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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLI n. 3 - 2015

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Ca. renale verso la diagnosi precoce con un semplice test delle urine Geriatria inquadramento clinico e terapia riabilitativa della disfagia Diarrea del viaggiatore strategie di prevenzione e di trattamento Highcare Projects in un libro le esperienze delle spedizioni in alta quota

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

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anno XLI - 2015 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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CA. RENALE verso la diagnosi precoce con un semplice test delle urine GERIATRIA inquadramento clinico e terapia riabilitativa della disfagia DIARREA DEL VIAGGIATORE strategie di prevenzione e di trattamento HIGHCARE PROJECTS in un libro le esperienze delle spedizioni in alta quota

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p 6

Redazione Anastasia Zahova

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Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

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Medico e paziente n. 3

in questo numero

sommario

letti per voi

Geriatria I disturbi della deglutizione nell’anziano Inquadramento clinico e terapia riabilitativa

Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Le cause e i sintomi della disfagia nell’anziano sono molteplici. Il disturbo si presenta per lo più con segni aspecifici che pertanto possono ritardare la diagnosi. Il trattamento è affidato a un team multispecialistico Gerardo Mele

Hanno collaborato a questo numero:

p 16 gastroenterologia

Vania Braga Carlo Catassi Elena Lionetti Gerardo Mele Walter Pasini

Malattia celiaca Epoca di introduzione del glutine nella dieta, geni HLA e allattamento materno: quale ruolo sul rischio di malattia

Lo studio italiano celiprev è stato pubblicato lo scorso autunno sul New England Journal of Medicine. In queste pagine, gli Autori del lavoro presentano i principali risultati Elena Lionetti, Carlo Catassi

p 22 Medicina dei viaggi

Diarrea del viaggiatore Strategie di prevenzione e trattamento La diarrea del viaggiatore è la più frequente patologia

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)

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sommario

associata a contaminazione degli alimenti e delle bevande che colpisce i viaggiatori. Il MMG dovrebbe fornire le indicazioni necessarie sulle norme igieniche di prevenzione e sui possibili trattamenti

Walter Pasini

p 27 segnalazioni

Terapia dell’osteoporosi Alendronato, tutti i vantaggi delle confezioni più grandi Vania Braga È disponibile sul mercato una nuova confezione di alendronato con un maggior numero di compresse: un importante contributo per migliorare le abitudini di assunzione del farmaco

p 28

Farminforma

p 31

segnalibro

Raccolte in un libro le esperienze DI Highcare projects “Highcare Projects. 11 anni di ricerca in alta quota” è il titolo del volume che racconta i progetti coordinati dal professor Gianfranco Parati

Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

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letti per voi Prevenzione CV

Negli anziani senza storia di eventi CV, il trattamento con statine e fibrati correla con una riduzione del rischio di ictus di circa il 30 per cento: i risultati di uno studio di popolazione francese £ Nei Paesi industrializzati, la maggior parte degli eventi cardio- e cerebrovascolari si registra tra gli anziani, con un’età di 70 anni o più; una fascia peraltro poco considerata negli studi sulla valutazione dell’efficacia preventiva dei farmaci CV. Le evidenze derivanti da studi randomizzati e controllati (RCT) supportano l’impiego di statine in prevenzione CV in pazienti con storia di eventi CV di età maggiore o uguale a 65 anni. Mancano tuttavia

dati certi sugli effetti di tali farmaci in prevenzione primaria. Lo stesso vale per i fibrati, l’altra classe di farmaci ipolipemizzanti maggiormente utilizzata. Le più recenti linee guida sulla gestione dell’ipercolesterolemia non raccomandano in prevenzione primaria, l’impiego di statine in soggetti di età >75 anni e senza patologie aterosclerotiche pregresse. Tuttavia la realtà si discosta da queste indicazioni, e nella pratica quotidiana tali molecole sono

ampiamente prescritte in questa classe di soggetti. Gli anziani sono una fascia fragile della popolazione per la presenza di comorbilità e di politerapia; è importante perciò valutare gli eventuali effetti protettivi di una terapia ipolipemizzante in prevenzione primaria, per evitare un sovraccarico di trattamenti e limitare gli effetti avversi. In tale contesto si colloca questo studio, condotto in soggetti che all’arruolamento avevano un’età ≥65 anni. Obiettivo dichiarato del trial era valutare l’associazione tra un trattamento con statine e fibrati e il rischio a lungo termine di coronaropatia e stroke. Il Three-City study è uno studio prospettico condotto su una popolazione costituita da abitanti di tre città della Francia, Bordeaux, Digione e Montpellier, e che ha avuto un follow up medio di 9,1 anni. La coorte era costituita da 7.484 uomini e donne

£ In questi anni si sono susseguiti diversi lavori in cui si evidenziavano benefici associati al consumo moderato e regolare di vino, in termini di rischio cardiovascolare. Nel Nei pazienti con scompenso complesso, le evidenze portano tutte nella stessa direzione, cardiaco, il consumo regolare ovvero il consumo di vino sembrerebbe avere un effetto protettivo nei confronti di eventi di natura cardiovascodi vino influisce positivamente lare. L’associazione però è poco studiata tra i pazienti sullo stato di salute generale, affetti da scompenso cardiaco. A colmare questa lacuna ha ma non sembra apportare benefici pensato il gruppo italiano del GISSI (Gruppo italiano per lo studio della sopravvivenza nell’insufficienza cardiaca), sugli outcome clinici a 4 anni: che in un ramo del GISSI-HF (heart failure) ha esaminato l’impatto del consumo regolare di vino sullo stato di salute i dati di un’analisi del GISSI-HF generale, i marker circolanti di funzionalità cardiaca e di infiammazione, e gli outcome clinici in un’ampia coorte di pazienti con scompenso, che hanno preso parte al GISSI-HF. Allo scopo è stato somministrato un questionario per la valutazione delle abitudini dietetiche e alimentari a 6.973 soggetti. Per valutare l’eventuale associazione tra consumo di vino, eventi cardiovascolari fatali e non, qualità della vita, sintomi di depressione, e marcatori circolanti della funzionalità cardiaca e dell’infiammazione sono stati usati modelli di regressione semplici e aggiustati per variabili multiple. Circa il 56 per cento dei pazienti aveva annotato un consumo giornaliero di almeno un bicchiere di vino. Dopo aggiustamento per variabili confondenti, è stato osservato che non vi erano differenze significative per quel che riguarda gli outcome clinici nei 4 gruppi predefiniti di pazienti in base all’assunzione di vino. Tuttavia i soggetti che bevevano di più avevano una percezione migliore del proprio stato di salute (misurato sulla base del Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire score, P aggiustato <0,0001) e riportavano meno sintomi depressivi (Geriatric Depression Scale, P aggiustato =0,01); inoltre nei pazienti che consumavano più vino, si riscontravano livelli plasmatici più bassi dei marcatori dell’infiammazione vascolare. Tali evidenze sono state confermate anche dopo aggiustamento per possibili fattori confondenti. In pratica, sottolineano gli Autori, per la prima volta questo studio dimostra in un’ampia popolazione con scompenso cardiaco che il consumo di alcol migliora lo stato di benessere dei pazienti, incidendo positivamente sia sui marker dell’infiammazione vascolare sia sui sintomi depressivi. Tuttavia questi esiti favorevoli non si traducono in benefici dal punto di vista degli outcome clinici valutati a 4 anni.

epidemiologia

Cosmi F, Di Giulio P, Masson S et al. on behalf of the GISSI-HF investigators. Circul Heart Failure 2015; 8: 428-37

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(63 per cento), che al termine del periodo di osservazione avevano un’età media di 73,9 anni. I partecipanti non avevano una storia nota di eventi vascolari all’ingresso. I valori di rischio sono stati calcolati come hazard ratio per coronaropatie e ictus nei soggetti che al basale facevano uso di farmaci ipolipemizzanti rispetto a quelli che non ne assumevano. I valori sono stati calcolati per qualsiasi agente utilizzato, ma anche per le statine e per i fibrati separatamente. Ed ecco i risultati. Nei soggetti che assumevano una terapia ipolipemizzante il rischio di stroke era significativamente più basso rispetto ai non utilizzatori (HR 0,66 CI 95 per cento 0,49-0,90); la riduzione del rischio associata all’uso di statine (HR 0,68) e di fibrati (0.66) era sovrapponibile, dimostrando dunque un’efficacia simile delle due classi di farmaci. Nessuna correlazione invece è stata osservata tra la terapia ipolipemizzante e il rischio di eventi coronarici (HR 1,12, 0,90-1,40). Tali osservazioni sono state confermate anche dopo aggiustamento per età, sesso, BMI, livelli di trigliceridi, ipertensione e pressione sistolica. In conclusione, in una popolazione anziana senza anamnesi di eventi vascolari, la terapia di lunga durata con statine o fibrati indistintamente, mostra effetti protettivi soprattutto nei confronti dell’ictus, comportando una riduzione del rischio dell’ordine del 30 per cento. Nonostante la limitazione legata alla partecipazione volontaria allo studio, i soggetti che hanno preso parte al Three-City study sono ben rappresentativi della popolazione generale degli anziani, rispetto ai soggetti “scelti” per essere arruolati negli RCT. I risultati ottenuti quindi rispecchiano la “real life”. Se queste conclusioni venissero confermate in studi osservazionali, sottolineano gli Autori, un trattamento ipolipemizzante dovrebbe essere preso in considerazione per la prevenzione primaria dell’ictus. Alpérovitch A, Kurth T, Bertrand M et al. BMJ 2015; 350: h2335; doi: 10.1136/ bmj.h2335

Oncologia

Carcinoma renale: la diagnosi precoce potrebbe essere vicina, grazie a un semplice e non invasivo test delle urine £

Il tumore del rene è un “killer” silenzioso. I sintomi caratteristici della neoplasia (ematuria, dolore addominale e stanchezza) si manifestano infatti quando la patologia si trova in una fase metastatica. Nella maggioranza dei casi, la diagnosi di Ca. renale viene fatta per caso, in occasione di esami radiologici di routine, quali per esempio la TAC addominale o la RM. L’utilizzo di queste metodiche in ambito di screening tuttavia è gravato dai costi, elevati, e anche dal fatto che spesso la TAC non riesce a distinguere la natura (benigna o maligna) della massa, qualora presente. Avere a disposizione una metodica di facile utilizzo, costo-efficace e poco invasiva potrebbe rappresentare una svolta nella diagnosi e nella cura di questo tumore, che seppure non molto frequente ha una prognosi infausta. Nel caso di una diagnosi precoce, circa l’80 per cento dei pazienti potrebbe sopravvivere, mentre le previsioni sono molto meno ottimiste nei casi di individuazione tardiva, in cui assistiamo al decesso della maggior parte dei pazienti entro 5 anni. Merita una segnalazione questo studio statunitense, in cui i ricercatori della Washington University School of Medicine di Saint Louis, hanno valutato specificità, sensibilità ed eventuale utilità clinica di un test delle urine, quale metodica di screening precoce per il Ca. renale. L’esame si basa sul dosaggio di due proteine, aquaporina-1 (AQP1) e perlipina-2 (PLIN2), che si sono rivelate biomarcatori molto precisi nel rilevare la presenza di tumore in fase iniziale, con una sensibilità del 95 per cento e una specificità del 98 per cento. Sono stati analizzati i campioni di urine di 720 pazienti del Barnes-Jewish Hospital, che dovevano essere sottoposti a una TAC addome per ragioni indipendenti dal sospetto di un tumore del rene. Come controllo, sono stati utilizzati i campioni di urine di 19 pazienti con diagnosi confermata di tumore renale, e 80 pazienti sani. I livelli di AQP1 e PLIN2 sono stati dosati nei campioni di urine, attraverso Western blot e saggio immunoenzimatico. Ebbene, i livelli dei due marcatori sono risultati elevati solo nei soggetti con diagnosi certa di tumore. Tra i 720 soggetti sottoposti a TAC addominale, tre hanno presentato elevati livelli di queste proteine urinarie; in due di loro è stata successivamente posta diagnosi di tumore renale, mentre il terzo è deceduto per altre cause, prima che potesse essere confermata o meno questa diagnosi. Un punto di forza di questo test è che le due proteine non mostrano elevati livelli in caso di altre neoplasie e consentono di escludere anche chi non è affetto da Ca. renale. Ricordiamo infatti che non tutte le masse localizzate nel rene e rilevate dalla TAC siano necessariamente forme neoplastiche. E dunque in questo test si intravede la potenzialità di evitare inutili nefrectomie. Seppure molto promettenti, si tratta comunque di risultati preliminari, e il prossimo passo dovrà consistere nella messa a punto eventualmente di un test di screening urinario applicabile su ampia scala, e nella successiva valutazione del profilo di costo-efficacia che una tale metodica di screening potrebbe comportare.

Morrissey JJ, Mellnick VM, Siegel MJ et al. Jama Oncol 2015; 1(2): 204-12

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geriatria

I disturbi della deglutizione nell’anziano Inquadramento clinico e terapia riabilitativa Le cause e i sintomi della disfagia nell’anziano sono molteplici. Il disturbo si presenta per lo più con segni aspecifici che pertanto possono ritardare la diagnosi. Il trattamento è affidato a un team multispecialistico

L

a disfagia, difficoltà nel deglutire, è un sintomo frequente nelle degenze ospedaliere e ancora di più nelle riabilitazioni e nelle lungodegenze; è comune soprattutto negli anziani, per i quali è stato coniato il termine di presbifagia, proprio a indicare un disturbo legato in prevalenza a un deterioramento fisiologico senile. La disfagia si può presentare con diversa gravità; alcuni pazienti possono avvertire un leggero disagio, mentre altri sono del tutto incapaci di deglutire. Questa difficoltà può avere origine molto diversa e provenire da una qualsiasi alterazione che coinvolga gli organi, centrali o periferici, che intervengono nel processo deglutitorio; ossia tutti i tessuti strutturali e/o funzionali che si susseguono dalla bocca allo stomaco e quindi vi può essere un cattivo funzionamento della bocca, della lingua, del palato, della faringe, degli sfin-

teri esofagei superiore o inferiore ecc. o alterazioni che colpiscono le aree nervose e i nuclei cerebrali che sottendono alle funzioni degli organi prima menzionati. La deglutizione, ossia il passaggio di alimenti solidi, liquidi, misti o di saliva e muco dalla bocca allo stomaco (Schindler 2011), è un atto molto complicato, che vede il coinvolgimento di diverse aree motorie cerebrali, 5 nervi cranici e 25 muscoli diversi che, in modo estremamente coordinato e armonico, consentono agli alimenti introdotti nella cavità orale di raggiungere lo stomaco, sede dei processi digestivi. L’atto deglutitorio che si realizza per oltre un migliaio di volte al giorno, permette anche il drenaggio della saliva prodotta dalle ghiandole salivari, e del muco che tappezza la mucosa della cavità orale; funzione importante per il mantenimento dell’omeostasi locale e di un efficace processo di masticazione.

A cura di Gerardo Mele

Il meccanismo della deglutizione

Divisione di Riabilitazione Neuromotoria, Fondazione Europea Ricerca Biomedica FERB-Onlus; Ospedale Uboldo, Cernusco sul Naviglio, Milano

Il meccanismo di deglutizione può essere diviso in termini semplici in tre fasi principali: la fase orale, la fase faringea e la fase

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esofagea (Figura 1), che si articolano tra loro in modo armonico e coordinato. La fase orale è divisa in una prima fase pre-orale, volontaria, durante la quale gli alimenti vengono portati alla bocca; le labbra e le mascelle si chiudono per evitarne la fuoriuscita. In questo primo momento gli altri organi sensoriali, vista, olfatto, tatto e gusto stimolano la produzione di secreto salivare facilitando l’inizio del processo masticatorio. Nella fase orale propriamente detta, seconda fase del primo momento deglutitorio, anch’essa volontaria, il cibo viene frantumato, masticato e mescolato continuamente con la saliva formando il così detto “bolo” che per i movimenti sincroni della lingua e della muscolatura della guancia viene spinto verso il palato e la parete posteriore della bocca, in prossimità dell’istmo delle fauci, area anatomica delimitata in alto dal palato molle, che termina con un’appendice, l’ugola; ai lati dai pilastri palatini e in basso dalla radice della lingua. La presenza del bolo alimentare in prossimità dell’istmo delle fauci determina l’innesco della fase faringea, fase involontaria della deglutizione, che inizia, come detto, quando il bolo supera gli archi palatini per passare in faringe. Questa è la fase più delicata del processo di deglutizione poiché questa è la zona dove le vie digestive incrociano le vie respiratorie (carrefour aero-digestivo, Figura 2). In questa fase rapida, la contrazione della muscolatura della faringe (muscoli costrittori) spinge il bolo verso lo sfintere esogafeo superiore (SES) che si rilascia favorendone il transito; la contrazione del muscolo velofaringeo, che occlude il rinofaringe, impedisce che il bolo, riesca attraverso le cavità nasali.


Figura 1

Figura 2

Rappresentazione schematica delle fasi della deglutizione

Fase orale

Fase faringea

lingua faringe laringe

Fase esofagea

Fonte: modificata da dysphagia.com

La laringe si sposta in alto e anteriormente grazie alla muscolatura sovraioidea; l’epiglottide sospinta dalla base della lingua si ribalta posteriormente a chiudere lo iato laringeo, mentre le corde vocali si adducono occludendo il piano glottico, coadiuvate dalle pliche mucose sovrastanti note come corde vocali false. Con questo complesso e integrato meccanismo il bolo viene incanalato verso l’esofago, dove ha inizio la fase esofagea, anch’essa involontaria e agevolata dalle onde peristaltiche della muscolatura dell’organo (plesso sottomucoso e plesso mioenterico) che convogliano il materiale ingerito verso lo stomaco. Tabella 1. Sintomi

Immagine endoscopica della zona anatomica dove le vie aeree incrociano le vie digestive; in primo piano il bordo anteriore dell’epiglottide e subito sotto l’imbocco della trachea, a caratteristica forma triangolare, delimitata dalle corde vocali, ai cui lati si nota il piano glottico; posteriormente la parete faringea

Sintomatologia clinica La disfagia è un sintomo che caratterizza patologie molto diverse tra loro. I dati della letteratura dimostrano che il disturbo deglutitorio è in forte ascesa nell’ambito della popolazione generale, tanto che si calcola che circa un quarto della popolazione ultracinquantenne abbia un qualche problema di deglutizione. Il disturbo si accentua con l’avanzare dell’età, tanto che nell’anziano è stato introdotto il termine di presbifagia proprio per indicare un’alterazione della deglutizione nella persona anziana sana, a seguito dei processi fisiopatologici connessi all’invec-

e segni di disfagia

• Sensazione di corpo estraneo in gola

• Anemia

• Rigurgito

• Modificazioni elettrolitiche

• Deglutizione dolorosa

• Segni di disidratazione

• Tosse

• Modifiche abitudini alimentari

• Disfonia

• Rifiuto di alimentarsi

• Febbre recidivante

• Aumento durata del pasto

• Calo di peso

• Masticazione prolungata

• Bruciore retrosternale

• Episodi di soffocamento durante i pasti

• Infezioni polmonari frequenti

• Scialorrea

• Deglutizioni ripetute

• Segni di malnutrizione

chiamento anche in assenza di una causa morbosa nota. La difficoltà a deglutire può interessare alimenti solidi, liquidi o entrambi, e la diagnosi è talora tardiva, in quanto la sintomatologia clinica può essere per lungo tempo sottovalutata. I sintomi iniziali possono essere del tutto generici e scarsamente rilevati dal paziente o dai familiari. Talora il sintomo principale è rappresentato dalla sensazione di vellicchio o di corpo estraneo in gola; qualche volta è associato a tosse, disfonia, o sensazione di “blocco” del cibo in gola. In alcuni casi si associa anche una sensazione dolorosa al momento della deglutizione (odinofagia), pirosi e/o reflusso acido (sintomi che possono far pensare a patologie gastroenteriche, tipo GERD o simili). Non raramente, la perdita di peso, di appetito o di sintomi generali di malnutrizione (anemia, variazioni elettrolitiche ecc.) costituiscono il primo segnale del disturbo deglutitorio (Tabella 1). Episodi di asfissia, soprattutto negli anziani, con o senza tosse durante il pasto, repentine modificazioni delle abitudini alimentari o il rifiuto di cibi solitamente graditi possono costituire la prima spia del disturbo disfagico. Talora la diagnosi viene posta a seguito di episodi infettivi broncopolmonari recidi-

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geriatria vanti non spiegabili altrimenti. Come si nota le manifestazioni cliniche possono essere molto diverse e talvolta vengono rilevate e raccolte tardivamente.

Figura 3

Cause Le cause di disfagia possono essere numerose. Diverse patologie d’organo, d’apparato o sistemiche possono coinvolgere la deglutizione. Si calcola che quasi il 4-5 per cento della popolazione geneVideoendoscopio portatile di ultima generale abbia un qualche problema razione con monitor e sistema di registradisfagico e che nei reparti di zione degenza per acuti, oltre il 15 per cento dei pazienti ricoverati abbia problemi di deglutizione; nei reparti La causa principale di disfagia è lo stroke riabilitativi oltre il 35 per cento dei ricovesia nella forma ischemica, sia emorragica. Si calcola che oltre il 70 per cento dei parati riferisce problematiche deglutitorie, e tale valore sale fino al 55-60 per cento nei zienti con stroke abbia problemi disfagici e pazienti ricoverati in strutture residenziali che a distanza di sei mesi dall’evento oltre e nelle lungodegenze per anziani o gravi il 20 per cento presenti ancora importanti disabili. problemi di deglutizione. Come si vede sono numeri importanti per Le lesioni più gravi e più difficili da tratl’entità, per le complicanze potenziali e per tare sono quelle che coinvolgono il tronco i costi reali. cerebrale, ove hanno sede i nuclei motori Tabella 2. Cause

di disfagia

• Patologie cerebrali acute (ischemia, emorragia, trombosi ecc.) • Patologie degenerative del SNC (malattia Parkinson, PSP, MSA) • Sclerosi laterale amiotrofica • Sclerosi multipla • Vasculopatie cerebrali involutive • Malattia di Alzheimer e demenze • Malattie reumatiche (LES, SSP, CM, polimiosite, dermatomiosite ecc.) • Malattie muscolari (distrofia miotonica, distrofia muscolare oculo-faringea) • Patologie neoplastiche del tratto orofaringolaringeo • Traumatismi cranio-facciali • Esiti d’interventi e/o radio- e chemioterapia locali • Patologie osteoarticolari degenerative (spondilosi cervicale, DISH) • Patologie della tiroide • Forme iatrogene da farmaci (fenotiazine, anticolinergici, benzodiazepine ecc.) • Polineuropatie infettive, tossiche ecc.

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implicati nel processo deglutitorio. Altra causa importante di disfagia sono le malattie neurodegenerative, e in particolare la malattia di Parkinson e i parkinsonismi (PSP, MSA e varianti ecc.) che portano a disfagia in oltre il 40 per cento dei casi. La sclerosi mutipla (SM) e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) si accompagnano frequentemente a disfagia rispettivamente nel 40-45 per cento e 70-80 per cento dei casi. Nel 25-30 per cento dei casi di SLA (esordio bulbare) la disfagia rappresenta il sintomo d’esordio della malattia; molto spesso in questi malati è necessario ricorrere alla PEG (gastrostomia endoscopica percutanea) al fine di garantire un’adeguata alimentazione e una reidratazione sufficiente. Anche le patologie cerebrovascolari involutive, le demenze e in particolare la malattia di Alzheimer (in forte ascesa) si associano al problema disfagico in oltre il 45 per cento dei casi. I traumi cranio-encefalici sono complicati da disfagia in circa il 2535 per cento dei casi. Altre cause di disfagia sono le malattie muscolari, le malattie del connettivo (LES, SSP, CM ecc.), i traumi, le lesioni neoplastiche cerebrali e le forme che coinvolgono gli organi orofaringotracheali (Tabella 2).

Diagnosi La diagnosi di disfagia è spesso tardiva in quanto i segni e i sintomi d’esordio possono essere misconosciuti per lungo tempo, soprattutto negli anziani o nelle persone che vivono in comunità residenziali e non presentano segni di patologie acute; talora la diagnosi viene posta in occasione di ricoveri ospedalieri per episodi di broncopolmonite, di disordini ematologici, e per segni di malnutrizione o disidratazione. Negli eventi patologici acuti (stroke, politraumi ecc.) la diagnosi viene spesso posta nei reparti di ricovero dei pazienti. L’identificazione precoce dei pazienti disfagici è importante ai fini del trattamento riabilitativo e della ripresa della fisiologica deglutizione. Un’anamnesi clinica attenta (patologie pregresse, attuali, anamnesi nutrizionale, anamnesi farmacologica ecc.), la valutazione della variazione del BMI e modifiche


più o meno repentine delle abitudini alimentari possono talora far pensare a disturbi del meccanismo deglutitorio e quindi a iniziare le indagini diagnostiche. In questo ambito, accanto all’anamnesi clinica dettagliata, come prima ricordato, particolare rilievo hanno i test di screening e in particolare il water swallow test, potenziato dall’uso di pulsiometro a led a dito, durante il quale si fa bere al paziente una quantità definita di acqua e si osserva la comparsa o meno di tosse, voce gorgogliante, disfonia, senso di soffocamento ecc. Il pulsiometro consente di monitorare la saturazione d’ossigeno durante la prova, conside-

Figura 4

Piano glottico con evidenza dello spazio respiratorio

Figura 5

Valutazione della motilità cordale; a sinistra corde vocali abdotte, nell’immagine a destra corde vocali ravvicinate (si noti la lieve incontinenza residua per ipomobilità della corda vocale sinistra) rando significativa una desaturazione superiore al 2 per cento rispetto a quella basale. Nel three-oz water swallow test (1: deglutizione normale, 4: disfagia grave) vengono somministrati al paziente 5 ml di acqua con un cucchiaio per tre volte, in tempi diversi, facendo ripetere la vocale “e”; in questo modo si valuta la presenza di disartria, tosse, voce roca, gorgogliante ecc. Se il paziente supera questa prima prova, si fanno bere 50 ml di acqua, dal bicchiere in una sola volta, e si fanno le relative valutazioni; se il test è negativo, il paziente non ha problemi deglutitori. La bedside swallowing assessement

Figura 6

Importante ristagno di secreto che occupa l’intero ipofaringe, con inalazione continua in grave disfagia da lesione talamica

scale consente di valutare anche l’aspetto cognitivo-motorio dei pazienti, mentre la DOSS (Dysphagia Outcome and Severity Scale) suddivisa in sette gradi (1°: nutrizione orale impossibile, 7°: nutrizione orale normale) permette di classificare la disfagia a seconda del livello di gravità. La videofluoroscopia (VFS), studio radiologico della deglutizione con mezzo di contrasto, consente di valutare l’intero l’atto deglutitorio, in tutte le sue fasi. Per effettuare l’esame è necessaria un’apparecchiatura radiografica in grado non solo di acquisire le immagini, ma anche di registrarle in qualità digitale a elevata frequenza al fine di ottenere radiogrammi qualitativamente idonei. I radiogrammi così ottenuti consentono un’analisi dettagliata delle varie fasi del processo deglutitorio. Nei reparti di medicina o di degenza in generale non sempre è semplice reperire apparecchiature di tale tipo e personale appositamente dedicato; per questo motivo si è andata sviluppando la fiberoptic endoscopic evaluation of swallowing (FEES), esame endoscopico che consente la valutazione del rinofaringe, della faringe e della laringe durante la somministrazione di alimenti di consistenza diversa. Gli attuali strumenti di videoendoscopia consentono una rapida e semplice valutazione della funzione deglutitoria anche nelle lungodegenze o nei reparti per subacuti, vista anche la possibilità di utilizzare strumenti portatili dotati di monitor e di sistemi di registrazione dell’intera prova funzionale (Figura 3). L’esame endoscopico ovviamente dovrà essere preceduto da un’anamnesi dettagliata e da uno studio della motilità e della sensibilità della lingua, delle labbra e della faccia. La fibrolaringoendoscopia consente di valutare non solo l’aspetto anatomico locale, lo spazio aereo residuo (Figura 4), la motilità delle corde vocali (Figura 5), la presenza di ristagni di secreto salivare (Figura

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geriatria Figura 7

volgimento sistemico importante, oltre ai già ricordati episodi infettivi broncopolmonari recidivanti; talora eventi acuti, quali l’asfissia da bolo alimentare, possono complicare una situazione clinica già precaria e comportare se non sono attuate manovre rapide e idonee, un rischio di vita molto alto. Di solito il trattamento della disfagia viene effettuato dal logopedista affiancato da altri operatori quali, l’infermiere professionale, il nutrizionista, la dietista, il fisiatra, l’operatore socioassistenziale ecc. La terapia quindi è svolta da un team di professionisti che di volta in L’alimento semifluido (colorato in blu) ristagna in ipofaringe e tende a precipivolta, in modo singolo o talora comtare in trachea (immagine a destra) binato, intervengono nel progetto di rieducazione del paziente con problemi di deglutizione. 6), ma soprattutto è in grado di visualizzarilevare anomalie motorie, asimmetrie e, Il logopedista visto il paziente ed effettuate manovrando lo strumento in modo idore il comportamento delle varie strutture le diverse scale valutative funzionali, attua nell’atto deglutitorio e rilevarne le difficolneo e soprattutto l’apice della sonda che il programma di recupero della funzione è mobile, si possono osservare in modo tà; in questo modo si osserva se vi sono deglutitoria tramite diverse metodiche che dettagliato aree specifiche. ritardi nell’innesco del riflesso o mancanza vanno dagli esercizi di rafforzamento della L’esame fibrolaringoscopico è poco traudi coordinazione tra le varie fasi, se vi sono muscolatura masticatoria, alle tecniche di ristagni nelle vallecule o nei seni piriformi matico e invasivo, e di solito ben accettato facilitazione della funzione e alle manovre dai pazienti, può essere ripetuto a distanza (Figura 7), se l’atto deglutitorio è intercompensatorie. Gli esercizi di rieducazione dal trattamento terapeutico al fine di varotto, frammentato, se vi sono episodi di alla deglutizione, le stimolazioni gustative, penetrazione o inalazione (Figura 8), se lutare l’evoluzione del problema deglui compensi posturali e i vari accorgimenti la sensibilità laringea è conservata, se è titorio e studiare le strategie riabilitative atti a stimolare il riflesso della deglutizione, presente tosse spontanea o indotta. più idonee. associati a consigli pratici (posizione del Tutto questo ovviamente, saggiando il capo, liquidi con addensanti o a piccoli comportamento con alimenti a consistenTrattamento sorsi lontano dai pasti ecc.) e a dieta apza varia e con l’acqua. L’esame permette anche di valutare le variazioni della degluSe non trattata, la disfagia può comportare propriata (consistenze adeguate e uniformi ovviamente problemi di malnutrizione e ecc.) completano il programma di recupero tizione con posture facilitanti o manovre di talora di grave disidratazione con coindella funzione di deglutizione. compenso, esplorare i vari spazi laringei e

Figura 8

Figura 9

L’alimento ingerito (in bianco) si deposita sul piano glottico e tende a superare le corde vocali per addentrarsi nell’albero respiratorio

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Elettrostimolazione della muscolatura sovra-sottoioidea


In questo ultimo periodo si sono aggiunti anche programmi di elettrostimolazione, specifici per la muscolatura sovra- e sottoioidea, mediante elettrodi monouso appositamente costruiti e con modalità di stimolo predeterminate (Figura 9). Esistono condizioni (forme eteroproduttive delle varie strutture del collo, traumatismi, diverticolo faringeo ecc.) in cui l’intervento chirurgico è in grado di risolvere il problema disfagico. In alcuni casi (coma, gravi ed estesi episodi tromoembolici cerebrali ischemici o emorragici) è necessario ricorrere all’alimentazione enterale parziale o totale con impianto di PEG, al fine di consentire un adeguato apporto calorico e idrico.

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Si calcola che il 4-5 per cento della popolazione generale abbia un qualche problema di disfagia. I valori salgono nei reparti di degenza per acuti, in cui il disturbo si manifesta in oltre il 15 per cento dei soggetti ospedalizzati, per arrivare a oltre il 35 nei reparti riabilitativi. Nelle lungodegenze per anziani o gravi disabili e nelle strutture residenziali, fino al 60 per cento dei pazienti riferisce problematiche deglutitorie

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Gastroenterologia

Malattia celiaca Epoca di introduzione del glutine nella dieta, geni HLA e allattamento materno: quale ruolo sul rischio di malattia Lo studio italiano celiprev è stato pubblicato lo scorso autunno sul new england journal of medicine. in queste pagine, gli autori del lavoro presentano i principali risultati

L

a malattia celiaca è una patologia sistemica immunomediata causata dall’ingestione di cereali contenenti glutine (grano, segale, orzo) in soggetti geneticamente predisposti. Si tratta di una delle malattie croniche più comuni in tutto il mondo, che colpisce circa l’1 per cento della popolazione in Europa e in NordAmerica [1].

Meccanismo eziopatogenetico Come tutte le malattie autoimmuni riconosce un’eziopatogenesi multifattoriale, risultato dell’interazione tra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali scatenanti. Il ruolo della componente genetica

A cura di Elena Lionetti,1 Carlo Catassi2,3

1. Dipartimento di Pediatria, Università di Catania, Catania 2. Dipartimento di Pediatria, Università Politecnica delle Marche, Ancona 3. The Division of Pediatric Gastroenterology and Nutrition and Center for Celiac Research, MassGeneral Hospital for Children, Boston, USA

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è dimostrato dalla ricorrenza familiare della malattia, che ha una prevalenza tra i parenti di primo grado di circa 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione generale, e dall’elevata concordanza di malattia nei gemelli monozigoti (pari circa all’80 per cento). I determinanti genetici che conferiscono la suscettibilità alla malattia non sono ancora del tutto noti. L’unico fattore genetico a oggi sicuramente coinvolto nell’eziopatogenesi della malattia celiaca è rappresentato dal locus dell’antigene leucocitario umano (HLA). Infatti, è stata dimostrata un’associazione significativa tra la malattia celiaca e i geni del sistema maggiore di istocompatibilità di classe II HLA DQ2 e DQ8. La capacità di questi alleli nel conferire suscettibilità alla malattia celiaca risiede nella loro peculiare capacità di legare aminoacidi carichi negativamente come quelli presenti nei peptidi gliadinici del glutine in seguito a deamidazione da parte della transglutaminasi tissutale. Il complesso HLA-antigene determina l’attivazione dei linfociti T, i cui prodotti di secrezione svolgono un ruolo chiave nel determinismo delle lesioni mucosali [2]. L’aplotipo HLA-DQ2 (DQA1*0501-

DQB1*0201) si esprime nella maggior parte dei pazienti celiaci (90 per cento), l’HLA DQ8 (DQA1*0301-DQB1*0302) è espresso nel 5 per cento, mentre un altro 5 per cento dei pazienti esprime solo uno dei due alleli del DQ2 (DQB1*0201). Tuttavia, sebbene questi aplotipi rappresentino una condizione necessaria, non sono sufficienti per lo sviluppo della malattia. Infatti, il 39 per cento della popolazione generale presenta i geni DQ2 e/o DQ8, ma solo il 3 per cento sviluppa la malattia celiaca. Inoltre, i gemelli monozigoti hanno una concordanza dell’80 per cento e quelli dizigoti del 10 per cento, pur presentando HLA identici. Altri geni sono pertanto coinvolti, conferendo alla celiachia le caratteristiche di una malattia poligenica [2]. Il glutine è il fattore ambientale necessario per scatenare la malattia, ma probabilmente altri fattori ambientali intervengono in una complessa interazione tra fattori genetici e ambientali che regola l’equilibrio tra tolleranza e risposta immunitaria al glutine e della quale sappiamo ancora poco. È stato ipotizzato che tra i fattori ambientali, le infezioni intestinali, la quantità e la qualità del glutine ingerito, la composizione del microbiota intestinale e le modalità di alimentazione del lattante siano possibili fattori coinvolti nel passaggio dalla tolleranza alla risposta immunitaria abnorme contro il glutine. Il ruolo dell’alimentazione della prima infanzia sullo sviluppo della malattia celiaca, e in particolare il ruolo dell’allattamento materno, dell’epoca di introduzione del glutine nella dieta del lattante e della quantità di glutine ingerito, è stato a lungo


Figura 1

Disegno dello studio *Sierologia positiva per celiachia Gruppo A (glutine a 6 mesi)

a) Anti-transglutaminasi IgA (TGA2) > 20 U.I. e anti-endomisio positivi b) Anti-gliadina (AGA) IgG in bambini con deficit di IgA c) AGA IgA e IgG in bambini <2 anni

Neonati a rischio familiare di celiachia (dal 2003-2008)

R

15 mesi

24 mesi

3, 5, 8 e 10 anni

HLA DQ2/DQ8 IgA, AGA IgA e TGA2 §

AGA IgA e TGA2 §

TGA2 §

AGA IgG in caso di deficit di IgA

§

In caso di sierologia positiva*

Gruppo B (glutine a 12 mesi)

Biopsia duodenale

“Malattia celiaca conclamata”: sierologia positiva* e Classificazione di Marsh 2 o 3 “Malattia celiaca potenziale”: sierologia positiva* e Classificazione di Marsh 0 o 1

un importante argomento di dibattito tra clinici e ricercatori, con notevole interesse negli ultimi anni di tutta la comunità scientifica.

Epoca di introduzione del glutine e rischio di malattia celiaca L’introduzione del glutine a 6 mesi di età è una pratica molto antica e nonostante sia una regola profondamente radicata in molti Paesi sviluppati, il momento ottimale di introduzione del glutine nella dieta del bambino non era mai stato rigorosamente testato. Nella pratica clinica, molti pediatri ritenevano che l’introduzione del glutine nella dieta dei bambini che hanno un rischio familiare di malattia dovesse essere ritardata per consentire la maturazione della barriera intestinale e la risposta immunitaria. Tuttavia, le indagini conseguenti a una vera e propria “epidemia” di celiachia precoce che si verificò in Svezia durante gli anni ‘80-‘90 indicavano che

l’introduzione di una piccola quantità di glutine durante l’allattamento materno tra i 4 e i 6 mesi di età riduceva il rischio di malattia; questi dati fornirono le basi della cosiddetta ipotesi della “finestra di tolleranza”, secondo cui vi sarebbe stata una finestra di tempo, tra i 4 e i 7 mesi di vita, durante la quale l’introduzione del glutine poteva facilitare l’induzione di tolleranza [3,4]. Il concetto della “finestra di tolleranza” al glutine ha in seguito guadagnato popolarità con le dichiarazioni di alcuni ricercatori statunitensi che nel 2005 riportavano che i bambini a rischio genetico per il diabete di tipo 1 esposti al glutine tra 4 e 6 mesi di età avevano un rischio ridotto di malattia celiaca rispetto a quelli esposti al glutine prima di 4 e dopo 7 mesi di età; è importante notare che il numero di pazienti che in questo studio aveva effettuato la biopsia intestinale per la conferma della diagnosi di celiachia era molto esiguo [5,6]. In seguito, uno studio tedesco aveva dimostrato che i bambini con un rischio familiare di diabete di tipo

1 la cui prima esposizione alimentare al glutine si era verificata dopo l’età di 6 mesi non avevano un aumento del rischio di autoimmunità celiaca [7]. Nel 2013 un’indagine epidemiologica norvegese effettuata su un’ampia popolazione (324 casi con celiachia e una coorte di 81.843 controlli sani), contestava tutte le precedenti osservazioni; in particolare, i risultati dello studio norvegese dimostravano che: a) l’introduzione di glutine durante l’allattamento non era protettiva; b) solo l’introduzione del glutine posticipata (>6 mesi), ma non anticipata (<4 mesi) era associata a un aumentato rischio di malattia celiaca [8]. Il principale limite dello studio norvegese era quello di aver incluso nell’analisi solo i bambini con diagnosi clinica di malattia celiaca; pertanto, qualsiasi risultato non si poteva applicare necessariamente alla popolazione complessiva celiaca (che è almeno 3 volte più grande). Un altro problema di questo e dei precedenti studi caso-controllo era la mancanza di un braccio di intervento.

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Gastroenterologia Figura 2

Curva di sopravvivenza che mostra la percentuale di bambini con diagnosi di malattia celiaca nel gruppo A (glutine a 6 mesi) e nel gruppo B (glutine a 12 mesi) dello studio CELIPREV

Percentuali di bambini con malattia celiaca conclamata

1.0

Hazard ratio at 5 yr,a0.9 (95%0.9; CI, 0.P=0.78 6–1.4) Hazard ratio 5 anni, P=0.78

0.8 0.6 0.4 0.2

Gruppo A Gruppo B

0.0 0

2

4

6

8

10

Età

Il dibattito sull’epoca di introduzione del glutine nella dieta del lattante è stato definitivamente chiarito da un recente trial, randomizzato, multicentrico di intervento nutrizionale (CELIPREV) condotto dal nostro gruppo di ricerca in Italia, su una grande coorte di famiglie a rischio genetico di malattia celiaca i cui neonati sono stati studiati prospetticamente dalla nascita per 10 anni, e i cui risultati sono stati pubblicati nel numero di ottobre 2014 della prestigiosa rivista internazionale New England Journal of Medicine [9]. I neonati che avevano un rischio familiare di malattia celiaca (cioè, i neonati che avevano almeno un parente di primo grado con malattia celiaca) sono stati reclutati in 20 Centri in Italia tra il 2003 e il 2008 grazie al supporto dell’Associazione Italiana Celiachia. I bambini sono stati assegnati in maniera casuale a uno dei due gruppi: quelli nel gruppo A sono stati assegnati all’introduzione di alimenti contenenti glutine (pasta, semola, biscotti ecc.) a 6 mesi di età, e quelli del gruppo B all’introduzione di alimenti contenenti glutine a 12 mesi di età. L’obiettivo principale era quello di paragonare la prevalenza di malattia celiaca in base all’epoca di intro-

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duzione del glutine (6 verso 12 mesi). La figura 1 mostra il disegno dello studio. A 10 anni di età, tra i bambini con rischio familiare di malattia celiaca, la prevalenza di malattia celiaca era 13,2 per cento (93 su 707 neonati inclusi nello studio); tra i bambini con genotipo HLA predisponente, la prevalenza di celiachia era 16,8 per cento (93 su 553 neonati con HLA DQ2 e/o DQ8). La figura 2 mostra il risultato principale dello studio, ovvero la percentuale di bambini che hanno sviluppato la malattia celiaca in base al gruppo di studio. A 2 anni di età, la percentuale di bambini con malattia celiaca era significativamente più alta nel gruppo A rispetto al gruppo B (12 verso 5 per cento, P =0,01). Tuttavia, questa differenza si risolveva a 5 anni e non è stata osservata a 8 o 10 anni di età (hazard ratio a 10 anni: 0,9; 95 per cento CI: 0,6-1,4; P =0,79). L’età media alla diagnosi di malattia celiaca è stata di 26 mesi nel gruppo A e 34 mesi nel gruppo B (P =0,01). Nei bambini con HLA ad alto rischio (caratterizzato da due copie dell’allele HLA-DQ2), la prevalenza di celiachia era maggiore nel gruppo A rispetto al gruppo B a tutte le età, ma la differenza non era significativa (P =0,51),

probabilmente per le dimensioni ridotte del campione di bambini con questo genotipo. Durante il follow-up, le complicanze correlate alla malattia celiaca (cioè, malattie autoimmuni della tiroide, diabete di tipo 1 o entrambi) non si sono sviluppate in nessun bambino dei due gruppi. Pertanto, lo studio CELIPREV ha dimostrato che rinviare l’introduzione del glutine a 12 mesi di età non ha alcun effetto sul rischio di sviluppo della malattia celiaca nel lungo termine: non riduce né aumenta il rischio di malattia. Tuttavia, posticipare l’introduzione del glutine ha avuto due conseguenze potenzialmente positive: in primo luogo, quella di ritardare lo sviluppo della malattia celiaca, il che potrebbe ridurre l’effetto negativo della malattia su organi vulnerabili come il cervello; in secondo luogo, quella di ridurre la prevalenza, seppur non significativamente, di celiachia a qualsiasi età nei bambini che hanno un genotipo HLA ad alto rischio. L’ipotesi della “finestra di tolleranza” non ha trovato supporto, in quanto non è stata osservata alcuna differenza nel rischio di celiachia tra i bambini che hanno introdotto il glutine a 6 mesi (durante la “finestra” aperta) e coloro che lo hanno introdotto a 12 mesi (quando la finestra è stata chiusa). Questi risultati sono stati confermati da un altro recente trial multicentrico di intervento nutrizionale randomizzato in doppio cieco, condotto in Europa sempre su neonati a rischio familiare di malattia celiaca (PREVENT-CD) e pubblicato sullo stesso numero del New England Journal of Medicine [10]; in questo trial, che aveva anch’esso l’obiettivo finale di valutare se l’epoca di introduzione del glutine nella dieta potesse modificare il rischio di malattia celiaca, i neonati venivano randomizzati a ricevere piccole quantità di glutine dai 4 a 6 mesi di età o uno svezzamento standard con glutine a 6 mesi. I risultati dello studio dimostrano che l’introduzione di piccole quantità di glutine durante la finestra di tolleranza non riduce il rischio di malattia. Pertanto, le evidenze scientifiche non supportano le attuali linee guida della Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (ESPGHAN) sulle


tappe dello svezzamento [11], che raccomandano l’introduzione del glutine tra 4 e 7 mesi di età al fine di ridurre il rischio di malattia celiaca, e si rende necessaria una revisione delle attuali raccomandazioni con una nuova posizione della Società su questo importante argomento.

Allattamento e rischio di malattia celiaca Un ruolo protettivo dell’allattamento al seno nei confronti della malattia celiaca è stato a lungo sostenuto, per lo più sulla base di alcuni studi retrospettivi [12-15] e di una review sistematica della letteratura [16] e una metanalisi che ne sintetizzarono i risultati [17]. L’indagine epidemiologica norvegese aveva invece dimostrato che l’allattamento materno non esercitava alcuna protezione verso lo sviluppo della malattia celiaca; infatti, la durata media dell’allattamento al seno era addirittura più lunga nei bambini con malattia celiaca (10,4 mesi) rispetto ai controlli (9,9 mesi) e il rischio di malattia era significativamente più elevato nei bambini allattati al seno per più di 12 mesi [8]. Lo studio CELIPREV ha portato un chiarimento anche su questo importante aspetto della nutrizione infantile. Nella coorte di

le variabili a disposizione (genotipo HLA, mese di introduzione del glutine, sesso, parente affetto da malattia celiaca, durata dell’allattamento al seno, infezioni intestinali) quale fosse associata a un rischio significativamente più alto di malattia celiaca. Il più alto rischio di malattia è stato osservato nei bambini con genotipo HLA cosiddetto ad alto rischio, caratterizzato da due copie dell’allele HLA-DQ2. Le altre variabili studiate non hanno mostrato alcun effetto significativo sul rischio di malattia [9]. Pertanto, ricevere in eredità i geni predisponenti alla malattia in omozigosi rappresenta l’unico fattore di rischio noto per la malattia celiaca, associato a un’altissima probabilità di sviluppare la malattia (il 38 per cento della nostra coorte con questo tipo di HLA sviluppava infatti la malattia). Pertanto, come riportato nell’editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine sull’argomento, “siamo ancora in cerca del/dei fattori ambientali che possono condizionare lo sviluppo della malattia” e “i due trial - CELIPREV e PREVENT-CD - sono a oggi un punto di partenza più che un punto di arrivo della ricerca in questo campo” [18]. Sono necessari ulteriori studi per stabilire se altri fattori ambientali, come ad esempio

neonati a rischio familiare di malattia celiaca non è stato osservato alcun effetto protettivo dell’allattamento al seno per lo sviluppo della malattia celiaca: la durata media dell’allattamento al seno era molto simile per i bambini tra i quali la malattia celiaca si era sviluppata e per quelli in cui non si era sviluppata (5,6 e 5,8 mesi, rispettivamente). Non abbiamo osservato neanche un effetto protettivo dell’introduzione del glutine durante l’allattamento materno [9]. Agli stessi risultati sono arrivati i ricercatori dello studio PREVENTCD [10]. Pertanto, anche se ci sono molte buone ragioni per raccomandare il prolungato allattamento al seno dei neonati, indipendentemente dal fatto che abbiano un rischio genetico per lo sviluppo della malattia celiaca, gli studi prospettici non hanno osservato un effetto protettivo nei confronti della malattia celiaca.

HLA e rischio di malattia celiaca L’unico fattore che è stato a oggi significativamente associato con lo sviluppo di malattia celiaca è l’HLA. Infatti, nello studio CELIPREV è stata effettuata un’analisi statistica tramite induzione di alberi decisionali per verificare tra tutte

Figura 3

Proposta di un algoritmo di screening per la malattia celiaca nella popolazione generale

Determinazione HLA-DQ2 e DQ8 alla nascita

-

+

Stop screening

Screening con anticorpi anti-transglutaminasi all’età di 6 anni

Ripetere screening dopo 5 anni o prima in caso di comparsa di sintomi suggestivi di malattia celiaca

+ Malattia celiaca

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Gastroenterologia la composizione del microbiota intestinale, il profilo metabolico, il programma di vaccinazione e l’uso di antibiotici, possano influenzare l’equilibrio tra risposta e tolleranza immunitaria.

Elevata prevalenza di malattia celiaca Un altro dato molto interessante scaturito dallo studio CELIPREV è l’elevata prevalenza di celiachia osservata nei bambini a rischio familiare di malattia (13,2 per cento), che potrebbe indicare che la cosiddetta “epidemia” della malattia celiaca sta continuando il trend di crescita. Infatti, nei Paesi occidentali è stato osservato un aumento della prevalenza complessiva di malattia. Un aumento di 6,4 volte dell’incidenza è stato recentemente descritto in Scozia dal 1990 al 2009 [19]. Un recente studio americano ha dimostrato che la prevalenza della malattia celiaca era solo dello 0,2 per cento nel 1975, mentre durante i successivi 25 anni è aumentata di 5 volte [20]. Le ragioni di questo aumento riportato in prevalenza non sono ancora del tutto chiare, ma hanno a che fare con la componente ambientale della malattia, considerato che sicuramente non possono essere cambiati i determinanti genetici della malattia negli ultimi anni. Ancora oggi, tuttavia, la maggior parte dei pazienti con malattia celiaca in tutto il mondo non è diagnosticata, in quanto la malattia è il più delle volte clinicamente silente, e rappresenta la cosiddetta parte sommersa dell’iceberg celiaco, potenzialmente esposta a importanti complicanze a lungo termine. Pertanto, è diventata sempre più attuale la necessità di uno screening di popolazione per la malattia celiaca [21]. Una delle principali obiezioni allo screening di massa era fino a poco tempo fa l’età in cui eseguirlo, in quanto la malattia si può sviluppare in qualsiasi momento della vita. Nello studio CELIPREV, tuttavia, si è osservato che la malattia celiaca si è sviluppata nella grande maggioranza dei bambini entro i primi 5 anni di vita, e nell’80 per cento di quelli in cui la malattia celiaca si è sviluppata lo ha fatto durante i primi 3 anni (Figura 2). Pertanto suggeriamo che uno screening efficace per la celiachia potrebbe

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essere eseguito con un test in età scolare (a sei anni di età ad esempio). Nella figura 3, proponiamo un strategia aggiornata di screening della popolazione per la celiachia [21]. Dato che i genotipi HLA-DQ8 e HLA-DQ2 sono una componente necessaria per lo sviluppo della celiachia, la determinazione del genotipo HLA potrebbe essere raccomandata come test di primo livello che consente di escludere una parte considerevole della popolazione (circa 60-70 per cento) da ulteriori test. Oggi, la determinazione HLA può essere effettuata al momento della nascita, con una sola goccia di sangue intero essiccata su carta da filtro. Nei casi HLA-positivi selezionati così alla nascita, lo screening sierologico con gli anticorpi anti-transglutaminasi di classe IgA potrebbe essere eseguito al momento dell’ingresso a scuola o prima nei casi clinicamente sospetti. Ulteriori test sierologici potrebbero essere richiesti nel corso della vita, in particolare nei pazienti sintomatici e/o nei gruppi a rischio. Siamo consapevoli che esistono ancora diversi argomenti a sfavore dello screening di massa per la malattia celiaca, in particolare le considerazioni di natura economica. Ciononostante, a nostro avviso, è il momento di considerare una politica più attiva di screening sierologico, altrimenti, come il Titanic ha drammaticamente dimostrato, la parte sommersa dell’iceberg potrebbe causare gravi catastrofi.

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Medicina dei viaggi

Diarrea del viaggiatore Strategie di prevenzione e trattamento La diarrea del viaggiatore è la più frequente patologia associata a contaminazione degli alimenti e delle bevande che colpisce i viaggiatori. Il MMG dovrebbe fornire le indicazioni necessarie sulle norme igieniche di prevenzione e sui possibili trattamenti

L

a diarrea del viaggiatore (Traveler’s Diarrhea, TD) è la patologia più frequente dei viaggiatori internazionali che si recano nei Paesi a basso reddito del mondo. In un articolo su Jama del gennaio 2015 (1), R. Steffen, D. Hill e H. DuPont hanno passato in rassegna 112 articoli dei 2.976 indicati dai database PubMed, Google Scholar e Cochrane Library nel periodo 2012 - aprile 2014 sul tema diarrea del viaggiatore. Gli Autori segnalano che ancora la diarrea del viaggiatore obbliga, negli articoli passati in rassegna, dal 12 al 46 per cento dei viaggiatori a cambiare il piano del viaggio, e che nel 3-17 per cento di coloro che hanno contratto la TD compare una sindrome da colon irritabile post-infettiva. Nelle conclusioni, gli Autori raccomandano che nella visita medica prima del viaggio vengano ricordate ai viaggiatori le norme di sicurezza alimentare e si consigli di portare una farmacia da viaggio che includa l’uso di farmaci per il trattamento della TD. A prima vista queste conclusioni sembrerebbero ovvie, ma in realtà non lo sono perché una serie di Autori ne hanno messo in discussione l’importanza. Alcuni per esempio, dall’osservazione che

A cura di Walter Pasini

Presidente Società Italiana di Medicina del Turismo

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3.2015

la TD compare in soggetti che dichiarano di non aver commesso errori nel consumo di alimenti e bevande durante il viaggio fanno erroneamente discendere la conclusione che non sia poi così importante seguire le norme di sicurezza alimentare sulle quali tanto insiste ancora l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (2) e i Centers for Disease control and prevention (CDC) di Atlanta (3). Il Medico di medicina generale (MMG) deve invece insistere nel raccomandare al viaggiatore attenzione nella scelta degli alimenti e delle bevande al fine di prevenire non solo la TD, ma anche malattie come l’epatite A, il colera e la febbre tifoide pur sapendo che, a livello globale, l’intensificazione degli scambi commerciali, l’aumento dei viaggi internazionali e dell’immigrazione, gli errori nella preparazione e nella manipolazione del cibo comportino la possibilità della contaminazione anche di alimenti considerati non a rischio (Riquadro). I colleghi bene fanno anche a raccomandare che tutti i viaggiatori si dotino di una farmacia da viaggio che includa un farmaco contro la diarrea del viaggiatore, dato che può essere difficile reperire farmaci efficaci all’estero e che può essere probabile comprarne di contraffatti, dal momento che il fenomeno della contraffazione dei farmaci sta assumendo dimensioni sempre più vaste e preoccupanti a livello mondiale, senza considerare poi il rischio di un ricovero con

conseguente somministrazione di farmaci per via endovenosa.

Fattori di rischio La destinazione del viaggio, come facilmente intuibile, rappresenta uno dei principali fattori da prendere in considerazione. A seconda del livello di rischio, si possono distinguere tre aree geografiche (Tabella 1 e 2): • America latina, Messico, Asia, Africa settentrionale, occidentale e orientale, in cui il rischio è elevato (20-60 per cento); • Medio Oriente, area mediterranea europea, Caraibi, ex URSS, Sud Africa e Giappone, in cui il rischio è considerato intermedio (circa 20 per cento); • Europa, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda per le quali il rischio è limitato (meno del 7 per cento). Va sottolineato che abitualmente i viaggi al di fuori delle rotte turistiche espongono il viaggiatore a un rischio significativamente maggiore di andare incontro alla diarrea del viaggiatore. In ogni caso è comunque sempre doveroso rispettare le norme igieniche e le precauzioni alimentari, come più volte sottolineato anche dall’OMS. La stagionalità è un altro elemento di cui tenere conto. Si è osservato che nei Paesi a clima più caldo, il rischio di TD varia con le stagioni: nel continente asiatico per esempio, nella stagione che precede i monsoni si assiste a un aumento dell’incidenza della TD. Va anche aggiunto il fatto che elevate differenze nelle condizioni igienico-sanitarie tra il paese di origine del viaggiatore e quello di destinazione aumentano il rischio di contrarre la diarrea del viaggiatore. Oltre ai fattori sopraelencati, per valutare il profilo di rischio del viaggiatore occorre tenere in considerazione anche le caratteristiche demografiche e cliniche del soggetto.


Uno di questi è rappresentato dall’età. La TD si osserva con maggiore frequenza nei giovani adulti rispetto agli anziani, probabilmente perché questi ultimi conducono abitualmente viaggi meno “avventurosi ed esotici” e in conseguenza sono meno esposti al rischio. Il sesso non sembra incidere sul rischio, dal momento che la TD si presenta in ugual misura nelle donne e negli uomini. Non vanno poi, trascurate le eventuali comorbilità del soggetto. La comparsa della diarrea del viaggiatore può essere favorita per esempio da immunodepressione (infezione da HIV, terapie a base di farmaci steroidei, trattamenti oncologici) e da tutte le condizioni che portano a ipocloridria.

Il problema dell’antibioticoresistenza Grande attenzione ha avuto negli studi epidemiologici di questi ultimi anni il fenomeno della resistenza agli antibiotici e

il ruolo dei viaggi internazionali nella diffusione di Enterobacteriaceae multiresistenti (4). Non vi è alcun dubbio che la globalizzazione comporti la disseminazione di batteri capaci di produrre enzimi in grado di inibire l’azione di antibiotici (Tabella 3). Numerosi studi hanno evidenziato la presenza di colonizzazione di Escherichia coli capaci di produrre beta-lattamasi a largo spettro e quindi resistenza agli antibiotici beta-lattamici in percentuali significative (20-25 per cento) di viaggiatori internazionali (5-9) che si erano recati in Paesi a basso-medio reddito. Le destinazioni con maggior rischio di colonizzazione di flora batterica resistente agli antibiotici erano in maggioranza il subcontinente indiano e il sud-est asiatico. Un recente studio pubblicato su Clinical Infectious Diseases (10) condotto su 430 viaggiatori finlandesi, ha rilevato che il 21 per cento di questi è stato colonizzato da Enterobacteriaceae producenti beta-lattamasi a largo spettro (ESBL-PE).

Tabella 1. I

patogeni più comuni che causano la diarrea del viaggiatore

Tabella 2. Tassi

Batteri

Patogeno

La crescita di batteri resistenti risulterebbe determinata in questo studio dalla destinazione del viaggio, dalla comparsa di TD e dall’uso di antimicrobici. In questo studio ben il 67 per cento (288/430) dei viaggiatori ha contratto la diarrea del viaggiatore, dato prevedibile considerando la provenienza scandinava. L’India e il sud-est asiatico sono state le destinazioni che hanno determinato la comparsa di percentuali più alte di sviluppo di batteri resistenti ai beta-lattamici. L’uso degli antimicrobici ha determinato un significativo aumento della percentuale di viaggiatori con colonizzazione di batteri resistenti agli antibiotici beta-lattamici. Nello studio, la percentuale di casi ESBL(+) era dell’11 per cento nel gruppo che non aveva avuto TD, né aveva usato antibiotici, del 21 per cento nel gruppo con TD che non aveva fatto uso di antibiotici e del 37 per cento in quello con TD che aveva fatto uso di antibiotici. Gli Autori concludono affermando che l’uso di an-

di isolamento di enteropatogeni in pazienti con TD, provenienti da tre regioni Kenya (%)

India (%)

Giamaica (%)

E. coli enterotossigeni

35

24-25

12-30

E. coli enteroaggregativi

NR

19

26

Campylobacter

5

3

5

Shigella

9

10

0,3

Salmonella

3

10

8

Aeromonas

2

3

0

Vibrio

3

5

0,3

Giardia lambli

Giardia

0

2

0,6

Entamoeba histolytica

Entamoeba histolytica

0

5

0,6

Cyclospora cayetanensis

Cryptosporidium

0

2

0,3

Cryptosporidium parvum

Rotavirus

6

5

8

Virus

Infezioni miste

6

11-27

5-6

Rotavirus

Patogeni non identificati

47

37-45

42-68

Escherichia coli enterotossigeno Altri tipi di E. coli (enteroaggregativi) Campylobacter Salmonella (non tifoide) Shigella Aeromonas Vibrio (no colera) Parassiti

Norovirus Fonte: Yates J. Am Fam Physician 2005.

Note: NR, non riportato. Fonte: Yates J. Am Fam Physician 2005.

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Medicina dei viaggi tibiotici per il trattamento della TD deve essere sconsigliato per evitare la diffusione di flora batterica resistente nel paese di provenienza dei viaggiatori. Se è vero che lo studio sembra ben condotto sul piano statistico, è altrettanto vero che gli Autori non ci danno indicazioni su quale tipo di antibiotico abbiano usato i viaggiatori e per quanto tempo tali antibiotici siano stati usati. Inoltre lo studio sembra fatto su un numero limitato di viaggiatori, considerando la loro dispersione nelle varie aree geografiche, e soprattutto la provenienza degli stessi (Finlandia) sembra essere un fattore critico nel senso che la flora batterica degli scandinavi, abitanti di isole con scarsi contatti con l’Europa e il resto del mondo, non può essere considerata un dato oggettivo, valido per tutti gli abitanti del Vecchio Continente e dei Paesi a elevato reddito.

Tabella 3.

Caratteristiche degli enterobatteri che producono

Enzimi

Esempi

Beta-lattamasi a largo spettro

Classe A

TEM, SHV CTX-M

AmpC beta-lattamasi plasmide mediati

Classe C

CMY, FOX, ACT, MOX, ACC, DHA

Metallo-betalattamasi

Classe B

IMP, VIM, NDM

KPC carbapenemasi

Classe A

KPC

Il ruolo del MMG

OXA beta-lattamasi

Classe D

OXA-48, OXA-181

Sarebbe però eticamente inaccettabile non alleviare e trattare una sintomatolo-

Note: KPC, K. Penumoniae carbapenemasi; EDTA, acido etilendiamino tetracetico.

Alcune semplici norme igieniche per viaggiare più sicuri L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha da qualche tempo tracciato una semplice, ma utilissima guida per i viaggiatori che si recano in aree a rischio. La brochure, scaricabile dal sito dell’OMS (www.who.int/foodsafety), fornisce alcune regole sulla sicurezza alimentare, da seguire durante le trasferte siano esse di lunga o breve durata. Ecco le principali.

Igiene personale • Lavarsi sempre le mani prima dei pasti e dopo aver usato i servizi igienici

• Usare acqua potabile per lavarsi i denti

• Se l’acqua non è potabile, usarla solo dopo bollitura o dopo l’aggiunta di un disinfettante I microrganismi patogeni sono ampiamente diffusi nel terreno, nell’acqua, negli animali, e possono essere veicolati negli alimenti attraverso il contatto con le mani. Questo va tenuto a mente soprattutto quando si frequentano i mercati alimentari, in cui spesso è possibile che le mani vengano in

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Classificazione

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contatto con alimenti crudi, in particolare carni. In questo caso, è opportuno lavarsi immediatamente le mani. Inoltre nei mercati alimentari dei Paesi “esotici” sono presenti anche animali vivi, che potenzialmente possono trasmettere gravi infezioni come per esempio, l’influenza aviaria. In conseguenza è opportuno evitare qualsiasi tipo di contatto con questi animali.

Separare alimenti crudi e cotti Quando si frequentano i buffet dei ristoranti e degli alberghi oppure i banchi di “street food” assicurarsi che gli alimenti crudi e quelli cotti non siano a contatto (il contatto potrebbe “reinfettare” i cibi cotti, che pertanto non sono più sicuri). Evitare qualsiasi tipo di alimento crudo, a eccezione di frutta e verdura che però vanno consumate sbucciate o pelate. I piatti a base di uova crude o poco cotte quali per esempio, maionese “fatta in casa”, salse e dessert (soprattutto mousse e dolci al cucchiaio) possono costituire una fonte di infezione. Anche se tali norme venissero rispettate, è sempre opportuno comunque limitare l’acquisto di generi alimentari da venditori ambulanti.


“nuove” beta-lattamasi e quindi antibioticoresistenza Spettro di resistenza

Inibizione

Batteri

Aree endemiche

Penicilline, cefalosporine, monobattami

Acido clavulanico, tazobactam, sulbactam

K. Peumoniae, E. coli, altri

Diffusione globale

Penicilline, cefalosporine, monobattami, cefamicine

Cloxacillina, acido boronico

K. Pneumoniae, E. coli, altri

Diffusione globale

Penicilline, cefalosporine, cafamicine, carbapenem

Chelanti dei metalli (es. EDTA, acido dipicolinico)

K. Pneumoniae, E. coli, altri

Grecia (VIM), Giappone (IMP), Taiwan (IMP), sucontinente indiano (NDM), area balcanica (NDM)

Penicilline, cefalosporine, cefamicine, monobattami, carbapenem

Acido clavulanico (debole), tazobactam (debole), acido boronico

K. Pneumoniae, E. coli, altri

USA, Grecia, Israele, Cina

Penicilline, temocillina, associazioni di inibitori delle beta-lattamasi, carbapenem

NaCl

K. Pneumoniae, E. coli

Turchia, Marocco

Fonte: van der Bij A et al. J Antimicrob Chemoter, 2012.

Conservazione degli alimenti Sebbene cotti, se conservati per qualche ora a temperatura ambiente, gli alimenti diventano potenziali veicoli di infezioni. Questi cibi vanno evitati nei mercati e supermercati, nei ristoranti o nei banchi di venditori ambulanti, a meno che non siano tenuti in caldo, in frigorifero o sotto ghiaccio. Le temperature di conservazione ottimali sono sotto i 5°C oppure sopra i 60°C alle quali la crescita di eventuali patogeni è rallentata o bloccata.

Scegliere acqua e cibi “sicuri” • Bere solo bevande in bottiglia sigillata, meglio se gassate • Non usare il ghiaccio nelle bevande • Non consumare latte (e derivati) non pastorizzati • Sbucciare sempre la frutta • Sbucciare o pelare la verdura È bene ricordare che gelati, acqua, cubetti di ghiaccio e latte crudo possono essere facilmente contaminati da patogeni. Evitare, a meno che non si è certi delle condizioni di

preparazione, i vegetali a foglia verde, in primo luogo insalate. Questi infatti possono contenere microrganismi difficili da eliminare. La scelta dell’acqua è fondamentale; in caso di dubbio l’acqua dovrebbe essere consumata dopo opportuna bollitura; quando ciò non è possibile, utilizzare sostanze disinfettanti. Generalmente comunque, le bevande in bottiglia chiusa e sigillata possono essere ritenute sicure dal punto di vista microbiologico.

Consumare solo alimenti ben cotti • Non consumare pesce o frutti di mare crudi o poco cotti • Non consumare carne cruda o poco cotta • Consumare sempre cibi ben cotti e soprattutto ancora caldi La cottura degli alimenti è fondamentale. Evitare pertanto l’assunzione di pesce e derivati crudi, carni avicole poco cotte, carne trita e hamburger al sangue, dal momento che la parziale cottura non garantisce la sicurezza microbiologica dell’alimento. Un alimento può essere ritenuto sicuro solo dopo un’adeguata cottura, ovvero bisogna assicurarsi che in questa fase ogni parte dell’alimento raggiunga i 70°C.

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Medicina dei viaggi gia che in una significativa percentuale di viaggiatori stravolge il programma di viaggio (dal 12 al 46 per cento di coloro che contraggono una TD, secondo la metanalisi degli studi sulla TD condotta nel 2015 da Steffen e coll.). Queste e altre perplessità nei confronti delle conclusioni che gli Autori finlandesi traggono dal loro studio sono state espresse da due dei maggiori esperti di Travel medicine, quali Brad Connor e Jack Keystone in un loro recente articolo (11).

Il MMG ha un ruolo fondamentale nella prevenzione della TD. Le raccomandazioni al paziente che si reca in viaggio in un’area a rischio includono le regole igieniche e sanitarie, e la farmacia da viaggio. Quest’ultima dovrebbe prevedere sempre un farmaco appropriato per il trattamento Il ruolo del Medico di medicina generale nella prevenzione e nel trattamento della diarrea del viaggiatore è molto importante. Al viaggiatore che a lui si rivolge prima della partenza, il medico di famiglia dovrà ricordare le norme di sicurezza alimentare tra cui: mangiare solo alimenti ben cotti e che siano ancora caldi, evitare il cibo che è stato tenuto a temperatura ambiente per ore, il cibo dei venditori ambulanti o di spiaggia: evitare gli alimenti crudi come la verdura o la frutta (a eccezione di quella che si può pelare o sbucciare) (12). Molto importante è raccomandare di lavarsi spesso e bene le mani, in quanto è dimostrato che tale semplice misura di igiene personale comporti un’importante riduzione nella diffusione dei batteri antibiotico-resistenti (Riquadro). Fondamentale è altresì la raccomandazione di portare con sé un antibiotico per l’auto-trattamento della diarrea, qualora ve ne sia la necessità.

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L’importanza di un trattamento adeguato Nelle forme di diarrea del viaggiatore leggere/moderate, non invasive, anche alla luce dello studio finlandese, vanno evitati gli antibiotici sistemici, con particolare riferimento ai beta-lattamici, e anche i chinolonici andrebbero riservati esclusivamente alle forme invasive (sono farmaci importanti per altre patologie sistemiche e l’insorgenza sempre più segnalata di batteri resistenti dovrebbe spingerci a risparmiarne l’utilizzo). L’antibatterico più indicato per le forme di diarrea del viaggiatore leggere/moderate è senza dubbio rifaximina nella forma polimorfa alfa, perché non assorbibile, agisce solo a livello del lume intestinale, ed è farmaco sicuro ed efficace contro l’Escherichia coli enterotossico (ETEC), il batterio responsabile dell’80 per cento dei casi di TD. Tale peculiarità fa sì che rifaximina riduca al minimo sia il fenomeno della resistenza (assolutamente assente quella ai beta-lattamici!) che gli eventi avversi (13). La dose del farmaco deve essere di 2 compresse da 200 mg x2 x5 giorni. Attiva contro microrganismi Gram+ e Gram-, aerobi e anaerobi, rifaximina polimorfo alfa è inoltre approvata negli Stati Uniti (FDA) e in molti Paesi del mondo proprio per il trattamento delle forme non invasive di diarrea del viaggiatore. Viene utilizzata anche nel trattamento di altre malattie infettive enteriche, come quella da Clostridium difficile e ha molti altri impieghi in patologie dove il microbiota intestinale gioca un ruolo importante, come nell’encefalopatia epatica (14, 15). Infine è importante ricordare al viaggiatore e alle persone che viaggiano l’importanza della reidratazione, specie nei bambini e negli anziani, per compensare la perdita di liquidi ed elettroliti provocata dalla diarrea.

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SEGNALAZIONI

Terapia dell’osteoporosi Alendronato, tutti i vantaggi delle confezioni più grandi Vania Braga Centro Osteoporosi - ULSS 20, Verona

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uasi la metà dei pazienti non segue correttamente dosaggio e posologia dei farmaci prescritti: è questo il destino che condividono molte delle patologie croniche come il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e l’osteoporosi. Si tratta infatti di patologie silenti, che manifestano i loro sintomi più gravi anche molto tempo dopo la loro insorgenza o la diagnosi posta sulla base di esami clinici. Il risultato è che spesso i pazienti non hanno la percezione di essere malati e la persistenza della terapia è scarsa, con il rischio di maggiori complicanze sul medio e lungo termine [1]. L’aderenza alla terapia, in termini più precisi è definita come l’insieme di due fattori: la compliance, che definisce la qualità della terapia, e la persistenza, cioè la sua durata [1]. Ciò significa in parole povere che un paziente potrebbe assumere il farmaco in modo irregolare, saltando magari qualche pastiglia ogni tanto, senza però interrompere mai la terapia. In tal caso ci sarebbe un difetto di compliance. Viceversa, un paziente potrebbe seguire le indicazioni posologiche in modo rigoroso per un certo periodo, ma abbandonare a un certo punto la terapia. In questo secondo caso verrebbe meno la persistenza. Il problema dell’aderenza è particolarmente sentito nel caso dell’osteoporosi, in cui la mancanza di persistenza alla terapia con bisfosfonati può compromettere seriamente l’esito clinico. In uno studio del 2008 condotto su più di 44.000 pazienti, si è dimostrato che se l’assunzione dei bisfosfonati non arriva ad almeno 6 mesi, il rischio di frattura non si modifica [2]. Nel caso specifico dell’alendronato, è ben noto che per sortire effetti protettivi sulle ossa, la terapia deve protrarsi per 1-3 anni. Ebbene, alcuni dati riportati nella letteratura recente indicano che a un anno dalla prescrizione solo il 40 per cento delle pazienti è ancora in terapia con alendronato. La percentuale poi scende al 30 per cento dopo due anni e al 20 per cento dopo tre [1]. Per capire le dimensioni del problema, è sufficiente citare un dato: la probabilità di frattura inizia a ridursi con una copertura farmacologica di almeno il 50 per cento [3]. Certamente per migliorare l’aderenza alle terapie è necessario stimolare nel paziente la consapevolezza dei rischi di complicanze a cui si va incontro con un’assunzione dei farmaci non corretta. In questo può certo venire in aiuto un’adeguata attività di counselling [4] da parte dello specialista o del medico di famiglia nei confronti non solo delle pazienti, ma anche dei familiari e di tutti i caregiver. Un notevole contributo per migliorare le abitudini di assunzione del farmaco può anche derivare dal confezionamento: è per questo che è da vedere con favore l’uscita sul mercato di alendronato in confezione da 12 compresse. Ogni compressa contiene 70 milligrammi di acido alendronico, cioè la dose di una settimana. Dal punto di vista della

posologia, quindi, non ci sono cambiamenti rispetto alle confezioni da quattro compresse: la dose deve essere assunta almeno 30 minuti prima della prima colazione o di bere o di assumere altri farmaci, al fine di ottenere un assorbimento ottimale dell’alendronato. Il vantaggio rappresentato da questa nuova confezione è che il paziente entra in possesso, con una sola prescrizione, delle compresse necessarie per sei mesi di terapia, e non per due soli mesi, come nel caso della confezione da quattro compresse. Si evitano così quei banali inconvenienti che possono inficiare la continuità dell’assunzione del farmaco: le confezioni sono infatti sottoposte a prescrizione medica, e tornare ogni due mesi dal proprio medico e poi passare in farmacia può essere difficile, in alcuni casi. In primo luogo perché il paziente o i familiari possono dimenticarsi di questo fondamentale, doppio appuntamento bimestrale, con il risultato di ritardi o addirittura la sospensione dell’assunzione delle compresse. In secondo luogo, perché possono insorgere difficoltà oggettive a spostarsi, soprattutto nel caso delle persone anziane e di chi non abita nei centri urbani. Non è trascurabile, inoltre, il risparmio economico garantito dalle nuove confezioni, sia per il Sistema sanitario nazionale sia per quei pazienti che devono pagare il ticket: a fronte di un prezzo di riferimento di 15,37 euro della confezione da quattro compresse, la confezione da 12 compresse costerà 36 euro, cioè il 22 per cento in meno. Anche il medico di famiglia non può che considerare positivamente la possibilità di prescrivere l’alendronato in confezioni con un maggior numero di compresse. Una diminuzione della frequenza degli appuntamenti, consentirebbe al medico di gestire diversamente le visite, dedicando più tempo alla qualità dell'informazione offerta al paziente in merito alla sua malattia, alla valutazione della terapia, al counselling di pazienti e familiari e meno al ruolo di "compilatore di ricette" tanto inviso alla categoria. Il monitoraggio costante e la comunicazione con il paziente relativamente all'efficacia nel tempo della terapia in corso e agli eventi avversi, sono approcci fondamentali per ottimizzare l'aderenza e conseguire il successo terapeutico dell'osteoporosi [4]. Bibliografia 1. Santi I, Zanoni CI, Ceta F. Fattori determinanti l’aderenza alla terapia farmacologica per l’osteoporosi e possibili strategie per migliorarla. G Gerontol 2010; 58: 110-116. 2. Gallagher AM, Rietbrock S, Olson M,van Staa TP. Fracture Outcomes Related to Persistence and Compliance With Oral Bisphosphonates. JBMR 2008; 23: 1569-1575. 3. M. Varenna, L. Sinigaglia. L’aderenza al trattamento dell’osteoporosi: una questione aperta. Reumatismo 2009; 61(1): 4-9. 4. Sewerynek E, Horst-Sikorska H, Stpień-Kłos W. The role of counselling and other factors in compliance of postmenopausal osteoporotic patients to alendronate 70 therapy. Arch Med Sci 2013; 9(2): 288-96.

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Alfa Wassermann

Per ripristinare l’equilibrio della flora intestinale conta la qualità dei probiotici

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i probiotici si sente parlare sempre più spesso (e a volte anche a sproposito). È un settore all’attenzione dei media e della ricerca da diversi anni, soprattutto per il ruolo che questi batteri hanno nel ripristino dell’equilibrio del microbiota intestinale. Se ne è parlato anche in occasione di un media tutorial che si è tenuto a Milano, lo scorso 26 maggio e che è stato realizzato con il contributo di Alfa Wassermann. “Il crescente interesse nei confronti di questo settore, ha sottolineato all’incontro il prof. Salvatore Cucchiara, dell’Università di Roma La Sapienza, “è giustificato dal fatto che l’intestino dell’uomo è abitato da un complesso ecosistema di microrganismi definito microbiota. Questi microrganismi ammontano a un totale di circa 1014 cellule, circa 10 volte il numero delle cellule umane che compongono l’intero organismo; con un numero di geni così elevato (circa 150 volte il patrimonio genetico umano), tanto che si potrebbe dire che siamo umani solo per il 10 per cento.” Può accadere che questo ecosistema venga alterato e il numero di batteri intestinali si riduca drasticamente creando uno squilibrio qualitativo fra i vari ceppi batterici, con prevalenza di alcuni e carenza di altri. Una condizione questa, definita disbiosi intestinale che si manifesta principalmente, ma non solo, con dolori addominali, diarrea e/o stipsi, segni clinici da infiammazione, problemi digestivi funzionali, dermatiti, infezioni delle vie urinare e altri spiacevoli stati di malessere. A disbiosi intestinale

è associata anche la sindrome dell’intestino irritabile (IBS), che colpisce circa il 7-10 per cento della popolazione, un disturbo ben conosciuto, che ha anche un importante impatto sulla qualità di vita dei pazienti. Da tempo è noto che alcuni specifici ceppi di Lactobacilli e Bifidobatteri possano aiutare a riequilibrare il microbiota intestinale. “La comunità scientifica si sta impegnando parecchio nel far chiarezza circa le caratteristiche ottimali di alcuni di questi probiotici in termini di efficacia e di sicurezza d’uso”, ha spiegato il prof. Lorenzo Drago, dell’IRCCS Galeazzi, Università di Milano. “Purtroppo, molti dei prodotti probiotici posti oggi in commercio non mostrano di avere i requisiti per essere definiti tali. Al contrario, molti altri studi hanno dimostrato che alcuni di questi probiotici oggi in commercio hanno invece una valenza scientifica rilevante. Numerosi studi in vitro e in vivo hanno dimostrato per esempio, gli effetti benefici di due ceppi, i Bifidobacterium longum BB536 e Lactobacillus rhamnosus HN001, di sopravvivere alle avverse condizioni gastrointestinali, di aderire alla mucosa intestinale e di interagire con l’ambiente intestinale”. “Sull’attività sinergica dei due probiotici” – ha sottolineato il prof. Drago – “sono in corso degli studi, i cui risultati ancora preliminari lasciano ben sperare per un effetto non antagonista. Ulteriori studi avranno l’obiettivo di dimostrare inoltre, come l’assunzione regolare possa determinare una migliore efficacia e una maggiore durata benefica degli effetti dell’associazione”.

Boehringer Ingelheim-Eli Lilly

Diabete di tipo 2: empagliflozin è rimborsabile in Italia

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i arricchisce l’armamentario terapeutico per il diabete di tipo 2. Lo scorso 7 maggio infatti, è stato annunciato che l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha concesso la rimborsabilità per empagliflozin, molecola appartenente alla classe degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2, nota anche semplicemente con l’acronimo SGLT2. Nelle persone affette da diabete di tipo 2 si osserva un aumento dell’espressione di SGLT2, che contribuisce all’innalzamento

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dei livelli glicemici. Empagliflozin riduce la capacità del rene di riassorbire il glucosio, inducendone l’escrezione attraverso le urine. I vantaggi di questo meccanismo d’azione innovativo sono molteplici: riduzione dei valori glicemici e dell’emoglobina glicata (HbA1c), calo ponderale e diminuzione della pressione arteriosa. Inoltre, a differenza della maggior parte delle terapie ipoglicemizzanti orali, gli inibitori SGLT2 agiscono indipendentemente dalla funzionalità delle cellule beta del pancreas e

dall’azione dell’insulina. L’introduzione di questa nuova classe di molecole ha cambiato il paradigma nella terapia del diabete di tipo 2 (la glicosuria era considerata un indice di scompenso glicemico), che sta diventando sempre più mirata a correggere specifici meccanismi patogenetici e va sempre più nella direzione di un approccio personalizzato. Empagliflozin, sviluppato da Boehringer Ingelheim-Eli Lilly aveva ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte delle Autorità regolatorie europee lo scorso anno, per il trattamento del diabete di tipo 2 al fine di migliorare il controllo glicemico negli adulti in monosomministrazione giornaliera, in compresse da 10 e 25 mg.


Sanofi

Approvata in Europa una nuova formulazione di insulina glargine

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i primi di maggio la Commissione europea ha dato il via libera alla commercializzazione in Europa di un’insulina basale di nuova generazione per il trattamento del diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2 negli adulti. Si tratta di insulina glargine (originata da rDNA) soluzione iniettabile, 300 U/ml (Toujeo®). La decisione della Commissione europea si basa sui risultati del programma EDITION: una serie di studi clinici di fase III che hanno valutato l’efficacia e la sicurezza della nuova formulazione di insulina glargine rispetto a insulina glargine soluzione iniettabile 100 U/ml in oltre 3.500 adulti con diabete di tipo 1 e diabete di tipo 2 che non erano controllati in maniera ottimale dalla terapia in atto. La nuova formulazione ha mostrato un controllo della glicemia paragonabile a quello di insulina glargine

soluzione iniettabile 100 U/ml, con un profilo di sicurezza favorevole. Nelle persone con diabete di tipo 2, l’incidenza di ipoglicemia confermata è stata inferiore con la nuova formulazione 300 U/ml rispetto a insulina glargine 100 U/ml, sia durante il periodo notturno sia durante l’arco delle 24 ore. Insulina glargine 300 U/ml ha anche dimostrato un controllo glicemico più stabile, prevedibile e una minore variabilità glicemica individuale, con copertura oltre le 24 ore, rispetto a insulina glargine 100 U/ml, nelle persone con diabete di tipo 1. Segnaliamo in questo spazio, sempre in ambito di terapia del diabete, anche la recente comunicazione dell’AIFA relativa alla rimborsabilità di lixenatide (agonista del recettore del GLP1) in associazione con insulina basale. La notizia riflette il nuovo piano terapeutico

approvato da AIFA per la prescrizione di incretine nella gestione dell’iperglicemia nel diabete di tipo 2, in linea con molti altri Paesi europei e con la posizione espressa da ADA/EASD del 2012 per la gestione dell’iperglicemia nel diabete mellito di tipo 2. Sulla base delle nuove linee guida, quando la terapia con antidiabetici orali e insulina basale non è sufficiente a garantire ai pazienti un buon controllo glico-metabolico, l’aggiunta di analoghi del GLP-1, in alternativa all’insulina prandiale, deve essere considerata per la prosecuzione del trattamento. L’approvazione del nuovo piano terapeutico e della rimborsabilità per lixenatide in associazione a insulina basale rende disponibile dunque, un’alternativa terapeutica che rappresenta un miglioramento delle possibilità di cura per le persone affette da diabete di tipo 2.

Bristol-Myers Squibb – Pfizer

Estensione delle indicazioni per apixaban

L’

Agenzia italiana del farmaco lo scorso 25 maggio con pubblicazione in Gazzetta ufficiale ha dato il via libera alla rimborsabilità dell’anticoagulante orale apixaban, nel trattamento della trombosi venosa profonda (TVP) e dell’embolia polmonare (EP) e nella prevenzione delle recidive di TVP ed EP negli adulti. Apixaban è già approvato per la prevenzione dell’ictus e dell’embolia sistemica nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare e per la prevenzione del tromboembolismo venoso (TEV) nei pazienti sottoposti a chirurgia elettiva protesica dell’anca e del ginocchio. L’estensione delle indicazioni si basa sui risultati ottenuti nell’ambito

degli studi AMPLIFY e AMPLIFY-EXT. Lo studio AMPLIFY un trial di non-inferiorità multicentrico, in doppio cieco, randomizzato, ha arruolato 5.395 pazienti con TVP o EP sintomatica, trattati per sei mesi (2.691 randomizzati ad apixaban e 2.704 alla terapia convenzionale costituita da enoxaparina e warfarin). L’endpoint primario composito di efficacia era rappresentato dall’incidenza di TEV sintomatico ricorrente (TVP o EP non fatali) o morte correlata al TEV. L’endpoint primario di sicurezza era costituito dai sanguinamenti maggiori. Apixaban ha dimostrato la non inferiorità per l’endpoint primario di efficacia, e la superiorità per l’endpoint primario di sicurez-

za (emorragie maggiori), con una riduzione del rischio relativo (RRR) pari al 69 per cento. L’AMPLIFY-EXT, sempre multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, della durata di 12 mesi, ha coinvolto 2.486 pazienti (842 randomizzati ad apixaban 2,5 mg b.i.d, 815 ad apixaban 5 mg b.i.d e 829 a placebo) con pregresso TEV, trattati per 6-12 mesi con terapia anticoagulante prima dell’arruolamento. L’endpoint primario di efficacia era costituito dall’incidenza di TEV sintomatico ricorrente o morte per qualsiasi causa. L’endpoint primario di sicurezza anche in questo caso era rappresentato dai sanguinamenti maggiori. Apixaban ha dimostrato la superiorità per l’endpoint primario di efficacia, con una riduzione dello RRR pari al 67 per cento per il dosaggio 2,5 mg b.i.d e del 64 per cento per il 5 mg b.i.d, con un profilo di sicurezza sovrapponibile al placebo.

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Celgene

Con apremilast nuove speranze per la rara malattia di Behçet

L

a malattia di Behçet è una patologia a eziologia sconosciuta, e si associa ad anomalie del sistema immunitario e all’infiammazione del sistema vascolare. Si tratta di una patologia caratterizzata da ulcere orali e genitali recidivanti e da lesioni cutanee che vanno dall’acne alle ulcerazioni. Può comportare anche trombosi venosa, aneurismi, infiammazione oculare sotto forma di uveite e sintomi neurologici e gastrointestinali. La prevalenza della malattia raggiunge i livelli più elevati in Medio Oriente, Asia e Giappone. La patologia è molto meno comune negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove colpisce solo una persona su 100.000, e pertanto è classificata come malattia rara. Le opzioni di trattamento negli USA e in Europa sono limitate. Ecco perché è significativo segnalare i risultati di un nuovo studio di fase II, pubblicato

sul New England Journal of Medicine, che è stato condotto per valutare l’efficacia di apremilast (Otezla®). Il trial multicentrico e randomizzato, controllato con placebo dimostra sostanzialmente una riduzione significativa delle ulcere orali dopo 12 e 24 settimane di trattamento con apremilast. In parallelo, si è ridotta nel tempo anche la dolorabilità associata: i punteggi medi del dolore, misurati con scala VAS, sono scesi da 54,3 al basale a 9,7 alla settimana 24. La terapia con apremilast ha inoltre migliorato in modo significativo diverse misure di attività della malattia e di qualità di vita alla dodicesima settimana. I dati di sicurezza e tollerabilità di apremilast osservati in questo studio sono in linea con quelli precedentemente riportati in altri sei studi di fase III su apremilast, condotti in pazienti

AIRC

Giuliani

Il pane della tradizione, ma gluten free

L

a linea Giusto® Senza Glutine è un punto di riferimento per tutti i soggetti affetti da celiachia, e rappresenta il perfetto esempio dell’unione di due culture: quella alimentare e quella scientifica. I prodotti Giusto coniugano l’attenzione alla salute, con il gusto, la varietà e l’assortimento, senza trascurare il piacere della buona tavola. Si tratta di prodotti certificati dal Ministero della salute, disponibili in farmacia e nei negozi specializzati, frutto della ricerca Giuliani sempre attenta ai bisogni dei consumatori. L’ampio assortimento di pani, pasta, farine, cereali, biscotti e dolci per ogni occasione si arricchisce ora di un nuovo prodotto. Un pane unico e rivoluzionario ovvero il primo pane di frumento, ma assolutamente privo di glutine. Un vero pane tradizionale, soffice e con la tipica crosta dorata ottenuto con lievito madre, ma con farina di frumento deglutinata. Perché celiachia significa anche piacere della buona tavola.

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con artrite psoriasica o psoriasi a placche. La percentuale di pazienti che ha sviluppato almeno un evento avverso (AE) durante la fase controllata con placebo è risultata simile: apremilast 85,5 per cento, placebo 80,4 per cento. Sono stati riportati AE seri in due pazienti trattati con apremilast, e in nessun paziente trattato con placebo. In quattro pazienti trattati con apremilast si sono verificati AE che hanno richiesto l’interruzione del trattamento. Eventi avversi come nausea, vomito e diarrea sono risultati essere più comuni nel braccio di trattamento con apremilast rispetto al braccio placebo. Sulla base di questi risultati positivi è stato avviato uno studio internazionale e multicentrico di fase III. Al momento apremilast non è approvato per il trattamento dei pazienti con malattia di Behçet in alcun Paese.

Ca. mammario: nuove possibilità di cura con l’acido retinoico

È

da poco stato pubblicato un interessante lavoro, finanziato dall’AIRC che identifica le caratteristiche cellulari e molecolari delle forme di tumore al seno sensibili all’acido retinoico, derivato attivo della vitamina A che viene utilizzato con successo dalla metà degli anni Novanta nel trattamento della leucemia acuta promielocitica. Si aprono così nuove speranze di cura. Lo studio (EMBO Mol Med. 2015 Apr 17. pii: e201404670. doi: 10.15252/emmm.201404670) è stato condotto con un approccio multidisciplinare e integrato dall’IRCCS ‘Mario Negri’, in collaborazione con il Dipartimento di Oncologia della Fondazione ‘Maugeri’ di Pavia e con la facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano. I risultati della ricerca dimostrano che circa il 70 per cento dei modelli cellulari di carcinoma della mammella di tipo luminale, il gruppo più diffuso, e in particolare i tumori caratterizzati da positività al recettore degli estrogeni, risulta sensibile all’effetto antitumorale dell’acido retinoico. Solamente il 20 per cento dei cosiddetti tumori basali o triplo-negativi è invece, in grado di rispondere all’acido retinoico.


segna

libro

Raccolte in un libro le esperienze di Highcare projects “Highcare Projects. 11 anni di ricerca in alta quota” è il titolo del volume che sintetizza i dati scientifici degli studi effettuati durante le spedizioni in alta quota dai gruppi di ricerca dell’Istituto Auxologico Italiano e dell’Università di Milano Bicocca, dirette e coordinate dal professor Gianfranco Parati. Il volume è stato presentato alla stampa, a Milano lo scorso 13 maggio, e illustra i risultati ottenuti durante le spedizioni effettuate sulle Alpi, sull’Himalaya e sulle Ande dai gruppi di ricerca nell’ambito dei progetti Highcare (HIGH altitude CArdiovascular REsearch). Dal volume, realizzato con il contributo non condizionato di Bayer, emergono informazioni preziose non solo sulla fisiologia e fisiopatologia dell’adattamento dell’organismo all’alta quota, ma anche su aspetti e implicazioni diagnostiche e terapeutiche che tali adattamenti comportano. “Highcare è un progetto scientifico multidisciplinare – ha sottolineato il prof. Parati – i cui numerosi e originali dati raccolti hanno contribuito non solo ad approfondire le nostre conoscenze sulle risposte dell’organismo umano, quando esposto a ipossia ipobarica dell’alta quota, ma anche a comprendere meglio gli effetti di una ridotta disponibilità di ossigeno, che spesso caratterizza pazienti con patologie croniche quali scompenso cardiaco, broncopneumopatia cronica ostruttiva, obesità grave associata a insufficienza respiratoria, o apnee nel sonno. Gli studi realizzati hanno anche valutato l’efficacia di una serie di interventi terapeutici farmacologici o non, nel contrastare gli effetti cardiovascolari e sistemici dell’ipossia ipobarica, offrendo interessanti indicazioni non solo per la terapia del male acuto o cronico di montagna, ma anche per la terapia di pazienti con patologie croniche, caratterizzate da una ridotta disponibilità di ossigeno per organi e tessuti”. Il Progetto Highcare è ancora in corso con studi in fase di completamento. Si tratta di Highcare Alps – Mont Blanc, che si sta occupando di capire quali siano le modificazioni cardiovascolari e neurologiche che si possono verificare in soggetti che svolgono attività lavorative per lunghi periodi in alta quota. L’altro studio, Highcare Alps Sestriere, si pone invece l’obiettivo di studiare l’impatto dell’esposizione a quote inferiori a 2.500 m, di cui al momento non sono disponibili dati, a cui paradossalmente si espone il maggior numero di persone, sia per la facilità di accesso, sia perché queste quote “intermedie” sono percepite “non pericolose” anche per i soggetti più delicati per età o per patologie presistenti. Queste quote sono anche quelle a cui ci si espone durante un viaggio aereo.

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