Versilia Sognata. I colori della mia terra

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MARCELLO

POLACCI V E R S I L I A

FORME

S O G N A T A

E COLORI DELLA MIA TERRA


Assessorato alla Cultura

MARCELLO

POLACCI V E R S I L I A

S O G N A T A

FORME E COLORI DELLA MIA TERRA

11 febbraio – 19 marzo 2006 Sale dei Putti e del Capitolo Chiostro di Sant’Agostino

Pietrasanta

Ente Promotore Comune di Pietrasanta Massimo Mallegni, Sindaco Daniele Spina, Assessore alla Cultura Coodinamento Generale e Organizzazione Massimo Dalle Luche Sergio Tedeschi Valentina Fogher Segreteria Amministrativa Maria Dina Albiani Ufficio Stampa Francesca Navari Alessia Lupoli Testi critici introduttivi Marcello Polacci Dino Carlesi Louis Livadhiotis Testimonianze critiche Silvana Arata Raffaello Bertoli Massimo Carrà Louis Livadhiotis Fabio Mazzei Tommaso Paloscia Fotografie delle opere Marcello Polacci Fotografia storica Archivio Foto Fabbroni, Forte dei marmi Grafica petrartedizioni, Pietrasanta Stampa Tipografia Bandecchi e Vivaldi, Pontedera


Assessorato alla Cultura

MARCELLO

POLACCI V E R S I L I A

S O G N A T A

FORME E COLORI DELLA MIA TERRA



Il sogno di Marcello Polacci si è realizzato: lunghi anni dedicati con devozione alla sua professione di medico pediatra, altrettanti alla sua passione per la pittura. In entrambi i percorsi ha riscosso e riscuote grande rispetto e ammirazione, grazie alla grande professionalità per l’uno e creatività per l’altro e sembra, talvolta, che la quotidiana attenzione all’infanzia influenzi la vena artistica: il grande amore per la sua terra, la “Versilia sognata”, fa sì che la renda nelle sue tele con gli occhi incantati di un fanciullo, con la freschezza di colori e spontaneità di soggetti che solo i bambini possiedono, bambini che da pediatra lui assiste e cura con totale dedizione. E attraverso lo sguardo dei bambini, perspicaci, curiosi ed attenti, ha riassunto l’atmosfera della Versilia in pochi tratti essenziali, tanto quanto basta per far capire il soggetto e la sua peculiarità, nella profondità dell’emozione che in lui ancora suscitano. Marcello Polacci, oltre ad essere un mio caro amico, è amico di tutti. Un uomo distinto e cordiale, che, come nei dipinti della “sua Versilia”, apre e svela il suo animo, catturando in un sol istante il suo interlocutore. E ammalierà così tutti noi con questa mostra presso il Chiostro di Sant’Agostino, perla e santuario dell’arte della Versilia, per farci ricordare e apprezzare ogni giorno la meravigliosa terra in cui viviamo, così intensamente visitata e vissuta da gente di tutto il mondo.

Pietrasanta, febbraio 2006

Il Sindaco Massimo Mallegni

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Orizzonti di luce Nessun’altra categoria professionale è stata nella storia artisticamente prolifica e a così alto livello come quella dei medici. Bulgakof, Céline, Cechov, Tobino e Benn per citare solo cinque dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Abituati come nessun altro a scavare nella corporeità degli uomini e negli abissi delle loro passioni e paure, i medici sentono urgente la necessità di trovare in loro anche il metafisico e il trascendente, trovandolo spesso nell’arte. Marcello Polacci appartiene a pieno titolo a questa antica schiera; professionista di grande cultura ed esperienza, da sempre appassionato intenditore d'arte, ha coniugato i suoi più grandi amori extraprofessionali: la pittura e la Versilia. La sua pittura “ritrae” blocchi di marmo, emblema della Versilia antica, ante-boom economico, ante “smanie per la villeggiatura”. Dapprima solo i blocchi di cava, mentre sono impilati in attesa, accatastati da una parte prima di diventare scultura o ambito pezzo di arredamento. Poi, sullo sfondo, compaiono intraviste le montagne della Versilia, che ne dichiarano la provenienza. Fino alle sue opere più recenti, in cui c’è ancora e sempre la Versilia, ma i monti sono diventati linee e la Versilia è rappresentata anche con il suo mare, i suoi infuocati tramonti e i suoi orizzonti di luce. I blocchi si sono quasi trasfigurati in parallelepipedi perfetti dai colori vivaci, protagonisti unici di scene vuote, costruite su linee che nascono da un solo punto di fuga, che ricordano quelle dei binari sul molo del Forte dei Marmi su cui si trasportavano i blocchi di pietra, dalla terra al mare. I suoi dipinti, composti da grandi spazi e ampi silenzi, rappresentano la Versilia tutta, dal mare al monte, dalla spiaggia al marmo, dalle cabine al cielo. Nel teatro del particolare ci fanno vedere l’infinito, soppesare il vuoto, constatare presenze inesistenti ma suggerite. Sembra di respirarvi una brezza fatta di salso e polvere di marmo, un’atmosfera inconsistente che rischiara la vista e rasserena l’animo. La mostra di Marcello Polacci trova quindi nel Chiostro di Sant’Agostino a Pietrasanta la sua collocazione ideale, per rappresentarne l’ambiente e le sue caratteristiche salienti. Le sue tele radiose e sempre più aperte sono un invito al sogno metafisico, con pareti di cielo e pavimenti di sabbia. Le linee ci conducono intanto verso un domani migliore: ci coinvolgono ma non si fermano, noi siamo solo sulla loro traiettoria. Le improbabili architetture, se qualche volta inquietano, hanno però sempre una misteriosa, rassicurante e luminosa speranza: una porta tra dimensioni spazio-temporali parallele che è via di fuga, salvezza, libertà ma anche tramite tra mondi contigui e pure infinitamente distanti che pur coesistendo e attraverso di essa comunicando, si ignorano. Per me, medico che non sa scrivere, non sa dipingere né scolpire né ha qualsiasi altra qualità anche lontanamente artistica, è un orgoglio particolare presentare la mostra di questo stimato amico e collega.

Pietrasanta, febbraio 2006

L’Assessore alla Cultura Daniele Spina 7


senza tempo con l’Itaca appesa al pennello gli orizzonti come approdi cari appaiano, multiple certezze di futuri possibili celati dal mare la colpa ci perseguita con ombre sovrapposte ma anche l’esperienza in spazi metafisici nostri unici porti possibili del Viaggio Louis Livadhiotis Forte dei Marmi e dintorni, Autunno 2005

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Considerazioni sulla mia pittura di Marcello Polacci

C

ominciai a dipingere alla fine degli anni cinquanta, dedicando alla pittura i momenti che la mia professione di medico mi lasciava liberi, e all’inizio quei momenti erano abbastanza lunghi. Nel 1960 un gallerista di Milano a cui interessava la mia pittura, mi disse: “Devi prendere una decisione, o fai il pittore o fai il pediatra”. Scelsi la seconda strada. Comunque non ho mai abbandonato del tutto i pennelli e oggi, che ho lasciato da qualche anno l’attività medica, si è risvegliata prepotentemente in me la vecchia passione. Perché mi è venuta l’idea di dipingere i blocchi di marmo? Ho cominciato a dipingere blocchi per due motivi. Primo per un omaggio alla mia terra di Versilia. I blocchi di marmo per me non sono freddi parallelepipedi ricoperti di polvere e di terra, ma sono “carne” di quelle montagne, di quelle madri vecchie come il tempo, testimoni di storia lontana, di un metamorfismo millenario. Sono pezzi della mia terra ed attraverso loro ho sentito la necessità di esprimere le mie sensazioni, i miei ricordi, i miei pensieri, i miei sogni. Io vivo a Forte dei Marmi, posta dal buon Dio fra il mare e le Alpi Apuane. I marmi delle Apuane, insieme al mare, sono i simboli e la ricchezza della Versilia, terra che vive e sopravvive grazie al mare e al prezioso marmo delle sue montagne . Secondo, perché per la loro ferma stabilità, per la loro inamovibile forza, li ho visti come giusti simboli per rappresentare quella ideale resistenza, quella ideale opposizione, che oggi tutti noi sentiamo necessaria, per erigerci antagonisti al degrado, alla fragilità morale e materiale, alla vulnerabilità dell’uomo schiavo delle proprie passioni, consapevole della propria fragilità e transitorietà. A questo pazzo mondo moderno che ha disatteso i valori assoluti, universali. All’inizio ho dipinto i blocchi con un linguaggio realistico, così come si vedono nei “piazzali” dei laboratori di marmo della Versilia. Successivamente questi “pezzi della mia terra” li ho idealizzati, umanizzati, stabilendo con loro un misterioso rapporto e un dialogo, finché hanno cominciato a vivere e ad assumere una loro personalità. Nel mio immaginario sono diventati dei personaggi che vivono le alterne vicende della vita come in un quotidiano gioco di scacchi. Li ho idealmente trasportati e ambientati nei luoghi dai quali provengono: dal mare e dalle montagne. Con le loro ambientazioni illogiche fanno parte di irreali paesaggi di sogno, che stanno fra il vero, il verosimile e il fantastico. Dipingo una realtà che sta sotto gli occhi di tutti ma in una maniera diversa da quella alla quale siamo abituati. I miei paesaggi hanno bisogno di essere letti attentamente, non solamente guardati. 9


Combinazioni di diverse prospettive. Prospettive audaci realizzate in modo rigoroso con contenuti fantastici, spesso surreali. Si potrebbero chiamare dei paradossi logici in quanto rappresentano una realtà -irrealtà che, pur rappresentando un legame con il vero, mostrano una particolare atmosfera irreale, enfatizzata dai colori, dagli spazi silenziosi, da ambientazioni di sogno, nei quali non si vede ma si sente la presenza dell’uomo. I miei blocchi sono disposti con rigoroso ordine geometrico in una lucida geometria di cose immaginate, cercando con esse di mettere in forma poetica i miei sogni, i miei ricordi, le mie sensazioni. La mia pittura vuole essere un modo di porsi davanti al mondo, di penetrarne i temi angoscianti del nostro tempo, di mostrare quei significati morali, validi per me e per chiunque intenda riproporsi il tema della fragilità umana.

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Una inattesa rappresentazione del mondo di Dino Carlesi

L’

emozione grafica e coloristica è stata coltivata da Marcello Polacci in tanti anni di passione e di attenzione dedicate entrambe all’arte proprio negli stessi momenti in cui il mestiere costringeva l’amico a fare il “dottore”. Un tirocinio continuo di attese e di predilezioni soffocate, anche se non del tutto, in quanto bastava anche un ritaglio di tempo o un giorno di riposo per porre mano ai pennelli e concretizzare una visione che magari era dentro da anni e che attendeva che il processo creativo si realizzasse. Ed era tale l’interesse per la pittura che quando è sorta la possibilità di realizzarlo egli vi si è dedicato con giovanile entusiasmo, al punto di insistere su un motivo dominante, addirittura in modo ripetitivo, cioè sui blocchi di marmo, quelli che da piccolo aveva visto scendere dal monte sulla lizza delle cave e che nella sua mente erano rimasti fissati come un incubo e una tragedia. Ma questa non è la realtà e possiamo affermare fin da ora che quella iterazione di massi non è una banale ripetizione di un motivo ricorrente ma una sequenza di scene sempre diverse, poste in luci contrapposte, con i blocchi che si pongono come vittime o personaggi vincenti che entrano nella decorazione oppure partecipano alla composizione con autonoma presenza, che vivono il loro dramma esistenziale di pietre colme di tempo e di storia, pronte a farsi interpretare nei vari modi perché il messaggio artistico rimanga sempre ricco di ambiguità e misteriosità. Ho affrontato subito questo problema perché ciò mi consente di contestare i critici dell’effimero che parlano inutilmente del peso dei marmi e delle loro misure, dei massi visti come volumi “statici” troppo ripetuti per carenza di fantasia creativa: invece la lievitazione di un’idea – perché l’arte è sempre sintesi di immaginazione e cultura – vive di tempi lunghi, il prodotto risultando sempre una elaborazione esistenziale di un evento che viene da lontano, rientra nel problema della “conoscenza” e si realizza come risposta “necessaria” di vita e d’arte. Il Polacci medico era già virtualmente possessore dei suoi messaggi poetici, la poesia rimanendo viva e presente ora nelle sue scenografie mentali ma già latente nel suo pensiero d’artista: queste sue opere dipinte non sono improvvisazioni di un medico che cerca di dare un senso al “tempo libero” ma appaiono quali frutti intensi di meditati ripensamenti e soprattutto quali originali urgenze di comportamenti legati alla visione del mondo e al modo di viverci. Il dolore trascorso tra i pazienti non era andato perduto, aveva fruttato il senso del rischio e del pericolo, la coscienza della fragilità, l’attesa dei miracoli 11


impossibili, ed ora nasceva l’urgenza della saldezza veritiera, la solidità della pietra seppure alleviata dalla poesia del colore e dalla misura di un ordine a cui porre mano col senso dell’armonia. Gli altri amici pittori avevano quasi esaurito il loro compito, avevano già dipinto le loro utopie. Ora toccava a lui, a Marcello. Ed è qui che l’accortezza e la fantasia intervengono per impedirgli di farsi ripetitore del linguaggio dei Maestri conosciuti, stimati e amati: l’eccezionalità di questa esperienza di Polacci sta proprio nell’originalità delle sue composizioni che, pur richiamandosi – come tutti – alle poetiche del cubismo o del realismo o del geometrismo, non ne fanno motivo dominante ma giungono a conclusioni inaspettate semplici e originali, classicamente liriche. Evidentemente Polacci è dotato di una sua energia, di un suo impeto interiore che lo portano al legittimare un suo evento personale al punto da includerlo nell’area della sua “conoscenza”, anche se noi trattiamo solo il lavoro svolto dal 1996 al 2006. All’inizio i blocchi delle sue Apuane erano semplici “cose” guardate con occhio realistico e quasi neutro, blocchi terrosi e quasi assenti, per poi passare alla fase successiva in cui i blocchi iniziano a umanizzarsi, a farsi parte di un tutto che compendia vari elementi, coinvolge forze facenti parte di un progetto segnico e cromatico elegantemente risolto. I primi blocchi erano sovrapposti secondo un ordine legato al lavoro e alla fatica, deposti su terre realmente calpestate e con fondali marini non ancora del tutto assimilati allo spirito del dipinto, poi i blocchi hanno cominciato a partecipare alla vita del sogno, cioè la storia umana che era dietro ad ogni blocco iniziò a mostrare le proprie sembianze: “Piazzale di notte” del ’96 è già un tripudio di personaggi riuniti sul palco del mondo. E poi i “percorsi” scuri tra i blocchi allineati e poi quelli incisi da linee parallele e sovrapposti come figure colorate con fondali grigi e azzurri. All’inizio del nuovo secolo Polacci toccò il momento massimo del suo rischio e del suo progetto lirico: o seguitare a lasciare in solitudine i suoi soggetti pur arricchendoli di cieli spiagge e mari quali quinte di un teatro colmo di malinconia oppure iniziare a coinvolgere in modo più intimo questi volumi ormai pronti per essere accolti in “composizioni” solenni, in armonie circolari o cubiche disponibili per essere trasferiti in “interni” o anche deposti ai piedi dell’Altissimo: così la montagna ritrovava i propri blocchi smarriti in un contesto ancora più poetico. E qui il pittore arricchisce le pietre delle ombre care alle “piazze d’Italia” di De Chirico, il quale giocava sulle arcate aperte alla luce mentre Polacci gioca sulle ombre dei suoi massi duri e aspri, ed infine l’inserimento dei blocchi nelle dimensioni interne di uno spazio entro cui essi possano familiarmente diventare “lui e lei”, predisporsi in armonica coppia come due “bagnanti” multicolori, porsi in successione tra due torri rosse e due porte, collocarsi in ambienti ricchi di magia con corridoi che s’avviano verso l’infinito e il mistero delle geometrie. L’artista ha qui sfruttato tutte le sue conoscenze 12


tecniche, la cultura dei linguaggi conosciuti e capiti, per esempio ricuperando antiche visioni cubiste per far dimenticare la realtà fisica degli oggetti e raggiungendo così il punto estremo di riduzione e rarefazione (che aprirà dopo le vie all’astrazione) in modo da consentire che il gioco delle scacchiere, i punti di fuga, le cabine, gli orizzonti e le scalinate acquisissero significati profondi di vita, aspetti non solo visivi di situazioni esistenziali complesse e pronte a chiudersi nel buio della notte (“Prima della tempesta”, 2005) o a creare i misteri della metafisica per renderli esplorabili all’artista e a noi (“Ombre”, 2005) e anche per cogliere la forza magica che le “sfere” rosse rivelano dinamicizzando le “scalinate” (“La sfera rossa”, 2005) che portano chissà in quale paradiso. Quanto sono stati utili gli anni di ripensamento che Polacci ha trascorso a guardarsi attorno, a cogliere i segreti del vivere, i rapporti tra eventi e persone: ora le persone sembrano non esistere più , esistono i loro immaginati fantasmi che tracciano percorsi tra problemi e tensioni, prima che le porte verdi si aprano, prima che la surrealtà prenda il sopravvento totale trasferendo nei blocchi i colori del mare, un mare che ricorda i dechirichiani “bagni misteriosi”, prima che l’insieme ci costringa alla scelta del viaggio, soprattutto quello verso la speranza. Solo in questa magrittiana sequenza di mari che diventano pavimenti geometrici e viceversa, solo queste cabine solitarie che racchiudono i loro sacrosanti misteri, solo queste scacchiere su cui si gioca il destino dell’uomo che non si vede, solo in questo spettacolo visivo veramente insolito Marcello Polacci consuma l’esperienza più tenera e più commovente della sua vita: non si tratta di una trovata occasionale o di una sopraggiunta reminiscenza di motivi estetici goduti nel passato, ma di un determinante mutamento nel modo di porsi davanti al mondo, di penetrarne angoscianti temi di attesa, conquistarne angoli dai dolenti significati morali non solo per lui ma per ogni essere che intende riproporsi il tema della propria fragilità e misteriosità. Provoca un certo sgomento questa rappresentazione del mondo e forse neppure l’autore – giunto a questo punto della sua vita – si rende bene conto a quale sconvolgente sintesi egli sia pervenuto. Altro che il collezionista Polacci fedele alla sua raccolta di opere, altro che il pediatra amico pronto al consiglio sulla salute o sulla bellezza: Marcello si è dedicato alla ricerca di sé, a trovare il bandolo di quel groviglio che fu già di Montale o dei cavalieri di Marini o dei cavallini di Music: tutti in allerta in ascolto dei segnali più segreti che la cultura appena suggerisce ma che il talento tenta di scoprire e di realizzare. Anche se si è presentato un po’ in ritardo il talento di Marcello è un segnale che merita grande attenzione e stimoli.

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Tavole


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Blocchi, 1996 - acrilico su tela 40x30


Mezzogiorno, 1997 - acrilico su tela 40x30

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Percorso tra i blocchi, 1997 - acrilico su cartone 35x50


Piazzale di notte, 1996 - acrilico su tela 50x70

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Blocchi, 1997 - acrilico su tela 30x40


Marina con blocchi, 1998 - acrilico su cartone 35x50

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Bagnanti, 2004 - acrilico su compensato marino 40x50


Bagnanti, 2004 - compensato marino 61x80

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Fine del gioco, 2004 - compensato marino 70x100


Fuori dal tunnel, 2004 - compensato marino 50x70

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Lui, Lei e la sfera, 2004 - acrilico su tela 30x40


Riunione di famiglia, 2004 - acrilico su compensato marino 30x40

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Speranza, 2004 - acrilico su compensato marino 35x50


Cammino della speranza, 2005 - acrilico su compensato marino 49x59

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Il capannone, 2005 - acrilico su tela 70x100


Orizzonti diversi, 2005 - acrilico su tela 70x100

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Al di qua dell’orizzonte, 2005 - acrilico su compensato marino 35x50


La cabina di famiglia, 2004 - acrilico su compensato marino 30x40

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La sfera rossa, 2005 - acrilico su compensato marino 50x70


La grande inutile scalata, 2005 - acrilico su compensato marino 57,5x77,5

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Ombre, 2005 - acrilico su compensato marino 52x64


Una luce all’orizzonte, 2005 - acrilico su compensato marino 30x40

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Alba, 2005 - acrilico su compensato marino 50x70


Una scelta di vita, 2005 - acrilico su compensato marino 44,4x57,5

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40

Le Apuane, 2005 - acrilico su compensato marino 55,5x74,8


Prima della tempesta, 2005 - acrilico su compensato marino 50x70

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Successo, 2005 - compensato marino 50x43


Forte dei Marmi, 2005 - acrilico su compensato marino 65x85

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Paesaggio versiliese, 2005 - acrilico su compensato marino 46,5x57,5


Ombre viola, 2005 - acrilico su compensato marino 57,4x63,6

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Interno con cabine 2, 2005 - acrilico su compensato marino 57,5x78


Punto di fuga, 2005 - acrilico su compensato marino 50x40

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Paesaggio improbabile, 2005 - acrilico su compensato marino 40x50


Il Grande Vecchio, 2005 - acrilico su compensato marino 50x54,6

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La visita, 2005 - acrilico su compensato marino 40x30


Paesaggio surreale, 2006 - acrilico su compensato marino 50x70

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Equilibrio instabile, 2006 - acrilico su compensato marino 34x49


Il pino, 2006 - acrilico su compensato marino 70,3x44,4

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Note critiche, bibliografiche e testimonianze

Silvana Arata Ho sempre nutrito grande ammirazione e rispetto per il dottor Marcello Polacci fin da piccola, naturale, avendolo avuto come pediatra. Poi, col tempo, ho avuto modo di conoscere l’aspetto più singolare della sua personalità, l’amore profondo e continuo per l’arte, per la pittura in particolare. Versiliese autentico nato a Pietrasanta e abitante a Forte dei Marmi ha sempre coltivato la passione per l’arte, vissuta anche nell’esercizio della sua professione di medico come una risorsa, un valore importante al quale fare riferimento. Conoscitore profondo della materia, ha frequentato gallerie prestigiose, ha stretto rapporti con noti artisti – tra i quali Dazzi, Soffici, Carena, Maccari, Migneco, Dova – e critici d’arte. Dal 1976 ai primi anni ’90 ha diretto a Forte dei Marmi la Galleria d’Arte Moderna riversando tutta la sua competenza innovativa e dopo svariate esperienze ora ha avvertito l’esigenza prorompente di scoprire la sua vena artistica. Così ha dato forma e luce ai suoi quadri attraverso solidi blocchi di marmo ovvero “i pezzi” della sua terra, la Versilia che tanto ama. I marmi delle Alpi Apuane simboli e ricchezza di questa terra insieme al mare. Un binomio inscindibile, incantato che rappresenta la solidità dei valori più autentici dell’uomo e la sicurezza che gli deriva dalle sue radici. Una pittura autonoma che si riflette tra porte misteriose, scacchiere del gioco della vita, spiragli di luce. E’ la Versilia con i suoi monti protettivi, con il suo mare di speranza a richiamare oltre il tempo e lo spazio chi si sofferma su queste opere del dottor Marcello Polacci o meglio, oggi, dell’artista vero che ha intrapreso il suo nuovo cammino. Raffaello Bertoli Pesanti, immobili, squadrati, danno un senso di sicurezza: sono i blocchi di marmo delle Apuane. “… Per me non sono freddi parallelepipedi, ricoperti di polvere e di terra“, dice Marcello Polacci, “ma sono la carne di quelle montagne, di quelle madri vecchie come il tempo…” Nella sua pittura – ricca di colore, suggestiva per atmosfere – i blocchi, a poco a poco, sono diventati personaggi: giganti solenni, certi della loro durezza, della loro inamovibile forza, ma soprattutto fermi antagonisti della fragilità del nostro tempo. Basta pensare che un metro di altezza, uno di base, uno di profondità, danno un metro cubo: se di marmo, grosso modo, pesa due tonnellate e mezzo. La fragilità morale dei nostri giorni è ben più spicca dei blocchi sul piazzale delle cave; la fragilità della nostra vita, costretta a muoversi tra inquinamenti, tragedie ecologiche, nubifragi spaventosi, delitti cinici, delinquenza scatenata e vuoto etico, non è ciò che si attendeva dal cosiddetto progresso. Polacci, versiliese doc, sente la necessità di tornare alle cose semplici e arcaiche, alla leva capace di sollevare il mondo, al marmo di cui son fatte le nostre montagne bellissime, alle forme geometriche, alla quadratura del cerchio. Lo conosco da quando ha cominciato a dipingere, cioè da moltissimi anni. Poi la professione medica ha avuto il sopravvento... Intendiamoci: fino a un certo punto, perché segretamente non ha mai smesso di lavorare intorno al cavalletto. I blocchi di marmo delle Apuane sono scesi al mare, lungo la via tracciata da Michelangelo Buonarroti e da Donato Benti. Ci fu un tempo, in cui Forte dei Marmi era effettivamente un fortino, contornato da blocchi di marmo, che attendevano di essere 54


caricati sui navicelli. Così Polacci ha fatto l’itinerario inverso – nato a Pietrasanta, vissuto al Forte – è andato a scegliere i suoi protagonisti, sul piazzale delle cave, come il Buonarroti sceglieva il marmo per le sue statue. Tutto viene dal mare, a suon di bradisismi e di millenni. E’ un giuoco serio, quello di Polacci, i dadi dei bimbi uno sopra l’altro, uno accanto all’altro, formano case, paesi, sogni, fantasie, i dadi di Polacci sono immobili guardiani di una umana eternità. Sembrano i marinai di sentinella di Arturo Dazzi, che stanno lungo il viale a mare. Non sono fantasie, sono guizzi di creatività, suggestioni, ripensamenti. Messosi in pensione, come pediatra, ha ripreso l’antica professione dei colori. Sempre c’era stato in mezzo: amico di illustri pittori, come Carrà, Carena, Soffici, Rosai, Dova, Treccani, Migneco, Direttore della Galleria d’Arte Moderna di Forte dei Marmi per lunghi anni, ha sempre avuto l’occhio allenato. Eppoi l’amore per l’arte; le grandi mostre, i musei, i libri. Non scherzava Berenson, quando diceva: “Chi ha più figurine vince”. Intendendo foto, diapositive, immagini, libri. Tre blocchi, tre colori, uno sopra l’altro… Un blocco solo e una rete fittissima di punti di fuga… Blocchi e scacchiere sul pavimento, alfieri pronti a dare scacco… Lo sfondo dei blocchi non sono le Apuane, bensì il mare: li ha portati con sé e non gli sono occorse due o tre paia di bovi, sono bastate tele, colori e pennelli. Cubi e parallelepipedi di marmo, soli nello spazio del quadro, potrebbero far pensare a gelide forme, ad atmosfere quasi metafisiche. Ma non è così. I blocchi di Polacci sono personaggi statici, ma con una dinamica interna: il marmo non è materia inerte, ma “carne” delle Alpi Apuane… E con questi personaggi vien voglia di parlare, per lo meno vien voglia di cercar di capire. Hanno qualcosa di profondo, di ancestrale, di meraviglioso. Massimo Carrà Conosco Marcello Polacci da oltre mezzo secolo e posso dire a ragion veduta che il suo amore per l’arte, pittura e scultura, ha caratterizzato la sua vita non meno del suo impegno professionale di medico. In tutta questa nostra lunga amicizia, difatti, ogni volta che ci si incontrava si finiva a parlare prevalentemente di arte e di artisti. E sono lieto di poter rendere questa piccola testimonianza su questo amore per l’arte di Marcello che via via si è esplicato in varie forme e direzioni, a cominciare dal gusto di raccogliere opere con la passione del collezionista per poi passare a gestire con la moglie Adriana una piccola galleria fortemarmina dove ha organizzato mostre soprattutto di disegni e opere grafiche di artisti importanti, pittori e scultori, del Novecento italiano. E poi ancora come direttore della Galleria Comunale d’Arte di Forte dei Marmi per la quale ha curato rassegne significative di cui ancora oggi è interessante consultare i cataloghi. E ora che dall’interesse per l’arte altrui è passato a una propria difficile attività creativa, affettuosamente gli dico: buon lavoro Marcello. Louis Livadhiotis (Segni di Futuro Passato) Un approccio cautelativo e diffidente alla pittura di Marcello Polacci è impossibile per una molteplicità di ragioni. Un’atmosfera mite ed amichevole tracciata nei quadri di Polacci crea il primo contatto con l’osservatore. Gli stessi colori intrecciati in cromatiche visoni apparentemente definite ma sottilmente dissimulate invitano anche il profano ad una meditazione serena sui temi trattati dall’artista. La semplicità pittorica dei temi introduce alla profondità dei loro argomenti. Ma come in letteratura non sono le parole pompose a creare il significato profondo, così anche nella pittura di Polacci i mezzi pittorici semplici utilizzati creano gli argomenti profondi trattati. Gli orizzonti spezzati, le linee convergenti, le ombre sovrapposte, il senso del viatico indefinito ma esistente con tracce evidenti di memoria ed infine i marmi come potenziali figure umane in un percorso astratto, tutti questi elementi sapientemente resi collaboranti attraverso il colore lasciano l’osservatore in uno stato d’animo di sospensione temporale. E’ vero che il tempo non appare esplicitamente nei quadri di Polacci ma esiste autonomamente. Questo tempo porta con sé l’esperienza, le memorie, il vissuto, la colpa, 55


la speranza ed il timore; ma ecco che questo stesso tempo guida l’osservatore in un futuro non certo, ma esistente come una prospettiva promessa. Questa meravigliosa esperienza ci viene regalata da Polacci chiedendoci gentilmente di assaporarla lentamente per cogliere tutte le sue sfumature che ci rivelano indietro ogni dettaglio pittorico. Io definirei i quadri di Polacci più che metafisici, diacronici nel senso oserei dire letterale della parola. Il tempo è stato fissato in questi quadri, l’entropia si è miracolosamente fermata ed eccoci allora trovati in un lasso temporale indefinito, indistruttibile, fermo ma con il senso del diacronico. Ecco allora che possiamo anche cogliere sfumature di un futuro passato, accennato appena dalle amorfe masse dei blocchi di marmi durante il loro indefinito viaggio nello spazio-tempo. Non credo che il pittore facesse coscientemente questi pensieri qui proposti al momento che dipingeva; credo invece, conoscendo anche la persona, che i quadri dipingessero essi stessi lo stato d’animo dell’artista al momento che lui li dipingeva onestamente. Ma come ogni singolo libro si moltiplica in tanti libri quanti i lettori, così i quadri di Polacci ci permettono di penetrarli, ognuno trovando in essi il suo proprio meta-tempo. Una nota melanconica può apparire all’osservatore più sensibile. Polacci con l’uso dei colori vivaci questa nota di melanconia la dissimula nella luminosità dei suoi quadri lasciandoci con una certa incertezza. Ma non poteva che essere così; Polacci è del solare Forte dei Marmi e la sua esperienza vissuta viene ripetuta anche involontariamente in ogni suo dipinto. Ecco allora che la superficie pittorica diventa uno specchio dentro il quale si riflette la personalità dell’artista ma anche di ogni osservatore. Fabio Mazzei Marcello, ti riporto le nuove sensazioni che ho provato mentre, a casa tua, mi mostravi i dipinti che avevi pensato di esporre nella nuova personale. Il movimento dei corpi l’ho percepito come se fosse molto avanzato stringendosi in un’unione che si fa sempre più serrata, quasi come se, avvicinandosi ad un traguardo, fosse necessaria una maggiore consapevolezza di noi stessi e delle persone che si amano, e, quindi, uscire allo scoperto con la coscienza di poter assumere il ruolo del protagonista ma sempre con la discrezione dell’animo forte. Le luci, che non rivelano la fonte di provenienza, irrompono costantemente sulla scena da una diagonale, che oserei dire “gentile”, e sono rivelatrici di una grande vitalità che mai diventa prepotente, pronte ad accompagnarci anche con una musicalità che mi piace associare ai suoni che producono i venti dei nostri luoghi sulla marina, nella pineta e sulle montagne. Ti devo confessare che stavolta sono stato catturato dall’insieme di tre situazioni: il punto o i punti di fuga, la posizione dei blocchi, la fonte luminosa e che ancora più del senso della vita e della sollecitazione al ragionamento mi sono cullato ad ascoltare e… ci sono riuscito!... ed è stato veramente piacevole! Ma ancora più intrigante ed attraente è stato rapirmi e perdermi nell’intendere: che tipo di musica si suona, chi ascolta quella musica e soprattutto chi la dirige. Le tue rappresentazioni si compongono di situazioni in cui il singolo individuo si può confrontare senza limiti di spazio e di tempo e riferire le immagini e percepirle con serenità coerentemente ai propri stati d’animo e, quindi, decidere di volta in volta, le risposte da darsi agli interrogativi che suscita la tua pittura. Ti ringrazio ancora una volta di avermi fatto partecipe delle tue opere e così vorrei che fosse anche in futuro perché sono consapevole di poter godere di ulteriori meravigliose emozioni. Tommaso Paloscia I blocchi di marmo delle Apuane, strappati da un’antica memoria, rivivono nei dipinti di Marcello Polacci, allineati e sovrapposti con ordine nei loro diversi colori-luce, e si trasformano in elementi preziosi di un gioco seriamente impegnato a ricostruire armonie disegnative e cromatiche nuove, in cui i passaggi dagli interni all’esterno, sembrano 56


meditatissime mosse su una scacchiera per giganti. Giochi anch’essi, inventati con lo studio appassionato dei valori pittorici identificati via via quando su una parete si apre all’improvviso una porta, che dall’esterno fa piovere nell’ambiente la luce vivissima chiamata a lacerare la penombra nella quale i marmi erano stati idealmente trasportati, come per una riunione di famiglia, si sarebbe detto al primo impatto Forse per questo sono immagini inquietanti e tuttavia capaci di opporre la loro solidità, all’esistere effimero di una società divenuta assai fragile e sempre meno consapevole dei propri mezzi, di cui stenta a recuperare l’energia e la validità. E’ dunque in una logica esistenziale che la sua pittura va ancor più evolvendosi in un contraddittorio vivace con i responsabili del degrado generale dell’arte, di un’arte subdolamente impoverita di soluzioni formali, degne di essere accolte nella pittura e nella scultura. E quale strumento di contrapposizione Polacci avrebbe potuto invocare più efficace della solidità dei blocchi di marmo delle sue Apuane che in queste tele fanno muraglia ideale per arginare il caos? D’altra parte la voce dei blocchi di marmo, ambientata suggestivamente nei luoghi che legittimamente la amplificano e la giustificano, è uno strumento che può anche essere “poesia” o, meglio, simbolo di una poesia disposta oggi ad assumersi il compito di tramandare alle generazioni future certi valori il cui esistere è messo in pericolo dal caos dilagante. La “voce” dei blocchi di marmo delle Apuane Marcello Polacci la esprime con una pittura nuova, soprattutto ricca di una suadente forza espressiva nel suo linguaggio pulito. Civile.

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Finito di stampare nel mese di Febbraio dell’anno 2006 dalla Tipografia Bandecchi e Vivaldi Pontedera







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