P =0,005). I tassi più elevati di indipendenza funzionale a 90 giorni si osservavano tra i soggetti sottoposti a procedura endovascolare: 44,6 per cento vs. 31,8 per cento nel gruppo trattato con trombolisi sistemica. Rispetto a quest’ultima tuttavia, la procedura endovascolare era gravata da un tasso più elevato di rivascolarizzazione angiografica a 24 ore (75,8 per cento vs. 34,1 per cento). Per quel che riguarda le altre complicanze, per esempio l’emorragia intracranica entro 90 giorni o la mortalità per tutte le cause, i due interventi terapeutici non differivano sostanzialmente. Secondo gli Autori, questo lavoro sintetizza le evidenze degli RCT e potrà servire a meglio definire il disegno di studi futuri sulla terapia endovascolare nello stroke ischemico acuto. Sono necessari ulteriori studi per approfondire gli effetti della trombectomia meccanica su determinate categorie di pazienti, forme di patologia ed esiti, così da arrivare a individuare il paziente ‘ideale’ che potrà trarre maggiore beneficio da questo trattamento. È da sottolineare che anche per questa procedura c’è un limite temporale, intorno alle 6 ore, e inoltre si tratta di un intervento che impone necessariamente l’addestramento e la formazione di personale dedicato.

Neurologia

Badhiwala JH, Nassiri F et al. Jama 2015; 314 (17): 1832-43

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MEDICO E PAZIENTE

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raccomandato possa avere un impatto sull’incidenza di malattie cardiovascolari e renali. I pazienti eleggibili dovevano avere almeno uno dei seguenti fattori di rischio: malattia cardiovascolare sintomatica o asintomatica, nefropatia o velocità di filtrazione glomerulare compresa tra 20 e 59 ml/min/1,73 m2, rischio cardiovascolare a 10 anni (calcolato con il metodo di Framingham) superiore o uguale al 15 per cento, età ≥75 anni. Sono stati esclusi i pazienti diabetici e quelli con ictus. I partecipanti sono stati randomizzati a due diversi target di pressione sistolica: <120 mmHg (trattamento aggressivo) e <140 mmHg (trattamento standard). L’endpoint primario era un composito di infarto miocardico, sindrome coronarica acuta, ictus, insufficienza cardiaca o decesso per cause CV. Nel trattamento antipertensivo potevano essere prescritti i farmaci (anche in associazione) ritenuti più idonei a raggiungere il target a cui il paziente era stato assegnato. Vediamo i risultati. A un anno si osserva che la pressione sistolica media era di 121,4 mmHg nel gruppo in trattamento aggressivo e di 136,2 mmHg nel gruppo in trattamento standard. Lo studio è stato interrotto precocemente dopo un follow up medio di poco più di 3 anni, in quanto si è visto che il trattamento intensivo riduceva in modo statisticamente significativo l’endpoint primario (1,65 per cento/anno versus 2,19 per cento/anno; HR con il trattamento aggressivo 0,75, CI 95 per cento 0,64-0,89; P <0,001). La riduzione osservata era legata soprattutto a una diminuzione dello scompenso cardiaco e dei decessi da cause cardiovascolari. Nel gruppo in trattamento aggressivo si registrava un calo della mortalità per tutte le cause (HR 0,73; CI 95 per cento 0,60-0,90; P =0,003). Nel gruppo in terapia aggressiva gli effetti avversi severi legati al trattamento riscontrati con maggiore frequenza sono stati in particolare ipotensione, sincope, anomalie elettrolitiche, nefropatia acuta e insufficienza renale. Cosa comporteranno di fatto questi risultati dello SPRINT, e saranno la spinta per

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letti per voi rivedere le attuali raccomandazioni sul trattamento dell’ipertensione? I dati ottenuti sembrano “robusti” e rilevanti. Sarebbe sufficiente trattare per poco più di 3 anni 62-63 pazienti per evitare un evento cardiovascolare. Sulla base di questi dati la comunità scientifica si interroga su quali siano i valori target realmente desiderabili: è corretto affermare che siano meglio i valori più bassi? E quanto bassi devono essere questi valori desiderabili? La questione del target pressorio ideale è dibattuta da anni e l’assioma “the lower is better” qui non si applica o almeno non si riteneva fosse utilizzabile. Anzi si è sempre ritenuto che l’effetto della terapia seguisse una “curva a J” dove a un inziale beneficio ottenuto con la riduzione dei target pressori poi seguiva un peggioramento se il target veniva ulteriormente ridotto. Il confronto con il recente studio ACCORD è inevitabile, dal momento che entrambi questi studi valutano i medesimi target pressori. Proprio l’ACCORD aveva mostrato che ridurre la PAS al di sotto dei 120 mmHg non porta a ulteriori benefici rispetto a un target di 140 mmHg, con anzi un aumento degli eventi avversi legati alla terapia. Questo trial però aveva arruolato pazienti diabetici, mentre lo SPRINT li esclude. Inoltre sottolineano gli Autori, SPRINT ha esaminato una popolazione circa doppia rispetto all’ACCORD, con età media differente (nello SPRINT i pazienti sono più anziani), e inoltre il disegno dei due trial è differente. Il trial SPRINT prende in esame una popolazione a rischio medio-elevato, per cui non è automatico che i dati ottenuti possano essere trasferiti a tutti i pazienti ipertesi. In conclusione possiamo dire che se si decide che il target di pressione sistolica del paziente debba tendere a valori prossimi o inferiori a 120 mmHg bisognerebbe essere certi che si tratti di un soggetto con caratteristiche simili a quelle dei partecipanti allo SPRINT. E inoltre, non va dimenticato che un trattamento troppo intensivo e non personalizzato sulla tollerabilità del sin-

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golo paziente potrebbe potenzialmente portare a effetti collaterali gravi, come peraltro lo SPRINT evidenzia. Il punto sta nella giusta individualizzazione della terapia, i cui criteri però sono

ancora in parte da scrivere. E lo studio SPRINT dà una spinta in tal senso. The SPRINT Research study group. New Engl J Med 2015; 373 (22): 2103-16

epidemiologia

I risultati preliminari di due studi suggeriscono che la terapia con statine potrebbe compromettere l’efficacia del vaccino antinfluenzale £

Esiste una relazione tra il trattamento ipolipemizzante con statine ed efficacia del vaccino antinfluenzale? Sembrerebbe di sì, almeno secondo i dati preliminari di due studi statunitensi che sono apparsi sul Journal of Infectious Diseases. In particolare, evidenziano che il vaccino antinfluenzale potrebbe avere un’efficacia ridotta nei pazienti in terapia con statine, diminuendo di fatto la copertura contro l’influenza stagionale. Il tema è di particolare interesse, dal momento che negli Stati Uniti sono circa 32 milioni i soggetti in trattamento con statine, e secondo le linee guida più recenti, questi farmaci dovrebbero essere prescritti a quasi metà degli americani nella fascia di età tra 40 e 75 anni per la prevenzione cardiovascolare. Il primo studio è un’analisi retrospettiva dei dati di un trial randomizzato e controllato condotto in diversi Paesi tra cui gli USA, su differenti vaccini antinfluenzali nelle stagioni 2009-2010 e 2010-2011. Complessivamente sono stati esaminati i dati di circa 7mila adulti sopra i 65 anni di età. In questo studio le persone in terapia con statine avevano mostrato una risposta immunitaria indotta dal vaccino ridotta rispetto ai soggetti non in terapia con statine. In pratica chi assumeva statine produceva meno anticorpi contro i ceppi di virus influenzale 3 settimane dopo l’immunizzazione rispetto a quanto riscontrato tra le persone non in terapia. Gli effetti poi erano più marcati per le statine di derivazione sintetica, rispetto a quelle di origine naturale. Se questi risultati

dovessero essere confermati, sottolineano gli Autori, potrebbero supportare l’utilizzo di un vaccino a più alte dosi, oppure vaccini con adiuvanti che possano potenziare la risposta immunitaria. Il secondo studio svolto da ricercatori della Emory University (Georgia, USA) ha esaminato i dati di nove stagioni influenzali dal 2002 al 2011 per un totale di 140.000 persone, raccogliendo informazioni sulla vaccinazione antinfluenzale, le prescrizioni di statine e i casi di malattie respiratorie acute per i quali sono state richieste cure mediche. In questo secondo studio è stata riscontrata un’efficacia ridotta del vaccino del 10-20 per cento circa contro le riacutizzazioni bronchitiche nei soggetti che assumevano statine. L’efficacia del vaccino antinfluenzale negli anziani potrebbe essere in qualche modo compromessa dunque in chi assume statine rispetto a chi non le assume. Sono necessari ulteriori studi per approfondire la relazione tra efficacia del vaccino e trattamento con statine prima di cambiare le raccomandazioni sull’immunizzazione antinfluenzale, ma sicuramente questi risultati sollevano la questione e contribuiscono a fare chiarezza sull’argomento. Sarebbe interessante anche approfondire il meccanismo molecolare con cui avviene l’interazione tra statine e vaccino antinfluenzale. Black S, Nicolay U et al. J Infect Dis 2015; DOI: 10.1093/infdis/jiv456 Omer SB, Phadke VK et al. J Infect Dis 2015; DOI: 10.1093/infdis/jiv457


I QUADERNI

di Medico & Paziente MeP Edizioni presenta una collana di volumi dedicati ai capitoli della medicina che stanno vivendo una fase di profonda trasformazione. Per molte patologie “dai grandi numeri” la messa a punto di farmaci innovativi e l’introduzione di schemi di trattamento di nuova generazione stanno rivoluzionando le strategie di cura dei pazienti. Nella pratica questo comporterà una ridefinizione delle coordinate nell’approccio clinico e del ruolo del Medico di Medicina Generale. I Quaderni di Medico e Paziente si inseriscono in questo panorama e nascono come strumento di aggiornamento, da consultare ogni giorno e al bisogno.

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reumatologia

Il rischio cardiovascolare nei pazienti con malattie articolari infiammatorie Patogenesi,diagnosi e strategie di prevenzione In questo articolo, gli Autori prendono in esame l’aumentato rischio CV nei soggetti affetti da malattie reumatiche infiammatorie e suggeriscono alcuni provvedimenti volti a ridurre tale rischio

I

pazienti con artrite reumatoide (AR) e altre malattie infiammatorie reumatiche come lupus eritematoso sistemico (LES) e spondiloartrite (SpA) hanno una ridotta aspettativa di vita rispetto alla popolazione generale a causa di un aumentato rischio cardiovascolare (CV). È stato dimostrato che il rischio CV in pazienti con malattie reumatiche infiammatorie è paragonabile a quello di pazienti con diabete mellito. Ciononostante, la valutazione del rischio CV in questi pazienti è ancora molto poco diffusa nella pratica clinica, e d’altro canto non vi sono a disposizione carte di predizione del rischio specifiche per le malattie reumatiche infiammatorie. I meccanismi patogenetici e l’espressione

A cura di Roberta Gualtierotti, Pier Luigi Meroni

Lupus Clinic Milano, Divisione e Cattedra di Reumatologia, Università degli Studi di Milano, Gruppo LES italiano - Onlus

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clinica alla base delle comorbidità CV variano molto nelle malattie reumatiche, ma il processo di aterosclerosi precoce e accelerata sembrerebbe la principale causa del rischio CV. Le ultime evidenze dalla letteratura internazionale ribadiscono il concetto che i cardini del controllo del rischio CV dovrebbero avvalersi non solo dei tradizionali provvedimenti farmacologici e non farmacologici di riduzione o abolizione dei fattori di rischio CV, ma anche del controllo dell’attività di malattia. Una revisione pubblicata recentemente su Nature Review Rheumatology [1] ha proprio lo scopo di riassumere lo stato attuale su questo argomento. Similmente, la presente revisione della letteratura fornisce un sintetico aggiornamento sui principali aspetti di patogenesi, diagnosi e prevenzione del rischio CV nelle malattie reumatiche infiammatorie.

Definire il problema Le malattie reumatiche sono frequente-

mente associate a interessamento cardiaco con un’alta prevalenza di eventi coronarici che spesso si verificano in pazienti più giovani che nella popolazione normale. Un ampio numero di studi clinici ha mostrato che sia l’AR sia il LES si associano a un aumento della mortalità. Nei pazienti con AR si assiste a una diminuzione di 5-10 anni della spettanza di vita rispetto alla popolazione generale [2]. La principale causa di morte, però, non è rappresentata dalle complicazioni della malattia reumatica bensì dalla cardiopatia ischemica. Sino alla metà di tutte le morti nei pazienti con AR sono riconducibili a una malattia CV, soprattutto a infarto miocardico acuto (IMA) e scompenso cardiaco, ma anche ad aterosclerosi periferica e carotidea. Il rischio di malattia CV nell’AR è di circa il doppio rispetto alla popolazione generale, dato paragonabile al diabete mellito, anche per il tipo di presentazione clinica. Infatti spesso i pazienti con AR sono asintomatici oppure presentano sintomatologia atipica. Per questo è importante che allo screening per rischio CV e per malattia subclinica partecipino tutti i pazienti. Il rischio di IM in pazienti con AR si aggira attorno al 68 per cento e quello di un evento cerebrovascolare attorno al 41 per cento. È abbastanza recente la scoperta di un frequente coinvolgimento del microcircolo cardiaco e di miocardite nei pazienti con AR, associazioni emerse


Figura 1

Il rischio cardiovascolare nelle malattie reumatiche infiammatorie Infiammazione: aterosclerosi accelerata

Comorbidità • Tiroidite autoimmune • Apnee ostruttive • Depressione

Fattori di rischio tradizionali Modificabili • Fumo • Esercizio fisico • Pressione arteriosa • Profilo lipidico • Diabete

Non modificabili • Polimorfismi genetici • Familiarità • Genere • Età

Anti-fosfolipidi: trombosi

Farmaci • DMARDs • Glucocorticosteroidi • FANS • COXIBs

Note: DMARDs, disease modifying anti-rheumatic drugs; COXIBs, inibitori selettivi della cicloossigenasi-2; FANS, farmaci antinfiammatori. Fonte: modificata e adattata da Nurmohamed et al. [1]

grazie all’impiego di moderne tecniche di imaging cardiaco [1,3,4]. Anche nel LES la comorbidità CV è comune causa dell’aumentata mortalità [5]. In realtà, se è vero che la genesi del rischio CV nelle malattie reumatiche infiammatorie è multifattoriale, questa affermazione, per il LES è particolarmente vera. Addirittura il LES parrebbe essere la malattia reumatica con maggiore rischio di malattia CV e i risultati di uno studio epidemiologico di Manzi et al. del 1997 dimostrano che donne dai 44 ai 50 anni con LES hanno un rischio 50 volte superiore a donne di età simile nella popolazione generale [6]. Oltre ai fattori tradizionali, anche la terapia steroidea, che nei pazienti con LES è spesso protratta a lungo, sembrerebbe contribuire al rischio CV. Anche nel LES l’infiammazione è sicuramente responsabile dell’eccesso di rischio CV, in particolare dell’attivazione delle cellule endoteliali. Alcuni pazienti, nel complesso, presenteranno quindi un fenotipo con placche aterosclerotiche instabili. Ad aggiungersi a tutti questi fat-

tori, però, in alcuni pazienti vi è anche la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi che conferiscono ai portatori un aumento del rischio di trombosi, sia arteriosa sia venosa. È quindi chiaro che le giovani donne con LES, che – se dovessimo considerare i tradizionali fattori di rischio CV – dovrebbero essere protette dalla cardiopatia ischemica, sono paradossalmente a rischio relativo più elevato [1]. Nelle SpA è stato dimostrato un aumento del rischio CV simile a quello per l’AR. Nella spondilite anchilosante (SA) l’aumento del rischio per IMA e ictus è circa una volta e mezzo quello della popolazione generale. Una parte di morbidità CV non è dovuta all’aterosclerosi, ma ad altre comorbidità cardiache come aortite (aorta ascendente e radice) con rischio di insufficienza aortica, evenienza comunque rara, oggigiorno. Infine la fibrosi si può estendere al tessuto cardiaco causando anomalie della conduzione [1]. Nell’artrite psoriasica (PsA) il rischio è simile per l’IMA, ma i dati sono inconcludenti per l’ictus [7-9].

I meccanismi patogenetici L’aumentata prevalenza di malattie coronariche e l’aumentata mortalità CV nei pazienti con malattie reumatiche autoimmuni non sono spiegate dai soli fattori di rischio tradizionali per le malattie CV come età, familiarità, genere, dislipidemia, ipertensione arteriosa, fumo, obesità e diabete mellito (Figura 1). Infatti esso rimane elevato anche dopo aver applicato un’opportuna correzione per eliminare questi fattori confondenti nell’analisi statistica. Pertanto è ormai ampiamente riconosciuto che il rischio in eccesso in questi pazienti è dovuto alla presenza di uno stato infiammatorio cronico sistemico e al conseguente stato protrombotico.

w Infiammazione come fattore di rischio CV I pazienti con malattie reumatiche infiammatorie hanno la tendenza a sviluppare un’aterosclerosi precoce e aggressiva, la cui genesi è strettamente correlata al processo infiammatorio cronico e alla di-

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reumatologia Il rischio cv nei soggetti con malattie reumatiche infiammatorie è paragonabile a quello dei diabetici sregolazione autoimmune che accomuna queste condizioni. Un numero sempre maggiore di dati suggerisce che la risposta infiammatoria sistemica svolga un ruolo centrale nello sviluppo di questo processo accelerato, attraverso l’accentuazione e l’interazione con i tradizionali fattori di rischio CV. D’altro canto è ormai ampia la letteratura che correla infiammazione, aterosclerosi e rischio CV, a tal punto che qualche Autore ha addirittura suggerito che il processo dell’”aterosclerosi” fosse definito “aterosclerite” [10]. Un recente studio su larga scala pubblicato su Lancet dimostra che la presenza di un polimorfismo del gene del recettore per l’interleukina-6 (IL-6) in grado di ridurre i livelli circolanti di proteina C reattiva (PCR) e fibrinogeno è protettivo per lo sviluppo di malattia coronarica ischemica. La stessa condizione è riprodotta nei pazienti con AR dopo infusione con tocilizumab, anticorpo monoclonale che blocca il recettore per IL-6 [11]. Nelle malattie reumatiche autoimmuni l’endotelio è bersaglio di citochine proinfiammatorie e persino di autoanticorpi diretti contro le cellule endoteliali che possono indurre danno o attivazione endoteliale, dando così inizio al processo aterosclerotico e facilitandone la progressione. Le citochine proinfiammatorie come Tumor Necrosis Factoralfa (TNF-alfa) e IL-6 prodotte durante il processo infiammatorio cronico hanno anche la capacità di alterare la funzione di organi a distanza come il tessuto adiposo, il tessuto muscolare scheletrico, il fegato e l’endotelio, dando origine a uno spettro di alterazioni pro-aterogene che compren-

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dono non solo la disfunzione endoteliale, ma anche una condizione di insulinoresistenza, una caratteristica dislipidemia ed effetti protrombotici. La disfunzione endoteliale è uno dei processi precoci ed essenziali alla base dell’aterogenesi. La maggior parte se non tutti i fattori di rischio che sono legati alle malattie CV sono anche associati a disfunzione endoteliale. L’endotelio vascolare gioca un ruolo importante nell’omeostasi del tono vascolare, dell’attività piastrinica e nel mantenimento di uno stato antitrombotico e anticoagulante [1] protratto nel tempo, così come per effetto degli altri fattori di rischio CV, l’endotelio perde queste proprietà, passando a uno stato protrombotico e proinfiammatorio, esprimendo sulla propria superficie molecole di adesione, secernendo citochine, chemochine e fattori di crescita cellulare, inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) e fattore di Von Willebrand. Queste modificazioni sono caratteristiche dell’inizio e dello sviluppo della placca aterosclerotica. Infine nel corso di un processo infiammatorio cronico, è possibile anche che si producano in eccesso reattivi dell’ossigeno con proprietà ossidanti, come suggerito per l’AR. Questo comporterebbe un ulteriore squilibrio con ridotta produzione di nitrati e vasocostrizione. Uno dei metodi non invasivi per valutare l’aterosclerosi in fase subclinica è la misura dello spessore intima-media a livello carotideo (cIMT). Questo test è raccomandato dalla American Heart Association (AHA) come screening per le malattie cardiache anche per individui sani. I valori di cIMT sono significativamente aumentati nei pazienti con AR rispetto ai soggetti di controllo. Alcune caratteristiche dell’AR come manifestazioni extra-articolari, erosioni, parametri infiammatori elevati, e una lunga durata di malattia, anche in assenza di fattori di rischio CV tradizionali sono stati associati con valori elevati di cIMT [1,12-14].

w Fattori di rischio CV tradizionali L’ipercolesterolemia è un fattore di rischio importante nella popolazione generale e nei pazienti con AR assume caratteristiche specifiche.

È noto da tempo che l’infiammazione attiva nei pazienti con AR riduce i livelli di colesterolo totale, LDL e HDL. Si tratta di un vero e proprio paradosso. In alcuni studi emerge anche che non solo la quantità, ma anche la qualità, la struttura e la funzione dei lipidi potrebbero essere alterate [15]. Anche nel caso del LES il metabolismo lipidico si modifica. In particolare una delle citochine responsabili sarebbe l’interferone (IFN)-alfa, da lungo tempo noto per avere un ruolo centrale nella patogenesi del LES, tanto da aver portato gli studiosi a coniare per questa malattia il termine di interferon signature, la firma dell’IFN. Da uno studio di Li et al. del 2011 è emerso che IFN-alfa avrebbe anche la capacità di stimolare l’uptake dei lipidi da parte dei macrofagi e di favorirne la trasformazione in cellule schiumose, responsabili della formazione della placca aterosclerotica [16]. Ridotti livelli di HDL e alterazioni funzionali dei lipidi si trovano anche nei pazienti con SpA [1]. Anche il peso e l’attività fisica sono importanti fattori. Un BMI elevato aumenta il rischio CV rispetto a un BMI normale, che sembra protettivo nella popolazione generale. Eppure anche pazienti con AR e BMI basso (<20 kg/m2) possono avere un rischio aumentato di morte CV, forse a causa di un alterato rapporto tra massa muscolare e adipe, dovuta a infiammazione e inattività (rheumatoid cachexia). È interessante notare che anche uno studio condotto su pazienti con LES da Magder e Petri nel 2012 ha dimostrato un trend simile, seppure in assenza di significatività statistica [17]. Il BMI dei pazienti con SA rientra per lo più nel range di normalità, mentre per i pazienti con PsA spesso si riscontrano valori elevati e una maggiore adiposità centrale, che rientrano nel quadro di sindrome metabolica che tipicamente si associa nei pazienti con PsA. L’inattività fisica contribuisce al rischio CV nell’AR e all’aumentata mortalità nella PsA, forse sempre a causa di un aumento del rischio CV [8]. Diabete e insulino-resistenza hanno maggiore incidenza nelle artriti e SpA e correlano con la presenza di marcatori di infiammazione e attività di malattia in AR e psoriasi. Nelle donne con LES la preva-


lenza di diabete mellito è aumentata ed è associata con l’aterosclerosi [5]. La terapia con biologici o idrossiclorochina sembra avere un effetto protettivo sull’insorgenza di nuovi casi in questi pazienti. Il fumo di sigaretta, oltre a essere un fattore tradizionale di rischio CV, è anche tra i fattori ambientali che contribuiscono a una maggiore incidenza di AR. In realtà il fumo è fortemente associato a fattori predittivi di outcome CV come FR e ACPA, risposta ad anti-TNF-alfa e persino cachessia reumatoide. Il fumo è anche un trigger per l’aumento di attività di malattia del LES e interferisce con la terapia a base di antimalarici di sintesi [5]. Non pare esservi un’aumentata incidenza di fumatori nelle SpA, dove però il fumo si associa a un peggiore outcome [8]. L’ipertensione è un importante fattore nella popolazione generale, ma anche nei pazienti con malattie reumatiche infiammatorie. La prevalenza dell’ipertensione nella popolazione con AR non è ben definita, ma si aggira attorno al 40 per cento dei pazienti. La causa potrebbe essere l’utilizzo di farmaci anti-reumatici, antinfiammatori e l’attivazione di vie di signalling intracellulare dell’infiammazione che portano all’aumento della resistenza periferica vascolare. Infine sono stati individuati anche alcuni polimorfismi genetici specificamente associati [1]. Sulla base dello studio di coorte di Magder e Petri, nei pazienti con LES ogni aumento di 10 mmHg al di sopra del valore di 120 mmHg di pressione sistolica aumenta il rischio di eventi CV in maniera diretta (RR 1,26) [17]. L’ipertensione nei pazienti con LES si associa ad aumentato valore dell’IMT carotideo e alla presenza di placche aterosclerotiche non calcifiche. Per le SpA alcuni dati indicano un aumento della prevalenza rispetto alla popolazione generale, ma i dati sono sporadici [8]. Anche elevati livelli sierici di omocisteina possono essere considerati fattore di rischio per le malattie CV nei pazienti con AR, così come nei pazienti con LES. L’omocisteina può indurre un danno endoteliale ed è dimostrata una relazione tra aumentati livelli di omocisteina e aumentato rischio di cardiopatia ischemica, ictus cerebrale e aterosclerosi carotidea.

L’omocisteina ha un’azione tossica diretta sulle cellule endoteliali, aumenta l’ossidazione delle LDL e ha un effetto protrombotico. Aumentati livelli di omocisteina sono stati dimostrati nei pazienti con AR, forse a causa dell’utilizzo del metotrexate, che è un antagonista dell’acido folico e interferisce con il metabolismo dell’omocisteina riducendo l’attività della metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR). Per questo motivo, durante il trattamento con metotrexate, si consiglia sempre l’integrazione alimentare con acido folico, per prevenire la tossicità da metotrexate. L’analisi genetica non è raccomandata se non in presenza di iperomocisteinemia, perché la mutazione della MTHFR non è di per sé associata al tromboembolismo venoso [18]. Nonostante questo, potrebbe avere un senso nei pazienti con AR, qualora si confermasse come fattore di rischio CV indipendente. Nel LES l’iperomocisteinemia si associa inoltre con aumentata incidenza di trombosi arteriose e stroke [1]. Infine è bene non trascurare, nella valutazione del rischio CV, anche l’assunzione di contraccettivi orali. Una revisione sistematica del database Cochrane [19] ha confermato che il rischio di IMA o di stroke ischemico nella popolazione generale è aumentato con l’utilizzo di contraccettivi orali solo nel caso in cui il dosaggio degli estrogeni sia ≥50 µg. Quindi la prescrizione di contraccettivi orali con <50 µg di estrogeni sembra sicura. Considerato il rischio di eventi venosi, i preparati contenenti levonorgestrel e 30 µg di estrogeni sono i più sicuri. Per quanto riguarda però le pazienti affette da LES, poiché il rischio di eventi trombotici venosi è aumentato in pazienti che assumono estroprogestinici, in particolare se affette da sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi, meglio l’utilizzo di anticoncezionali alternativi (pillola a base di progestinici, spirale o spirale medicata con progestinico) [19].

BULLET POINTS

w Fattori di rischio CV non tradizionali

❱❱ La COLLABORAZIONE con gli specialisti delle altre branche (cardiologo, nefrologo ecc.) permette di individuare i pazienti a rischio, al fine di ottimizzarne lo screening e la terapia.

A ulteriore riprova di un legame tra malattie CV e malattie reumatiche infiammatorie, sono stati individuati alcuni polimorfismi genetici che sono legati sia allo sviluppo di aterosclerosi sia di AR. Per

❱❱ È buona prassi valutare i FATTORI DI RISCHIO cardiovascolare tradizionali, modificabili e non, in pazienti con nuova diagnosi di malattia reumatica infiammatoria e poi periodicamente a seconda del profilo di rischio del paziente. ❱❱ La DIAGNOSI PRECOCE e il CONTROLLO DI MALATTIA tempestivo permettono di intervenire su uno dei fattori di rischio modificabili (infiammazione cronica). ❱❱ Spesso nei pazienti con malattie reumatiche infiammatorie (LES>AR>SpA) si riscontra la presenza di una TROMBOFILIA acquisita su base autoimmune (anti-fosfolipidi). ❱❱ I FARMACI ANTI-REUMATICI DA PREDILIGERE, qualora sia possibile, sono quelli con maggiore prova scientifica di efficacia sia nel controllo dell’infiammazione, sia del rischio cardiovascolare (metotrexate e anti-TNF-alfa per AR e SpA, idrossiclorochina per LES e sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi). ❱❱ Pur non essendo disponibili CARTE DI RISCHIO SPECIFICHE per i pazienti con malattie reumatiche, si possono applicare correzioni come quella suggerita dall’EULAR per i pazienti con AR. Nei pazienti con LES è consigliabile rivalutare il rischio annualmente.

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reumatologia Tabella 1.

Farmaci antinfiammatori e anti-reumatici: amici o nemici del cuore nelle malattie reumatiche infiammatorie? Effetti positivi

Effetti negativi

FANS

Aspirina antitrombotico Preferire il naprossene

Per altri FANS aumento di rischio trombosi ed eventi CV

COXIB

Migliora l’attività fisica

Aumento rischio trombosi

Corticosteroidi

Riduzione infiammazione

Aumento rischio eventi CV (se >10 mg/die), aumento BMI, dislipidemia, insulino-resistenza, ipertensione (se >7,5 mg/die)

Metotrexate

Riduzione attività di malattia

Aumento omocisteinemia (fornire acido folico)

Idrossiclorochina

Ridotta incidenza di trombosi, ridotta incidenza di insulino-resistenza

Può dare una cardiomiopatia in casi molto rari

Ciclosporina

Riduzione attività di malattia

Ipertensione

Leflunomide

Riduzione attività di malattia

Ipertensione

Anti-TNF-alfa

Riduzione attività di malattia, riduzione insulino-resistenza

Controindicati nello scompenso cardiaco grave

Tocilizumab

Sicuro in caso di scompenso cardiaco

Aumentano i livelli di colesterolo (ma non aumenta rischio CV)

Rituximab

Sicuro in caso di scompenso cardiaco

Note: BMI (body mass index), indice di massa corporea; CV, cardiovascolare; COXIB, inibitori selettivi della ciclossigenasi-2; FANS, farmaci antinfiammatori non steroidei; TNF, tumor necrosis factor. esempio alleli dello shared epitope all’interno del locus di regione di istocompatibilità maggiore (MHC) HLA-DRB1*04 sono associati a disfunzione endoteliale o rischio CV. Anche polimorfismi al di fuori della regione MHC presenti nei pazienti con AR sono stati posti in relazione con fattori di rischio CV: dislipidemia, ipertensione ecc. [1]. Gli anticorpi anti-fosfolipidi sono causa di aumento di mortalità per eventi CV, indipendentemente dal sottotipo cui appartengono. Nonostante alcuni Autori suggeriscano un’accelerazione del processo di aterosclerosi, in realtà nessuna associazione è stata a oggi dimostrata. È noto invece il loro effetto protrombotico [3]. La depressione è una condizione troppo poco considerata dal reumatologo, pur essendo molto diffusa nei pazienti con malattie reumatiche. La letteratura più

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recente associa la presenza di depressione anche a uno stato infiammatorio che può ancora una volta favorire il rischio CV. Poiché il dolore e l’affaticabilità sono amplificati in presenza di depressione, eliminare questa condizione può portare anche a migliorare lo stile di vita, permettendo al paziente di riprendere le normali attività e di ritrovare motivazione nell’esercizio fisico [3]. L’ipotiroidismo autoimmune è associato alle malattie reumatiche infiammatorie, avendo entrambi una base comune di predisposizione autoimmune. Diagnosticare e correggere questa condizione permette di eliminare questo fattore di rischio spesso trascurato [3]. È ormai nota la correlazione tra parodontite e malattie CV. La presenza di patogeni come Porphyromonas gingivalis nelle placche ateroscle-

rotiche ha portato a formulare l’ipotesi che questi germi, diffondendo nel circolo ematico dell’ospite possano favorire l’insorgenza di aterosclerosi, ulteriormente accelerata dalla produzione di PCR e citochine che provengono dal tessuto gengivale infiammato. La parodontite è stata anche associata ad AR, soprattutto se molto grave ed estesa [3]. Le apnee ostruttive sono associate ad alcune malattie reumatiche infiammatorie e sono fattore di rischio per lo sviluppo di comorbidità CV. L’utilizzo degli antagonisti del TNF-alfa parrebbe ridurre la prevalenza di questa condizione tra i pazienti [3].

Come quantificare il rischio CV A oggi sono disponibili molti strumenti di


valutazione del rischio CV per la popolazione generale, come gli score di Framingham, di Reynolds e lo SCORE [20-22]. Purtroppo, però, il rischio CV è sottostimato quando si utilizzano questi algoritmi destinati alla popolazione generale. Persino quando viene applicata una correzione per i livelli di PCR, come avviene nello score di Reynolds, il rischio CV dell’AR viene sottostimato [23]. QRISK® 2 (EMIS and the University of Nottingham, UK) [24] e le linee guida European Society of Cardiology (ESC) del 2012 [25] incorporano l’AR come fattore di rischio CV indipendente anche se i provvedimenti terapeutici non variano nelle linee guida, mentre nel QRISK® 2 sì. Un metodo per poter utilizzare gli algoritmi disegnati per la popolazione generale è quello consigliato dalla European League against Rheumatism (EULAR), che suggerisce l’applicazione di correzioni come il coefficiente di moltiplicazione di 1,5 (mSCORE). Questa correzione si dovrebbe applicare se sono presenti almeno due tra i seguenti criteri: 1) durata di malattia superiore a 10 anni; 2) positività per anticorpi antiproteine citrullinate o fattori reumatoidi; 3) presenza di manifestazioni extra-articolari di AR. In alternativa si può valutare la presenza di malattie infiammatorie nello stesso modo del diabete mellito [23]. Alcuni accorgimenti possono aiutare il clinico a non sottostimare il rischio CV dovuto a malattie reumatiche infiammatorie. Per esempio, misurare i livelli di colesterolo durante le fasi di inattività e misurare il rapporto TC/HDL possono essere validi aiuti, dato che il profilo lipidico in questi pazienti è alterato in modo peculiare, come abbiamo visto. Un esame ecocolordoppler dei tronchi sovra-aortici può essere utile in soggetti che risultano essere a maggior rischio sulla base della valutazione tradizionale. Ovviamente la valutazione del paziente non potrà prescindere dalla misurazione dei valori di pressione arteriosa, mentre almeno periodicamente sarà opportuno sottoporre il paziente a un prelievo per glicemia ed eventualmente emoglobina glicata, profilo lipidico completo, creatininemia e analisi urine.

Ridurre i fattori di rischio CV Poiché non esistono trial clinici specificamente disegnati per valutare le misure di prevenzione nei pazienti con AR, LES e SpA, le raccomandazioni si basano sui dati attualmente a nostra disposizione sulla popolazione generale e sull’opinione degli esperti. La presenza di una malattia reumatica infiammatoria dovrebbe essere considerata come fattore indipendente di rischio CV. Nei pazienti asintomatici per malattie CV è comunque raccomandabile eseguire uno screening completo, che comprenda: anamnesi personale, patologica e familiare, esame obiettivo ed elettrocardiogramma. I fattori di rischio modificabili devono essere individuati e monitorati almeno annualmente e dopo aumento della terapia anti-reumatica da subito, anche in pazienti giovani. Le indagini diagnostiche dovrebbero essere fatte in tempi più precoci proprio a causa della presentazione atipica delle malattie CV nei pazienti con malattie reumatiche infiammatorie. L’intensità del monitoraggio dovrebbe rispecchiare la gravità del rischio CV del paziente.

w Il ruolo controverso dei farmaci antinfiammatori e anti-reumatici L’utilizzo di FANS e COXIB è associato a un aumento del rischio CV nella popolazione generale e nelle malattie reumatiche [26] (Tabella 1). D’altro canto non si può sottovalutare il potenziale effetto benefico nella riduzione dell’infiammazione (in particolare nelle SpA) e nel miglioramento dei sintomi, con conseguente ripresa di un’attività fisica altrimenti fortemente compromessa. Questi aspetti devono ancora essere approfonditi. I corticosteroidi sono in grado di ridurre efficacemente l’infiammazione, che come abbiamo visto è associata a rischio CV. D’altro canto il loro utilizzo è associato allo sviluppo di una sindrome metabolica (infatti causano insulino-resistenza, aumentando il rischio di eventi CV). Un utilizzo a lungo termine a dosaggi superiori o corrispondenti a 7,5 mg/die di prednisolone è associato a mortalità nei pazienti con AR e a un aumento degli eventi CV nei pazienti con LES, soprattut-

to per dosaggi superiori a 10 mg/die [17]. Studi osservazionali non randomizzati riportano una riduzione nell’incidenza di eventi vascolari e morti per cause CV sia tra pazienti con psoriasi sia con AR dopo trattamento con metotrexate a dosaggi tra 10 e 20 mg. I meccanismi con cui agisce metotrexate a questo livello non sono ancora stati chiariti completamente, anche se l’effetto di riduzione dell’infiammazione pare essere l’ipotesi più probabile [26]. Inoltre uno studio recente di Ronda et al. ha dimostrato anche un effetto antiaterogeno per azione sul metabolismo lipidico, in pazienti con AR [27]. Gli anti-TNF-alfa sono in grado di ridurre l’infiammazione e l’attività di malattia e sono associati a una riduzione del rischio CV [26]. I farmaci anti-TNF-alfa hanno dimostrato di migliorare anche altri fattori di rischio CV, tra cui la resistenza all’insulina, la disfunzione endoteliale e i livelli di HDL, le cui proprietà antiaterogene sembrerebbero essere ristabilite. Il loro utilizzo però deve essere limitato ai pazienti che non dimostrino segni di scompenso cardiaco grave (classe NYHA III e superiore), condizione che viene peggiorata dalla terapia con anti-TNF-alfa. Il tocilizumab agisce inibendo il recettore dell’IL-6, una delle citochine che possono contribuire al processo di aterosclerosi; tocilizumab migliora la funzione endoteliale e la rigidità aortica nei pazienti con AR. In seguito a terapia con anti-TNF-alfa o con tocilizumab, è stato riportato un aumento dei livelli di colesterolo totale, HDL e LDL. Questo aumento è molto probabilmente dovuto alla normalizzazione dei livelli in seguito alla riduzione dell’infiammazione ed è più evidente con tocilizumab, e l’assenza di un aumento di eventi CV in corso di queste terapie ne è indiretta dimostrazione. Quello che sembra cambiare, oltre ai livelli, è la composizione delle particelle lipidiche, che, in corso di terapia con biologici o farmaci di fondo (farmaci anti-reumatici che modificano l’attività di malattia, disease modifying anti-rheumatic drugs – DMARDs) tradizionali come metotrexate, acquisterebbero un profilo maggiormente anti-aterogeno.

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reumatologia Tabella 2. Provvedimenti

mirati a ridurre il rischio CV nei pazienti con malattie reumatiche

Provvedimenti non-farmacologici

Provvedimenti farmacologici

Stile di vita

Statine

Dieta

Antipertensivi

Attività fisica

Ipoglicemizzanti orali

Abolizione del fumo

DMARDs tradizionali

Note: DMARDs (disease modifying anti-rheumatic drugs), farmaci anti-reumatici che modificano l’attività di malattia Anche nel LES, come abbiamo visto, l’attività di malattia è associata a maggior numero di eventi CV. Gli obiettivi anche in questi pazienti devono essere una diagnosi precoce e una terapia efficace instaurata in tempi brevi, privilegiando farmaci che migliorano il profilo CV (es. idrossiclorochina) e riducendo al necessario l’impiego di farmaci che potrebbero peggiorarlo (es. corticosteroidi usati al più basso dosaggio possibile e per la minore durata possibile). L’idrossiclorochina ha un ruolo di prevenzione della trombosi nel LES sia in presenza sia in assenza di antifosfolipidi, migliora la sopravvivenza. Questa funzione potrebbe essere dovuta alla ridotta aggregazione piastrinica e al ridotto legame degli antifosfolipidi [5].

w Interventi non-farmacologici Tra i provvedimenti non farmacologici (Tabella 2), un intervento sui fattori di rischio modificabili può essere particolarmente importante nei pazienti a rischio. Migliorare lo stile di vita e la dieta, l’abolizione del fumo, l’esercizio fisico regolare sono provvedimenti validi anche e a maggior ragione, come abbiamo visto, nei pazienti con malattie reumatiche infiammatorie. Si dovrà considerare che sia il sovrappeso sia il sottopeso si associano a maggiore rischio CV, si potrà consigliare una buona integrazione alimentare di acidi grassi insaturi per i pazienti che non hanno indicazione a cominciare una terapia con statine. Si dovrà introdurre un’integrazione con acido folico in caso di terapia con metotrexate o di riscontro di iperomocisteinemia, e/o con vitamina D3

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in caso di carenze. Altri consigli potranno riguardare un’adeguata igiene dentale e, laddove non sia controindicato, l’immunizzazione per influenza e polmonite da Streptococcus pneumoniae [3].

w Interventi farmacologici Nei pazienti con AR e SpA, pur in presenza di indicazione a cominciare un trattamento ipolipemizzante o antipertensivo, spesso questo aspetto viene trascurato. L’errore che si può compiere è quello di pensare che in questi pazienti sia sufficiente il controllo dell’infiammazione. Di certo un’efficace soppressione della risposta infiammatoria si ottiene con il controllo dell’attività di malattia. Prima ancora, una diagnosi precoce delle malattie reumatiche infiammatorie permette di individuare i pazienti affetti, la terapia più adatta in tempi brevi e di conseguenza ottenere un controllo dell’infiammazione in maniera rapida ed efficace. In realtà, una volta individuata e corretta l’infiammazione, da considerare un fattore di rischio modificabile a tutti gli effetti, si deve necessariamente verificare che anche gli altri fattori modificabili siano sotto controllo. Non solo, ma si dovranno considerare con i parametri specifici delle malattie reumatiche infiammatorie. Per esempio come abbiamo visto, è auspicabile che la dislipidemia dei pazienti con LES venga valutata con target più severi di quelli della popolazione generale. Per quanto riguarda le statine è noto da tempo che, oltre all’attività ipolipemizzante, esse possiedono capacità antinfiammatorie, in gran parte dovute alla ridotta

espressione di molecole di adesione sulle cellule endoteliali e il conseguente effetto sinergico con gli DMARDs [28]. Per quanto riguarda le indicazioni per l’utilizzo dell’aspirina si possono seguire le stesse della popolazione generale soprattutto in prevenzione secondaria. Se primaria, l’aspirina sarà da consigliare solo se vi è un alto rischio CV e solo se i benefici eccedono i rischi (considerando in particolare i rischi di effetti collaterali e le interazioni con altri farmaci) (Tabella 2). Infine, considerato il loro valore di ulteriori contribuenti al rischio CV, sarà utile occuparsi, con l’aiuto degli specialisti competenti, della correzione di eventuali comorbidità come apnee ostruttive, ipotiroidismo e depressione.

Conclusioni La ricerca futura dovrà necessariamente essere indirizzata a indagare appieno l’aspetto del rischio cardiovascolare in corso di infiammazione cronica, aggiustando continuamente, sulla base delle nuove acquisizioni della letteratura, le raccomandazioni per la popolazione generale sul rischio cardiovascolare, che risultano inadeguate per questi pazienti. Non si può tralasciare l’importanza di un approccio multidisciplinare al rischio cardiovascolare nelle malattie reumatiche infiammatorie, in primis interagendo e confrontandosi con i colleghi (cardiologi, nefrologi, diabetologi ecc.) al fine di fornire e ricevere conoscenze reciprocamente, creando così un network di lavoro efficiente.


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pneumologia

La BPCO nell’ambulatorio di Medicina generale Percorso diagnostico e cenni di terapia Il paziente con bpco giunge all’attenzione del medico solo quando i sintomi sono di una certa gravità, compromettendo almeno in parte la possibilità di un trattamento efficace

E

tà superiore ai 40 anni, forte fumatore o ex-fumatore, che mostra dispnea e tosse cronica, con o senza espettorato: è questo il paziente tipo che nell’ambulatorio di Medicina generale deve portare al sospetto di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Spetta infatti al generalista, secondo la strategia del case finding, individuare i soggetti a rischio di sviluppare questa patologia respiratoria, già attualmente una delle più diffuse al mondo, ma destinata a diffondersi ulteriormente fino a diventare la terza causa di morte entro il 2030, secondo le proiezioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Così come per altre patologie croniche, le dimensioni epidemiologiche del problema sono tali da imporre una presa in carico del paziente nell’ambito di un modello di cure integrato, che sappia garantire un approccio multidisciplinare, aperto alla partecipazione di diverse figure sanitarie, che condividono gli stessi obiettivi assistenziali [1].

Quale spirometria per quale paziente? Una volta individuato il paziente con sospetto di BPCO è raccomandata la prescri-

A cura di Folco Claudi

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zione di una spirometria, accompagnata eventualmente da un test di reversibilità, in grado di documentare la presenza di un’ostruzione. Questo vale in termini generali; se però si scende più nel dettaglio, considerando sia le specifiche caratteristiche dei diversi pazienti che giungono all’esame del MMG e delle diverse opzioni dell’indagine strumentale il dibattito è attualmente aperto: la spirometria è indicata anche per i soggetti a rischio, ma asintomatici? La spirometria di primo accertamento dev’essere condotta in forma semplice o globale? Chiaramente, la questione si pone perché la prescrizione diffusa degli esami più specifici adatti a un preciso inquadramento del paziente e a una diagnosi precoce della BPCO implicherebbe un allungamento delle liste d’attesa e una lievitazione dei costi che vanno in direzione contraria alle attuali necessità di razionalizzazione e di risparmio all’interno del Sistema sanitario nazionale. Non è escluso peraltro che i MMG risolvano da sé la questione effettuando personalmente l’esame spirometrico: il training e la calibrazione degli strumenti necessari a raggiungere un elevato standard di attendibilità del referto sono senz’altro alla portata di uno studio di Medicina generale, e lasciano comunque aperta la

possibilità d’inviare a uno specialista che dispone di un’attrezzatura più sofisticata i casi che meritano un approfondimento diagnostico. Recenti studi hanno dimostrato che le esperienze condotte sia in Italia sia all’estero sono positive: i MMG non incontrano particolari difficoltà nel gestire questo esame, anche se, probabilmente, i limiti logistici e di disponibilità di personale di supporto che si registrano in molti ambulatori di Medicina generale giocano contro un’ampia diffusione di questa pratica diagnostica [2].

Il problema della sottodiagnosi A fronte di una prevalenza di malattia del 5-6 per cento riportata nella letteratura internazionale, da Health Search, il principale database della Medicina generale italiana, emerge un dato percentuale dimezzato e sostanzialmente costante negli ultimi anni [3]. Tra le diverse spiegazioni di questo fenomeno vi è da considerare il fatto che presso la popolazione generale la BPCO è poco conosciuta e quindi anche poco considerata. Ciò implica che spesso il paziente giunge all’attenzione del medico solo con sintomi di una certa gravità, compromettendo almeno in parte la possibilità di un trattamento terapeutico efficace. Dallo stesso database emerge inoltre che oltre metà delle diagnosi vengono poste dai MMG solo su base clinica, malgrado l’esame spirometrico sia unanimemente considerato necessario per una diagnosi. Da rilevare anche il fatto che, una volta disponibile il referto spirometrico, solo nel 20 per cento dei casi il valore misurato del volume espiratorio massimo


in 1 secondo (VEMS) viene registrato in cartella clinica. Nel caso delle BPCO, l’intervento medico di tipo passivo mostra dunque tutti i suoi limiti. È di particolare rilevanza l’auspicio che si passi a un approccio proattivo che sarebbe utile per intercettare i casi di malattia prima che raggiungano uno stadio tardivo. A questo proposito vale la pena ricordare che alla BPCO sono associate frequenti comorbilità, in particolare malattie cardiovascolari, malattie reumatiche, diabete, depressione e osteoporosi.

Figura 1

Valutazione dei sintomi: COPD assessment test

La diagnosi Il dato cruciale per poter porre la diagnosi di BPCO è il rapporto tra VEMS e capacità vitale (CV), un altro parametro misurabile con la spirometria, che corrisponde alla massima quantità di aria mobilizzata in un atto respiratorio massimale. Il limite considerato normale è il 70 per cento, anche se tale soglia genera spesso falsi negativi nei soggetti al di sotto dei 50 anni di età e falsi positivi negli over50. La persistenza del rapporto VEMS/CV al di sotto del limite di normalità anche 15 minuti dopo l’inalazione di un broncodilatatore (per es. salbutamolo 400 mcg) è un parametro sufficiente alla diagnosi. Le linee guida GOLD del 2013, tuttavia, propongono una classificazione di gravità che tiene conto anche della sintomatologia (tosse, espettorato, dispnea), della frequenza delle esacerbazioni e delle comorbilità. Per quanto riguarda i sintomi, una valutazione precisa può essere effettuata con scale standardizzate come il COPD Assessment Test (CAT) (Figura 1), il Clinical COPD Questionnaire (CCQ) e infine la Breathlessness scale del Medical Research Council (MRC). Per un approfondimento circa il percorso diagnostico della BPCO, può essere utile fare riferimento alla flow chart (Figura 2) e più in generale alle linee guida della SIMG [4].

I cardini della terapia della BPCO L’approccio terapeutico di sicuro beneficio nella BPCO, prima di considerare un’eventuale terapia farmacologica, è di tipo

Il logo COPD Assessment Test e CAT è un marchio registrato del gruppo di società GlaxoSmithKline. ©2009 GlaxoSmithKline group of companies. Tutti i diritti riservati.

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pneumologia educazionale. Occorre infatti persuadere il paziente a modificare in primo luogo fattori di rischio ambientali (Tabella 1), a svolgere attività fisica regolare, possibilmente quotidiana, e avviare una terapia riabilitativa, qualora indicata. La terapia farmacologica di fondo, invece, dev’essere prescritta sulla base di una precisa stadiazione della malattia polmonare. Nel caso di un’ostruzione lieve e bassi livelli dell’indice BODE, non esistono risultati di trial randomizzati prospettici e controllati contro placebo che corroborino la raccomandazione a iniziare la terapia con broncodilatatori associati o meno a steroidi inalatori, terapia che è riservata al caso di un’ostruzione di grado moderato. La terapia basilare della BPCO è attualmente costituita dalla somministrazione

di broncodilatatori, preferibilmente in monosomministrazione, in modo da coprire le 24 ore. Gli obiettivi di questi farmaci si possono così riassumere: riduzione e/o scomparsa dei sintomi cronici diurni e notturni; migliore tolleranza allo sforzo; prevenzione delle riacutizzazioni, miglioramento della qualità di vita; controllo del declino funzionale e riduzione della mortalità.

Quali broncodilatatori prescrivere? Il panorama dei broncondilatatori si divide sostanzialmente in due categorie: i beta-2 agonisti, che agiscono principalmente mediante la stimolazione dei recettori beta2-adrenergici sulle cellule della muscolatura liscia bronchiale, e gli antimuscarinici/anticolinergici, che agiscono come

antagonisti dei recettori colinergici M2 e M3, situati prevalentemente sulla cellule muscolari lisce dei bronchi. In ciascuna categoria, le molecole vengono suddivise in base alla durata della loro azione. Nel caso dei beta-2 agonisti, si distinguono i broncodilatatori a breve durata di azione (SABA), come il salbutamolo, che danno benefici già nei primi minuti dalla somminstrazione, ma che si affievoliscono tuttavia nell’arco di alcune ore, tanto da richiedere più di una somministrazione al giorno; i broncodilatatori a lunga durata di azione (LABA), come il salmeterolo e il formoterolo, la cui efficacia si protrae fino a 12 ore dalla somministrazione; i broncodilatatori a durata d’azione “ultralunga” (ultra-LAMA), come l’indacaterolo, l’olodaterolo e il vilanterolo, che coprono

Figura 2

Proposta di percorso diagnostico e di case finding della BPCO

ALTRI ACCERTAMENTI (5)

ASSISTITO VISITA GENERALE

STOP

NO

NO

SINTOMI RESPIRATORI (1)?

PERSONA A RISCHIO (2)?

NO

SPIROMETRIA GLOBALE (4)

COMPROMISSIONE OSTRUTTIVA?

COMPROMISSIONE OSTRUTTIVA?

SPIROMETRIA SEMPLICE (3)

COMPROMISSIONE MISTA

NO

FOLLOW UP

DIAGNOSI DI BPCO

STADIAZIONE E TRATTAMENTO

Note: (1) Ricerca attiva dei sintomi, anche con questionari ad hoc, ogni 1-2 anni se presente il rischio; (2) Utilizzo carte del rischio CNR-ISS; (3) Spirometria semplice; (4) Spirometria globale (con determinazione del volume residuo); (5) Per altre malattie respiratorie o di altri apparati

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le 24 ore e sono quindi indicati per un’unica somministrazione al giorno. Nel caso degli antimuscarinici, si parla di antimuscarinici a breve durata d’azione (SAMA), rappresentati principalmente da ipratropio e ossitroprio, e antimuscarinici a lunga durata d’azione (LAMA) quali l’aclidinio, il tiotropio, il glicopirronio, l’aclidinio bromuro e l’umeclidinio, fino ad arrivare ai più recenti ultra-LAMA. Un discorso a parte meritano i teofillinici, che hanno un’importante capacità di attenuare la dispnea. Occorre però un’attenta valutazione del loro dosaggio, per evitare effetti collaterali. Rispetto a beta-2 agonisti e agli antimuscarinici, non offrono particolari vantaggi. Rappresentano in ogni caso una terza opzione (nel caso, sono da preferire quelli a lunga durata di azione). Per quanto riguarda il confronto tra beta2-agonisti e antimuscarinici/anticolinergici, gli studi hanno dimostrato che i beta2-agonisti hanno un lieve vantaggio in termini di riduzione della dispnea, ma determinano un maggior rischio di tachifilassi, per effetto del continuo stimolo recettoriale dovuto al loro meccanismo di azione, e di perdita di selettività verso i recettori beta-1 cardiaci, che crea le condizioni di una maggiore probabilità di effetti avversi cardiaci. Gli anticolinergici, che inibiscono la broncocostrizione in condizioni di un’aumentata produzione di acetilcolina a livello neuronale e antineuronale, hanno invece il vantaggio di ridurre sensibilmente il tasso di riacutizzazioni, nonché la probabilità di tachifilassi a lungo termine e di eventi cardiovascolari (inibiscono solo scarsamente i recettori M2 cardiaci) e sistemici. In conclusione, non esistono motivi che a priori possano far preferire una delle due categorie di broncodilatatori: è il medico di famiglia che deve fare una scelta in base alla sua esperienza personale e alle caratteristiche dello specifico paziente, sulla base anche delle modalità di somministrazione e dei rispettivi device. Da rilevare in ogni caso che a fronte di una copertura teoricamente estesa alle 24 ore, la monosomministrazione di ultra-LABA e ultra-LAMA potrebbe non essere sufficiente a liberare il paziente dai sintomi della BPCO che si manifestano nelle ore

Tabella 1. Fattori

di rischio ambientali per la BPCO

Fumo di tabacco (sigaretta, pipa, sigaro)

++++

Alcune esposizioni lavorative (silice, cadmio)

+++

Inquinamento atmosferico (SO2, NO2, O3, PM10)

++

Condizioni economiche disagiate

+

Alcol

+

Fumo passivo in età infantile

+

Infezioni virali in età infantile

+

Dieta povera di antiossidanti (vitamina C, A, E)

+

Fonte: modificata da Linee guida G.O.L.D.; www.goldcopd.it

notturne, quali dispnea, ortopnea, tosse ed espettorazione, sibili e astenia. In questi casi è indicato l’uso di aclidinio bromuro, un LAMA che può essere somministrato due volte al giorno, garantendo una più accurata copertura farmacologica anche di notte.

La terapia di associazione Quando gli obiettivi terapeutici non vengono raggiunti, in particolare nei casi di BPCO più severi, è indicata la somministrazione di due broncodilatatori a diverso meccanismo d’azione. L’associazione dei broncodilatatori con steroidi inalatori deve essere valutata con attenzione, in base alla malattia di base prevalente. Gli steroidi inalatori sono indicati nei casi di bronchiolite isolata o di enfisema centrolobulare lieve, in particolare in presenza di una flogosi eosinofila, e indipendentemente dal valore del VEMS, anche quando si presentano riacutizzazioni, oppure nella prevenzione delle riacutizzazioni eosinofiliche, di solito associate alla bronchiolite cronica. Gli steroidi inalatori invece non sono indicati se le riacutizzazioni sono di tipo infettivo batterico e se sono non infettive da altre cause.

Il ruolo del MMG nella gestione della BPCO L’approccio terapeutico alla BPCO, considerata la sua complessità, spetta allo specialista pneumologo.

Il Medico di famiglia può invece affiancare lo specialista nel monitoraggio degli effetti del trattamento, inizialmente ogni sei mesi e successivamente ogni anno, valutando VEMS ed eventualmente volumi polmonari non mobilizzabili, riacutizzazioni di BPCO, variazioni ponderali e biomarcatori di flogosi sistemica. Il paziente dovrebbe essere coinvolto direttamente con l’auto-somministrazione di questionari per valutare l’impatto della patologia (CAT), della dispnea cronica (mMRC) e della qualità di vita (SGRQ), nonché nella misurazione dell’attività fisica giornaliera mediante pedometro. L’aderenza al trattamento è come sempre fondamentale, e per la BPCO, il Medico di medicina generale dovrebbe valutare anche il corretto uso dei device e le modalità di somministrazione.

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pneumologia

La SINDROME da sovrapposizione ASMA-BPCO La medicina di base nella gestione di un’entità clinica di recente descrizione UNA DESCRIZIONE IN PROGRESS

ripercorriamo in queste pagine i punti chiave del documento gina-gold 2015 per la diagnosi ambulatoriale della sindrome da sovrapposizione asma-bpco (ACOS)

L’

asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) sono riconosciute come entità cliniche distinte, tuttavia per questo concetto potrebbe essere l’ora di un riesame. Molti studi epidemiologici dimostrano infatti che le due malattie respiratorie possono coesistere o che una condizione può evolvere nell’altra. Numerosi pazienti, soprattutto fumatori e anziani, con una diagnosi o i sintomi di una malattia cronica delle vie aeree, presentano caratteristiche sia dell’asma sia della BPCO e una limitazione cronica del flusso aereo (ovvero non completamente reversibile con un broncodilatatore) (1-4). Di recente è stato proposto il termine “sindrome da sovrapposizione asma-BPCO” o ACOS (Asthma-COPD Overlap Syndrome) per indicare la condizione caratterizzata da una limitazione persistente del flusso aereo e da numerose caratteristiche di solito associate all’asma e numerose ca-

A cura di Piera Parpaglioni

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ratteristiche di solito associate alla BPCO. Non si tratta di una nuova patologia, ma di un termine che si applica ai soggetti che presentano caratteristiche cliniche di entrambe le malattie respiratorie (3, 5). L’utilità della nuova denominazione riguarda in particolare l’ambito non specialistico, prima dell’esecuzione di indagini diagnostiche dettagliate. Nel 2014 due noti progetti patrocinati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Global Initiative for Asthma (GINA) e Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease (GOLD), hanno messo a punto un documento congiunto (rivisto nel 2015) sulla diagnosi delle malattie con limitazione cronica del flusso aereo - asma, BPCO e ACOS - che è proposto proprio come guida per la medicina primaria (3). Gli Autori del report sottolineano che la sindrome da overlap asma-BPCO va intesa non come definizione, ma come descrizione di consenso (peraltro non unanime nel mondo scientifico) perché servono evidenze più numerose e su popolazioni più ampie prima di arrivare a una definizione.

Allo stato attuale la ACOS è quindi una sindrome eterogenea, all’interno della quale trova posto un numero (non determinato) di fenotipi che devono ancora essere caratterizzati sotto il profilo clinico, patofisiologico e genetico, come evidenzia una review su Lancet Respiratory Medicine (5). Lo studio nota che le origini della malattia polmonare cronica partono durante l’organogenesi e il periodo di crescita dei polmoni e continuano attraverso ulteriori esposizioni ai fattori ambientali durante l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta (Figura 1). Considerare le vie potenziali che possono portare alla comparsa di una ACOS può aiutare a comprendere questo disordine. Una prima via inizia con l’asma infantile e lo sviluppo di una limitazione del flusso aereo che persiste fino all’età adulta, durante la quale una diagnosi di ACOS diventa più probabile se sono presenti anche altri fattori di rischio (es. fumo). Una seconda via è rappresentata dall’insorgenza tardiva di caratteri di asma in soggetti con una storia di fumo o di esposizione ad altri fattori ambientali, che quindi presentano i caratteri di entrambe le malattie respiratorie. Una terza via potenziale riguarda adulti asintomatici con un’iperresponsività delle vie aeree che progredisce verso una limitazione cronica del flusso compatibile con una diagnosi di BPCO. Una quarta via infine riconosce il legame tra l’esposizione a fattori di rischio nei primi anni di vita, lo scarso sviluppo polmonare e un rischio aumentato di sviluppare una limitazio-


Figura 1

L’espressione delle malattie delle vie aeree nel corso della vita

progressione della patologia

La manifestazione della sindrome da sovrapposizione asma-BPCO (ACOS) può essere vista come l’effetto combinato di fattori che portano alla broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e di altri correlati con l’asma

Asma ad esordio tardivo Asma

BPCO

Asma (tutti i fenotipi)

Bronchiolite Stress respiratorio neonatale

ACOS

Scarso sviluppo polmonare

Fonte: modificata da Bateman ED, Reddel HK, van Zyl-Smit RN, Agusti A. Lancet Respir Med 2015; 3: 719-28

ne irreversibile del flusso aereo e asma. L’identificazione più precisa di fenotipi differenti (probabilmente destinati ad aumentare di numero) delle malattie delle vie aeree e dei fattori (genetici, ambientali) in grado di modificarne l’espressione renderà possibile una migliore definizione della ACOS (5,6). Una revisione sistematica con metanalisi su Plos One (1) riporta che gli individui con ACOS rappresentano oltre un quarto dei pazienti con BPCO (la prevalenza è del 27 per cento componendo i dati degli studi sulla popolazione generale e del 28 per cento se basata sui soggetti ospedalizzati). Non sono state riscontrate differenze significative tra ACOS e BPCO in relazione al genere, all’abitudine al fumo e alla funzione polmonare. Rispetto ai pazienti con BPCO, quelli con diagnosi di ACOS sono significativamente più giovani, con un indice di massa corporea (BMI) più alto, hanno esacerbazioni più frequenti e gravi, una maggiore necessità di ospedalizzazione e di cure sanitarie e una più bassa qualità della vita legata alla salute (5,7,8). Gli ultimi tre fattori si ricollegano anche al maggior numero di comorbilità presenti nei soggetti con ACOS. A oggi, mancano trial clinici randomizzati in grado di fornire una guida per l’intervento terapeutico, anche perché la diagnosi concomitante di asma e di BPCO ha costituito finora un criterio di esclusione da quasi tutti i trial. Alla luce dell’impatto sulla salute dell’individuo e sulle risorse sanitarie, vi è necessità di studi che aiutino a delineare meglio la

ACOS e la sua gestione ottimale sotto il profilo dell’efficacia e dei costi (2,5,9). Obiettivo di queste pagine è richiamare l’attenzione sulla sindrome respiratoria di recente descrizione, ripercorrendo i punti salienti del documento GINA-GOLD 2015 (3) che propone un approccio diagnostico per passaggi successivi e una serie di raccomandazioni di massima per la gestione ambulatoriale dei pazienti con limitazione cronica del flusso aereo (i punti chiave sono riassunti nel riquadro).

la PRESA IN CARICO del paziente IN CINQUE PASSI 1° step. Il paziente ha una malattia cronica delle vie aeree? y Anamnesi. I fattori che dovrebbero allertare per l’esistenza di una malattia cronica delle vie aeree includono: una storia di tosse cronica o ricorrente, di espettorato, di dispnea, di respiro affannoso, o di infezioni acute ricorrenti del tratto respiratorio inferiore; una diagnosi medica precedente di asma o di BPCO; trattamenti pregressi con farmaci inalatori; una storia di fumo di tabacco e/o di altre sostanze; l’esposizione occupazionale o domestica a rischi ambientali, per esempio a inquinanti atmosferici. y Esame fisico. Può essere normale oppure evidenziare segni di malattia polmonare cronica o di insufficienza respiratoria, con sibili e/o crepiti all’auscultazione. y Quadro radiologico. Può essere normale soprattutto nelle fasi iniziali. Le anomalie di una radiografia del torace o di

una TAC (eseguita per altri motivi) comprendono iperinflazione, ispessimento delle pareti delle vie aeree, intrappolamento dell’aria, iperdiafania, bolle o altri segni di enfisema. L’indagine può anche indicare una diagnosi alternativa, per esempio bronchiectasie, infezioni polmonari come la tubercolosi, malattie polmonari interstiziali o insufficienza cardiaca.

2° step. Diagnosi della sindrome respiratoria nel paziente adulto: asma, BPCO o ACOS? La Tabella 1 riprende parte dello schema proposto dal documento GINA-GOLD come aiuto per arrivare alla diagnosi (lo schema elenca solo le caratteristiche che più facilmente permettono di fare una distinzione tra asma e BPCO nella pratica clinica). y a) Comporre il quadro delle caratteristiche a favore di una diagnosi di asma o di BPCO. Prendendo in considerazione l’età, la sintomatologia (in particolare esordio e progressione, variabilità, stagionalità/periodicità e persistenza), l’anamnesi remota, i fattori di rischio sociali e occupazionali incluso il fumo, le diagnosi e i trattamenti pregressi, la risposta alle terapie e la funzionalità respiratoria, è possibile formare due gruppi delle caratteristiche che più si avvicinano al profilo diagnostico rispettivamente dell’asma e della BPCO. y b) Confrontare il numero di caratteristiche a favore di ciascuna diagnosi. Tre o più elementi a favore di ciascuna patologia, in assenza di elementi a favore della diagnosi alternativa, danno una forte

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pneumologia probabilità di diagnosi corretta di asma o di BPCO. L’assenza di una qualsiasi caratteristica ha invece un valore predittivo minore e non esclude la diagnosi di una delle due patologie (per esempio, una storia di allergie accresce la probabilità che i sintomi respiratori siano dovuti all’asma, ma non è essenziale per la diagnosi della

Tabella 1 Schema

malattia, dal momento che l’asma non allergico è un fenotipo ben conosciuto). Quando un paziente presenta un numero simile di caratteristiche sia di asma sia di BPCO, si dovrebbe prendere in considerazione una diagnosi di ACOS. y c) Valutare il livello di certezza della diagnosi di asma o di BPCO, o se vi siano

caratteristiche di entrambe che suggeriscano una ACOS. Nella pratica clinica, quando una condizione non ha caratteristiche patognomoniche, si fa diagnosi in base al peso delle evidenze. Il report GINA-GOLD nota che la stima del livello di certezza può essere utile anche per la selezione del trattamento e, nel caso vi sia un dubbio

per la diagnosi sindromica delle malattie con limitazione cronica del flusso aereo nel paziente adulto

Caratteristiche: se presenti suggeriscono

ASMA

BPCO

Età di insorgenza

Prima dei 20 anni

Dopo i 40 anni

Quadro dei sintomi respiratori

 Variabili nell’arco di minuti, ore e giorni  Peggioramento notturno o nel primo mattino  Scatenati da esercizio fisico, emozioni (anche una risata), polvere o esposizione ad allergeni

 Persistenti nonostante il trattamento  Alternanza di giorni migliori e peggiori ma sempre con sintomi diurni e dispnea da sforzo  Tosse cronica con espettorato precedono l’insorgere della dispnea, non correlata con fattori scatenanti

Funzionalità respiratoria

Limitazione del flusso aereo variabile (spirometria o picco di flusso)

Limitazione del flusso aereo persistente (FEV1/FVC post-broncodilatatore < 0.7)

Normale

Anormale

Anamnesi remota o familiare

 Diagnosi precedente di asma  Storia familiare di asma e di altre condizioni allergiche (rinite allergica, eczema)

 Diagnosi precedente di BPCO, bronchite cronica o enfisema  Forte esposizione a fattori di rischio: fumo di tabacco, emissioni da carburanti

Decorso

 Lento e progressivo peggioramento dei  Non vi è peggioramento dei sintomi sintomi nel tempo nel tempo. Variazione dei sintomi stagionale o da un anno con l’altro  Il trattamento con broncodilatatori ad azione immediata fornisce un sollievo  Possibile miglioramento spontaneo o risposta immediata ai broncodilatatori limitato o ai corticosteroidi inalatori nell’arco di settimane

Rx torace

Normale

Funzionalità respiratoria in fase asintomatica

Iperinflazione severa

Note: • Sommare le caratteristiche dell’asma e della BPCO che meglio descrivono la sintomatologia del paziente • Confrontare il numero di caratteristiche a favore di ciascuna diagnosi e scegliere la diagnosi più probabile • Tre o più caratteristiche positive per l’asma o per la BPCO orientano la diagnosi verso quella patologia. In presenza di un numero paragonabile di caratteristiche di asma e di BPCO, considerare la diagnosi di ACOS. FEV1, volume espiratorio massimo nel primo secondo; FVC, capacità vitale forzata Fonte: modificata da GINA-GOLD; http://www.goldcopd.org/uploads/users/files/GOLD_ACOS_2015.pdf

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Diagnosi

Asma

Qualche caratteristica di asma

Certezza della diagnosi

Asma

Possibile asma

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Caratteristiche di entrambe

Potrebbe essere ACOS

Qualche caratteristica di BPCO

BPCO

Possibile BPCO

BPCO


significativo, la terapia può essere diretta verso l’opzione più sicura - ovvero, il trattamento della condizione che non può essere lasciata scoperta. Più alto è il livello di certezza circa la diagnosi di asma o di BPCO, maggiore sarà l’attenzione da dedicare alla scelta del trattamento iniziale più sicuro ed efficace.

3° step. La spirometria. Essenziale per la valutazione di un paziente con sospetta malattia cronica delle vie aeree, dovrebbe essere eseguita durante la prima visita o la successiva, se possibile prima e dopo una prova di trattamento. Confermare o escludere dall’inizio la presenza di una limitazione cronica del flusso aereo può evitare trattamenti inutili o ritardi nell’avvio di altre indagini (per lo schema dei valori spirometrici compatibili con asma, BPCO o ACOS si rinvia al documento GINA-GOLD) (3). Anche se non è un’alternativa alla spirometria, la misurazione del picco di flusso espiratorio (PEF), se eseguita ripetutamente con lo stesso apparecchio in un periodo di 1-2 settimane, può contribuire a confermare la diagnosi di asma quando dimostra una eccessiva variabilità, ma una PEF normale non esclude né asma né BPCO. Un’elevata variabilità della funzione polmonare si può riscontrare anche nella ACOS. Una volta acquisiti i risultati della spirometria e di altri esami, la diagnosi sindromica del 2° step dovrà essere riesaminata e, se necessario, modificata. La spirometria eseguita durante una sola visita non sempre conferma una diagnosi. Potrebbero essere necessarie ulteriori prove, per la conferma o per valutare la risposta al trattamento (vedi 5° step).

4° step. Istituire la terapia iniziale. y Se la valutazione della sindrome è a favore dell’asma come diagnosi singola, iniziare il trattamento secondo le raccomandazioni del documento GINA (10): la terapia farmacologica si basa sui corticosteroidi inalatori, con trattamento add-on, se necessario, con un beta-2 antagonista a lunga durata d’azione (LABA) e/o un antagonista muscarinico a lunga durata (LAMA).

Acos: concetti chiave del documento gina-gold 2015 ❱❱ D istinguere l’asma dalla BPCO può essere difficile, soprattutto nei fumatori e negli adulti in età avanzata. Alcuni pazienti possono presentare caratteristiche cliniche sia dell’asma sia della BPCO, ovvero quella che è denominata sindrome da sovrapposizione asma-BPCO (ACOS). ❱❱ L a ACOS non è una malattia singola, ma include soggetti con forme differenti (fenotipi) di malattia delle vie aeree. È probabile che per la ACOS, come per l’asma e per la BPCO, vi siano meccanismi di base eterogenei (ancora da identificare). ❱❱ I n sede non specialistica, si raccomanda un approccio graduale alla diagnosi, che comprende: il riconoscimento della presenza di una malattia cronica delle vie aeree; la categorizzazione della sindrome come asma, BPCO o ACOS; la conferma di una limitazione cronica del flusso aereo con spirometria; se necessario, l’invio a ulteriori indagini specialistiche. ❱❱ S ebbene il riconoscimento e il trattamento iniziale della ACOS possano essere eseguiti nella medicina di base, si consiglia l’invio a indagini specialistiche di conferma, poiché gli esiti della ACOS sono spesso peggiori di quelli dell’asma e della BPCO da sole. ❱❱ R accomandazioni per l’efficacia e la sicurezza del trattamento iniziale: • nei pazienti con le caratteristiche cliniche dell’asma prescrivere un’adeguata terapia di controllo inclusi corticosteroidi per via inalatoria, ma non broncodilatatori a lunga durata d’azione in monoterapia; • nei pazienti con BPCO prescrivere un trattamento sintomatico appropriato con broncodilatatori o una terapia combinata, ma non i corticosteroidi inalatori in monoterapia; • nei pazienti con ACOS, istituire un trattamento con corticosteroidi inalatori a dosi basse o moderate (a seconda della gravità della sintomatologia); di solito è necessario anche un trattamento aggiuntivo con un LABA e/o un LAMA. Se vi sono caratteri clinici di asma, evitare la monoterapia con LABA; • tutti i pazienti con una limitazione cronica del flusso aereo dovrebbero essere assistiti anche per il trattamento delle comorbilità, la cessazione dal fumo e l’attività fisica. Note: LABA, beta-2 antagonista a lunga durata d’azione; LAMA, antagonista muscarinico a lunga durata d’azione

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pneumologia y Se la valutazione della sindrome è a favore della BPCO come patologia singola, iniziare la terapia secondo le raccomandazioni del documento GOLD (11): trattamento sintomatico con broncodilatatori (LABA e/o LAMA) o terapia combinata, ma non corticosteroidi inalatori da soli (in monoterapia). y Se la diagnosi differenziale è ugualmente bilanciata tra asma e BPCO, vale a dire a favore di ACOS, la raccomandazione è di iniziare il trattamento per asma, fino a quando saranno eseguiti ulteriori esami. Questo approccio riconosce il ruolo cruciale dei corticosteroidi inalatori nel prevenire nuovi attacchi e anche la morte nei pazienti con sintomatologia asmatica non controllata, nei quali anche sintomi in apparenza “lievi” (se confrontati con quelli di una BPCO moderata o severa) potrebbero indicare un rischio considerevole di un attacco potenzialmente letale. Pertanto la terapia farmacologica per ACOS include un corticosteroide inalatorio (in dosi basse o moderate, a seconda della gravità dei sintomi). Di solito si aggiungono un LABA e/o un LAMA o, se già prescritti, si proseguono insieme al corticosteroide inalatorio. In ogni caso, se vi sono caratteristiche di asma, non trattare con LABA senza il corticosteroide. y Tutti i pazienti con limitazione cronica del flusso aereo dovrebbero inoltre ricevere assistenza sui seguenti punti: y trattamento dei fattori di rischio modificabili, incluse le raccomandazioni sulla cessazione dal fumo; y trattamento delle comorbilità; y strategie non farmacologiche come l’attività fisica e, per BPCO e ACOS, la riabilitazione polmonare e le vaccinazioni; y strategie di autogestione e controlli regolari. Nella maggioranza dei pazienti, la gestione iniziale sia dell’asma sia della BPCO può essere effettuata in modo soddisfacente nella medicina primaria. Tuttavia i documenti GINA e GOLD (10,11) prevedono l’invio a ulteriori procedure diagnostiche in momenti specifici (vedi step successivo). Questo vale in particolare nei pazienti con sospetta ACOS, che è associata con esiti più gravi e un maggiore ricorso a cure sanitarie.

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5° step. Quando è necessario inviare alla visita specialistica e a ulteriori indagini diagnostiche. y Pazienti con sintomi persistenti e/o esacerbazioni nonostante il trattamento. y Incertezza diagnostica, soprattutto quando è necessario escludere una diagnosi alternativa (es. bronchiectasie, cicatrici post-tubercolari, bronchiolite, fibrosi polmonare, ipertensione polmonare, malattie cardiovascolari e altre cause di sintomi respiratori). y Pazienti con sospetto di asma o di BPCO, con sintomatologia atipica o sintomi e segni ulteriori (es. emottisi, dimagrimento significativo, sudorazione notturna, febbre, segni di bronchiectasie o di altra malattia polmonare strutturale) che suggeriscano una diversa diagnosi polmonare. Consigliabile l’invio immediato allo specialista, senza attendere l’esito di un ciclo di trattamento per asma o BPCO. y Quando si sospetta una malattia cronica delle vie aeree, ma il quadro sindromico sia dell’asma sia della BPCO è scarso. y Pazienti con comorbilità che possono interferire con la valutazione e la gestione della malattia delle vie aeree. y Problemi che insorgano durante la gestione dell’asma, della BPCO o della ACOS.

CONCLUSIONI La descrizione della sindrome da sovrapposizione asma-BPCO proposta dal documento GINA-GOLD è intesa come strumento temporaneo per aiutare il medico non specialista nella gestione ambulatoriale delle malattie respiratorie croniche, in attesa di ulteriori indagini diagnostiche. Sono molti i quesiti aperti sulla ACOS: i fenotipi compresi sotto questo termine, le interazioni tra fattori genetici e ambientali, i meccanismi patogenetici, l’individuazione di trattamenti mirati per pazienti che non corrispondono a un quadro univoco di malattia cronica delle vie aeree. I dati in letteratura evidenziano che i pazienti con sindrome da overlap hanno più sintomi, più esacerbazioni, un maggior numero di comorbilità e outcome peggiori rispetto ai soggetti con asma o BPCO da sole.

Sono necessari studi clinici che includano le persone con diagnosi di sindrome da sovrapposizione asma-BPCO, fino a oggi escluse dai trial riguardanti l’asma e la BPCO.

BIBLIOGRAFIA 1) Alshabanat A, Zafari Z, Albanyan O et al. Asthma and COPD overlap syndrome (ACOS): a systematic review and meta analysis. Plos One 2015; 10: e0136065. 2) Nielsen M, Barnes CB, Ulrik CS. Clinical characteristics of the asthma-COPD overlap syndrome - a systematic review. Int J Chron Obstruct Pulmon Dis 2015; 10: 1443-54. 3) GINA-GOLD. Diagnosis of diseases of chronic airflow limitation: asthma, COPD and asthmaCOPD overlap syndrome (ACOS). Updated 2015. http://www.goldcopd.org/uploads/ users/files/GOLD_ACOS_2015.pdf. (per la versione italiana: http://new2.ginasma.it/index. php/documenti/documenti-2015/item/80acos-2015-traduzione-italiana) (ultimo accesso 06/11/2015). 4) Zeki AA, Schivo M, Chan A et al. The asma-COPD overlap syndrome: a common clinical problem in the elderly. J Allergy 2011; 2011: 861926. 5) Bateman ED, Reddel HK, van Zyl-Smit RN, Agusti A. The asthma-COPD overlap syndrome: towards a revised taxonomy of chronic airways diseases? Lancet Respir Med 2015; 3: 719-28. 6) Carolan BJ, Sutherland ER. Clinical phenotypes of chronic obstructive pulmonary disease and asthma: recent advances. J Allergy Clin Immunol 2013;131: 627-34. 7) Kauppi P, Kupiainen H, Lindqvist A et al. Overlap syndrome of asthma and COPD predicts low quality of life. J Asthma 2011; 48: 279-85. 8) Andersen H, Lampela P, Nevanlinna A et al. High hospital burden in overlap syndrome of asthma and COPD. Clin Respir J 2013; 7: 342-6. 9) Gibson PG, Simpson JL. The overlap syndrome of asthma and COPD: what are its features and how important is it? Thorax 2009; 64: 728-35. 10) GINA. Global strategy for asthma management and prevention. Updated 2015. www. ginasthma.org/local/uploads/files/GINA_Report_2015_Aug11.pdf. (ultimo accesso 06/11/2015). 11) GOLD. Global strategy for the diagnosis, management and prevention of chronic obstructive pulmonary disease. Updated 2015. www. goldcopd.org/uploads/users/files/GOLD_ Report_2015_Sept2.pdf. (ultimo accesso 06/11/2015).


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CO N GRE SSI Congresso nazionale SIR, 25-28 novembre – Rimini

Malattie reumatiche: rendere “sostenibili” le terapie innovative per vincere la disabilità

N

el nostro Paese, il peso economico e sociale delle patologie reumatiche ha proporzioni significative. Se non diagnosticate e trattate precocemente, possono portare a una serie di invalidità che impediscono all’individuo di svolgere le proprie attività nella vita quotidiana, e ciò naturalmente si ripercuote sull’intera società. Si stima, infatti, che una persona affetta da una malattia reumatica possa perdere fino a 12 ore di lavoro in una settimana. Se ne è parlato in occasione del Congresso annuale della Società italiana di reumatologia, che si è tenuto a Rimini, alla fine dello scorso novembre. Una gestione efficace delle patologie reumatiche dovrebbe includere accanto alla diagnosi precoce, un trattamento farmacologico adeguato e un percorso riabilitativo, e questi “passaggi” devono essere garantiti a tutti i malati. Solo in questo modo infatti è possibile prevenire

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la progressione della disabilità che si associa alla maggior parte delle patologie reumatiche croniche. Ne sono consapevoli gli specialisti riuniti al Congresso, ma come sottolineano, per le malattie reumatiche (come per la maggioranza delle patologie croniche) la garanzia di accesso ai pazienti alle migliori cure ha come elemento determinante la sostenibilità della spesa per il nostro Sistema sanitario. Si tratta di capire se, nell’ottica dell’attuale, e presumibilmente futura, spending review, l’innovazione farmacologica possa ancora essere sostenibile, fermo restando che non si può pensare di arrestare il progresso scientifico e di impedire l’adozione di standard terapeutici più elevati, anche in termini di qualità di vita. “Una terapia meno costosa non sempre determina miglioramenti significativi nello stato di salute del paziente”– ha spiegato Luigi Di Matteo, consigliere nazionale della SIR. “Al contrario, un trattamento che implica un maggior costo può portare benefici alla qualità di vita del paziente, tali che essi vanno a coprire, se non a superare, i costi dell’intervento più oneroso. Ovviamente questo discorso è valido quando la malattia viene diagnosticata tempestivamente, in modo tale che il trattamento possa, da subito, ridurre la gravità della malattia rispetto a una diagnosi tardiva”. L’introduzione dei farmaci biologici nel trattamento dell’artrite reumatoide da moderata a grave non responsiva ai cosiddetti farmaci di fondo (DMARDs), in associazione a questi, ha portato importanti vantaggi al paziente, ma ha posto, tuttavia, un problema di sostenibilità, per gli elevati costi dei farma-

ci stessi. “Alcuni studi, hanno, tuttavia, dimostrato – ha sottolineato Di Matteo – che la terapia con farmaci di fondo sintetici presenta un costo inferiore, ma non sempre è in grado di garantire un’inibizione della progressione della malattia, con un successivo impatto pesante in termini di costi economici per il sostegno dell’invalidità. L’uso precoce dei farmaci biologici insieme a quelli sintetici, invece, ha dimostrato di poter apportare un miglioramento delle condizioni di salute e, quindi, un minor ricorso a prestazioni mediche e una minore disabilità, che determinano un risparmio praticamente pari al maggior esborso per il farmaco”. Nella pratica clinica disponiamo oggi dei farmaci biosimilari che come noto vengono commercializzati a prezzi inferiori. “A questo proposito, la Società italiana di reumatologia si allinea con la posizione dell’AIFA nel raccomandare l’uso dei biosimilari ai pazienti naïve (ossia che non abbiano avuto precedenti esposizioni terapeutiche) – ha precisato Di Matteo. “Inoltre, la Società italiana di reumatologia ha recentemente espresso il proprio punto di vista ufficiale in due position paper in cui dichiara che l’uso del biosimilare di infliximab (anticorpo monoclonale indicato per il trattamento dell’artrite reumatoide, malattia di Crohn, colite ulcerosa, spondilite anchilosante, artrite psoriasica, psoriasi) dovrebbe essere riservato solo nella indicazione per la quale il farmaco ha effettuato trial clinici di comparabilità, rispetto a infliximab e che l’estensione di altre patologie quali la spondiloartrite assiale, enteropatica, e l’artropatia psoriasica dovrebbe essere validata da studi clinici”.


CO N G R E S S I Congresso nazionale AIPO-FIP, 11-14 novembre – Napoli

Asma e BPCO all’attenzione degli pneumologi italiani Diagnosi precoce, terapia mirata e assistenza delle patologie respiratorie croniche a maggiore impatto sociale

“Q

ualità e Sostenibilità: le sfide per la Pneumologia” è questo il titolo del XLIII Congresso nazionale AIPO-FIP (Associazione italiana pneumologi ospedalieri-Federazione italiana della pneumologia) che ha visto protagonisti gli specialisti in medicina respiratoria e non solo, che si sono riuniti a Napoli per una “tre giorni” ricca di appuntamenti. Circa 1.500 partecipanti si sono confrontati sui temi più rilevanti della pneumologia, spaziando dalla clinica alla politica sanitaria, all’assistenza. L’aspetto assistenziale è prioritario nella gestione delle patologie respiratorie che, per la loro complessità e per il loro elevato impatto epidemiologico richiedono da un punto di vista economico un sempre maggiore impegno da parte dell’organizzazione sanitaria. Basti pensare che circa 15 miliardi di euro l’anno vengono spesi per il solo trattamento delle patologie respiratorie croniche. “Gli specialisti sono quindi chiamati, oltre che a essere aggiornati e competenti, a garantire livelli assistenziali di qualità ma

che, nel contempo, siano sostenibili da un punto di vista economico” ha commentato Fausto De Michele, presidente AIPO e presidente del Congresso. “La gestione di malattie complesse come quelle respiratorie richiede l’intervento sinergico di più figure professionali il cui operato però deve seguire l’orientamento indicato dallo specialista sia per quanto concerne gli aspetti diagnostici che quelli terapeutici”.

La condivisione delle competenze per vincere la sfida della sostenibilità Il patrimonio di conoscenze maturato nel corso degli anni dalla pneumologia italiana è certamente in grado di fornire risposte adeguate alle richieste di salute della popolazione. Oggi però viene richiesto ai professionisti e in particolare alle società scientifiche, qualcosa di più che essere solo dei medici competenti e aggiornati: è necessario garantire la compatibilità tra la qualità dell’offerta assistenziale e la sua sostenibilità nel contesto in cui si opera. Di fronte al peso economico e sociale delle patologie respiratorie non si tratta di fare compromessi riducendo la qualità dell’assistenza per ottenere risparmi, ma bisogna proporre modelli che siano capaci di cura-

re al meglio le persone in un sistema equo, solidale e dunque sostenibile. Si ritiene che garantire prestazioni di qualità sia “costoso”, questo è sicuramente vero, ma non va dimenticato che uno dei requisiti della qualità è l’appropriatezza e che proprio nell’inappropriatezza delle prestazioni diagnostico-terapeutiche si annida gran parte dello spreco di risorse che finiscono per essere sottratte al sistema sanitario. La vera sfida nella gestione delle patologie croniche è dunque un’assistenza appropriata che possa favorire la sostenibilità. Non è una sfida che però si può vincere da soli: la gestione di grandi cronicità e di malati complessi, come quelli affetti da patologie polmonari, richiede la collaborazione del Medico di Medicina generale, di altri specialisti, di diverse figure professionali non mediche e delle Associazioni dei pazienti, che in sinergia con lo pneumologo possano tracciare il percorso di cura.

Tubercolosi e inquinamento atmosferico, tematiche più che mai attuali All’incontro partenopeo ampio spazio è stato riservato all’inquinamento atmosferico e al suo impatto sulle patologie respiratorie

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CO N GRE SSI soprattutto anche in rapporto ai cambiamenti climatici attuali. Un focus è stato dedicato a quanto sta accadendo nell’area della Terra dei Fuochi per la quale come ha sottolineato il prof. Gennaro D’Amato di Napoli, l’unica strategia risolutiva è la bonifica del territorio. Per quanto riguarda i temi prettamente clinici, si è parlato di fibrosi polmonare idiopatica, ma anche di un’emergenza sanitaria mondiale: la tubercolosi, la malattia infettiva più diffusa al mondo e fra le patologie che richiedono una particolare attenzione. In questo contesto è stato sottolineato come non servano inutili allarmismi in relazione alle migrazioni, quanto piuttosto un livello di guardia aumentato verso la crescita costante dei fattori di rischio nella popolazione autoctona. A Napoli è stato fatto il punto anche sulle conseguenze che il recepimento da parte dell’Italia della nuova direttiva europea sulle patenti di guida potrà determinare nella gestione del paziente con sindrome delle apnee ostruttive del sonno (OSAS). In una sessione dal titolo “OSA e direttiva europea 2014/85/EU sull’idoneità alla guida” si è cercato di fare chiarezza su questo tema partendo dalla correlazione fra la sindrome delle apnee ostruttive del sonno e gli incidenti stradali per arrivare ai cambiamenti apportati dalla direttiva europea.

Le patologie ostruttive croniche Asma e BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva) rappresentano una priorità per la pneumologia italiana e non solo, dal momento che si tratta di patologie che si presentano in comorbilità con svariate condizioni cliniche, cardiovascolari in primis. Secondo le stime, a esserne colpiti sono più di 8 milioni di italiani. Tuttavia questi dati possono essere fortemente sottostimati specialmente per la BPCO, che spesso resta sottovalutata e trascurata da parte del paziente, e ciò porta a un inevitabile ritardo nella diagnosi, ovvero quando la malattia è già in fase avanzata. Se fino a qualche tempo fa asma e BPCO

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erano ritenute due entità distinte, nel corso degli anni si è sempre più fatta strada la convinzione che ci fosse una relazione tra le due patologie. Sta emergendo anche il concetto nuovo di ACOS o sindrome da sovrapposizione asma-BPCO caratterizzata dalla presenza simultanea di entrambe le malattie e da un’ostruzione non completamente reversibile delle vie aeree. Durante diverse sessioni del Meeting, è stato posto l’accento sull’importanza dell’implementazione della diagnosi precoce della BPCO attraverso un’integrazione operativa tra specialista e MMG, soprattutto nell’ottica di rallentarne l’evoluzione verso le forme di maggiore gravità che inesorabilmente portano all’insufficienza respiratoria.

La duplice broncodilatazione nella BPCO Alla diagnosi precoce è direttamente collegata la terapia. Se l’intervento terapeutico è tempestivo, si hanno maggiori probabilità di controllare la progressione nel tempo della BPCO. La BPCO è una condizione clinica eterogenea con differenti possibilità di trattamento. La terapia farmacologica delle forme moderate e gravi è volta principalmente al miglioramento dei sintomi e della qualità di vita, all’ottimizzazione della funzione polmonare e alla riduzione delle riacutizzazioni. I broncodilatatori inalatori, come gli antagonisti muscarinici (LAMA) e gli agonisti dei recettori beta2-adrenergici (LABA) svolgono un ruolo centrale in questo contesto. Si tratta di classi di farmaci con meccanismi d’azione differenti e complementari, e proprio per questo offrono l’opportunità di sviluppare terapie di combinazione che agendo in sinergia, da un lato migliorano l’efficacia del trattamento rispetto alla monoterapia, e dall’altro ne ottimizzano l’aderenza, che come noto è un aspetto centrale nella terapia di fondo. Le attuali linee guida per il trattamento della BPCO raccomandano una combinazione LAMA/LABA come opzione terapeutica per i pazienti con sintomi significativi e basso rischio di riacutizzazione, per i pa-

zienti con pochi sintomi e alto rischio di riacutizzazione e per i pazienti con molti sintomi e alto rischio di riacutizzazione. Oggi la tendenza sembra essere quella di preferire fin da subito l’associazione LABA/LAMA, lasciando un po’ in secondo piano il corticosteroide inalatorio, il cui ruolo è riservato al caso di patologia non controllata con la duplice broncodilatazione. Gli studi clinici condotti con le combinazioni LAMA/LABA in pazienti con BPCO testimoniano la validità di questo razionale e hanno mostrato oltre a miglioramenti della funzionalità polmonare e dei sintomi, un marcato incremento della tolleranza all’esercizio fisico, e una riduzione significativa delle riacutizzazioni. Inoltre, i regimi posologici in monosomministrazione, estremamente semplificati, offrono ai pazienti una maggiore praticità di impiego rispetto ai regimi che richiedono più, e più frequenti, somministrazioni. Attualmente in Italia sono disponibili due combinazioni differenti di LABA/LAMA: indacaterolo/glicopirronio e vilanterolo/ umeclidinio bromuro. La co-formulazione indacaterolo/glicopirronio è disponibile da circa 1 anno. Indacaterolo promuove la brondilatazione diretta mediata dai recettori beta2-adrenergici e glicopirronio inibisce la broncocostrizione mediata dall’acetilcolina. I numerosi trial clinici condotti documentano l’efficacia derivante dalla combinazione indacaterolo/glicopirronio attraverso un’unica somministrazione, erogata da un dispositivo inalatorio a polvere secca, denominato “Breezhaler”. L’erogatore è caratterizzato da una bassa resistenza al flusso aereo che consente quindi l’attivazione del device con uno sforzo respiratorio di lieve entità. Questo è importante specialmente perché Breezhaler può essere impiegato anche da pazienti affetti da forme più gravi di malattia, che ovviamente comprendono i principali candidati alla duplice terapia di broncodilatazione. Sul fronte della soddisfazione da parte dei pazienti, ha sottolineato il prof. Andrea Rossi, di Verona, le notizie sono ottime. “Infatti i pazienti in trattamento descrivono un miglioramento della sintomatologia, della funzione respi-


o ic d e M il r e p iĂš p in to n e m Un stru Il supplemento te, di Medico e Pazien destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo

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CO N GRE SSI ratoria e della qualità di vita globale, con l’allontanamento nel tempo delle riacutizzazioni. Significativo è soprattutto l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico, una delle migliori terapie per la BPCO”. L’altra combinazione precostituita, di più recente introduzione è rappresentata da umeclidinio/vilanterolo (UMEC/VI 62,5/25mcg, somministrata con un inalatore di polvere secca ElliptaTM DPI; vedi rubrica Farminforma), e si sta rivelando anch’essa un’opzione promettente. L’efficacia della co-formulazione si conferma sia in studi controllati verso placebo che verso tiotropio. In quest’ultimo caso per esempio UMEC/VI ha migliorato in maniera clinicamente rilevante e statisticamente significativa il trough FEV1 rispetto a tiotropio; effetti positivi sono stati riscontrati anche in altri parametri considerati importanti per i pazienti, tra cui l’uso di farmaci al bisogno e la qualità di vita.

L’importanza della scelta degli inalatori Nel trattamento dell’asma e della BPCO, l’errato utilizzo dell’inalatore e gli errori nella tecnica di inalazione possono causare un sottodosaggio dei farmaci con conseguente scarso controllo della malattia e peggioramento della qualità di vita. Uno studio pubblicato nel 2014 su Respiratory Medicine (Arora P et al.) ha evidenziato che in un campione complessivo di 300 pazienti adulti affetti da asma o BPCO che utilizzavano inalatori (DPI, MDI, MDI con distanziatore, nebulizzatore) oltre l’80 per cento commetteva almeno un errore nella tecnica di utilizzo dell’inalatore. La percentuale di errori era più alta nei soggetti che utilizzavano un device da più tempo, e tale aumento sembra essere dovuto a un eccesso di fiducia dei pazienti verso l’uso dei dispositivi. Gli Autori del lavoro sottolineano che il punto centrale per migliorare l’impiego degli inalatori è l’informazione al paziente sul corretto funzionamento dei dispositivi. Anche la scelta del dispositivo è cruciale. Un lavoro del 2008 pubblicato sempre su Respiratory Medicine (Virchow JC et

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al.) puntualizza come questo aspetto sia poco considerato nelle linee guida per asma e BPCO. Gli inalatori spray predosati (pMDI) sono quelli prescritti con maggiore frequenza, ma molti pazienti non li usano correttamente, anche dopo ripetuti addestramenti. Inoltre, la tecnica corretta pur appresa in modo appropriato, può essere persa nel tempo. Nel corso degli anni sono state introdotte molte innovazioni nei pMDI al fine di migliorare la deposizione polmonare del farmaco; tuttora però sembrano essere più facili da usare i DPI. Anche questi ultimi hanno però dei limiti, come per esempio la dipendenza del diametro delle particelle di farmaco dalle velocità di flusso inspiratorio e la perdita della dose erogata nel caso il paziente espiri prima attraverso il device. In particolare, la maggior parte delle particelle emesse ha un diametro compreso tra 1 e 6 µm, compatibile con la deposizione polmonare. Se però il paziente inala lentamente all’inizio e poi aumenta gradualmente la potenza dell’inalazione, la dimensione delle parti-

celle erogate aumenta, e diventa incompatibile con il raggiungimento delle piccole vie aeree, per cui le particelle si fermano a livello della bocca e dell’orofaringe. Come scegliere dunque l’inalatore appropriato? Il device prima di tutto dovrebbe essere facile da usare, con meccanismi semplici di attivazione dell’erogazione, e deve assicurare una percentuale elevata di deposizione del farmaco a livello polmonare. La ricerca in questi anni si sta concentrando sullo sviluppo di device sempre più vicini a quelli “ideali”, proprio per venire incontro alle problematiche riscontrate dai pazienti e dai medici nell’utilizzo degli inalatori. È un campo in continua evoluzione, e i risultati positivi non mancano. Naturalmente il paziente deve essere sempre istruito, e non solo all’inizio della terapia; va pianificato un addestramento all’uso dell’inalatore anche nel corso del trattamento. Così infatti è possibile evitare gli errori commessi dai soggetti che da più tempo usano un inalatore. Infine anche le preferenze del paziente non sono da trascurare.

Meeting annuale ASH, 5-8 dicembre - Orlando (Florida, USA)

Progressi nella terapia della leucemia linfoblastica acuta e della leucemia linfatica cronica

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a leucemia linfoblastica acuta è una patologia oncoematologica, rara e a rapida progressione. Negli adulti con forma recidivante o refrattaria la sopravvivenza globale mediana è di pochi mesi (3-5 in genere). Attualmente non esiste uno standard di trattamento, oltre la chemioterapia, per i pazienti affetti da questo tumore. Circa 15-30 per cento dei pazienti con leucemia linfoblastica acuta

sono Ph+ e questi di solito presentano scarsa risposta alla terapia standard, una remissione di breve durata e bassi tassi di sopravvivenza. Ecco perché meritano di essere segnalati i risultati ottenuti con blinatumomab, capostipite di una nuova classe di anticorpi bispecifici, denominati BiTE (bi-specific T-cell engagers) e che sono stati presentati alla 57ma edizione del Congresso annuale dell’American So-


CO N G R E S S I ciety of Hematology (ASH) che si è svolto ai primi di dicembre a Orlando in Florida. Blinatumomab (Blincyto®, Amgen) è approvato negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. In un trial di fase II multicentrico a braccio singolo (BLAST), i pazienti adulti con leucemia linfoblastica acuta da precursori delle cellule B con malattia minima residua (MRD; si considera malattia minima residua quando si è in presenza di cellule blastiche sotto i limiti di rilevazione disponibili con valutazioni standard) che hanno ricevuto blinatumomab in monoterapia hanno mostrato una sopravvivenza libera da recidiva (RFS, relapse-free survival) clinicamente significativa ovvero RFS pari a 18,9 mesi dall’inizio della somministrazione di blinatumomab. Il potenziale di questa molecola è stato dimostrato anche in popolazioni di pazienti affetti da forma recidivante o refrattaria Ph+ e anche in un sottogruppo di soggetti con leucemia linfoblastica acuta recidivante o refrattaria Ph- dopo trapianto allogenico ematopoietico di cellule staminali, che solitamente ottengono scarsi risultati con le terapie attuali. Altro argomento del meeting è la terapia della leucemia linfatica cronica (LLC), la forma di leucemia più comune negli adulti, nei Paesi occidentali. Colpisce ogni anno circa 5 persone su 100.000 e la sua prevalenza è in crescita in quanto l’aspettativa di vita è in aumento. L’età media alla diagnosi è attorno ai 65-70 anni e meno del 15 per cento dei casi viene diagnosticato prima dei 60 anni. Per l’Italia (dati AIRC 2013) le stime indicano circa 1.600 nuovi casi ogni anno tra gli uomini e 1.150 tra le donne. I dati presentati a Orlando riguardano idelalisib (Gilead Sciences), inibitore orale dell’enzima PI3K-delta, disponibile anche in Italia. Idelalisib appartiene a una nuova classe di farmaci che sta cambiando l’approccio al trattamento di questa grave malattia: si tratta delle cosiddette “piccole molecole” che, a differenza dei chemioterapici, non hanno come fine ultimo la distruzione del DNA, ma vanno ad agire selettivamente sui segnali, privi di regolazione, che arrivano a livello delle cellule

malate determinando una proliferazione incontrollata. Nel trattamento della LLC la sola chemioterapia produce risultati inferiori rispetto all’associazione con idelalisib: questo in sintesi è ciò che emerge dai dati di un nuovo studio clinico di fase III che, appunto, ha confrontato i risultati della chemioterapia con quelli ottenuti con un trattamento a base di idelalisib + chemioterapia. Lo studio internazionale ha coinvolto 416 pazienti in tutto il mondo e ha visto l’Ematologia dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano al primo posto come maggiore centro di arruolamento in Italia. “È stato condotto su malati già precedentemente trattati – ha spiegato Marco Montillo, del Niguarda e coordinatore della Commissione leucemia linfatica cronica della Rete Ematologica Lombarda – e ha messo in evidenza la netta superiorità del trattamento che includeva idelalisib rispetto alla chemioterapia da sola. Anche i pazienti con particolari mutazioni genetiche sfavorevoli sotto il profilo prognostico, hanno beneficiato di questo trattamento”. L’azione di idelalisib è mirata perché va a bloccare principalmente le cellule neoplastiche, esercitando solo una modesta interferenza con quelle sane, a tutto vantaggio della qualità della vita dei pazienti. Al contrario di quanto accade con la chemioterapia, che può portare a effetti secondari non trascurabili, soprattutto nei pazienti anziani che non la tollerano bene. “Negli ultimi anni – ha spiegato Montillo – sono stati registrati importanti progressi nel trattamento della LLC. Se solo fino a pochi mesi fa stavamo commentando i sorprendenti risultati raggiunti dalla chemioterapia associata all’utilizzo degli anticorpi monoclonali che attaccano la cellula tumorale e la portano alla morte, scatenando una sorta di ‘tempesta immunologica’, oggi possiamo contare su questa nuova classe di farmaci che sta davvero cambiando l’approccio terapeutico, oltre a rappresentare un ulteriore passo avanti per il futuro della ricerca in questo campo e che mira a raggiungere il controllo della malattia e, in un tempo non lontano, anche la guarigione”. Segnaliamo infine uno studio italiano, co-

ordinato dall’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (TIGET) che riguarda una rarissima malattia ereditaria recessiva legata al cromosoma X, la sindrome di Wiskott-Aldrich, causata da mutazioni nel gene che codifica per la proteina WAS (WASP), coinvolta nella regolazione del citoscheletro. La malattia, che colpisce soprattutto i maschi, porta a immunodeficienza, microtrombocitopenia e anomalie dei leucociti. Inoltre, i pazienti sviluppano gravi eczemi e altre malattie infiammatorie, e sono a maggior rischio di malattie autoimmuni, tra cui l’artrite reumatoide, e di tumori maligni. In questo studio (Ferrua F et al.) i pazienti sono stati sottoposti a infusioni di cellule staminali autologhe modificate con un vettore lentivirale, in modo da ripristinare un’espressione normale del gene WAS. Sei bambini su otto sottoposti a questo trattamento hanno mostrato una riduzione delle infezioni gravi, un minor numero di ricoveri, parametri ematologici migliori e risposte immunitarie più robuste rispetto a prima dell’infusione. “Fornire un’opzione terapeutica per questi pazienti risponde a un bisogno medico non soddisfatto” ha spiegato Francesca Ferrua, una delle autrici del lavoro. “I nostri risultati influenzeranno la ricerca futura, in quanto hanno fornito un’evidenza che la terapia genica con cellule staminali lentivirale può essere correttiva per le malattie ereditarie. Naturalmente ogni malattia è diversa da un’altra e ha bisogno di uno sviluppo preclinico specifico, ma potrebbero esserci altre malattie in grado di beneficiare di quest’approccio. Ogni malattia che si può curare con questo approccio rappresenta una pietra miliare sulla cui base di possono ottenere nuove conoscenze”.

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gsk

Per la BPCO disponibile un nuovo doppio broncodilatatore

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atologia invalidante, di dimensioni ragguardevoli, ma molto spesso sottodiagnosticata e non adeguatamente trattata. Questo è il ritratto della BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), il cui sintomo di maggiore impatto è la dispnea. Lo conferma uno studio su 2.441 pazienti affetti da BPCO condotto in 17 Paesi europei, che mostra come questo sia il disturbo chiave e quello ritenuto di maggior impatto sulla qualità di vita per il 72,5 per cento. In una survey che ha coinvolto circa 4.000 malati in 13 Paesi, è emerso con forza che il primo obiettivo a cui mira chi soffre di BPCO è di minimizzare i sintomi, ancor prima dell’aspirazione a tornare a svolgere le normali attività. In Italia se lo augurano ben 6 pazienti su 10. Se ne è parlato in occasione di un incontro per la stampa medico-scientifica che si è tenuto a Milano lo scorso 27 ottobre. Il problema vero – secondo gli esperti - è che per il medico, specialista o no, il paziente è un fantasma. In questi anni è stato però possibile tracciarne un identikit: circa 60 anni, 15 sigarette al giorno negli ultimi 30 anni, cammina più piano dei suoi coetanei o addirittura si deve fermare quando tiene il passo abituale in pianura; è costretto a interrompere il lavoro che sta svolgendo prima di quanto pianificato e deve rinunciare a qualsiasi attività ricreativa anche poco dispendiosa come il giardinaggio. Fondamentale, per trovare una risposta a questa domanda di salute, è quindi riconoscere per tempo la patologia. Tuttora però, quando la persona viene presa in carico ha già perso il 50 per cento della sua funzionalità polmonare. Al ritardo di diagnosi si aggiunge poi la scarsa aderenza alle cure prescritte. Le terapie vengono assunte regolarmente solo dalla metà dei pazienti circa e per non più di 3 mesi all’anno. La situazione peggiora negli over 65: 6 su 10 non assumono correttamente le terapie e addirittura in questa popolazione il trattamento viene seguito mediamente solo per 60 giorni l’anno. La conseguenza inevitabile è un progressivo aumento della disabilità nel corso del tempo: la dispnea costringe il paziente a una vita sedentaria, e si innesta un circolo vizioso che si traduce in mancanza assoluta di esercizio fisico, aumento di peso, che aggrava ulteriormente la situazione. Come affrontare dunque questa gravosa situazione? La diagnosi precoce e l’aderenza alle terapie sono il caposaldo nell’approccio alla malattia. Sul fronte della terapia le novità non mancano. In occasione dell’incontro è stato presentato un nuovo doppio broncodilatatore, da assumere una volta al giorno, attivo per 24 ore. Il farmaco è un’associazione tra un antimuscarinico (umeclidinio), che risulta più attivo nelle vie aeree alte e un

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beta-agonista (vilanterolo) specifico per le vie aree profonde. Gli studi clinici registrativi hanno dimostrato che l’associazione migliora la funzionalità polmonare favorendo un efficace controllo della dispnea, con un profilo di sicurezza simile a quello di altri farmaci con lo stesso meccanismo d’azione e al placebo; riduce la necessità di ricorrere a farmaci sintomatici durante la giornata rispetto a un solo broncodilatatore. L’associazione umeclidinio-vilanterolo ha un impatto positivo sulla qualità di vita del paziente migliorando del 21 per cento la tolleranza all’esercizio rispetto alla valutazione prima della cura. Va infine ricordata la semplicità di assunzione della nuova terapia: oltre alla monosomministrazione, l’inalatore è di facile impiego il che permette di ottimizzare l’aderenza alla terapia.

DMG

La batterioterapia per prevenire l’otite media acuta

L’

otite media acuta è un’evenienza molto frequente tra i pazienti pediatrici. Spesso per combattere questa infezione si ricorre all’antibiotico, anche quando non strettamente necessario. Secondo le linee guida andrebbero trattati con antibiotici i bambini di età inferiore ai 2 anni con una forma bilaterale di otite media acuta e tutti quelli che, indipendentemente dall’età, presentano una forma clinicamente rilevante, con complicanze o che abbiano sofferto in precedenza di ripetuti episodi. Per tutti gli altri è consigliata invece, la vigile attesa e il trattamento antibiotico solo se, superate le 48-72 ore dall’esordio, le manifestazioni cliniche non sono scomparse o, almeno, si sono notevolmente ridotte. Prevenire l’otite media acuta e il rischio di recidive è oggi possibile anche attraverso l’uso topico di un probiotico. È disponibile il primo dispositivo medico a base di Streptococcus salivarius 24SMBc e Streptococcus oralis 89a che si somministra direttamente nel naso attraverso uno spray ed è in grado di creare un effetto di bio-barriera per gli agenti patogeni, contrastarne la replicazione e ripristinare la normale flora batterica. La normale flora nasofaringea, grazie alla sua capacità di inibire la crescita di patogeni, svolge un ruolo importante nella protezione dalle infezioni delle alte vie respiratorie, tra cui la più frequente è senz’altro l’otite media acuta.


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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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novartis

Orticaria cronica spontanea arriva in Italia omalizumab

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rurito cronico e pomfi che insorgono spontaneamente e in modo imprevedibile, e che durano oltre le sei settimane: sono questi i sintomi dell’orticaria cronica spontanea, una patologia debilitante con un forte impatto sulla qualità della vita e sulla stabilità psichica dei pazienti, che spesso faticano a trovare una cura efficace. Per tutti i soggetti che non rispondono alla terapia a base di antistaminici, dall’agosto scorso è disponibile anche in Italia omalizumab, anticorpo monoclonale sviluppato da Novartis, che ha dato risultati molto incoraggianti nei trial clinici. “Il meccanismo patogenetico dell’orticaria è legato alla liberazione da parte dei mastociti della pelle di un gran numero di mediatori d’infiammazione tra cui il principale, anche se non l’unico, è l’istamina”, ha spiegato Massimo Triggiani, dell’Università di Salerno, in occasione della Giornata mondiale dell’orticaria celebrata il primo ottobre scorso. “Per questo la terapia classica che si prescrive nei casi di orticaria è a base di antistaminici H1: l’intervento terapeutico è quindi diretto a bloccare gli effetti della molecola che è stata già prodotta, limitandone l’impatto sui tessuti inibendone le reazioni orticarioidi. Il problema è che una quota

di pazienti che si avvicina al 40 per cento non risponde alla terapia antistaminica, o perché nella reazione sono coinvolte anche altre molecole che non vengono antagonizzate dagli antistaminici, o perché i mastociti si attivano in modo più intenso del normale, liberando una grande quantità d’istamina, che non viene bloccata adeguatamente”. Nei pazienti non responsivi si tentano altre possibili terapie, per esempio con antistaminici diretti contro i recettori di tipo H2. Ma si tratta di una terapia di seconda linea su cui non vi è un orientamento comune, e ogni specialista dermatologo o allergologo si basa sull’esperienza personale: ciò porta spesso i pazienti a girare diversi ambulatori, perdendo fiducia su una possibile risoluzione positiva della malattia. “Bisogna poi ricordare che il cortisone, efficace in molti pazienti, non può essere utilizzato per periodi prolungati, e che alcuni soggetti sono resistenti anche a questo trattamento: in sintesi, c’è una grande necessità di avere terapie efficaci”, ha continuato Triggiani. “Omalizumab, approvato nell’agosto di quest’anno, è un anticocorpo monoclonale che intercetta le immunoglobuline E (IgE), intervenendo quindi molto più a monte della cascata infiammatoria: le IgE

vengono eliminate dal flusso sanguigno e quelle legate alla superficie delle cellule si staccano; inoltre, i mastociti entrano in uno stato di attivazione più basso e si riduce quindi la loro capacità di rispondere agli stimoli”. L’efficacia e la sicurezza di omalizumab, per cui è previsto un ciclo di sei somministrazioni a intervalli di quattro settimane, sono state testate nell’ambito di tre studi clinici, ASTERIA I, ASTERIA II e GLACIAL, che hanno coinvolto circa 1.000 pazienti che non rispondevano agli antistaminici. L’efficacia è immediata e si mantiene a lungo, con un rapido sollievo del prurito, e un miglioramento significativo dei pomfi, fino alla risoluzione completa dei sintomi, in molti casi. Inoltre, non sono state registrate reazioni severe, confermando i dati di sicurezza positivi già emersi nel trattamento dei pazienti asmatici. Oltre a commercializzare omalizumab, Novartis ha anche reso disponibile gratuitamente l’App Orticaria, che permette al paziente di tenere un diario dei sintomi e della qualità della vita, e ha avviato il Progetto Centri Orticaria Cronica Spontanea, che si propone la compilazione di una lista completa dei centri esperti nel trattamento di questa patologia presenti sul territorio italiano.

Medtronic

Un convegno dedicato alla sostenibilità in chirurgia

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a garanzia di accesso a tutti i pazienti alle migliori cure disponibili è una sfida per il SSN, e questo investe anche la chirurgia. Dispositivi innovativi e procedure chirurgiche evolute hanno portato benefici rilevanti per i pazienti, consentendo un miglioramento sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e della qualità del trattamento; tuttavia hanno aperto il problema della sostenibilità economica. A questi temi è stato dedicato il convegno “Slow Surgery. Qualità e sostenibilità in chirurgia” che si è svolto ai primi di novembre a Milano.

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L’incontro che è stato promosso da Medtronic in collaborazione con il prof. Giovanni Battista Doglietto, del Policlinico Agostino Gemelli di Roma e il prof. Pierluigi Marini, dell’AO San Camillo Forlanini di Roma, ha visto la partecipazione di numerosi specialisti del settore, ma anche di economisti, manager sanitari, associazioni di pazienti, ed è stato un momento per mettere in luce le dimensioni del problema e delineare le prospettive future attraverso un confronto costruttivo tra “tecnici” e istituzioni.


Sanofi-Cittadinanzattiva

Ipercolesterolemia familiare un’indagine ne rivela le criticità

I

l 26 novembre sono stati presentati a Roma risultati di un’indagine condotta da Cittadinanzattiva, realizzata con il contributo di Sanofi sull’ipercolesterolemia familiare in Italia. Scarsa informazione, mancata diagnosi, cure inaccessibili: sono questi in estrema sintesi i dati emersi. La patologia colpisce 250mila italiani, quindi non si tratta di una patologia rara, ma si stima che abbia ricevuto una diagnosi corretta solo l’1 per cento della popolazione che ne è affetta, mentre in Olanda si arriva al 71 per cento. L’indagine è stata condotta attraverso questionari rivolti ai cittadini (1.317). Tra gli intervistati, in prevalenza donne giovani, il 37 per cento soffre di ipercolesterolemia e oltre il 27 per cento è affetto dalla forma familiare. Poco meno della metà (45 per cento) riconosce l’ipercolesterolemia familiare come elevati livelli di colesterolo nel sangue, ma solo poco più di un terzo sa che è di origine genetica. Più di un cittadino su dieci dichiara di aver avuto il primo sospetto della patologia

in maniera quasi autonoma, il 29,4 per cento ha ricevuto la diagnosi dal MMG e solo l’1,5 per cento in età infantile grazie al pediatra di famiglia. Il 23 per cento di chi ha ricevuto una diagnosi resta però senza un trattamento. Fra chi l’ha ricevuto, nell’83 per cento dei casi si tratta di una terapia farmacologica. Altra nota dolente è la prevenzione. Cambiare lo stile di vita non è facile, e sembra che la prevenzione sia lasciata alla “buona volontà” del singolo e non incentivata né sotto il profilo formativo e informativo, né sotto il profilo economico, né tantomeno quello psicologico. Molte le criticità individuate dall’indagine dunque, per le quali sono necessarie azioni concrete; tra quelle proposte da Cittadinanzattiva, vi è al primo posto la promozione di attività di informazione e formazione rivolte ai medici e alla popolazione generale che possano aiutare a diffondere la prevenzione, la conoscenza sulla patologia e accelerarne in questo modo il percorso diagnostico e terapeutico.

Dompé

Patologie della cornea dal “biotech” nuove prospettive di terapia

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a cheratite neurotrofica è una patologia rara degenerativa dell’occhio, caratterizzata da un danno progressivo della cornea, che può determinare la sua perforazione con conseguente perdita della vista; nelle forme gravi colpisce meno di una persona su 5mila nel mondo. È una patologia ancora priva di cura, anche se qualche speranza viene dalla ricerca biotech. Se ne è parlato in occasione del 95mo Congresso nazionale della Società oftalmologica italiana che si è tenuto a Roma alla fine dello scorso novembre. Un simposio promosso da Dompé dal titolo “Ocular surface disease: dalla fisiopatologia ai nuovi approcci” ha fatto il punto sullo stato attuale e futuro della ricerca in questo campo. Grazie alle biotecnologie sono in studio i meccanismi d’azione di nuove potenziali soluzioni di trattamento per le patologie oculari orfane di cura. L’impiego di approcci sviluppati con il supporto della ricerca biotecnologica potrebbe consentire in futuro non solo di affrontare quadri a oggi difficilmente risolvibili, ma anche di giungere a una “tailored-therapy” per i pazienti affetti da patologie della superficie oculare. “Con la ricerca di un collirio a base di rhNGF, ovvero della versione ricombinante della proteina individuata da Rita Levi Montalcini, si aprono importanti prospettive di sviluppo nella cheratite neurotrofica severa”, ha spiegato al simposio Paolo Rama, dell’Irccs San Raffaele di Milano. “Nei prossimi mesi sono attesi i risultati dello studio di fase I/II REPARO, primo trial internazionale per testare l’efficacia e la sicurezza di rhNGF per uso oftalmico in pazienti con cheratite neurotrofica”. Si tratta di uno studio randomizzato in doppio cieco e controllato verso placebo, condotto in 9 Paesi europei su pazienti con cheratite neurotrofica monolaterale con lesioni corneali di grado 2 (difetto epiteliale persistente) o di grado 3 (ulcera corneale) che non avevano risposto alle terapie attualmente disponibili. Il periodo di trattamento previsto è di 8 settimane con un follow up di un anno.

Shionogi

Nuova terapia orale per la secchezza vaginale

È

disponibile anche nel nostro Paese un nuovo trattamento orale non ormonale per l’atrofia vulvo-vaginale (AVV) da moderata a severa. Si tratta di ospemifene (Senshio®), un modulatore selettivo del recettore degli estrogeni, che pur non essendo un ormone agisce in modo simile, producendo effetti sovrapponibili a quelli degli estrogeni. Il trattamento è indicato per le donne in post-menopausa con AVV che non sono candidate alla terapia estrogenica vaginale locale. Il trattamento con ospemifene aiuta a migliorare sintomi quali, secchezza vaginale e conseguente dispareunia, che sono considerati i più invalidanti e con il maggiore impatto sulla vita intima delle donne.

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DOC Generici

Lo “switch” orizzontale tra generici compromette l’aderenza terapeutica

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aderenza alla terapia e la sostituzione orizzontale dei medicinali equivalenti sono inversamente proporzionali: all’aumentare dello switch da un generico a un altro della stessa molecola, infatti, l’adesione del paziente alla prescrizione terapeutica diminuisce del 28 per cento se la sostituzione interessa metà delle prescrizioni.
Questi dati sono emersi da uno studio condotto in 2 ASL lombarde (Pavia e Bergamo), di recente presentati in un incontro a Milano, promosso da Onda, in collaborazione con DOC Generici. 
Lo studio ha coinvolto oltre 14.500 pazienti e ha analizzato sei aree terapeutiche quali diabetologia, cardiologia, dislipidemia, reumatologia, psichiatria e ipertensione, con l’obiettivo di studiare gli effetti della sostituzione da

parte del farmacista di un medicinale generico con un altro equivalente in termini di aderenza e persistenza al trattamento in atto.
In tutte le aree si è riscontrato un progressivo trend di riduzione della compliance a seguito di un cambio di farmaco: in media, se una prescrizione di generico su due viene sostituita con un altro equivalente, per la dislipidemia e il diabete si registra la percentuale più alta di diminuzione dell’aderenza (rispettivamente il 48 e il 36 per cento), per l’ipertensione la più “bassa” (10 per cento). Il trend implica una minore efficacia e sicurezza dei trattamenti, con conseguente aumento del rischio di complicanze. “I farmaci bioequivalenti non presentano criticità nell’utilizzo clinico sia da parte degli specialisti che della medicina generale – ha

Premio Galeno Italia

MSD

La vita dei pazienti con MICI raccontata in un cortometraggio

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atologie diffuse che colpiscono prevalentemente i giovani nel pieno dell’attività lavorativa, ma di cui poco si parla. Sono le malattie infiammatorie croniche intestinali, note semplicemente con l’acronimo MICI. È un percorso ancora non facile quello di chi deve convivere con la colite ulcerosa e la malattia di Crohn. Oggi, però, è possibile sperare in una nuova qualità di vita e guardare con maggiore fiducia al futuro. A dirlo sono gli stessi pazienti, che in un cortometraggio diventano attori e registi per raccontare i momenti più significativi della quotidianità. Il filmato rientra nel progetto “Ora che mi ci fai pensare”, promosso da AMICI onlus, in collaborazione con IG-IBD (Italian group for the study of inflammatory bowel disease) ed EFCCA (Federazione europea delle associazioni nazionali dei pazienti), con il sostegno non condizionato di MSD Italia. Il cortometraggio è un “video-libro bianco” che fa emergere i principali aspetti delle MICI: patologie diagnosticate tardivamente e con un pesante impatto sulla qualità della vita e sulla spesa sanitaria; secondo le stime queste malattie possono determinare un costo di 10mila euro annui per paziente. Il cortometraggio realizzato con i video dei pazienti è visibile su http://amiciitalia.eu/

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sottolineato all’incontro Alberico Catapano, presidente della Società europea dell’aterosclerosi – dimostrandosi, in una ampia serie di studi, del tutto equivalenti ai cosiddetti ‘branded’ nell’efficacia clinica, misurabile nella popolazione trattata anche attraverso studi di utilizzo ‘real life’. Essi rappresentano inoltre un’opportunità per il contenimento della spesa farmaceutica, fermo restando il concetto di libertà di scelta del cittadino. Rimangono alcune barriere ‘psicologiche’ che originano dalla non completa comprensione da parte dei professionisti sanitari del concetto di bioequivalenza, in aggiunta alla non uniformità delle confezioni che, nel caso di persone anziane, può essere un problema e portare a discontinuità terapeutiche rilevanti”.

Gli antitumorali nivolumab e pembrolizumab sono i farmaci più innovativi del 2015

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o scorso 25 novembre a Milano si è svolta la cerimonia per l’attribuzione del Premio Galeno 2015. Il comitato scientifico ha conferito l’award per l’innovazione del farmaco ex aequo a Bristol Myers Squibb per Opdivo® (nivolumab) e a MSD per Keytruda® (pembrolizumab). Si tratta di due anticorpi monoclonali anti PD-1 e rappresentano la nuova frontiera nel campo dell’immunoterapia poiché bloccando il legame PD-1/PDL-1, uno dei checkpoint fondamentali per il corretto funzionamento della risposta immunitaria, permettono alle cellule del sistema immunitario di attaccare quelle tumorali. Le molecole sono indicate per il trattamento del Ca. polmonare non a piccole cellule avanzato o metastatico a istologia squamosa, e Keytruda® anche per il melanoma avanzato. Una menzione speciale è stata conferita a Holocar® (Chiesi Farmaceutici), prima terapia avanzata a base di cellule staminali che ha ricevuto l’autorizzazione condizionata all’immissione in commercio da parte dell’Ente regolatorio europeo.


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segna

libro

Un viaggio attraverso la storia della neurologia a Genova La Clinica neurologica dell’Università di Genova: la storia e il presente. È questo il titolo del libro che il prof. Gianluigi Mancardi ha scritto insieme a Leonardo Cocito e Andrea Seitun (De Ferrari Editore, euro 24,00), e ha presentato al XLVI Congresso nazionale della Società italiana di neurologia (10-13 ottobre 2015, Genova). È un volume storico che partendo dalle origini, fino ai nostri giorni, ripercorre l’evoluzione della ricerca neurologica della Clinica dell’Università di Genova. La Clinica neurologica non è un pensiero astratto, come si potrebbe pensare guardando la copertina del libro, ma una bella palazzina in stile architettonico razionalista costruita nei primi anni Trenta. La Clinica era stata fortemente voluta dall’allora direttore il prof. Enrico Morselli e dalla Provincia di Genova che all’epoca era l’Istituzione competente per la cura e la sicurezza dei malati “di mente”. La Clinica venne collocata, nonostante il maggiore e sensibile aggravio di spese, grazie all’interesse della Provincia e dell’Università, nella “città degli studi”, in prossimità degli altri Istituti Medici in San Martino, proprio per sottolineare la sua vocazione scientifica di ricerca sulle malattie del sistema nervoso e la sua funzione didattica. Nonostante ora le degenze siano state trasferite al complesso di San Martino, la Clinica rimane ancora come luogo di formazione, di didattica e di ricerca e come sede del Dipartimento di neuroscienze, riabilitazione, oftalmologia, genetica e scienze materno infantili dell’Ateneo genovese. Nella prefazione, il prof. Mancardi, attuale direttore della struttura racconta “…L’idea di scrivere un libro sulla Clinica neurologica c’era da tempo,

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ma solo più recenti avvenimenti, come la vicina scomparsa di figure storiche della Clinica, il modificarsi della situazione assistenziale e di ricerca nell’area del San Martino, l’occasione di organizzare proprio a Genova ad ottobre 2015 il Congresso nazionale della Società italiana di neurologia ed avere quindi una scadenza precisa, e infine, il timore che ‘se non si faceva ora non si sarebbe fatto mai più’, hanno determinato che tutti noi della Clinica neurologica ci siamo in questi mesi impegnati, chi più chi meno, a scrivere il libro. Si tratta della descrizione di una parte rilevante della Medicina di Genova, la Neurologia, che negli ultimi cento anni ha avuto un formidabile sviluppo, passando da una situazione iniziale, in cui non vi erano praticamente mezzi per capire se il problema clinico che si doveva affrontare era psichiatrico o neurologico, funzionale od organico, se non con la propria esperienza e una complessa semeiotica fine, per arrivare a una situazione attuale dove la diagnosi è facilitata dagli esami di laboratorio e dalle neuroimmagini, la cura è per molte malattie a disposizione o molto vicina (ma per molte malattie ancora abbastanza lontana), e la ricerca sempre più si sviluppa verso la comprensione dei meccanismi alla base delle diverse malattie…”. Il risultato è un volume di facile lettura, ricco di documentazione e splendide fotografie, con aneddoti e curiosità. Leggendo possiamo apprendere per esempio che già all’inizio del XVII secolo a Genova, le persone affette da disturbi mentali erano considerate come malate e quindi bisognose di cura. E ancora, nel 1866 veniva attivato il primo insegnamento universitario di Clinica delle Malattie mentali, e nel 1933 veniva inaugura-

ta la Clinica delle malattie nervose e mentali. Un capitolo naturalmente è dedicato a Enrico Morselli, modenese di origine, che approda a Genova a 36 anni, nel 1888, ed era già uno psichiatra affermato. Gli anni genovesi di Morselli segnano scelte importanti per la neuropsichiatria con l’apertura del manicomio di Quarto a metà degli anni ’90; il XII congresso della Società feniatrica svoltosi a Genova nel 1904 sotto la sua presidenza; l’applicazione dello stesso anno della legge Giolitti; la demolizione del manicomio di via Galata e l’apertura del manicomio-città di Cogoleto nel 1911-12. E poi ancora, il ricovero per soldati a Cogoleto durante la Grande Guerra, che vide Morselli particolarmente coinvolto a sostegno dell’impegno bellico dell’Italia. Morselli era un cultore e uno studioso di diversi aspetti dei disturbi mentali, con una forte impostazione biologica della psichiatria, come peraltro molti colleghi del suo tempo. Nei suoi anni genovesi ebbe anche un ruolo da protagonista nella vita culturale della città. Oltre a ripercorrere la storia e il passato, il volume avvicina il lettore all’attività attuale di ricerca e cura, che mantiene tuttora la stessa vivacità di un tempo.


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