Le Vite dei Cesenati - Volume 1

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PIER GIOVANNI FABBRI

LE VITE DEI CESENATI I

A cura di Carlo Dolcini e Pier Giovanni Fabbri

STILGRAF EDITRICE CESENA - 2007


IND ICE

PRESENTAZIONE INTRODUZIONE

p.

5 7

PER UN DIZIONARIO BIOGRAFICO Dario Tiberti (Pier Giovanni Fabbri) Francesco Maria Carli (Michele Pistocchi) Giovanni Gaetano Antonio Carli (Michele Pistocchi) Domenico Carli (Michele Pistocchi) Nicola Petrini Zamboni (Franco Dell’Amore) Mattia Mariani (Paola Errani) Serafino Zanotti (Paola Errani) Robusto Mori (Giancarlo Cerasoli) Francesco (Ferenc Ákos) Kossuth (Pier Paolo Magalotti) Nazzareno Trovanelli (Elena Bellagamba) Agostino Lelli-Mami (Guia Lelli Mami) Amilcare Zavatti (Alberto Severi) Quinto Bucci (Augusto Bucci) Vittorio Bonicelli (Antonio Maraldi)

13 15 21 26 31 35 43 48 52 62 71 90 92 106 112

LE

LE

VITE

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Mattia Mariani cuoco, cronista cesenate nell’età della Restaurazione e del Risorgimento (Paola Errani) Zeffirino Re (Arnaldo Ceccaroni) Giuseppe Antonio Bagioli (Franco Dell’Amore)

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STORIE

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I cesenati dal ritorno allo stato pontificio (1465) alla strage in San Francesco (1495). I (Pier Giovanni Fabbri) 1. I “maneggi” della politica 2. Fornai e venditori di pane 3. La vita amministrativa della comunità. La Giustizia 4. Gli Albizzi a Cesena. Il caso Eburniolo Eburnioli. I clan La Coppa Renato Serra (giugno 1962) (Carlo Dolcini)

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I LIBRI INDICE

219 DEI NOMI

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Gli autori ringraziano Giuliana Adorni, Marzia Alessi, Roberto Bernabini, Gioia Bologna, Silvana Bonicelli, Piero Camporesi, Andrea Daltri, Paola Errani, Ario Franciosi, don Alberto Fusai, Brunella Garavini, Guia Lelli Mami, Nina Maria Liverani, Matteo Marzocchi, Romano Pasi, Amalia Pittaro, Claudio Riva, Carla Rosetti, Simonetta Santucci, Giampiero Savini, Rosanna Scorsone, Natalia Tizi, Valeria Zignani e tutto il personale della Biblioteca Malatestiana. La pubblicazione del presente volume è avvenuta con il contributo dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Cesena.

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PRESENTAZIONE

Ogni volta che nella nostra città viene meno una personalità di rilievo, ripenso alle occasioni che ho avuto di incontrare quell’uomo o quella donna, metto a fuoco tutto di quelle circostanze, cerco di ricordare le cose che sono state dette e mi accorgo di essermi trovato dentro a cose che in quei momenti non pensavo che avrebbero avuto poi tanta importanza. Se dovessi scriverne la vita, non potrei fare a meno di mettere le mie impressioni al centro del racconto. Cosa dire della vita di un uomo? Nella Partenza di un gruppo di soldati per la Libia Renato Serra diceva che un documento il quale parla di una battaglia è un fatto. La battaglia è un altro fatto ancora, che esiste indipendentemente da quel documento e che raccoglie “un’infinità di altri fatti”. Insomma, quel documento non è un’espressione, uno specchio di quella realtà. Così come – stando al pensiero di Serra – i miei incontri con le illustri persone che ho conosciuto mi permettono solo di dire quello che ho provato io, non quello che erano loro. “Nessuno può raccontare. Nessuno sa. Quelli che torneranno viventi, anneriti e storditi dai lunghi mesi di guerra, ne sapranno meno di quelli che non tornano, che giacciono sotto la sabbia”. Ma la realtà è sempre lì, che aspetta di essere interpretata ed ogni documento “ha sempre un rapporto altamente problematico con la realtà” (C. GINZBURG, Il filo e le tracce, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 223). Questo libro ci propone tante vite interpretate, alcune scritte addirittura dai famigliari delle persone scomparse. Più si va indietro nel tempo, più hanno peso i documenti che sono stati presi in esame e allora occorre che siano studiati con attenzione e secondo tutte le regole della scrittura storica. La posta in gioco infatti è alta, perché si tratta di nostri concittadini, i padri della città in cui essi sono vissuti ed in cui noi viviamo e dove abbiamo bisogno di riferimenti certi. Secondo le intenzioni dei curatori e degli autori del


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Presentazione

libro, ne dovrebbero seguire altri ancora, in cui le tantissime vite che meritano di essere conosciute compongano il ritratto infinito della nostra storia. Chi sono i cesenati meritevoli di tale attenzione? Il libro non ce lo dice e non vuole fare una gerarchia di possibili qualità e di meriti. Nei prossimi libri scopriremo altri nomi noti, che avranno trovato nell’impegno di ricerca e di studio dei loro biografi la loro consacrazione all’attenzione generale. E a quell’impegno noi dovremo essere grati, perché ci permette di ricordare il nostro passato e di sentirci vicini alle nostre origini. Daniele Gualdi Assessore alla Cultura del Comune di Cesena


INTRODUZIONE

Tante passioni intellettuali animano variamente gli autori di questo libro: dal comune desiderio di contribuire con la propria opera alla diffusione della conoscenza, all’aspirazione di realizzare un proprio “ideale di lavoro storico”. Quello in cui si riconosceva Delio Cantimori nel 1956, riferendosi a quanto si apprestava a svolgere Marino Berengo all’inizio della sua attività di studioso “originale e indipendente, alieno da scuole e scuolette o sette o chiesuole, alienissimo da teorizzazioni, tutto calato nelle cose”, era un ideale di lavoro storico “scientificamente serio, dalla tematica complessa, autonomo nell’impostazione dei problemi, dall’orizzonte ampio (storia della cultura e storia economica; questioni politiche e strutture giuridico amministrative, ecc. E non per sentito dire, ma per documenti d’archivio letti e intesi nel quadro generale […] )”1. All’insegna di queste parole che hanno accomunato i destini intellettuali di due grandi storici del Novecento, vede la luce questo primo libro di una serie che riguarderà le vite dei cesenati, nell’intento di creare progressivamente un dizionario biografico. Il primo dei biografati in questo volume è, per ordine di tempo, Dario Tiberti, che scrisse una sintesi delle Vite di Plutarco, autore assai amato per gli ammaestramenti che l’umanesimo si proponeva di ricavare dallo studio delle vite delle grandi personalità del passato. Il nostro tempo ha preso definitivamente le distanze da quella prospettiva di lettura2, ne ha introdotte altre che si riflettono nelle biografie contenute nel presente volume. In un’epoca in cui Internet 1

R. PERTICI, Introduzione. Marino Berengo storico della cultura ottocentesca, in M. BECultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 10.

RENGO,

Giustamente è stata però fatta notare la modernità del punto di vista di Plutarco, il quale respingeva l’opinione di Tucidide che escludeva le biografie femminili: G. POMATA, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, “Quaderni storici”, XXV, 1990, p. 346. 2


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Introduzione

può fornire immediatamente correzioni, aggiornamenti bibliografici, adeguamenti ai sistemi concettuali di volta in volta in vigore, insistere sullo strumento del libro stampato significa avere intenzione di fissare le idee con le quali si è guardato alle figure che hanno animato una collettività, con l’intenzione di lasciare una materia che possa essere essa stessa testimonianza storica. Infatti, a questo primo libro si spera ne seguano tanti altri, corrispondentemente con la volontà di proporre sia nuove conoscenze che strumenti di riflessione, ed anche che qualche studioso, forte di nuove risultanze documentarie derivate dalle proprie ricerche, riprenda in esame le personalità qui trattate, in quelli che sembreranno altri studi, altri tempi, altre circostanze. Le prospettive di lettura della propria epoca hanno sempre avuto come primo naturale referente il tempo da poco trascorso, nel quale erano vissute le persone di cui si desiderava serbare il ricordo. Quando Niccolò II Masini scrisse alla fine del Cinquecento la Vita di Malatesta Novello, non solo ricordò i termini della propria esperienza, ma anche quanto sopravviveva della memoria collettiva cittadina e quelle notizie sono ancora oggi insostituibili per ricostruire l’età dell’ultimo signore di Cesena (1418-1465). Da un’età di diversa collocazione della città nel contesto globale, quando Cesare Borgia all’inizio del Cinquecento sembrava volesse fare di Cesena la capitale del proprio ducato, e quando Gianangelo Braschi – papa Pio VI – e Barnaba Chiaramonti – papa Pio VII – negli ultimi anni d’antico regime apparivano agli occhi dei cesenati i competitori di Napoleone, si sarebbe passati in età contemporanea a nuove dimensioni delle personalità, in grado di ricondurre ai grandi temi della vita pubblica, che esse abbiano o no esercitato un ruolo di primo piano nella storia nazionale. La scelta fatta dagli autori di questo libro non ha però nulla di programmatico. Si tratta in parte di figure trattate nei propri studi, alle quali si è voluto dare una fisionomia organica, in parte di avvio di un progetto di trattazione di personalità che non era giusto restassero sconosciute sulle lapidi che intitolano con i loro nomi i luoghi. Nel 1871 l’amministrazione comunale volle dare all’antica via che si era chiamata delle Ortolane il nome di Zeffirino Re3, un 3 Relazione sulla nuova appellazione delle piazze e contrade della città (ASCe, ASC, 3546, XXVII/5, 1871).


Introduzione

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letterato cesenate morto nel 1864 a Fermo, dove era vissuto negli ultimi decenni della sua vita. Era un omaggio che aveva un significato politico4 nell’Italia unitaria e ancora oggi l’uomo che vediamo ritratto corrucciato, con la mano posta sul giustacuore, rappresenta una delle vie di Cesena più animate e ricche di storia. Ma mentre è possibile ricostruire questa ed altre vite, resta ben poco di tanti altri cesenati del passato, soprattutto se lontano. Tuttavia quel poco è giusto che emerga, se non nella forma ora impossibile della biografia, almeno dell’accenno che i documenti trasmettono. La terza sezione del libro è occupata quindi da una trattazione storica piena di nomi, alcuni dei quali potrebbero essere “quegli uomini illustri le cui biografie alimentano da secoli la memoria celebrativa dei progressi umani”5. Man mano che le memorie di loro si raccoglieranno, sarà possibile dare corpo alle loro fisionomie ancora frammentate, ma almeno tolte dall’oscurità. Quell’oscurità sembra tanto più avvolgere la nostra conoscenza del passato quanto più aumentano le ricostruzioni storiche variamente indotte dall’estremamente diversificata domanda del nostro tempo, stando ad una posizione già ricordata da Daniele Gualdi nella presentazione della presente opera e che ha portato oggi a considerare la storiografia “con sospetto, […] giudicata come un racconto intrinsecamente indifferente al contenuto di verità”6. All’opinione formulata da Renato Serra nel 1912 sull’efficacia dei documenti per la ricostruzione storiografica7 dà risposta l’appassionata difesa di uno storico nostro contemporaneo, che invita a consi-

M. RIDOLFI, Una “piccola patria” sociabilità culturale e opinione pubblica nel “lungo ottocento”, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2004, pp. 69-92. 4

5

A. PROSPERI, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Torino, Einaudi, 2004, p. 355.

L. CANFORA, Noi e gli antichi, Milano, Rizzoli, 2002, p. 50. Si veda la conclusione dell’A., là dove dice che scrivere storia è una lotta contro la distruzione del tempo, che l’assenza di passioni è la “peggiore condizione per scrivere storia” e che “il concetto che aiuta a capire è forse quello espresso da Eduard Schwartz a proposito di Erodoto, quando notò che quel greco d’Asia divenuto poi partigiano di Atene e storico delle guerre persiane parlava di ‘un passato sentito ancora come presente’”, p. 62. 6

7 M. BIONDI, La storia e il miraggio delle storie, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 2, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2005, pp. 471-498.


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Introduzione

derare possibile la conoscenza storica8. Ed è un altro storico che ci porta a riflettere sui temi connessi alla tradizionale opposizione fra storia e biografia, con la nascita, dopo l’“autopsia”, dell’“antiquaria”, quando cioè accanto alla fonte considerata valida solo se frutto dell’osservazione effettuata con i propri occhi, si introdusse anche la trascrizione dei documenti fatta da chi voleva trasmetterli all’utilizzo dei posteri9. Le Occhurentie et nove di Giuliano Fantaguzzi e le cronache di Mattia Mariani sono i due termini di riferimento temporali entro i quali si sono sviluppate nella storia cesenate le più ricche fonti cosiddette narrative, insieme a tutta la tipologia delle fonti cesenati d’età moderna, che hanno animato le ricerche di quest’ultimo secolo. Carlo Dolcini Pier Giovanni Fabbri

8 C. GINZBURG, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000. “Le fonti non sono né finestre spalancate, come credono i positivisti, né muri che ostruiscono lo sguardo, come credono gli scettici: semmai potremmo paragonarle a vetri deformanti”, p. 49. 9

CANFORA, Noi e gli antichi cit., p. 48.


SIGLE

ACBSR ACMS ACPMS ALCC APBMC

= = = = =

APCD

=

ASC ASCe ASCFe ASFo ASFP ASRFP

= = = = = =

ASRoma AVC BCC BCM

= = = =

Archivio Storico del Consorzio di Bonifica Savio-Rubicone Archivio anagrafico del Comune di Mercato Saraceno Archivio della chiesa prevostale di Mercato Saraceno Archivio del Liceo Classico “V. Monti” di Cesena Bologna, Archivio della Provincia Bolognese dei Frati Minori Conventuali Archivio della Pieve dei Ss. Cosma e Damiano in San Damiano Archivio Storico Comunale Sezione dell’Archivio di Stato di Cesena Archivio Storico Comunale di Ferrara Archivio di Stato di Forlì Archivio Storico Comunale di Forlimpopoli Archivio Parrocchiale della chiesa di San Ruffillo, Forlimpopoli Archivio di Stato di Roma Archivio Vescovile di Cesena Biblioteca Comunale di Correggio Biblioteca Comunale Malatestiana di Cesena



PER UN DIZIONARIO BIOGRAFICO



Dario Tiberti Nacque nei primi anni della seconda decade del Quattrocento da Pier Giovanni Tiberti e da Pergolina, figlia di Angelo della Pergola, che fu condottiero al servizio dei Malatesti. La famiglia Tiberti aveva ricevuto il feudo di Monteiottone dall’episcopato cesenate, su probabile ispirazione dei Malatesti e dietro consenso delle autorità comunali cesenati, secondo un progetto che mirava a ottenere in cambio l’aggregazione delle popolazioni del comitato ed il servizio della famiglia a Cesena, città nella quale numerosi membri della famiglia si inurbarono, affermandosi nella vita politica cittadina. Dario Tiberti seppe ricavare da tale potenza i vantaggi per la propria affermazione sociale. La vicenda che per prima lo pose alla ribalta dell’attenzione pubblica si svolse in un anno imprecisato del quarto decennio del ’400, quando sposò Elena, una ricca ereditiera alla cui mano aspirava un giovane notabile di Fano, che durante la cerimonia nuziale irruppe in armi con altri al suo seguito, ferendo ed uccidendo. Il ferimento in quell’occasione di Marco Aguselli, Antonio Casini e di Carlo Lapi, che avevano reagito all’aggressione, dimostra le relazioni, anche di parentela, che i Tiberti avevano saputo stabilire con gli strati più alti della società cesenate. Gli effetti di tale legame si leggono nella condanna a morte di tre degli aggressori, pronunciata dal signore di Cesena, Malatesta Novello, nonostante i vincoli che lo legavano al giovane fanese, riconducibili alla comune patria dei Malatesti. Ma più delle relazioni personali contavano le ragioni della politica, che dovevano tacitare lo sdegno e la mobilitazione delle diverse famiglie, con le implicite richieste di riparazione. Ai Tiberti, come agli altri magnati, il signore di Cesena offrì continuamente le occasioni che dovevano procurargli il consenso


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Per un dizionario biografico

delle famiglie forti della città. Dario acquistò da Malatesta Novello la gestione della riscossione delle gabelle in più di un’occasione dal 1454 al 1456 insieme con Gaspare Lapi, Poltrone Ottardi e Borello Borelli e, stando alla cronaca di Giuliano Fantaguzzi, l’affare non andò bene né a lui né ai suoi soci. Nella vita politica cesenate di quegli anni un motivo costante fu la necessità, da parte del signore, di contemperare le pressioni esercitate dagli uomini della propria corte e dalle famiglie della nobiltà di tradizione, che chiedevano tutti il massimo delle esenzioni fiscali, con le richieste di una maggiore giustizia distributiva avanzate dalla maggioranza del consiglio cittadino. Quando Malatesta Novello nel 1461 volle introdurre un catasto che obbligasse alla dichiarazione veritiera delle proprietà immobiliari, Dario Tiberti non dichiarò che alcuni terreni erano suoi, lamentandosi poi che essi fossero stati messi all’asta perché nessuno ne aveva denunciato il possesso. Il ruolo di rilievo che egli aveva cominciato ad assumere, consegnatogli poi dal prestigio ricavato dal culto delle lettere, si confermò anche nell’età postmalatestiana, durante la quale in consiglio si dimostrò attento ed intelligente interprete delle esigenze civili, ma anche strenuo difensore dei privilegi della propria classe sociale. I turbamenti che sopravvennero a Cesena dopo il 1489, con l’inizio dei contrasti fra le parti, alterarono lo svolgimento tradizionale della vita collettiva, che dall’età malatestiana e nei primi venticinque anni del ritorno allo Stato della Chiesa non aveva conosciuto discordie civili così devastanti. La rivalità che a suo tempo aveva opposto Agamennone Tiberti a Bonifacio Martinelli, alti ufficiali di Malatesta Novello, spia a sua volta di collocazioni sociali divergenti che avevano reso i Martinelli in grado di assolvere meglio ai compiti di gestione della cosa pubblica con le loro capacità imprenditoriali derivanti dalla loro origine borghese e non feudale, quell’antica rivalità si riaccese con l’arrivo di un governatore legato per parentela ai Martinelli. I favori che egli concesse a questa famiglia determinarono reazioni accese dall’altra parte, e l’antica capacità di mediazione esercitata dai Malatesti prima e dai governatori pontifici poi non fu sostituita dai tentativi della classe dirigente locale di comporre le discordie. Le parti attirarono anzi sempre più adepti, provocando una situazione di continui contrasti e di difficile eser-


Dario Tiberti

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cizio dell’amministrazione, aggravato dalle scelte talvolta punitive dei pontefici che non seppero immediatamente provvedere con la rimozione dei governatori incapaci. Nel 1492 i Tiberti, sostenuti da Venezia che mirava alla conquista della città, entrarono a Cesena razziando le case dei rivali. Per rappresaglia, il castello di Monte Iottone fu spianato da un esercito inviato da Innocenzo VIII. Morto questo pontefice, Tiberti e Martinelli fecero pace davanti al nuovo papa Alessandro VI, ma i governatori di Cesena non riuscirono più a frenare i contrasti, che continuarono senza trovare un’autorità che sapesse piegarli alle esigenze di una pace comune. Polidoro fu il rappresentante della famiglia Tiberti che prese le iniziative politiche e militari di maggiore respiro, tanto che nel 1494 fu cacciato da Cesena. Il 14 luglio del 1495 la risposta dei Tiberti a quelle che sentirono come sopraffazioni nei loro confronti si espresse nell’uccisione dei loro rivali durante una funzione religiosa nella chiesa di San Francesco. L’iniziativa fu organizzata da Achille Tiberti, il membro più irrequieto ed insofferente di freni della famiglia. Da quel momento, fino alla fine del secolo, le parti si scambiarono continuamente il ruolo: chi vinceva restava in città a dominare, chi perdeva andava esule a cercare protezioni per il rientro violento in città. Il ruolo di Dario Tiberti appare defilato, in queste occasioni, nel senso che non appare mai protagonista, data anche l’età avanzata e la cecità, sopravvenutagli nel 1494. Aveva occupato ancora la ribalta, non solo cittadina, uccidendo a coltellate, in un anno imprecisato, a Monte Iottone la moglie Elena, accusata di adulterio. Passò poi a seconde nozze (la notizia è ancora di Fantaguzzi, che non ne fornisce la data) sposando Elena appartenente alla famiglia forlivese Moratini. Nel 1497 una figlia di Dario si sposò e Achille Tiberti organizzò a Cesena una pubblica e sontuosa festa, che, a detta di Fantaguzzi, portò un po’ di consolazione nella città. Ad Elena Moratini il consorte dedicò un poema di 8018 versi latini (“non certo bellissimi”, G. ZANNONI), intitolato De legitimo amore, che aveva lo scopo di esaltare l’amore coniugale. Elena fu ribattezzata Aurelia e l’opera fu dedicata nel 1499 a Guidubaldo da Montefeltro, al quale Dario riconobbe il merito di avere salvato casa Tiberti. Quando le relazioni con il potere pontificio si fecero più spigolose ed i Tiberti si sentirono stretti dentro la camicia che imponeva


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Per un dizionario biografico

l’autorità di uno stato, si rivolsero al vicino Montefeltro, ottenendo un’interessata attenzione, che tornò utile per un po’. Nel 1499 Polidoro Tiberti aveva mutato le direttive delle disposizioni ricevute dal consiglio comunale cesenate, convincendo Alessandro VI che Cesena avrebbe aperto le porte al figlio Cesare. Non era vero, ma il papa gli credette. Quando si seppe di quest’iniziativa privata di Polidoro, la parte che in quel momento dominava Cesena cacciò dalla città tutti i membri della famiglia Tiberti. A Dario toccò rifugiarsi a Sorrivoli. Quando infine Cesare Borgia riuscì ad avere ragione delle resistenze dei cesenati, Polidoro entrò trionfante in armi senza vendicarsi dei nemici con i soliti saccheggi. Tuttavia, il vantaggio di cui potevano godere i Tiberti sfumò per la contrapposizione del codice feudale di questi ultimi al senso che volle dare il Valentino al proprio potere, insofferente dei privilegi richiesti dalle famiglie di tradizione. I Tiberti progressivamente passarono nel campo opposto del duca d’Urbino, ed addirittura i figli di Dario, nel 1502, conquistarono il castello di Tavoleto per conto di Guidubaldo. Il passaggio all’altra parte procurò un’accusa di tradimento da parte dei commissari che agivano a Cesena per conto del Valentino con le conseguenti accuse di ribellione e confisca dei beni di Palmiero e di Oddantonio, figli di Dario Tiberti. Il castello di Monte Iottone fu distrutto ed i Tiberti “fonno spoiati del suo castello e solfanara e intrada e dominio, che lo aveano tenuti 100 anni” (FANTAGUZZI). Con il ritorno di Cesena allo Stato della Chiesa, ed il ripristino della magistratura dei conservatori, che Cesare Borgia aveva abolito, Dario Tiberti fece parte della prima muta di conservatori insediatasi nel 1504, ma le cronache dicono che in quell’occasione un suo figlio, Ercole, si accapigliò con un conservatore, membro di una famiglia rivale. I contrasti continuarono e culminarono in un omicidio eccellente di cui si macchiarono i Tiberti nel giugno 1505. Nella conseguente ritorsione, il 3 agosto fu bruciata la casa di Dario Tiberti e tre giorni dopo dalla casa di un artigiano, dove era andato a rifugiarsi, “de lì cavò fora miser Dario Tiberto vechio, de anni 80, di Tiberti, e […] dicendolli che s’aracomandasse al diavollo, lo taionno a pezi e amazollo miseramente” (FANTAGUZZI).


Dario Tiberti

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OPERE DI DARIO TIBERTI È fondata l’ipotesi che la maggior parte della produzione letteraria di Dario Tiberti si debba collocare nell’ultimo trentennio della sua vita. Al 1487 risale la compilazione di una guida alla lettura dei Salmi (“Darii Tiberti equitis patritiique caesenatis brevissima in Psalterium interlinearis glosula”, BCM, ms. D. I. 8, cc. 5r-122v) che in un altro esemplare ms. appare dedicata ad Ippolito d’Este. Dalla residenza di Monte Iottone, che doveva essere il rifugio ideale dal clima di tensione che si respirava a Cesena ed al quale nessun membro della famiglia poteva sfuggire nell’ultimo decennio del secolo, Dario Tiberti licenziò nel 1492 l’epitome delle Vite di Plutarco, che dedicò al governatore di Cesena Giulio Cesare Cantelmo. Questi a sua volta ne fece dono nel 1500 al fratello Sigismondo, che provvide a fare stampare l’opera a Ferrara nel 1501. A quella stampa è sostanzialmente legata la fortuna letteraria di D. T.: quel compendio delle Vite di Plutarco ebbe una ristampa a Basilea nel 1541 ed una serie di volgarizzamenti, a partire dal Cinquecento, in Italia, in Francia, in Inghilterra, fino all’Ottocento (RESTA, 90-100). Dario Tiberti concluse la stesura del poema De legitimo amore (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. Lat. 767) nel 1498 (anno in cui il poeta chiese un giudizio sull’opera ad Antonio Urceo) e lo dedicò, come si è detto, a Guidubaldo da Montefeltro. Ad Elisabetta Gonzaga, consorte del signore di Urbino, Dario Tiberti dedicò il suo Contemplationum libellus (BCM, ms. D. I. 10), che “comprende 317 componimenti indirizzati alternativamente uno Ad Christum, uno Ad Virginem” (RESTA, 121). Circa i suoi rapporti con i letterati italiani, un tramite fu Giovanni Antonio Torelli, cancelliere della comunità di Cesena e genero di Antonio Costanzi (CAMPANA, 8). Si vedano poi un tentativo (non riuscito) di D. T. di fare venire l’umanista perugino Maturanzio nel 1486 come maestro di scuola a Cesena, gli epigrammi in lode di Dario Tiberti trascritti di seguito all’esemplare cesenate della Glosula in Psalterium ed in generale quanto scrive RESTA, 111-114, 118-119.


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Per un dizionario biografico

FONTI E BIBLIOGRAFIA BCM, ms. 4. 6. 1, 22 giugno, 26 luglio, 28 luglio 1488 (è un autografo di D. T., che dichiara Cornelio proprio figlio); ms. 164.64, XV-XVI sec., G. FANTAGUZZI, Caos e Occhurentie et nove, cc. 4v, 13r, 21r, 32r, 48r, 66v, 68r, 83r, 87r, 88r, 254r, 255r; ms. D. I. 8, F. UBERTI, Franciscus Ubertus ad eundem, c. 123v. ASCe, notarile, Antonio Stefani, 87, 21 agosto 1452, cc. 45r-46r (sulla madre di D. T.); Gaspare Marri, 91, c. 77r (su Oddantonio, figlio di D. T.). G. J. VOSS, De Historicis Latinis, Leiden, Ioannes Le Maire, 1651, p. 657; P. LABBE, Bibliotheca bibliothecarum, Parisiis, Billaine, 1664, p. 320; V. MASINI, Il zolfo, Cesena, Gregorio Biasini, 1759, p. 94; G. M. MUCCIOLI, Catalogus codicum manuscriptorum malatestianae caesenatis bibliothecae, I, Cesena, Gregorio Biasini, 1780, pp. 12-15; R. ZAZZERI, Sui codici e libri a stampa della Biblioteca Malatestiana di Cesena, Cesena, Vignuzzi, 1887, pp. 9-10, 12; G. ZANNONI, “De legitimo amore” poema di Dario Tiberti, “Rendiconti della R. Accademia dei Lincei”, VII, 2, 1891, pp. 69-78; L. PICCIONI, Di Francesco Uberti umanista cesenate de’ tempi di Malatesta Novello e di Cesare Borgia, Bologna, Zanichelli, 1903, pp. 64-67; A. CAMPANA, Umanisti chiamati alla scuola di Cesena nel 1486. Per le nozze di Tina Franchini e Alfredo Beltrami, Santarcangelo 20 febbraio 1928; G. RESTA, Le epitomi di Plutarco nel Quattrocento, Padova, Antenore, 1962, pp. 76-100, 109-122; G. ORTALLI, Malatestiana e dintorni. La cultura cesenate tra Malatesta Novello e il Valentino, in Storia di Cesena, II. Il Medioevo. 2 (secoli XIV-XV), a cura di A. VASINA, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena - Ghigi editore, 1985, pp. 146-147; D. HERLIHY, C. KLAPISCH-ZUBER, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 737738; P. G. FABBRI, Cesena tra Quattro e Cinquecento. Dai Malatesta al Valentino a Giulio II: la città, le vicende, le fonti, Longo, Ravenna 1990, ad indicem; IDEM, Amministrazione comunitativa e dominio pontificio a Cesena (1486-1488), nell’età di Innocenzo VIII, “Studi Romagnoli”, XLII (1991), pp. 507, 515, 517, 523, 524; IDEM, Una città e una signoria: Cesena nell’età malatestiana (1379-1465), Manziana, Vecchiarelli, 1997, p. 100n; IDEM, Da un registro notarile nell’archivio vescovile di Sarsina: i Tiberti a Monte Iottone, “Atti e memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, N. S., L (1999), p. 85; IDEM, La società cesenate nell’età di Malatesta Novello Malatesti, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Quaderni degli Studi Romagnoli, 17”), 2000, pp. 24-26; La signoria di Malatesta Novello Malatesti (1433-1465), a cura di P. G. FABBRI e A. FALCIONI, Rimini, Ghigi (“Centro Studi Malatestiani - Rimini. Storia delle signorie dei Malatesti. XVII”), 2003, ad indicem (contributi di P. G. FABBRI, G. BRAVETTI MAGNONI, P. G.


Daro Tiberti – Francesco Maria Carli

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FABBRI – A. FALCIONI – C. RIVA); P. G. FABBRI, Storie di Cesena. Uomini, donne, cose e istituzioni fra tardo medioevo ed età moderna, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori, 33”), 2005, pp. 131-132; IDEM, Il governo della città, in Malatesta Novello nell’Italia delle signorie. Fonti e interpretazioni, a cura di M. MENGOZZI e C. RIVA, Atti del Convegno, Cesena, 26-27 marzo 2004, Cesena, Studi Romagnoli (“Saggi e repertori, 32”), 2005, pp. 74-84; IDEM, Le cronache cesenati, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena - Ghigi editore, 2004, pp. 426-427; Il dono di Malatesta Novello, a cura di L. RIGHETTI, D. SAVOIA, Atti del Convegno, Cesena, 21-23 marzo 2003, Cesena, Comune di Cesena - Istituzione Malatestiana - Ponte Vecchio editore, 2006, ad indicem (interventi di R. AVESANI, G. M. ANSELMI, P. LUCCHI).

Pier Giovanni Fabbri

Francesco Maria Carli Francesco Maria Carli nacque a Cesena l’otto febbraio 1651 dal magnifico Giovanni e dalla sua prima moglie, Giulia, appartenente alla famiglia cittadina dei Casacci (o Casazzi). Il padre era uno dei tre fratelli Carli discesi dal milanese per questioni mercantili. La famiglia aveva rilevato la bottega e i traffici dei bergamaschi Quarenghi, con i quali avevano avuto rapporti forse già in precedenza in Lombardia. Primogenito della coppia, Francesco Maria fu il primo della famiglia a diventare dottore, cioè laureato probabilmente in Giurisprudenza o in materie letterarie e retoriche. La famiglia dei Carli in quegli anni, giunta da poco in Romagna, stava cercando una posizione stabile all’interno della cittadinanza cesenate. Il tre fratelli furono ascritti al ceto “cittadino”. Giovanni si unì in prime nozze con una discendente di un’antica famiglia del ceto medio; sposò poi Margherita Boni, appartenente ad una famiglia di notai cesenati; infine, verso il 1668, fu concluso il terzo matrimonio con Leonida Bargellini, figlia di Ippolito e di Lucrezia degli Aldini, di gran lunga la più altolocata delle consorti del Carli. Dal matrimonio con la Casacci nacquero Francesco Maria, Margherita (1653) e Antonia (1657), che non sopravvissero. Dalle nozze con Margherita Boni invece Giovanni ebbe due bambine en-


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trambe battezzate col nome di Giacoma (una nel 1661 e una due anni più tardi), che morirono entrambe ancora infanti. La terzogenita dei Carli-Boni fu Antonia (1664), seguita nel 1666 da Adamo, la cui madrina fu Caterina Carli, cugina del padre perché figlia di Giovanni Pietro e moglie di Antonio Ubaldini. Da Leonida Bargellini invece nacquero due figlie: Lucrezia (nel 1669) e Antonia (nel 1670), delle quali non rimane traccia. Francesco Maria, il figlio primogenito della famiglia, venne istruito nell’arte poetica e retorica per volere dei genitori, che probabilmente speravano che il figlio riuscisse a conquistare un posto all’interno della città che non fosse quello dei padri, cioè di mercante, bensì di professore e di letterato. Le cronache antiche lo ricordano come “vir eruditissimus et poeta insignis”. Sfortunatamente al momento non si conoscono poesie o versi ascrivibili con certezza alla sua mano. Si sa invece che egli era uno studioso amante dei libri. Nella sua abitazione si contavano alcuni libri considerati all’epoca “pericolosi”. Da alcune indagini dell’Inquisizione avvenute in quegli anni si viene a sapere infatti che Francesco Maria fu incarcerato per qualche tempo, accusato di possedere volumi proibiti. Il 23 novembre 1700, gli agenti del Sant’Uffizio mettono in carcere a Faenza il dottor Carli, requisendogli carte, libri e manoscritti trovati nella sua casa. Francesco Maria non fu l’unico della famiglia a subire maltrattamenti. Adamo, minore di Francesco Maria di quindici anni, fu crudelmente assassinato da un’archibugiata nel 1688. Il sicario fu a detta di alcuni Matteo Braschi, parroco della cattedrale di Cesena; a detta di altri invece fu Agostino Buschi. Non si conosce la ragione che portò all’assassinio del giovanissimo Carli. Grande confusione regna nelle cronache cesenati, perché viene confuso questo Adamo Carli, figlio di Giovanni, con l’omonimo zio, fratello del padre Giovanni, che però morì intorno al 1660. Nel caso in cui si sia trattato del Buschi, si potrebbero sospettare rivalità finanziarie, visto che la famiglia Buschi commerciava in pellami e calzature ed i Carli in stoffe e abbigliamento di lusso. Comunque siano andate le cose, Francesco Maria, a partire dal 1688, rimase l’unico erede dei beni del padre. La famiglia abitava nella parrocchia di Santa Maria di Boccaquattro, quindi all’interno della zona della città che ospitava le fa-


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miglie più illustri. Sottostava alla chiesa sia la contrada delle Tavernelle, sede da secoli della zona commerciale della città e delle abitazioni dei facoltosi mercanti e notabili cesenati, sia quella nobiliare di Santa Caterina, che prendeva il nome dal vasto convento voluto negli anni Sessanta del XV secolo dall’ultimo Malatesta signore di Cesena. In uno Stato delle Anime dell’anno 1681 si legge che in contrada di Santa Caterina abitano Giovanni Carli, figlio di Giovanni Battista e di Giustina Boraini, assieme alla moglie Leonida Bargellini e ai figli Francesco Maria “dottore” e Adamo. Accanto al nome di Francesco Maria compare anche quello di sua moglie: Violante Francesca Rossi, figlia di Silvio e di Lucrezia Fabri. Da studi fatti attraverso la consultazione degli Stati delle Anime della diocesi milanese della zona di Porlezza si è scoperto che il cognome Boraini è circoscritto alla zona alto lombarda/ticinese. Visto che il nome di Giovanni Battista e della Boraini compare solamente per via indiretta negli atti riguardanti i tre figli, si crede che non siano stati Giovanni Battista e la moglie a scendere in Romagna, quanto piuttosto i loro figli. Dopo la morte del padre (1686) e quella del fratello Adamo (1688), Francesco Maria e sua moglie decisero, supportati dalla nuova abbondanza di mezzi, di edificare una casa degna dello status sociale raggiunto dalla famiglia Carli. Fu nello stesso 1688 infatti che il cugino di Francesco Maria, Giovanni Battista di Adamo, tentò di entrare nel ceto patrizio della città, pur non riuscendovi. Nel 1699 il dottore e Violante dei Rossi decisero così di acquistare un vasto terreno che si trovava nella zona di Porta Santi. La coppia fu favorita nell’acquisto dal fratello di Violante, che era canonico di San Severo. La chiesa infatti era proprietaria di un lotto edificabile che si trovava lungo la via di scorrimento che congiungeva il duomo e la porta verso la porta dei Santi e che giungeva fino alle mura. L’edificio si presentava a pianta a forma di “U”, con un vasto cortile aperto sul retrostante giardino, e la fronte verso strada caratterizzata per il carattere signorile, ma non vistoso. Presentava in origine un porticato terreno, senza soluzione di continuità con gli edifici della via, ed una facciata elevata di un solo piano nobile ed un attico ad oculi ovali. La porzione centrale dell’edificio è rientrante per la lunghezza di cinque finestre, dando così respiro all’e-


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dificio e permettendo all’appartamento di rappresentanza di poter godere di una terrazza verso la strada sorretta dal porticato sottostante, cinta da una pregevole balaustra in pietra che anima il blocco dell’edificio. Furono i successivi possessori del palazzo – i marchesi Guidi di Montiano – a commissionare ingrandimenti e decorazioni per l’edificio. Agli inizi del Novecento furono poi aggiunte le opprimenti cornici in stile pseudo-barocco che ornano le aperture in facciata. L’edificio, molto degradato nelle sue strutture, è stato recentemente adibito a sede del Conservatorio di Musica “Bruno Maderna” ed è sottoposto proprio in questi anni a campagne di restauro che stanno riportando il palazzo agli antichi splendori. La bella scala a doppia rampa, per esempio, fu aggiunta per volere dei Guidi, così come le pitture delle volte interne che ancora rimangono. Dove un tempo la loggia a terrazzo separava il cortile dal retrostante giardino, dai primi del XX secolo funge da mezzo divisorio tra il cortile antico dell’abitazione e un secondo luogo pavimentato, cinto da edifici bassi di servizio e utilizzati a mo’ di stalle e scuderie, rimesse e magazzini, ospitanti al loro interno anche un pregevole teatrino. Edificato per volere del dott. Francesco Maria, il palazzo passò in via ereditaria non ai cugini, bensì ai marchesi Guidi di Montiano. Il Carli cedette l’edificio alla potente famiglia dei Guidi, che abitavano sempre nella stessa via, ma dal lato opposto, ben prima della sua morte, ma con la clausola di restarne usufruttuario vita natural durante. L’atto, che fu firmato dal Carli, escluse di fatto i Carli da qualsiasi diritto alla successione dell’edificio, che però passò nelle mani dei nuovi proprietari solamente alla morte del dottore Francesco Maria, avvenuta nel 1714. L’esimio letterato aveva redatto un primo testamento nel 1693, in cui nominava erede dei suoi beni Tommaso Carli, figlio del cugino Giovanni Battista di Santarcangelo. Dallo stesso atto si viene a sapere che Tommaso, all’epoca del testamento, viveva nel Seminario di Cesena. Francesco Maria aveva disposto la sua sepoltura nella chiesa di San Severo, davanti l’altare di San Filippo. Violante Rossi avrebbe goduto dell’amministrazione dei beni del marito nel caso di età non ancora matura dell’erede. Una nota è di particolare interesse: Francesco Maria lascia a un certo Matteo Pio di Venezia 180 ducati l’anno fino alla morte. Qualora non gli fosse stata versa-


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ta detta somma, il Pio avrebbe avuto il diritto di appropriarsi della metà dell’eredità del defunto. Di questo Matteo si sa solo che era figlio di una tale Elisabetta Pio, abitante in Calle della chiesa di San Biagio. Non è da scartare l’ipotesi che si trattasse di un figlio illegittimo avuto a Venezia, sebbene oggi non si sappia ancora nulla su ipotetici viaggi in Laguna effettuati dal Carli. Un secondo testamento, rogato il 5 marzo 1715, istituisce sua unica erede la moglie Violante Rossi. Non si sa che cosa sia stato di Tommaso di Santarcangelo né del veneziano Matteo Pio. Di Tommaso Carli sembra che si abbia notizia anche nel testamento di Giovanni Battista Carli, figlio di Adamo, nel quale si ricorda la presenza di due figlie di questo Tommaso. Potrebbe invece trattarsi di quel Tommaso Carli, gesuita, che tanto fu onorato per le predicazioni in periodo pasquale nel 1747 e al quale si dedicarono vari sonetti. Forse Francesco Maria decise di mutare gli eredi dei suoi beni in seguito alla sua incarcerazione avvenuta nel novembre del 1700. Nei decenni successivi alla sua morte, i cronisti locali e le fonti storiografiche non si dilungarono sulla vita del dottor Carli. Rimase viva la memoria della sua incarcerazione, non ancora sufficientemente approfondita, e quella della sua abilità poetica. Una veloce nota nelle schede che descrivono il palazzo dei Guidi precisa che esso appartenne ai Carli, senza però dilungarsi ulteriormente. La mancanza di versi o scritti attribuibili alla sua penna, i misteriosi rapporti con Venezia e le complesse vicende con l’Inquisizione romana lasciano tutt’oggi aperte ampie vie di ricerca.

FONTI E BIBLIOGRAFIA ASCe, notarile, Giovanni Pepoli, 4324, c. 133; Brunello Brunelli, 4392, cc. 281-284v; Agostino Molinari, 4626, cc. n. n.; Giovanni Antonio Merlara, 4489 (1697), cc. n. n. ; Antonio Chiaruzzi, 4546, cc. 236r-237v; Anastasio Chiaruzzi, 4594, cc. 88r-89r, c. 75v; Giovanni Antonio Pirini, 4476, c. 192v; 4477, cc. n. n.; 4478, cc. n. n.; Ignazio Lodovico Scala, 4586, cc. n. n.; 4587, cc. 20r-25v; Stefano Ambrogio Sar., 4653, cc. 90r-92v. AVC, Chiesa parrocchiale di Santa Maria di Boccaquattro, Liber defunctorum (1681-1711), c. 64v; vol. 21 (1648-1655), c. 90v.


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BCM, ms. 164.16, XVIII-XIX secc., M. VERDONI - M. A. FABBRI, Memorie di Cesena I. Cose memoriabili e cronologia di Cesena di don Mauro Verdoni con la continuazione di M. A. Fabbri fino al 1789, I, c. 315; ms. 164.36, XVIII sec., D. DE VINCENTIIS, Bibliotheca Caesenatensis illustrium scriptorum sive elogia virorum illorum qui Caesenam eorum patriam doctrina, consilio et scriptis illustraverunt, cc. 91-92r; 365v-366; ms. 164.34, XVIII sec., C. A. ANDREINI , Notizie delle famiglie illustri di Cesena. Anno MCDDDIX, II, cc. 552-554, XXXVII; ms. 164.70.13, XIX sec., G. SASSI, Estratti dalli stati d’anime delle sopranotate parrocchie fatto a cura del sac. Gioacchino Sassi canonico, c. 29; ms. 164.45, XVIII sec., E. BUCCI, Memorie ecclesiastiche, c. 127. Palazzi nascosti, a cura di Assoc. Cult. Artemisia, Cesena, 2000, pp. 55-60; S. SOZZI, Breve storia della città di Cesena, Cesena, 1972, p. 167; P. G. FABBRI, P. LUCCHI, Tavole cronologiche, in Storia di Cesena. III. La dominazione pontificia (secoli XVI-XVII-XVIII), a cura di A. PROSPERI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1989, p. 682; M. GORI, Architettura dal Cinquecento all’Ottocento, in Storia di Cesena. V. Le Arti, a cura di P. G. PASINI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1998, p. 167.

Michele Pistocchi

Giovanni Gaetano Antonio Carli Nacque a Cesena da Carlo e Francesca Bandi; fu battezzato l’11 maggio 1695. Il padre discendeva dalla facoltosa famiglia dei Carli, scesi dalla Lombardia alla fine del XVI secolo. Non sappiamo se già i Carli avessero goduto di una certa nobiltà nella loro terra di origine. Resta comunque il fatto che essi, pur fregiandosi di uno stemma e del titolo di “magnifico”, non vennero da subito ascritti al patriziato cesenate. Il nonno di Giovanni Gaetano, il “magnifico” Adamo, era stato ascritto alla cittadinanza cesenate prima del 1627. La famiglia poteva vantare una solidità economica di tutto rispetto, grazie al fiorente commercio e all’attività di mercanti e negozianti di panni e merci di lusso. Da parte materna invece, Giovanni discendeva da una delle antiche famiglie cesenati, i Bandi, ascritta nelle file della nobiltà. La madre Francesca infatti era figlia di Giuliano e di Letizia Beccari. Come primogenito della coppia (altri tre parti l’avevano preceduto, ma i bambini erano morti ancora infanti), egli poté godere dei


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privilegi della sua nascita – aveva come padrini lo zio Giovanni Battista Carli e la nonna Letizia Bandi Beccari –; impartitagli un’adeguata istruzione, la famiglia puntò su di lui per fare finalmente il grande “salto di qualità”. Già nel maggio del 1688, suo zio Giovanni Battista aveva tentato di entrare nel Consiglio della città, ma inutilmente. Il matrimonio con una Almerici fu il primo passo per la studiata ascesa sociale. La giovane Rosa degli Almerici, figlia di Antonio e di Caterina Aguselli, nata a Cesena nel 1707, fu promessa in sposa al giovane erede dei Carli. Dopo il matrimonio, la giovane coppia si stabilì nella casa dei Carli in contrada di Santa Caterina. Nel 1720, infatti, Giovanni e Rosa risiedevano con i genitori e i fratelli del novello sposo. La casa, già di possesso del nonno Adamo, passò in seguito ai Bagioli, quindi al canonico Giovanni Ridolfi. Di una prima casa della famiglia Carli nella contrada suddetta si ha notizia dal testamento di Giovanni Pietro Carli datato 1647, rogato in “contrata Porte Ravegnane”. Essa apparteneva al fratello di Adamo. I figli di Giovanni Pietro e di Antonia de Castellinis lasciarono alla loro morte i beni di famiglia al cugino Carlo, padre di Giovanni Gaetano. Fu in questo modo che il già agiato Carlo si vide beneficiato delle nuove entrate derivategli dal ramo primogenito della famiglia. Un’altra casa della stessa famiglia nella stessa contrada è ricordata nel 1681 di possesso di Giovanni Carli, figlio di Giovanni Battista. Egli era fratello di Adamo e Giovanni Pietro. Aveva contratto matrimonio per ben tre volte; la prima con Giulia, della famiglia cittadina dei Casacci, dalla quale aveva avuto nel 1651 Francesco Maria; quindi con Margherita Boni, da cui era nato Adamo nel 1666; ed infine con Leonida Bargellini. Negli anni 1719-1720 Giovanni Gaetano Carli si adoperò per ottenere un seggio in Consiglio, ricorrendo con un proprio memoriale direttamente al papa. Il 5 marzo 1722 vide confermata la sua richiesta e fu finalmente ascritto al ceto nobile della città di Cesena, assieme ad altri che avevano fatto richiesta. Raggiunta così quella posizione sociale che la famiglia da anni agognava, Giovanni Gaetano poté dare il via ai lavori di ristrutturazione delle proprie case, lasciategli in eredità dal padre. In origine si trattava di più case accorpate insieme, che il Carli decise di far


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demolire per dar spazio ad un vasto cortile (uno dei più spaziosi di Cesena), dove un tempo sorgevano diversi corpi di fabbrica. Venne così uniformato uno spazio quadrangolare, che ospitava al suo interno anche una zona alberata e a parterre. L’architetto – rimasto per ora ignoto – della fronte verso la contrada di Santa Caterina prese spunto dall’architettura civile cesenate e romagnola del tempo, disegnando una facciata semplice e lineare. Un corpo maggiore, su tre livelli, formava un blocco centrale ed uniforme, privo di aggetti o rientranze. Le finestre vennero contornate da una semplicissima cornice in cotto; così come in laterizi furono progettati gli unici due elementi decorativi della facciata: due lesene angolari a gradoni, a segnare la giuntura tra il blocco centrale e le due ali simmetriche (più basse) che si dipartivano dal corpo principale, e il contorno del portone centrale, che fungeva da perno simmetrico dell’intero edificio. La costruzione, sebbene dal carattere un poco rustico, si poneva in linea con la maggior parte dell’architettura civile cesenate, sobria e dignitosa, contrapponendosi invece allo sfarzo fin troppo esibito dell’incompiuto palazzo dei Ghini. Il palazzo dei Carli segnerà una tappa fondamentale per l’architettura cesenate. I marchesi Romagnoli ne riprenderanno gli equilibri della facciata, seppur animandola con decorazioni e mosse tipiche del miglior barocchetto. La famiglia Carli non lasciò ai posteri solo questa fabbrica del neo-consigliere Giovanni Gaetano. Un altro bell’edificio aveva fatto innalzare il cugino del padre Carlo in contrada di porta dei Santi, quel letterato e poeta Francesco Maria, nato da Giovanni e dalla Casacci, che pervenne poi ai Guidi e che ora ospita il Conservatorio di Musica della città. Nel 1724 nacque da Giovanni Gaetano e da Rosa Almerici Carlo Maria. Seguirono poi Pietro, Giuseppe, Caterina, Giuseppe, Anna Maria, Domenico, Francesco. Non tutti sopravvissero. Carlo Maria fu quello che si dice “la pecora nera della famiglia”. A differenza del fratello Domenico, che divenne un avvocato famoso, accademico dei Filomati e podestà di Cesenatico, e di Francesco, che sposò Lodovica Tizzoni di Ravenna, la cui madre era una certa Caterina della potente famiglia dei conti Rasponi delle Teste, Carlo Maria Carli ebbe una vita abbastanza travagliata dal punto di vista matrimoniale. Ebbe infatti una figlia fuori dal matrimonio nel 1763


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da una certa Caterina Bazzocchi, che divenne sua moglie probabilmente senza il consenso dei genitori di lui. Si legò poi in matrimonio con Caterina Borghetti: un’avventuriera che aveva alle sue spalle già due matrimoni e che lascerà tutti i suoi beni al figlio di secondo letto, Bartolomeo Conti di Forlì. Carlo Maria sarà infatti l’unico dei fratelli Carli a non occupare un seggio in Consiglio. Pietro, nato nel 1729, diventerà canonico in San Mamante; Giuseppe (nato nel 1737) sarà nominato tenente colonnello nel 1787 e sarà assoldato come comandante di un reggimento del duca di Parma. Egli sarà il primo dei Carli ad esser fregiato del titolo comitale. La sorella Anna Maria (nata nel 1739) sposò invece un conte Vizzani di Ravenna, stringendo così maggiormente il legame con la grande nobiltà romagnola. Francesco Carli e Lodovica Tizzoni acquisirono il palazzo dei Beccari, che era posto di fronte al duomo, in contrada di porta Cervese (demolito nel XIX secolo), dando origine al ramo dei conti Carli detti “del Duomo”. L’avvocato Domenico ereditò il palazzo del padre, ampliandolo verso la contrada di Mezzo e rinnovando l’apparato decorativo interno. Egli farà infatti affrescare i soffitti e alcune scene al celebre Giuseppe Milani, che restano tutt’oggi tra le prove più felici del pittore ben affermato a Cesena. Alcuni soffitti neoclassici al piano terreno, verso via Chiaramonti, tradiscono il mutamento di gusto che avvenne a partire dalla seconda metà del Settecento e che coinvolse Cesena coi progetti del Giani e del Guidi. Allo stadio attuale delle ricerche non è chiaro se questi soffitti siano stati eseguiti ancora dai Carli o già dalla famiglia Chiaramonti (che acquisì il palazzo nel 1807). È però noto che il Tomba aveva inviato ai nuovi proprietari il progetto di ristrutturazione della facciata dell’edificio, che però non venne mai eseguita. Le dimensioni troppo vaste dell’edificio e i probabili costi di mantenimento costrinsero i figli di Domenico a cedere il palazzo ai conti Chiaramonti nel 1807, permutandolo con la casa molto più modesta che si trovava nella parrocchia di Sant’Agostino e che apparteneva per l’appunto ai Chiaramonti (ora Via Milani). Il felice periodo di ascesa sociale dei Carli si poteva dunque dire terminato con la morte dell’avvocato Domenico. Le fortune accumulate dalla famiglia nel corso dei secoli furono in breve tempo


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sperperate dai discendenti, non più interessati alla carriera politica e ormai troppo nobili per darsi alla mercatura. Giovanni Gaetano però morì durante il periodo di apoteosi della sua prosapia.

FONTI E BIBLIOGRAFIA ASCe, notarile, Nicola Lamberti, 3849, cc. 579-601; Francesco Agostini, 5078, cc. 217 e segg.; Giovanni Prospero Calanchini, 4107, cc. n. n. AVC, Battesimi, 26 (1685-1688), c. 41v. BCM, ms. 164.70.13, XIX sec., G. SASSI, Estratti dalli stati d’anime delle sopranotate parrocchie fatto a cura del sac. Gioacchino Sassi canonico, c. 1; ms. 164.36, XVIII sec., D. DE VINCENTIIS, Bibliotheca Caesenatensis illustrium scriptorum sive elogia virorum illorum qui Caesenam eorum patriam doctrina consilio et scriptis illustraverunt, cc. 91-92r; ms. 164.34, XIX sec., C. A. ANDREINI, Notizie delle famiglie illustri di Cesena. Anno MDCCCIX; tomo II, cc. 552-554; ms. 164.46, E. BUCCI, Libro in cui si scriveranno da me Ettore Bucci diverse memorie antiche della città di Cesena mia patria, secondo che mi perveranno alle mani, o mi saranno suggerite da altri, cc. 333-356. Due papi per Cesena, a cura di P. ERRANI, Bologna, Pàtron 1999, p. 142; S. SOZZI, Breve storia della città di Cesena, Cesena, 1972, p. 167; P. BELLETTINI, La lenta trasformazione: finanza e società a Cesena nel Settecento, in Storia di Cesena. III. La dominazione pontificia (secoli XVI-XVII-XVIII), a cura di A. PROSPERI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1989, pp. 373, 375-378; F. MINECCIA, Tra riforme e rivoluzione. L’economia del Cesenate dalla fine dell’antico regime alla caduta del regno italico, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, p. 368.

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Domenico Carli

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Domenico Carli Nato nel 1725, Domenico Carli era figlio di Giovanni Gaetano e di Rosa Almerici. Il padre fu il primo della famiglia ad esser stato aggregato al Consiglio di Cesena nel 1719. La madre discendeva invece dagli Almerici presenti a Cesena dal XV secolo. Si sa che il fratello Carlo Maria nacque nel 1724 e gli altri due fratelli che sopravvissero, Giuseppe e Francesco, nacquero nel 1737 e nel 1741. Una cronaca cesenate lo dice studente a Roma nella facoltà di Giurisprudenza. Divenne ben presto un provetto avvocato, molto ricercato sulla piazza. La prima notizia certa che riporta il suo nome è un elenco dei Soci dell’Accademia dei Filomati del 1751, in cui compare un “dottor Domenico Carli cesenate, avvocato”. Egli occupò il posto del padre nel Consiglio di Cesena prima del fratello Francesco. Domenico si sposò con una veneziana: Margherita Bajetti, figlia di Antonio, veneziano di nascita ma cittadino faentino. Della famiglia della moglie non si conserva una traccia consistente, anche se si sa che dovevano essere, se non musicisti essi stessi, legati all’ambiente musicale veneziano. L’avvocato, assieme ad una sua parente (Orsola Bajetti Babbi), fu chiamato a comparire alla nascita della figlia illegittima del fratello Carlo Maria. Quest’ultimo infatti, figlio “scapestrato” di Giovanni Gaetano e dell’Almerici, aveva avuto una figlia da una certa Caterina Bazzocchi al di fuori dal matrimonio. La bambina venne al mondo nel marzo del 1763, quando Carlo aveva solamente diciannove anni. Un matrimonio riparatore con una ragazza povera era impensabile senza una rottura con la famiglia paterna. La bambina non venne riconosciuta all’inizio. Solo in una postilla successiva conservata nei registri dei Battesimi dell’Archivio Vescovile di Cesena si specifica che quella Giovanna Giustina Francesca era figlia di Carlo Carli e aveva come padrino l’avvocato Domenico. Il riconoscimento dovette avvenire al momento delle nozze tra il Carli e la Bazzocchi. La decisione però portò alla rottura con il padre. Il nome di Carlo pare scomparire e eclissarsi nell’ombra fino alle sue seconde nozze avvenute con Caterina Borghetti, una ricca avventuriera al suo terzo matrimonio.


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Domenico e Margherita ebbero cinque figli, di cui tre sopravvissero. Giovanni, il primogenito, nacque nel 1763, seguito da Anna Maria, Carlo e Traiano (che morirono infanti) e Prospero, nato nel 1775. Il primogenito non ebbe discendenza e rimase scapolo fino alla morte, avvenuta nel 1816. Anna Maria, unica figlia femmina, sposò il tenente colonnello Giuseppe Rouzaud, un francese sceso con le armate napoleoniche da cui ebbe due figlie femmine. Prospero sposò Margherita Serafini, da cui ebbe quattro figli. Della vasta attività forense dell’avvocato Carli rimane traccia fin dal 1775, anno in cui gli venne assegnato il compito di provvedere ad un potenziamento delle risorse cittadine. Un’importante causa del 1782 contro Lorenzo Amadori lo rese maggiormente noto alla comunità. Le leggi restrittive proposte dal conte Fantaguzzi andavano ad ostacolare i mercanti di canapa e il commercio locale. Esse furono osteggiate dal Carli e dal fratello Giuseppe, che proprio in quegli anni era depositario generale. Conseguita la vittoria in tribunale, a Domenico furono regalate alcune azioni della società. Quattro anni più tardi, nel 1786, Domenico fu capo del Magistrato nel bimestre luglio-agosto e nel 1770 venne incaricato di presentare un nuovo progetto riguardante la vendita della canapa. Marco Antonio Fantaguzzi aveva infatti proposto un piano economico troppo restrittivo che, ancora una volta, andava a sfavorire i mercanti. Tra i membri della Congregazione di Agricoltura compare anche il Carli. Eletto podestà di Cesenatico, nel 1797 Domenico faceva parte dell’amministrazione francese, già eletto presidente della Consorteria. Il suo nome infatti compare nelle file dei giacobini romagnoli assieme a quelli della nobiltà illuminata della provincia papalina. Nell’estate del 1799 l’avvocato dovette rifugiarsi nella parrocchia di Santa Cristina assieme ad altri esponenti del partito filo-francese per non incorrere nella prigionia. Ciò però non tolse il vigore al tenace uomo di legge, che si schierò sempre più apertamente a fianco dei francesi e di Napoleone, tanto da occupare le cariche più alte dell’amministrazione pubblica in quegli anni di fermento politico. Le sue scelte in campo politico furono condivise dalla sua stessa famiglia. La figlia Anna Maria infatti si sposò con il colonnello francese Rouzaud ed il figlio Prospero si unì alla Serafini, non appartenente alla nobiltà. Anche le figlie di Prospero preferirono la


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classe dell’agiata borghesia illuminata e giacobina piuttosto che la vecchia nobiltà papalina. Chiara sposerà infatti Giuseppe Marsigli e Matilde il dottor Archimede Mischi. Con esse, il ramo dei Carli discesi da Domenico e dalla Bajetti si estinguerà. Il grande palazzo di famiglia in contrada di Santa Caterina (oggi via Chiaramonti), ereditato dal padre Giovanni Gaetano, fu completato dal figlio Domenico verso gli anni Settanta del XVIII secolo. Un atto relativo alla lite che insorse tra i fratelli Carli e la vedova Carli-Almerici alla morte del padre testimonia che Domenico aveva assunto l’amministrazione dei beni di famiglia. Le proprietà erano state lasciate in eredità ai figli che avevano raggiunto la maggior età, lasciando invece privi Giuseppe e Francesco. Proprio nello stesso atto, la casa di famiglia in contrada di Santa Caterina viene ricordata come appena ultimata nella sua parte principale. L’acquisto di altre proprietà verso la Trova di Mezzo permise un nuovo affaccio dell’edificio, chiudendo con un braccio il vasto cortile quadrangolare che si era venuto a creare dopo l’abbattimento di alcune case già negli anni Venti del secolo. Ciò che portò ai massimi livelli la dimora dei Carli fu l’aggiunta delle decorazioni pittoriche delle sale di rappresentanza, dove venne chiamato ad operare il celebre Giuseppe Milani, autore di vasti affreschi sia in dimore private sia in chiese e conventi. Il palazzo, passato ai figli di Domenico alla morte di questo, avvenuta nel 1805, venne ceduto alla famiglia Chiaramonti dopo soli due anni. I costi elevati che imponeva una proprietà del genere, le finanze forse non così floride della famiglia come negli anni di avvocatura del padre, la vita più in sordina della società cesenate napoleonica favorirono l’accoglimento della richiesta del nipote di papa Pio VII. Il palazzo dei Carli fu permutato con quello della famiglia di Scipione Chiaramonti. I Carli si trasferirono quindi in un palazzotto meno vistoso accanto a Sant’Agostino (oggi via Milani), sul cui retro si apriva un giardino che toccava le mura della cerchia verso l’Osservanza. Gli ultimi testimoni delle fortune dei Carli furono i figli di Domenico e i cugini, figli di Francesco. Questi discendevano per parte materna dalla famiglia dei conti Rasponi delle Teste di Ravenna e si imparentarono con esponenti di famiglie della zona ravennate e marchigiana, come i conti Vizzani e i marchesi Buti di Montenovo. Anche questo ramo però, dopo aver conseguito il titolo comitale


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Per un dizionario biografico

agli inizi del XIX secolo, si estinse nel conte Giovanni Carli, che fu, tra le altre cariche onorifiche, bibliotecario della Malatestiana. La loro dimora, ereditata dai Beccari, che guardava il duomo e che occupava parte dell’odierna piazza Giovanni Paolo II, fu impietosamente abbattuta negli anni Sessanta dell’Ottocento, quando si decise di allargare la piazza della cattedrale. Estinto il ramo primogenito, venduto il palazzo di famiglia, sfiorite le attività redditizie e le cariche del governo napoleonico, con il ritorno dei Papi e dell’amministrazione ecclesiastica, la storia dei Carli conobbe un rapidissimo declino. Per scherzo del destino, gli ultimi discendenti della famiglia sono i pronipoti di quel Carlo Maria, privati a forza dall’eredità paterna, ma difesi col cuore dallo zio avvocato.

FONTI E BIBLIOGRAFIA ASCe, notarile, Francesco Agostini, 5040, cc. 248-249; 5069, 19/VI/1802; 5074, 4/VI/1804; 5078, cc. 217r-222r; 5079, 30/VII/1808. Giuseppe Ragonesi, 5350, cc. 227v-234v; 5355, cc. 245r-266 + 2 cc. n. n; 5359, cc. 59r-64r. AVC, Battesimi, 31 (1719-1727), c. 169v; 32 (1728-1735), cc. n. n.; 33 (1736-1744), cc. n. n.; 36 (1760-1765), cc. n. n.; 37 (1766-1774), cc. n. n.; Santa Cristina, Morti, IV (1773-1803), cc. n. n.; S. Michele Arcangelo, Stato delle Anime 1798-1843, cc. n. n. BCM, ms. 164.42 C, XVIII sec., A. CANTONI, Memorie dell’illustre città di Cesena, cc. 16-17; ms. 164.36, XVIII sec., D. DE VINCENTIIS, Bibliotheca Caesenatensis illustrium scriptorum sive elogia virorum illorum qui Caesenam eorum patriam doctrina consilio et scriptis illustraverunt, cc. 91-92r; ms. 164.20, Elenco Generale de’ soci dell’Accademia de’ Filomati, eretta in Cesena il primo gen. 1731; ms. 164.24, G. ROSSI VENDEMINI, Memorie intorno l’origine, e propagazione delle famiglie illustri di Cesena, e delle virtù degl’individui che fiorirono nelle medesime. [...]. Da Giambattista Rossi Vendemini cesenate, sino all’anno 1732, c. 121; ms. 164.70.13, XIX sec., G. SASSI, Estratti dalli stati d’anime delle sopranotate parrocchie fatto a cura del sac. Gioacchino Sassi canonico, cc. 1, 26, 29, 33, 36, 40, 42, 76; ms. 164.54, M. MARIANI, Cronache cesenati, tomo I, cc. 20r, 21v, 58r; ms. 164.34, C.A. ANDREINI, Notizie delle famiglie illustri di Cesena. Anno MDCCCIX, tomo II, cc. 552-554. D. BAZZOCCHI - P. GALBUCCI, Cesena nella storia, Bologna, 1915, pp. 193, 229n; Due Papi per Cesena, a cura di P. ERRANI, Bologna, Pàtron, 1999, pp. 16, 30, 142, 200; Palazzi nascosti, a cura di Ass. Cult. Artemisia, Cesena,


Domenico Carli – Nicola Petrini Zamboni

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2000, pp. 29-34; Storia di Cesena. III. La dominazione pontificia (secoli XVIXVII-XVIII), a cura di A. PROSPERI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1989, pp. 364-365, 373-374, 457-458, 503; Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, pp. 10, 73, 84n, 172, 311, 367n.

Michele Pistocchi

Nicola Petrini Zamboni Il violinista e compositore Nicola Petrini Zamboni nacque, figlio unico, da Giambuono Petrini ed Annunziata Candoli (Cesena, 3 marzo 1785). Il ruolo del padre, poeta ed anch’egli violinista, sebbene non di mestiere, fu determinante nell’educazione e nella scelta professionale di Nicola. Il motivo del doppio cognome, assunto dallo stesso musicista, ebbe origine dall’abitudine di essere chiamato Nicola d’ Zambon ovvero figlio di Giambuono. Per un po’ di tempo si firmò Nicola Petrini detto Zamboni, poi assunse quello definitivo di Nicola Petrini Zamboni. Iniziò gli studi di violino all’età di 5 anni sotto la direzione del maestro Ludovico Pizzi e già nel 1796 eseguiva alla perfezione i 36 studi-capricci del Fiorillo. Ricoprì l’incarico di primo violino al Teatro della Pergola di Firenze dalla primavera del 1817 all’inizio del 1837, con alcuni periodi di interruzione. Dalla stagione di carnevale del 1843 fino a quella dell’anno successivo, venne chiamato al Teatro Italiano Favart di Parigi per dirigere opere di Rossini e Bellini. L’opera compositiva di Nicola Petrini Zamboni si è espressa soprattutto in ambito strumentale, nelle forme di sinfonie, concerti per violino ed orchestra, e concerti per formazioni strumentali diverse. Si è dedicato ad un’opera teatrale – La Pia de’ Tolomei rimasta incompiuta ed a partiture di musica vocale e balletti. Sono tuttora conservate circa sessanta sue diverse composizioni. La quasi totalità delle notizie relative alla vita artistica e privata del musicista cesenate sono giunte attraverso le sue Memorie che iniziò a scrivere – come lui stesso ricorda – nel 1831 all’età di 46 anni e la loro compilazione subì traversie del tutto appropriate alla


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vita dell’artista. Parte del manoscritto, che riferiva degli anni dal 1832 al 1835, gli venne sottratto cosicché dovette riscriverlo in forma riassuntiva. Le Memorie vennero terminate nel marzo del 1839. Con la semplicità ed inconsapevolezza che gli furono proprie, il violinista cesenate raccontò il mondo musicale fra Sette ed Ottocento attraverso le avventure di ogni giorno, senza curarsi di mostrare la storia musicale del suo tempo, ma semplicemente la storia della sua vita. Ciò che consegna però, non sono le sole traversie e peripezie di un musicista in cerca di fortuna, ma un mondo musicale fatto di personaggi celebri e di altri ora sconosciuti, di abitudini ed ambienti musicali attraverso i quali è possibile comprendere la storia musicale di un’epoca. Il manoscritto autografo delle Memorie di Petrini Zamboni è andato perduto. Quanto rimane è la copia eseguita da John Cooke, bibliotecario alla Malatestiana di Cesena, che può essere considerata del tutto fedele all’originale. Nicola Petrini Zamboni ebbe occasione di interpretare, quale primo violino, numerose opere rossiniane. Incontrò personalmente Gioachino Rossini a Parigi al Théâtre Italien, tra l’autunno del 1833 e la primavera del 1834. Fu un incontro desiderato, per la grande stima che Petrini Zamboni aveva nei confronti di Rossini, ma si rivelò denso di amarezza e delusione. Giunto in teatro, Petrini Zamboni volle adottare nella disposizione degli strumentisti alcune soluzioni innovative, già precedentemente introdotte al Teatro alla Scala di Milano. Collocò l’orchestra sopra una pedana di legno, in modo che questa fungesse da cassa armonica e la schierò a ferro di cavallo, non più di fila come si usava allora. La novità maggiore fu la posizione del primo violino, in piedi alla destra dell’orchestra che dirigeva con l’arco. Da capofila dei violini, il primo violino si trasformò in direttore d’orchestra suonando esclusivamente nei passi principali, negli assolo e quando riteneva di dar man forte all’orchestra. Nicola Petrini Zamboni segnò dunque il momento del passaggio, da primo violino a direttore d’orchestra come lo si conosce oggi. Amareggiato, Petrini Zamboni fu costretto, nell’aprile del 1834, a ritornare in Italia prima del previsto, perché sostituito da un altro primo violino meno costoso per gli appaltatori del Teatro Favart. Rossini tentò di trovargli impiego presso il Teatro Italiano a Londra, dove nei mesi estivi sarebbe passata la Compagnia Favart.


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Scrisse a Laporte, appaltatore di quel teatro, per proporgli di rimpiazzare il capo orchestra chiamato lo Spagnoletto – che sapeva essere gravemente malato – con il primo violino cesenate. Sembrava una buona soluzione, anche perché il Petrini Zamboni era già affiatato con i cantanti della compagnia, ma la risposta che giunse fu negativa. Nuove motivazioni espresse da Rossini, legate alla mancata conoscenza della lingua francese, tesero a giustificare l’allontanamento di Petrini Zamboni. Lo stesso Rossini probabilmente era in difficoltà economica, dopo che il governo di Luigi Filippo (1830) non gli riconobbe il contratto precedentemente stipulato con Carlo X, suo protettore. Rossini poteva usufruire della sola pensione, nonostante la causa legale approntata affinché venisse rispettato il precedente contratto. Alla richiesta di qualche buona raccomandazione per qualche teatro in Italia, Rossini consigliò Petrini Zamboni di fermarsi a Milano dove era vacante il posto di direttore d’orchestra al Teatro alla Scala. Altri “prodighi” consigli, sul come presentarsi a Milano, ebbero un’energica e contrariata risposta. Il 18 aprile 1834, alle ore quattro del pomeriggio, Petrini Zamboni partì da Parigi con una diligenza diretta a Milano. Lo salutarono, affettuosamente ed in lacrime, un terzo dei professori dell’orchestra che aveva diretto. La delusione per il trattamento ricevuto da Rossini e da Severini fu indimenticabile ed anche il Censore di Milano intervenne sulla vicenda contro gli appaltatori parigini. A Parigi, Petrini Zamboni diresse anche diverse opere di Vincenzo Bellini (La Straniera, Il Pirata, La Sonnambula, ed I Capuleti) alle cui prove assistette lo stesso compositore. Lo stesso avvenne per tutte le opere teatrali di Rossini, allestite al Teatro Favart, per le quali Rossini «non trovò da dir sillaba». Il giornale Le Constitutionel fece del sarcasmo all’arrivo del nuovo direttore d’orchestra. Utilizzò il cognome Zamboni per storpiarlo in jambon (cioè, prosciutto), quindi affermò che «dare un violino direttore a Parigi, era come dare un bicchiere d’acqua all’Atlantico». In suo favore intervenne il soprano Pasta, la quale affermò «di non aver trovato in Italia un accompagnatore del Canto come lo Zamboni, e Rossini un miglior interprete della sua musica». Si pose fine così allo scherno ed i successivi articoli parigini furono lusinghieri nei confronti di monsieur Zamboni. Vicende umane, tristi e misere, che


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Petrini Zamboni incontrò spesso nella sua travagliata vita e, come per altri, hanno accompagnato i momenti artistici più importanti. La storia musicale è anche questa. Come il padre Giambuono, Nicola Petrini Zamboni compose sonetti e si dedicò alla poesia bernesca. Scrisse alcuni saggi di carattere musicale fra cui meritano di essere ricordati quello dedicato ai Violinisti più celebri d’Italia (1844), la lettera a stampa «sull’abuso delle riduzioni della Musica Vocale in Istrumentale» ed il saggio polemico del 1835 dedicato al compositore Vincenzo Bellini. Parlando di sé, si definì «capriccioso ed intollerante», «poco facile lodatore», accollandosi l’appellativo di «gamba storta». Una sola volta ironizzò su quella malattia che colpì il ginocchio sinistro in giovane età e le cui conseguenze lo accompagnarono per tutta la vita. Non fu l’unica malattia che il musicista contrasse. L’elenco penoso e lungo inizia quando, ancora fanciullo, un vaiolo gli procurò un «tumore frigido» – come lui stesso lo chiamava – che si manifestava come una ghiandola immobile, della grossezza di una noce, sotto l’orecchio sinistro, poi asportata dal dottor Maurizio Bufalini. La malattia si propagò per tutta la guancia ed il mento procurandogli una «eterna mostruosità» che lo allontanava dagli amici immotivatamente timorosi di essere contagiati e mise in dubbio, sin dall’inizio, la sua carriera di violinista. Ad Urbino nel 1809, in piena attività concertistica, prese una «malattia crudele» da cui guarì dopo dieci mesi e mezzo per l’ottimo intervento del chirurgo Vivarelli. Di quale malattia si trattasse non osò rivelarlo neanche al padre, a cui chiese soccorso in un primo tempo. Le malattie, la solitudine, la misantropia spesso emergenti in Petrini Zamboni associano la vita del musicista a quella di un suo contemporaneo: Giacomo Leopardi. «Parmi di non poter respirare che quando sono solo», dichiarò in una lettera del dicembre del 1839, giudicando «sventuratissima» la sua giovinezza. Il romanticismo che invase l’animo del violinista emerge nell’esaltazione della personale sventura e nell’idea della morte quale sollievo per chi soffre. Le sventure nella vita di Nicola Petrini Zamboni sono talmente frequenti che possono essere assunte quale filo conduttore della sua esistenza. Fu lui stesso a raccontare che la malasorte lo accompagnò sempre: dalle vicende più lievi, come le tempeste di pioggia che lo coglievano sempre nel bel mezzo del cam-


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mino, a quelle più gravi come i lutti familiari. Tale condizione lo porterà all’esaltazione di tutto quanto va storto e ad affermare che «la mia vita è un continuo miracolo, e chi non vi crede fa male». Una sorte avversa ripagata dalla consapevolezza che i sentimenti sono ancor più importanti di quella. In età matura, considerò l’ozio come il fomentatore dei vizi, forse perché più giovane conobbe il gioco e la sfortuna su cui confluirono i proventi dei numerosi concerti. Praticò il gioco della Rollina e del Faraone, criticò chi lo stava trascinando verso quella passione dominante (come ad Arezzo il comico Pignani), ma poi anche solo (come a San Marino) non si trattenne dal giocarsi l’intera paga nei caffè. Alcune vicende raccontate nelle Memorie del Petrini rimandano alla Storia della mia vita di Giacomo Casanova: quest’ultimo ben più fortunato, miglior scrittore e, certamente, non un romantico. Ciò che ricorda il Casanova, oltre alla passione per gli stessi giochi, è la spregiudicatezza con cui vengono descritti gli effimeri amori incontrati. Appare notevole quante poche volte, e sempre casualmente, citi sua moglie, senza mai ricordarne il nome. «La catena matrimoniale» – così la chiamò – di cui sentì tutto il peso, non gli tolse comunque l’amore per la figlia Angelina e per il figlio Lorenzo, morto nel 1815 all’età di 9 anni e mezzo. Il primo innocente amore, all’età di 14 anni, fu rivolto alla cantante Luigia Caravoglia, ospite a Cesena per la stagione di carnevale. Amore non corrisposto ma che fu propizio per avergli infuso il seme della creatività. Stessa sorte ebbe la passione per una ballerina conosciuta a Ravenna nel 1802. Anche lei non seppe mai dell’amore del musicista, il quale si limitava a passare e ripassare, con un calesse preso a nolo, sotto la sua finestra. La prima vera esperienza amorosa fu con Antonina, coetanea di Pesaro, per la quale rischiò una sfida a duello con un altro pretendente. Il tutto si risolse in una spacconata di ragazzi diciottenni. Ovviamente, promise di sposarla e di portarla con sé. Poi proseguì solo, nei suoi giri musicali verso Urbino, dove conobbe un’altra giovane che malauguratamente sposò. L’ottobre del 1808 è ricordato dal Petrini come uno dei mesi più brillanti della sua esistenza. Artefice di questa sua felice stagione di vita fu una contessa dimorante a Morro di Jesi e della quale ha taciuto cortesemente il nome. Gli spassi di quei giorni tentò di ripe-


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terli sette anni dopo quando ritornò a trovarla, ma i tempi e le attrattive erano cambiati. Un periodo felice perché negli stessi anni ammaliò una signora riminese, di alto rango, conosciuta nel 1810 in occasione di un ballo di carnevale al teatro di Verucchio. Anni felici anche quelli successivi, tanto che lo porteranno ad affermare di essere «ben veduto dal sesso che persuade». Durante il suo soggiorno perugino del 1817 conobbe Mariagrazia Timotei con la quale rimase fino al maggio 1818. Fu lei ad accompagnarlo nel suo primo e significativo viaggio a Firenze, dove l’attendeva un impiego al Teatro della Pergola. L’invito del padre Giambuono a riprendere con sé la moglie non gli impedì di rivolgere altrove i suoi affetti finendo, dopo qualche intermezzo, per legarsi con Rosa Cattani, cantante milanese dalla quale venne lasciato dopo due anni. Invaghitosi di un’altra cantante, la torinese Giuseppina Julien, nella primavera del 1822 lasciò – per vendicarsi di un’ingiustizia e senza avvertire – la Pergola di Firenze. Girovagò per le Marche assieme alla donna ed al di lei marito, per poi desiderare di liberarsi della coppia, pesante fardello. Durante il suo ritorno a Firenze conobbe, sempre a Perugia, la «tenerissima amica» con la quale rimarrà dalla primavera del 1825 sino agli anni in cui iniziò a scrivere le Memorie. «Noi siamo insieme pellegrini erranti», scrisse pensando a questa compagna dal nome Olinda, che condivise parte del suo destino. Non fu un rapporto tranquillo perché la moglie riuscì ad ostacolare la compagnia di Olinda. Le uniche parole che Petrini rivolge alla moglie nelle Memorie si riferiscono a questa circostanza e sono parole di odio. L’ambiente familiare è stato narrato dal Petrini in maniera casuale, come se tentasse un distacco, cercato anche fisicamente. Il rilevante ruolo del padre, ad esempio, non ha impegnato la penna di Nicola Petrini più di quanto fosse indispensabile. Giambuono Petrini abitava al n. 142 della strada di Santa Caterina e nella sua casa soggiornavano musicisti, ballerini e cantanti di passaggio per Cesena. Un foglio, ancora conservato nell’Archivio Comunale di Cesena (ASCe, ASC, b. 2567, 6 maggio 1799), riporta un breve elenco di ospiti forestieri presenti il 6 maggio 1799 nella sua casa. La vena poetica del padre si trasmise anche a Nicola. Non gli mancarono occasioni per comporre versi. Nell’autunno del 1812,


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compose un sonetto in gloria di Napoleone quando apprese la notizia della conquista di Mosca ed un altro di segno contrario, qualche giorno dopo, in casa di signori con idee politiche opposte. Da questa vicenda Nazzareno Trovanelli – in un articolo sul giornale cesenate “Il Cittadino” del 1901 dedicato alla vita di Nicola Petrini Zamboni – trae spunto per affermare la poca coerenza politica del violinista cesenate. Perché non pensare invece ad un modo di prestarsi al gioco o ad un esercizio poetico che era nello spirito del nostro seguace d’Apollo? Sulle sue idee politiche è arduo pronunciarsi. Nonostante il padre giacobino, le vicende napoleoniche sembrano averlo coinvolto solo superficialmente. Durante un soggiorno toscano, dal 1825 al 1828, si dedicò, come lui stesso racconta, alla “Poesia Bernesca”, ma di questi versi burleschi non si è trovata traccia. Per chiudere sulla sua attività poetica, va segnalata una querelle tra Petrini Zamboni e Domenico Giulj. Quest’ultimo fu censore di un poemetto del violinista cesenate dedicato ad un amico. Nella risposta a stampa di Nicola Petrini Zamboni al dottor Giulj, egli giustifica con tenacia ogni verso del suo sonetto criticato, dimostrando attraverso citazioni e confronti l’erudizione letteraria posseduta. Nicola Petrini Zamboni morì ad Altopascio (Lucca) il 3 ottobre 1849.

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I Teatri di Roma negli ultimi tre secoli, Napoli 1928; L. BRAMANTE, La Cappella Musicale del Duomo di Urbino, Roma 1933; A. BONACCORSI, Musiche dimenticate del Sette-Ottocento, «La Rassegna Musicale», 1956; A. ADEMOLLO, I teatri di Roma nel secolo decimosettimo, Bologna 1969 sull’ed. 1888; S. MARTINOTTI, Ottocento strumentale italiano, Bologna 1970; M. L. IMOLESI, Ricerche sulla vita e sulle opere di Nicola Petrini Zamboni, Tesi di Laurea, Fac. di Magistero, Università di Bologna, a. a. 1970-71; F. BATTISTELLI, L’Antico e il Nuovo Teatro della Fortuna di Fano (1677-1944), Fano 1972; C. DI ATTANASIO, Restaurazione e sistemazione della biblioteca dell’Istituto Musicale “A. Corelli” di Cesena, Cesena 1972; L. MALUSI, Nicola Petrini Zamboni musicista cesenate, «La Piè», n. 2, 1972, pp. 80-83; R. GANDOLFI, C. CORDARA, A. BONAVENTURA, Catalogo delle opere musicali teoriche e pratiche di autori vissuti sino ai primi decenni del secolo XIX, Biblioteca del Conservatorio di Musica di Firenze, Bologna, Rist. Forni, 1977; M. DE ANGELIS, La musica del Granduca. Vita musicale e correnti critiche a Firenze 1800-1855, Firenze 1978; F. BATTAGLIA, L’arte del canto in Romagna. I cantanti lirici romagnoli dell’Ottocento e del Novecento, Bologna, Bongiovanni, 1979; M. DE ANGELIS, Le carte dell’impresario. Melodramma e costume teatrale nell’Ottocento, Firenze 1982; M. RAFFAELLI, Il teatro comunale di Forlì nella vita musicale italiana (1776-1944), Forlì, Edizioni STC, 1982; M. GRADARA, Note sulla vita musicale cesenate nella prima metà dell’Ottocento, «Romagna Arte e Storia», n.19, 1987, pp. 55-68; Nicola Petrini Zamboni. Memorie di un violinista cesenate (1785-1849), a cura di F. DELL’AMORE, Cesena, Comune di Cesena, 1995; F. DELL’AMORE, Storia musicale di Cesena. Mille anni d’artifici dal Medioevo al 1900, Cesena, s.e., 2002.

Franco Dell’Amore


Mattia Mariani

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Mattia Mariani Mattia Mariani nacque in una famiglia di coloni da Domenico e Teodora Sintucci (o Santucci), il 24 febbraio 1802, “sul primo colle per passare al santuario di Santa Maria del Monte… parrocchia di S. Maria delle Grazie, detta Ponte Abbadesse, subborghi della città di Cesena” e fu battezzato nella cattedrale di Cesena lo stesso giorno della sua nascita coi nomi di Mattia, Girolamo, Gioacchino. All’età di dodici anni imparò a leggere e a scrivere sotto la guida di don Sante Zani, presso il quale si trovava “come chierico a servir messe”, e che sarà suo maestro per tre anni. È questo il fondamento dell’istruzione del Mariani, perché la frequentazione delle scuole pubbliche, iniziata nel 1816, dovette essere presto tralasciata, per necessità economiche. Dopo un breve servizio prestato presso la parrocchia, dal 1819 al 1828 fu servitore di don Pietro Malatesta, arciprete di San Demetrio, “una bellissima collina posto lungo il fiume Savio, e la Villa Acquarola, luogo certamente bello per l’orizzonte che vi si scorge e l’aria sottile che si gode”. Di questi anni Mariani ricordò nella sua autobiografia alcuni avvenimenti notevoli: le visite pastorali dei vescovi di Cesena Francesco Saverio Castiglioni (il futuro papa Pio VIII) e Antonio Maria Cadolini, la gita a Cesenatico in compagnia dell’arciprete, “non avendo mai visto il mare”, i viaggi a Ravenna e a San Marino, il pellegrinaggio alla basilica di Loreto, e infine il matrimonio con Orsola Suzzi. Costretto a lasciare il servizio a San Demetrio in seguito alle lettere anonime pervenute al vescovo, nelle quali lo si accusava di tenere un comportamento scorretto, di furto, di frequentazione di donne di malaffare, il Mariani non tardò tuttavia a trovare un altro impiego. Il 9 settembre 1828 entrò al servizio di Giuseppe Mazzola, rimanendo, dopo la morte di questi, avvenuta l’anno seguente, presso la famiglia per altri due anni. Dopo un breve periodo trascorso a servizio della famiglia Brighi Fanciaresi, il Mariani tornò in casa Mazzola e accompagnò i padroni a Bologna ad assistere a un’opera lirica, protagonista la famoso soprano Maria Malibran. Qui approfittò dell’occasione per visitare la città e i suoi monumenti: “il tempio di San Petronio, le due torri, i larghi e lunghi portici, i ricchi negozi…, la certosa o campo santo”. Lasciata la famiglia Mazzola, il 1 settembre 1835 Mariani venne assunto in qua-


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lità di cuoco dal conte Giulio Masini e si trasferì in un’abitazione di proprietà del conte posta in vicolo dei Gatti. Con questo “amatissimo padrone” dovette esistere un rapporto di familiarità e di amicizia, come mostra il fatto che Mariani fu scelto come padrino per il battesimo della figlia secondogenita e che Masini era il primo lettore e critico delle opere composte dal suo domestico. Delle vicende personali e familiari di questi anni si possono annotare poche cose: i viaggi compiuti dalla moglie a Sant’Angelo in Vado, a Firenze e a Sarsina, e l’amicizia stretta da lui col cesenate Tommaso Pizzi, “suonatore di violino e diletante di poesia”. Nel 1863 Mariani rimase vedovo e due anni dopo si risposò con tale Carlotta Ghini, non ebbe figli, continuò a prestare servizio presso i Masini e ad abitare nella casa di vicolo dei Gatti fino alla morte, avvenuta il 5 dicembre 1872. Fu sepolto nella tomba di famiglia dei Masini, dove fu apposta una lapide “per lodevole iniziativa della Commissione del Cimitero”, con la seguente iscrizione: “Mattia Mariani / benché umile cuoco privo di studi / per impulso di naturale ingegno / per molto affetto alla terra nativa / compilò / con animo retto imparziale / una voluminosa cronaca / de’ tempi suoi / memorabilissimi nell’età moderna / N. il 24 febbraio 1802 – m. il 5 dicembre 1872 / La famiglia dei conti Masini / che n’ebbe lungo e onorato servizio / consentì il collocamento di questa lapide”. Stando a ciò che ci riferisce il Mariani stesso nella sua autobiografia, egli iniziò nel 1814, appena dodicenne, a “descrivere i fatti più rimarchevoli che accadano in Cesena”. È difficile prendere alla lettera questa asserzione: forse Mariani intendeva dire che si accinse a scrivere le sue Cronache a partire dal 1814, e da tale anno inizia effettivamente a narrare le vicende della città; certamente si può pensare che egli abbia incominciato presto ad annotare fatti e avvenimenti e a raccogliere notizie, poi riordinate e confluite nei suoi libri di cronache. Quali siano i motivi che lo spingono a scrivere, lo rivela il Mariani in vari passi delle sue opere, nei quali, prevenendo le possibili critiche in cui potrebbe incorrere, si dichiara consapevole dei propri limiti di scrittore e del fatto di non essere un letterato, ma afferma risolutamente di esporre i fatti in modo veritiero; sostiene inoltre di scrivere per proprio “divertimento” o “passatempo”,


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mosso dal desiderio che provava fin dalla fanciullezza di “descrivere le cose che accadono nella [sua] patria”. Dunque Mattia Mariani, di professione cuoco, cronista di storia locale per passione, narra i fatti cui assiste o che gli sono riferiti da persone degne di fede, e a riprova della sua serietà inserisce nelle sue opere documenti di varia natura inerenti agli avvenimenti che va descrivendo. Cita inoltre le fonti a cui attinge per ricostruire momenti della storia passata o per narrare le vite di santi e personaggi illustri; a questo proposito viene da pensare che il servizio in casa Masini gli offrisse la possibilità di accedere alla fornita biblioteca della famiglia. Conosce poi le opere dei cronisti cesenati che lo hanno preceduto: in particolare, l’amicizia con l’arcidiacono della cattedrale Francesco Ghini gli consente di poter consultare i volumi dell’opera Cesena sacra, composta da don Carlo Antonio Andreini tra il 1807 e il 1817, fonte di preziose informazioni sulla storia religiosa della città. La cronaca del Mariani si pone come ideale ripresa e continuazione delle Memorie del sopraccitato Andreini, della Rivoluzione italiana di don Domenico Nori e del Giornale di Mauro Guidi, dei cronisti cioè che si trovarono a vivere e a descrivere nelle loro opere il tumultuoso periodo che vide la dominazione francese e il governo napoleonico e che si concluse con la Restaurazione. Dal 1814 prende infatti l’avvio della narrazione del Mariani, che si rivela un attento testimone dei fatti del periodo del Risorgimento, fino alla II guerra d’Indipendenza e alla vigilia dell’Unità d’Italia. Oltre alla narrazione degli avvenimenti storici più notevoli, le pagine della cronaca sono occupate dalla descrizione delle feste religiose, processioni, messe solenni, da cui spesso prendono l’avvio digressioni sull’origine e la fondazione delle chiese, sul culto e la venerazione di alcuni santi. Altrettanto messe in risalto sono le feste civili, soprattutto gli spettacoli teatrali. Alla descrizione degli eventi politici si alterna la rappresentazione della vita a Cesena nei suoi aspetti quotidiani, nei suoi luoghi caratteristici come le piazze, i vicoli, le botteghe, le osterie, spesso sfondo di vicende delittuose, furti, ferimenti, omicidi. Molta “cronaca nera”, dunque, di cui sono protagonisti persone del popolo, ma anche narrazione delle varie attività di questi popolani, che ci restituisce un quadro assai vivo della Cesena del primo Ottocento.


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Un ulteriore motivo di interesse presente nella cronaca è costituito dalle notazioni relative al clima, all’andamento delle stagioni, alla quantità dei raccolti. Oltre a un’autobiografia, intitolata Descrizione della nascita di me Mattia Mariani, e mia vita e impieghi, le opere del Mariani che si conservano manoscritte presso la Biblioteca Malatestiana sono le seguenti: [Cronache cesenati], in cinque tomi; Miscellanea, o diverse notizie e memorie di me Mattia Mariani cesenate; Relazione del viaggio fatto alla Casa Santa di Loreto. 1826; Cenni storici sulle vite dei due sommi pontefici Pio VI, e Pio VII cesenati, e con quelli della vita di Pio VIII Castiglioni; Compendio della storia di Napoleone Buonaparte fatto nel 1843; Libro dove ho descritto diverse cose dei cenni storici sulla vita, e pontificato di Pio IX; Cenni biografici del signor conte Giulio Cesare Masini cesenate. Come mostrano i titoli, la maggior parte delle opere si iscrivono nel genere storicocronachistico, spaziando dal racconto degli avvenimenti accaduti a Cesena nella prima metà dell’Ottocento, alla biografia di personaggi illustri dei secoli XVIII e XIX, quali i papi Pio VI, VII, VIII e IX e Napoleone Bonaparte. Le Cronache sono suddivise in cinque tomi, il primo dei quali, dopo un’introduzione comprendente un breve excursus sull’origine della città e notizie sui monasteri, chiese e conventi soppressi durante il periodo francese, tratta la storia di Cesena in forma annalistica dal 1814 al 1838. Gli altri quattro tomi continuano la narrazione delle vicende locali per gli anni rispettivamente 1839-1840 (tomo 2), 1841-1847 (t. 3), 1848 (t. 4), 1849-1857 (t. 5). Ogni volume è chiuso da un indice dettagliato e comprende un’ampia appendice documentaria costituita da bandi, manifesti, editti, emanati da autorità civili e religiose, opuscoli a stampa, incisioni, ritagli di periodici, a corredo delle vicende descritte. La Miscellanea si compone di due parti, la prima con notizie di storia antica e moderna riportate senza un ordine particolare, la seconda contenente la descrizione di tutte le chiese di Cesena. Nelle vite dei papi e di Napoleone, molto brevi, vengono elencati gli episodi più significativi di cui essi sono stati protagonisti. Carattere personale rivestono la descrizione del pellegrinaggio a Loreto, compiuto nel 1826 dalla Compagnia del SS. Crocifisso di San Zenone, e ovviamente l’autobiografia. La biografia di Giulio Masini, infine, nata dall’esigenza di rendere omaggio all’amato padrone, oltre a fornire


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notizie sulla famiglia, è corredata dalla trascrizione di lettere del conte e da altri documenti a lui appartenenti.

FONTI E BIBLIOGRAFIA La maggior parte delle notizie biografiche su questo autore si possono ricavare dall’autobiografia, che egli intitolò Descrizione della nascita di me Mattia Mariani, e mia vita e impieghi, che però si interrompe bruscamente al 1858. Cfr. inoltre BCM, Fondo Zavatti, Carteggio, 04.027 (Pecci, Giuseppe); AVC, Cattedrale. Stati d’anime, 1836-1857. N. TROVANELLI, Mattia Mariani e la sua cronaca cesenate, “Lo specchio”, I (1880), n. 10, 5 settembre; IDEM, Un modesto centenario. Il cuoco cronista, “Il Cittadino”, XIV (1902), n. 8, 23 febbraio; G. PECCI, Della famiglia Masini e del conte Giulio patriota e musico cesenate, Faenza, Lega, 1933, in part. pp. 20-21; L. MASCILLI MIGLIORINI, Cesena nell’età della Restaurazione, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, pp. 119-175, in part. 120-121; P. ERRANI – A. FAEDI, Schede di ecclesiografia cesenate. Dai manoscritti della collocazione 164 della Biblioteca Malatestiana, in Storia della Chiesa di Cesena, a cura di M. MENGOZZI, II, Cesena, Stilgraf, 1998, pp. 471-519, in part. pp. 474, 490-493; P. G. FABBRI, Artigiani, botteghe, osterie e locande. Ricerche sui luoghi del lavoro a Cesena nei secoli XV-XIX, Cesena, Società di Studi Romagnoli, 2001 (“Saggi e repertori, 28”), pp. 157-158, 221-233, 241-242; IDEM, Le cronache cesenati, in Storia di Cesena, VI. Cultura. 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2004, pp. 411-452, in part. pp. 446-447.

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Serafino Zanotti Serafino Zanotti nacque a Cesena il 12 ottobre 1760 da Sebastiano e Caterina Lelli. Sposò Marianna Pizzi, da cui ebbe tre figli. Laureato in utroque iure, divenne notaio il 9 febbraio 1789; due anni dopo infatti risulta iscritto “nel registro della borsa dei notari sindacatori”, cioè all’albo dei notai, ed esercitò la professione fino al 1822. Il suo sigillo notarile era costituito da un colombo recante un ramo d’olivo nel becco, posto su un piedestallo in campo azzurro. Nel 1795 fu cancelliere del collegio dei giuristi a Cesena. Nel trienno ’97-’99 ricoprì la carica di prosegretario comunale e di segretario del Comitato di Pubblica Istruzione; il 19 gennaio 1798 ricevette inoltre l’incarico di “custode” dei volumi appartenuti ai conventi della città che, dopo le soppressioni degli Ordini religiosi e il successivo incameramento dei loro beni, erano stati trasportati nei locali dell’ex ospedale di San Tobia e che avrebbero costituito il primo nucleo della biblioteca comunale cittadina. All’inizio di novembre dello stesso anno Zanotti fu incaricato, insieme al consigliere municipale Giovanni Domenico Cacciaguerra, di traslocare nel convento dei padri Filippini, non ancora soppresso, i codici conservati nella quattrocentesca biblioteca Malatestiana, insieme ai plutei, o banchi, che li contenevano. Il provvedimento era stato deciso in seguito all’occupazione del convento di San Francesco, al cui interno sorgeva la Malatestiana, da parte delle truppe francesi, che ne avevano fatto una caserma. Nell’occasione del trasferimento Zanotti provvide a segnare nella controguardia o nel foglio di guardia di ciascun codice la collocazione, indicando, nell’ordine, la fila (I, cioè destra oppure II, cioè sinistra), il numero del pluteo e il numero del volume all’interno di esso, per poter più facilmente riordinare all’occorrenza i codici e i plutei; per lo stesso scopo redasse una particolareggiata relazione, in cui descriveva la sistemazione originaria dei manoscritti e la nuova collocazione nei locali del convento di San Filippo, e trascrisse in un documento, che tuttora si conserva in biblioteca, le tabellae o tavolette appese a ciascun pluteo, recanti l’indicazione dei manoscritti ivi contenuti. Il 9 settembre dell’anno successivo i codici furono trasferiti in un locale del palazzo comunale e ritornarono nella sede originaria nell’aprile del 1804, dopo che fu compiuto il ripristino della sala quat-


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trocentesca. In quell’occasione la Commissione deputata al restauro della Malatestiana, della quale facevano parte, tra gli altri, Niccolò Della Massa Masini, Giangiorgio Locatelli e Pietro Biscioni, sottolineò che “la diligenza usata dal cittadino Serafino Zanotti alla prima traslocazione de’ codici merita somma lode, giacché in vista di essa e dagli esatti elenchi formati dal medesimo ha potuto la Commissione porre a luogo i codici nel numero totale di trecentocinquantasei, senza molta pena, a segno che egli ha riscosso l’applauso di essa”. Tra la primavera del ’99 e l’agosto del 1800 Cesena fu occupata alternativamente dall’esercito austriaco e da quello francese; al definitivo rientro di quest’ultimo e al ristabilimento del governo francese, Zanotti fu costretto a dimettersi dall’incarico di prosegretario comunale, “avendo dimostrato una decisa avversione al governo repubblicano”. Chiese allora di poter ottenere l’impiego di direttore dell’ospedale; fu nominato invece “bibliotecario e custode” dei libri conservati a San Tobia, e incaricato di compilare l’indice completo di tutti i volumi che si trovavano nell’edificio. Il 21 gennaio 1803 fu confermato bibliotecario della Comunale, in quanto in seguito alla legge del 4 settembre 1802 le biblioteche nazionali erano state dichiarate comunali, e ricevette il compito di separare i volumi da conservare da quelli duplicati e di scarto, e di redigere un inventario dei libri. Alla fine di febbraio dello stesso anno Zanotti riottenne il posto di segretario comunale, essendosi dimesso da tale carica il latinista e letterato cesenate Cesare Montalti, ma rimase al fianco del nuovo addetto alla biblioteca, il sacerdote Tito Masacci, in qualità di “bibliotecario aggiunto”, senza ricevere “veruna mercede”, ma continuando di fatto a svolgere l’attività di bibliotecario, fino alla nomina del nuovo impiegato Luigi Faletti, il 20 febbraio 1804. Al Faletti Zanotti consegnò l’Elenco de’ libri stampati della Biblioteca Comunale di Cesena, contenente la descrizione di 6778 volumi, con l’indicazione di quelli doppi e delle provenienze di ciascuno, che Faletti completò, aggiungendovi la descrizione di altri 3177 libri. Gli passò inoltre un prospetto che illustrava stanza per stanza la consistenza e la collocazione dei libri che vi erano conservati, indicando le materie trattate nei vari volumi e la provenienza dei volumi stessi. Da questo momento in poi Zanotti riprese l’incarico di segretario comunale, cessando l’attività nel maggio del 1818.


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All’interno della pubblica amministrazione ricoprì altri incarichi: nel 1807 fu cancelliere e archivista del Comune e segretario della Delegazione delle acque e delle Deputazioni di sanità e di ornato; nel 1811-12 fu segretario di una commissione incaricata di verificare se le spoglie rinvenute presso la chiesa di San Francesco fossero veramente quelle di Malatesta Novello dei Malatesti, signore di Cesena dal 1433 al 1465 e fondatore della biblioteca che da lui prese il nome. Il Comune aveva deciso infatti di recuperare i resti mortali del Novello e di trasportarli all’interno della biblioteca Malatestiana, per tributare un omaggio a colui che era ritenuto un vero benefattore della città. Due anni dopo la sua morte, avvenuta il 30 settembre 1832, il figlio Luigi propose al Comune l’acquisto di volumi e documenti appartenuti al padre. Le carte consistevano di atti amministrativi, lettere e verbali, autentici o in copia, compilati da Zanotti in qualità di segretario del Comune o di commissioni comunali, mentre i volumi comprendevano manoscritti autografi di cronisti cesenati dei secoli XVII-XVIII e trascrizioni di opere di storia locale di mano dello stesso Zanotti. Tra i primi si possono ricordare la Cronica della città di Cesena di Francesco Rinaldi, la Raccolta di memorie patrie di Domenico Pulazzini, la Collettanea di Stefano Parti con note di Ettore Bucci; tra le numerose copie di Zanotti rientrano le Memorie ecclesiastiche di Ettore Bucci, i Caesenatia marmora notis illustrata di Mauro Verdoni, Delle cose memorabili della città di Cesena dello stesso Verdoni, gli estratti dagli scritti di Don Carlo Antonio Andreini. Il contenuto di questa biblioteca qualifica dunque il suo proprietario quale appartenente alla schiera dei cultori della storia locale, che pur non producendo opere originali, conservano, raccogliendole e trascrivendole, le memorie storiche della città. Con la stessa passione, impegno e precisione Zanotti aveva svolto il compito di bibliotecario della Comunale, primo incaricato e senz’altro tra i più degni.


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FONTI E BIBLIOGRAFIA BCM, C.A. ANDREINI, Notizie delle famiglie illustri di Cesena raccolte da D. Carl’Antonio Andreini cesenate. Tomo V, ms. 164.34, cart. autogr., 1809, pp. 542, 613. G. SASSI, [Notizie relative alle principali famiglie di Cesena], ms. 164.70.13, cart. autogr., sec. XIX, due tomi, tomo II: Origine e propagazione delle qui notate famiglie desunte da monumenti e da varii scrittori, raccolto il tutto dal canonico Gioacchino Sassi, p. 136. A. VARNI, Gli anni di Napoleone, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, pp. 5-118, in part. pp. 44, 85 n. 154; L. BALDACCHINI, Dalla “libraria domini” alla biblioteca pubblica, in La Biblioteca Malatestiana di Cesena, a cura di L. BALDACCHINI, Roma, Editalia, 1992, pp. 119-166, in part. 128-130; A. DOMENICONI, Rinvenimento e traslazione dei resti di Malatesta Novello nel 1811-12, “Romagna arte e storia”, XIII (1993), n. 37, pp. 81-113, in part. p. 90; P. LUCCHI, L’ordine dei libri nella Biblioteca Malatestiana. Appunti lungo un percorso di ricerca, in Il dono di Malatesta Novello. Atti del convegno (Cesena, 21-23 marzo 2003), a cura di L. RIGHETTI e D. SAVOIA, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2006, pp. 135-224 (in part. pp. 150 e n. 40, 172, 186); P. ERRANI, Libri, frati e giacobini. Le vicende della Biblioteca Malatestiana nel periodo francese e la nascita della Biblioteca Comunale, Bologna, Compositori, 2006 (Emilia Romagna Biblioteche Archivi – ERBA, 61).

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Robusto Mori Nacque a Pescia il 19 giugno 1828 da Giuseppe ed Agata Betti. Compì gli studi universitari a Pisa e si perfezionò in medicina presso l’Istituto degli Studi Superiori di Firenze, dove ottenne il diploma il 14 novembre 1854. A Firenze fu allievo del clinico cesenate Maurizio Bufalini, al quale rimase legato da rapporti di stima ed amicizia. Nominato libero docente di patologia speciale medica, fu assistente alla clinica medica di Siena diretta da Pietro Burresi, stretto collaboratore di Bufalini. Fece parte della società medico fisica fiorentina, nella quale ricoprì anche il ruolo di segretario degli atti nel 1858. Nel novembre 1859, quando si liberò il posto di medico primario di Cesena, il consiglio comunale chiese a Maurizio Bufalini di indicare un successore da eleggere per invito diretto. Bufalini rispose indicando Mori e presentandolo così: «il sig. dottor Robusto Mori è il Medico, cui io ho offerto il posto di Primario di codesta città. Egli è di buon ingegno; ha fatto ottimi studi; ha lodevolmente esercitata la medicina; come collaboratore dello Sperimentale, giornale di cui io sono Direttore, ha pubblicato alcune sue produzioni scientifiche; ed è attualmente aiuto alla cattedra di Clinica Medica nell’Università di Siena. Certamente egli potrà corrispondere ai desideri di codesta Comunità» (“Il Cittadino”, 5 febbraio 1899). Mori fu nominato protomedico di Cesena a grandissima maggioranza consigliare nella seduta del 24 settembre 1860 e prese servizio nel novembre di quell’anno. A Cesena abitò in palazzo Venturelli, nel centro della città, vicino all’antico ospedale malatestiano. Per le molte benemerenze acquisite Mori venne nominato cittadino onorario di Cesena nell’agosto del 1869. Sofferente di endoarterite aortica, morì a Cesena il 29 gennaio 1899. Nel suo agire professionale Mori seguì il metodo sperimentale appreso da Bufalini e per questo fu considerato «razionalista». Il suo successore, Fabio Rivalta, ricordò che Mori portò per primo a Cesena «la nuova luce del metodo fisico chimico nell’esame delle malattie […] Il Mori, che aveva potuto apprezzare l’importanza del metodo analitico e delle dottrine patologiche professate dal suo grande Maestro, si diede tosto ad applicarle con studii propri al letto dei malati, prendendo sempre in considerazione il modo di fun-


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zionare dei visceri nello stato sano: poi con indagine esatta ispezionando, palpando, percotendo, ascoltando e valendosi di tutte le cognizioni fisiologiche, anatomo-patologiche, di tutte le nozioni fisiche e chimiche, procedeva, colla sola valutazione dei fenomeni e delle loro particolarità, e con ordine logico e con rara penetrazione, verso la diagnosi, che Egli voleva stabilire per via diretta, potendo, o per via di eliminazione» (Onoranze, 1900). Come Bufalini, M. fu contrario all’uso indiscriminato del salasso. Di un dissidio con il dottor Vincenzo Gobbi sulla necessità del salasso nelle malattie infiammatorie scrisse anche il cronista cesenate Gioacchino Sassi. Fedele al dettato di Giovanni Battista Morgagni, Mori effettuava sempre le autopsie dei pazienti deceduti per accertarne la causa della morte. Per poter illustrare meglio ai suoi allievi le patologie osservate in corsia fece edificare nell’ospedale un pregevole museo di anatomia patologica dove erano raccolte preparazioni fatte da Vittorio Rambelli. Ebbe numerosi allievi che divennero clinici famosi in altre località. Venne chiamato a consulto in città lontane: da Ancona a Bologna e fu altamente stimato da Concato e da Augusto Murri che lo giudicò il miglior medico della regione emiliana. Il campo d’azione nel quale Mori si esercitò maggiormente fu l’igiene. Redasse periodicamente, dal 1868 al 1893, dettagliati bollettini statistici sulle condizioni di salute della popolazione cesenate e sulle condizioni climatiche della città. Per queste sue rilevazioni e per l’azione incessante volta al miglioramento delle condizioni della popolazione fu ammirato e lodato dal direttore generale della sanità pubblica Luigi Pagliani. Fu iscritto alla Società Italiana d’Igiene e all’Accademia d’Igiene di Francia. Per le benemerenze acquisite venne nominato cavaliere ed ufficiale della Corona d’Italia. Fu membro del consiglio sanitario provinciale e circondariale e commissario governativo per la vaccinazione per 30 anni. Nominato ufficiale sanitario per titoli vi rinunciava nel 1896 perché in contrasto con l’amministrazione pubblica, poco sensibile alle proposte di miglioramento da lui formulate. Cercò di convincere gli amministratori già dal 1879 che le condizioni igienico-sanitarie del vecchio nosocomio erano talmente deteriorate da farne un luogo pericoloso, dove non era possibile la separazione degli infermi, ed ideò una serie di tabelle dietetiche per i ricoverati che rimase in uso fino al 1925.


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Mori esercitò anche un’intensa e poliedrica attività filantropica. Si occupò della vigilanza sulle scuole eseguendo ispezioni periodiche agli edifici scolastici. Diresse il Patronato scolastico sorto per la tutela degli alunni più disagiati. Si interessò del riordinamento e dell’incremento della biblioteca civica, della quale fu per molti anni soprintendente. Fondò la cucina economica nel 1874 e vi collaborò in prima persona. Organizzò il sotto comitato cesenate della Croce Rossa e ne fu il presidente. Per merito suo al congresso della Croce Rossa tenutosi a Roma nel 1899 fu esposto materiale proveniente da Cesena che ebbe un encomio solenne. Diede vita, insieme alla marchesa Clelia Onorati Romagnoli e ad altri benefattori, al comitato per la cura marina dei bambini affetti da scrofola (tubercolosi cutanea). L’attività del comitato si concretizzò nel soggiorno a Cattolica nel luglio del 1874 di un gruppo di 16 bambini dai 6 agli 11 anni. Mori aveva consuetudini antiche con quel luogo marittimo dove fece costruire nel 1881 la sua residenza estiva, il primo villino edificato sugli arenili. Fu eletto consigliere comunale di Cattolica nel 1889 e dal 1894 esercitò forti pressioni sull’onorevole Luigi Ferrari, liberale, per ottenere che Cattolica fosse dichiarata comune autonomo, separata da San Giovanni in Marignano. Questo risultato venne raggiunto nel dicembre 1895 e nell’aprile dell’anno successivo egli fu nominato primo sindaco di quella città, carica che tenne per soli tre mesi per dissapori con la giunta comunale. Appassionato intellettuale, aprì la sua casa alla gioventù intellettuale cesenate, senza distinzione di casta, per riunioni dilettevoli ed istruttive. Sotto la sua guida si formò una compagnia teatrale di filodrammatici. Fu amico di Giosuè Carducci che partecipò ai suoi funerali. Lasciò un’ampia biblioteca scientifica e letteraria che nel 1925 venne donata dagli eredi alla biblioteca civica di Cesena, dove è tuttora conservata. I numerosi interessi bibliografici di Mori, rivolti alla scienza ma anche alla letteratura ed al teatro, sono testimoniati anche dal fitto carteggio col libraio Gaetano Romagnoli di Bologna al quale chiedeva nuove e vecchie edizioni, lettere conservate nelle raccolte Piancastelli della biblioteca comunale di Forlì. Nella vita politica Mori mostrò apertamente idee liberali monarchiche e fu uomo d’ordine senza però essere un militante. Nel 1848, studente a Pisa, fece parte dei giovani universitari che andarono a combattere in Lombardia, anche se la sua compagnia non fu


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impegnata direttamente nelle battaglie di Curtatone e Montanara. Non professò idee religiose e volle funerali in forma strettamente civile: «era convinto che la fede è questione puramente ristretta alla coscienza dell’individuo; che l’uomo deve essere onorato per le opere di bene compiute, credente o no che egli sia» (“Il Cittadino”, 5 febbraio 1899). Dopo il suo funerale fu aperta una pubblica sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari ad erigere nel cimitero urbano un «ricordo marmoreo» in sua memoria. L’opera venne commissionata allo scultore cesenate Tullo Golfarelli che si offrì di eseguire il lavoro dando gratuitamente la sua opera. I promotori dell’iniziativa indicarono il soggetto della lapide: una madre che affidava il proprio figlioletto ammalato alla Medicina con i conforti della Beneficenza. La scultura fu inaugurata il 24 giugno del 1900 e fu disapprovata dagli ambienti cattolici che criticarono l’assenza dei simboli della carità cristiana. Nella professione si mantenne sempre equanime e prestò cure a tutti coloro che gli chiesero aiuti e consulti. Ebbe a cuore la salute di Eugenio Valzania che curò anche quando fu arrestato a Villa Ruffi e deportato a Spoleto. Per questa sua dedizione fu inserito nella lista di proposti per l’ammonizione dalla polizia nel 1874, dalla quale fu tolto per l’intervento di Gaspare Finali. I primi lavori scientifici scritti da Mori furono pubblicati tra il 1852 ed il 1858 sulla “Gazzetta medica italiana federativa toscana”, rivista diretta da Maurizio Bufalini che divenne nel 1858 “Lo Sperimentale”. Di quest’ultimo periodico Mori fu uno dei sette collaboratori fin dal suo primo numero. Si tratta di osservazioni su casi clinici, trascrizioni di lezioni di Bufalini e rassegne su argomenti di anatomia patologica. Questi primi saggi dimostrano l’adesione di Mori al metodo sperimentale d’indagine clinica appreso da Bufalini, la vasta conoscenza dei testi della medicina antica, più volte citati, e l’aggiornamento costante delle conoscenze mediche compiuto anche su riviste italiane e straniere. Fin dal suo arrivo a Cesena, Mori cercò di conoscere in modo approfondito la situazione sanitaria della città per poter proporre agli amministratori norme capaci di migliorare le condizioni igieniche degli abitanti. Per far questo cercò in un primo momento di utilizzare le rilevazioni statistiche che gli ufficiali sanitari erano tenuti a redigere dalle leggi sanitarie emanate nel 1865. Dato che ben


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pochi erano i sanitari che ottemperavano a quest’obbligo, Mori attinse parte dei dati dall’ufficio dello stato civile, dall’ospedale e dal servizio vaccinale. I quadri statistici periodici che Mori pubblicò si riferiscono al periodo compreso tra il 1868 ed il 1893 e contenevano informazioni preziose per delineare lo stato sanitario della popolazione. Ne definivano le dimensioni e gli indici di fecondità, nuzialità, natalità e mortalità. Ne delineavano le cause di patologia e morte e da esse si può ricavare il quadro delle malattie allora dominanti composto da morbi altamente diffusivi quali la tubercolosi, le salmonellosi, il tifo petecchiale, la difterite, la scarlattina, il vaiolo, la sifilide, e da patologie endemiche quali la malaria, la pellagra e i tumori. Per rendere più facile la compilazione da parte dei medici delle denunce delle patologie dalle quali erano affetti i pazienti sottoposti alle loro cure, Mori elaborò raggruppamenti nosografici semplificati rispetto a quelli indicati dagli organi di governo. Esortò, inoltre, il sindaco a rendere obbligatorie per i medici le denunce di morte, con l’indicazione della causa. Per comprendere meglio il motivo del decesso propose di far eseguire le autopsie nei casi di morte improvvisa o per accidente. Anche se questo non avvenne, col tempo i dati raccolti aumentarono e permisero di conoscere la mortalità nelle varie fasce d’età e nelle diverse parrocchie della città e dei sobborghi. L’attenzione del medico igienista si rivolgeva anche alle condizioni climatiche, ritenute a ragione cofattori di molti quadri morbosi. Perciò i bollettini statistici contengono informazioni dettagliate, raccolte nell’osservatorio meteorologico di Cesena, sulla pressione atmosferica, temperatura, pioggia, scosse telluriche, ozono e venti. In campo clinico vanno ricordati gli studi compiuti da Mori sulla terapia di alcune malattie infettive che più di altre incidevano sui ricoveri ospedalieri. Nella cura della difterite introdusse fin dal giugno 1896 l’uso del siero antidifterico a dosi crescenti, associato, nei casi più gravi, alla tracheotomia, ottenendo una rilevante riduzione della letalità. Nella terapia del tetano, non disponendo di siero antitetanico, tentò l’utilizzo di iniezioni ipodermiche di sostanza cerebrale emulsionata in soluzione salina, proveniente da animali macellati. Per i malati di tifo utilizzò la cura idrica, a base di frizioni periodiche di ghiaccio, già indicata da Bufalini. Sempre aggiornato


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ed attento alle scoperte terapeutiche introdusse, fin dal 1873, la toracentesi nell’evacuazione di raccolte intrapleuriche ed utilizzò anche la paracentesi con insufflazione di aria nella cura della peritonite tubercolare con ascite. Descrisse le gravi condizioni di salute di molti minatori impegnati nell’estrazione di zolfo nelle miniere di Formignano e negli operai delle fabbriche di mattoni, affetti da una grave anemia causata da anchilostoma duodenalis. Sostenitore convinto delle teorie di Jenner, Mori si adoperò per diffondere la vaccinazione antivaiolosa in tutti i comuni del comprensorio cesenate. Cercò di coinvolgere tutti i professionisti della salute, dai medici, ai chirurghi, fino ai flebotomi per farne valenti inoculatori. Organizzò sedute vaccinali nelle diverse stagioni, promuovendo la rivaccinazione in caso di epidemia vaiolosa. Diede indicazioni affinché si limitasse il contagio e venissero rispettate le norme di isolamento dei malati e di disinfezione della biancheria e dei vestiti da loro utilizzati. Pubblicò periodiche statistiche dei vaccinati e dei malati per sensibilizzare l’opinione pubblica. Propose di rendere obbligatorio l’inoculo del vaccino e combattè aspramente coloro che vi si opponevano. Una parte rilevante dell’opera professionale svolta da Mori fu rivolta a contrastare l’estendersi di produzioni agricole ed industriali nocive per la salute pubblica. Nel 1864, come segretario del consiglio di sanità del circondario di Cesena, espresse parere fortemente negativo sull’estensione delle risaie cervesi, accusate a ragione di provocare la diffusione della malaria ed il peggioramento dello stato di salute della popolazione. Nel 1877 tenne al consiglio sanitario della provincia di Forlì una relazione nella quale metteva in luce la estrema pericolosità di una concia di pellami ubicata in città, chiedendone la chiusura. Nel 1882 pubblicò un saggio nel quale dimostrava la pericolosità dell’industria di produzione delle candele con grasso animale presente a Cesena. In esso affermava che «la scienza economica pretende che le industrie siano svincolate da ogni impedimento perché si svolgano si perfezionino e rendano ricche le nazioni; la scienza sanitaria al contrario vuole che esse non siano sorgente di insalubrità e di malsania perché il popolo si mantenga nelle migliori condizioni di forza e salute. Pensi il governo che il popolo è la prima e vera sorgente della ricchezza e della sicurezza della nazione e, nello studiare, nel trattare e nel risolvere le indu-


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striali questioni, si tenga nella via di mezzo e […] faccia in modo che realmente l’interesse di tutti sia il giusto limite alla libertà di ciascuno». L’opera che senza dubbio diede maggior fama a Mori è la Vita di Maurizio Bufalini, pubblicata nel 1883. Si tratta di un’importante indagine sulla vita del clinico cesenate che contiene numerose notizie inedite ed è seguita dalla trascrizione di trentadue lettere. Un altro merito di questo scritto risiede nel fatto che dalla sua lettura si può comprendere meglio il pensiero scientifico e pedagogico di Bufalini che è posto in relazione con gli avvenimenti di quell’epoca complessa e turbolenta. L’intento dichiarato di Mori era quello di far risaltare l’importante azione di rinnovamento svolta da Bufalini sul corso del progresso delle scienze mediche e la sua continuazione ad opera di clinici italiani e stranieri. Il testo svela, inoltre, che, per interessamento di Mori, Bufalini donò alla biblioteca civica di Cesena la sua importante libreria. In conclusione Mori partecipò a quel vasto movimento di risorgimento scientifico della medicina italiana intrapreso da Bufalini che si coniugò con quello nazionale (PANSERI, 1981). La sua azione si rivolse in modo particolare verso il campo dell’igiene pubblica che in quegli anni ebbe un incremento importante (GIOVANNINI, 1996; VICARELLI, 1997; COSMACINI, 2005). Partecipò attivamente alle commissioni sanitarie cittadine e provinciali e molte delle iniziative da lui patrocinate precorsero le norme contenute nella legge per la tutela dell’igiene e della sanità pubblica, emanata nel 1888 sotto il governo di Crispi (DELLA PERUTA, 1980; OGNIBENI, 1982; GIOVANNINI, 1999). Umanista e filantropo ricoprì incarichi istituzionali e contribuì in prima persona al sorgere di numerose attività benefiche rivolte ad alleviare i disagi dei meno abbienti e degli ammalati.


Robusto Mori

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OPERE DI ROBUSTO MORI Due storie redatte nella clinica ostetrica dell’I. e R. Arcispedale di S. M. Nuova durante l’anno accademico 1851-52: una di occlusione dell’intestino retto, dal dottor Robusto Mori; l’altra di mostro emicefalo, dal dott. Ettore Comucci, “Gazzetta medica italiana federativa toscana”, 1852, s. II, t. 2; Sull’embolismo, “Lo Sperimentale” [Rivista di M. Bufalini], X (1858), s. IV, I, fasc. 3, pp. 233-244; M. BUFALINI, Lezione orale pronunziata dal prof. cav. commend. Maurizio Bufalini in Firenze dalla cattedra di clinica medica e raccolta per mezzo della stenografia dai dottori Raffaello Zannetti e Robusto Mori [Riflessioni sulla natura medicatrice e sul saggio Sulla dottrina della malattia, scritto da Leopardo Betti], “Lo Sperimentale”, X (1858), s. IV, I, fasc. I, pp. 92-100; Rapporto generale letto dal dottor Robusto Mori, segretario degli atti della Società medico-fisica fiorentina, nella adunanza solenne tenuta il 31 gennaio 1858, “Lo Sperimentale”, X (1858), s. IV, I, fasc. 5, pp. 471-475; Consiglio di Sanità del circondario di Cesena, Parere sull’impianto delle risaie nella valle Felici, 1864; Rapporto sullo stato sanitario del comune di Cesena nell’anno 1868, “Ippocratico”, s. III, XVII (1870); Vaccinazioni praticate nel circondario di Cesena nell’anno 1870 e sifilide vaccinale. Relazione del dottor Robusto Mori al consiglio sanitario, “Ippocratico”, s. III, XIX (1871); Vaccinazione e vaiuolo nel circondario di Cesena nell’anno 1871. Relazione del dott. Robusto Mori al consiglio sanitario di Cesena, 25 giugno 1872, “Ippocratico”, s. III, XXII (1872); Bagni marittimi ai poveri fanciulli scrofolosi di Cesena. Rendimento di conti pel Dott. Robusto Mori, Cesena, Tip. Nazionale, 1874; Relazione sulla concia di pelli dei fratelli Zanelli letta al Consiglio sanitario della Provincia di Forlì, Cesena, Collini, 1877; Relazione sullo stato sanitario e sulla mortalità del comune di Cesena nell’anno 1879 del Dott. Robusto Mori medico primario, Cesena, tip. Collini, 1880; Cesena. Rapporto statistico sullo stato sanitario durante il 1°, 2°, 3° e 4° trimestre, Cesena, tip. Nazionale, dal 1880 al 1893; Rapporto sullo stato sanitario del secondo semestre 1880 nel circondario di Cesena, “Raccoglitore medico”, s. IV, XIV (1880), fasc. 10; Parole pronunciate sul feretro del cav. dott. Attilio Urbinati dal dottor Robusto Mori, Forlì, tip. Democratica, 1881; Vaccinazione primaverile nel circondario di Cesena nell’anno 1882. Relazione al consiglio sanitario circondariale del dottor Robusto Mori commissario del vaccino, Cesena, tip. Nazionale, 1882; Sulla fusione dei grassi e sulla fabbricazione delle candele di sevo in Cesena, “Il raccoglitore medico”, s. IV, XVI (1882), fasc. 12; Relazione sulle vaccinazioni eseguite nella primavera del 1883 nel circondario di Cesena, “Il raccoglitore medico”, s. IV, XVII (1883), fasc. 10; Vita di Maurizio Bufalini, in Comitato per l’inaugurazione del monumento a Maurizio Bufalini (a cura di), Atti del Comitato, Cesena 31 marzo 1883, Cesena, tip. Nazionale di Vignuz-


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zi, 1883, pp. 85-288; Ciò che fece Bufalini, “Il Bufalini”, n° 3, Cesena, 8 aprile 1883; Croce Rossa Italiana, sotto Comitato locale di Cesena: resoconto morale economico dell’anno 1888, letto nell’adunanza generale dei soci tenuta il 27 gennaio 1889, Cesena, Collini, 1889; Croce Rossa Italiana, sotto Comitato locale di Cesena: resoconto morale economico dell’anno 1889, esposto all’adunanza generale il 24 aprile 1890, Cesena, Collini, 1890; Croce Rossa Italiana, sotto Comitato locale di Cesena: resoconto morale economico dell’anno 1890 e considerazioni, Cesena, Società Cooperativa Tipografica, 1892; Relazione sulle condizioni sanitarie del Comune di Cesena nell’anno 1891, Cesena, Società coop. per l’arte tipografica, 1892.

FONTI E BIBLIOGRAFIA Sull’arrivo di M. a Cesena vedi le copie delle lettere di Giacomo Guidi a Maurizio Bufalini del 17 novembre 1859, in BCM, mss. ces. I. V. 133; di Camillo Romagnoli a M. Bufalini del 18 giugno 1860, in BCM, mss. ces. I. V. 134; di U. Chiaramonti a M. Bufalini del 2 agosto 1860, in BCM, mss. ces. I. V. 134; di Camillo Romagnoli a M. Bufalini del 10 ottobre 1860, in BCM, mss. ces. I. V. 135. Vedi anche le lettere di M. Bufalini a Pietro Mami del 15 e del 22 ottobre 1860, in BCM, archivio Lelli-Mami, busta 17, lettere 17 e 18. Sulla patologia della quale soffriva M. vedi il certificato di Augusto Murri, datato 16 maggio 1877 nel quale si attesta che Mori «è affetto da endoarterite aortica, a curarsi della quale reputo a lui indispensabile per qualche tempo un riposo assoluto dalle fatiche dell’esercizio medico e la vita di campagna», BCM, mss. ces. VI. 18. Sul dissidio tra M. e Vincenzo Gobbi sul salasso vedi G. SASSI, Selva di memorie e di fatti risguardanti la Città di Cesena, X, p. 94, in BCM, ms. 164.70.1, citato in R. PASI, Maurizio Bufalini e Luigi Carlo Farini, Ravenna, Girasole, 2002, pp. 87-88. ANONIMO, Necrologio, “Il resto del Carlino”, Bologna, 31 gennaio 1899; ANONIMO, Necrologio, “Il Cittadino”, Cesena, 5 febbraio 1899; Onoranze al professor Robusto Mori in Cesena. Discorsi ed epigrafi, XXIV giugno 1900, Cesena, Biasini-Tonti, Ricci, 1900; C. RIGONI, Omaggio alla cara e venerata memoria di Robusto Mori, Pesaro, Federici, 1902; P. SERRA, Il Prof. Robusto Mori e il suo tempo (1860-1899), Cesena, Vignuzzi e C., 1903. Sul palazzo Venturelli-Mori vedi B. DRADI MARALDI, A. EMILIANI, Cesena. Il volto della città, Bologna, Alfa, 1973, p. 297 e R. BALLARDINI, T. CANTORI, O. PEZZI, P. C. RIGHETTI, C. TOSSANI, Costruzione, alterazione e recupero del Centro Storico di Cesena, Rimini, Ghigi, 1977, I, p. 280. Sull’attività di Mori a Cattolica vedi M. L. DE NICOLÒ, La strada e il mare, s.l., La Pieve, 1993, pp. 318-321;


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M. L. DE NICOLÒ, Cattolica di Romagna. Nascita di un comune, Fano, Grapho, 1996, pp. 64-66, 91-108 e M. CASTELVETRO, S. MEDAS, Storia di Cattolica, Cesena, il Ponte Vecchio, 2002, p. 110. Sull’amicizia di M. con Carducci va segnalato che nell’epistolario di Carducci, conservato a Casa Carducci a Bologna, vi sono 10 lettere ed un biglietto da visita spediti da Mori a Carducci fra il 1863 ed il 1878. Devo l’informazione alla dottoressa Simonetta Santucci, responsabile di Casa Carducci, che ringrazio. Sul monumento marmoreo in ricordo di Mori, vedi “Il Cittadino”, 12 febbraio 1899; “Il Savio”, 22 aprile e 17 luglio 1900; P. VAENTI, Cimitero urbano di Cesena, Bologna, Monograf, 1970, vol. II, pp. 25-26 ed E. VALZANIA, Guida del cimitero urbano di Cesena, Bologna, Arti grafiche, 1948. Sui contributi forniti da M. alla cura delle patologie epidemiche vedi: P. SERRA, Della cura del pio-torace e della pleurite essudativa, “Il raccoglitore medico”, s. IV, VII (1877), pp. 97-115; U. SALVOLINI, L’uso del siero antidifterico all’ospedale di Cesena, “Il raccoglitore medico”, s. VI, IV (1899), fasc. 3; U. SALVOLINI, P. COMANDINI, Contributo clinico alla cura della peritonite tubercolare ascitica per mezzo della paracentesi e insufflazione di aria, “Clinica Medica”, XI (1899); C. MORI, U. SALVOLINI, Cura del tetano colle iniezioni di sostanza cerebrale emulsionata, “Il raccoglitore medico”, s. VI, III (1899), fasc. 4; U. SALVOLINI, Ospedale civile di Cesena. Sezione medica. Rendiconto statistico dal 1 agosto 1898 al 1 marzo 1900, Osimo, Bertini, 1904 e le considerazioni in S. ARIETI, Centocinquant’anni di attività clinica nell’ospedale di Cesena in S. ARIETI, G. CAMAETI, C. RIVA (a cura di), Sanità e Società a Cesena 1297-1997, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1999, pp. 201-218. Sul movimento per il risanamento igienico delle città in Italia nel seconda metà dell’Ottocento vedi: G. PANSERI, Il medico: note su un intellettuale scientifico italiano nell’Ottocento, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1135-1155; F. DELLA PERUTA, Sanità pubblica e legislazione sanitaria dall’Unità a Crispi, “Studi storici”, XXI (1980), n. 4, pp. 713-759; G. OGNIBENI, Legislazione ed organizzazione sanitaria nella seconda metà dell’Ottocento, in M. L. BETRI, A. GIGLI MARCHETTI, Salute e classi lavoratrici dall’Unità al fascismo, Milano, Angeli, 1982, pp. 583-604; C. GIOVANNINI, Risanare le città. L’utopia igienista di fine Ottocento, Milano, Angeli, 1996, pp. 17-20; G. VICARELLI, Alle radici della politica sanitaria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 59-84, G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 339-345. Sull’attività di igienista di M. vedi C. GIOVANNINI, Igiene e struttura urbana tra ’800 e ’900, in S. ARIETI, G. CAMAETI, C. RIVA (a cura di), Sanità e Società a Cesena cit., pp. 387-398.

Giancarlo Cerasoli


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Francesco (Ferenc Ákos) Kossuth Nacque a Budapest il 16 novembre 1841, in via Szép nel palazzo Láslo. Il padre Luigi (Lajos) fu l’eroe della rivoluzione ungherese del 1848 contro gli Asburgo; la madre, Terézia Meslényi, era donna di grande cultura classica. Gli altri fratelli di Francesco furono Wilma, nata nel 1843 e morta prematuramente nel 1862 a Nervi-Genova, e Lajos Tódor, nato nel 1844. Gli avvenimenti che portarono all’ascesa politica del padre (il 14 aprile 1849 verrà eletto governatore-dittatore dell’Ungheria) scandirono l’infanzia di Francesco, tanto che all’età di otto anni gli fu “concesso”, sempre dal padre, il grado di sottotenente di un reggimento di cacciatori ungheresi di Ormay e veniva considerato da molti un “erede al trono”. Questa esperienza influenzò notevolmente il modo di pensare del giovane Kossuth, creò pure in lui una forte autostima e la consapevolezza di appartenere ad una grande famiglia. Quando gli Austriaci, con l’aiuto dello zar russo, soffocarono con efferatezza la rivoluzione ungherese nell’agosto 1849, Lajos Kossuth andò in esilio in Turchia, più precisamente a Kutahia, prigioniero-ospite del sultano. Francesco assieme ai suoi fratelli venne rinchiuso nella fortezza di Pozsony (oggi in Slovacchia) per otto mesi, controllato da soldati austriaci. A seguito delle proteste della stampa europea e dei governi di Francia, Inghilterra e Stati Uniti d’America per le drammatiche condizioni in cui versava il popolo ungherese dopo la fallita rivoluzione, come gesto di munificenza l’imperatore d’Austria fece liberare i figli di Kossuth, che abitarono per un certo periodo a Pest, presso la nonna, prima di raggiungere, il 18 giugno 1850, il padre in Turchia. L’11 settembre 1851, la famiglia Kossuth veniva imbarcata sulla nave da guerra americana “Mississipi”, messa a disposizione dal governo degli Stati Uniti. Iniziava per i Kossuth quella dolorosa peregrinazione attraverso diversi stati d’Europa. La prima tappa sarà nell’ospitale città di Londra, rifugio di molti esiliati politici, nella casa di lord Massingberd, in Belgrave Street. Da qui Lajos Kossuth partirà per un lungo viaggio negli Stati Uniti d’America a perorare invano, presso quel governo, la causa ungherese. Nel frattempo iniziava la scolarizzazione di Francesco, versatile studente in molte discipline. Riceverà, nel 1859, diversi diplomi o certificati di laurea in ingegneria, in architettura, in chimica e filo-


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sofia. Sosterrà esami in scienze politiche e naturali, sarà eccellente studente anche all’Istituto Barbès di Parigi in matematica. L’eclettismo del giovane Kossuth si esprimerà anche nelle belle arti, sarà un valido pittore, scultore e musicista. Comincerà la sua carriera di ingegnere impiegandosi nella costruzione della ferrovia nel Sud-Est dell’Inghilterra, nella contea di Devon famosa per la sua foresta. Nel frattempo il padre Lajos per portare avanti la sua attività politica si era rifugiato a Torino, sotto la protezione dell’amico Camillo Benso conte di Cavour, che stava tessendo una mirabile tela di contatti a livello dei governi europei per arrivare alla liberazione delle regioni italiane, ancora soggette alla dominazione degli Asburgo. Ben presto anche la famiglia si trasferirà in Italia, Francesco con altri ingegneri sarà impiegato nella progettazione e costruzione della linea ferroviaria ligure, in particolare tra Nervi e La Spezia. Successivamente diventerà referente al ministero dei lavori pubblici per quanto riguarda il tunnel ferroviario del Montecenisio-Frejus, inaugurato il 17 settembre 1871. Dalle Memorie della baronessa Olimpia Savio, a proposito del giorno dell’inaugurazione: Noi 14 signore si parte alle 8, e siamo ricevute alla stazione dal conte Medini, dal giovane Kossuth che offrono a ciascuna un gran mazzo di fiori e ci accompagnano in eleganti vagoni (RICCI, p. 236).

La prestigiosa carriera e le capacità manageriali del giovane ingegnere ungherese giungevano a conoscenza di ricchi imprenditori inglesi che, il 28 ottobre 1871, avevano fondato a Londra la Cesena Sulphur Company limited – con un capitale sociale di 350.000 sterline pari a lire italiane 8.750.000 e con sede al n° 1 di Queen Street, Cheapside - per acquistare e sfruttare le miniere di zolfo nel circondario di Cesena, promuovendo una strategia di grossi investimenti in tale settore. Le autorevoli cariche di direttore generale e amministratore delegato della Cesena Sulphur Company limited furono offerte, nel maggio 1873 al trentaduenne Francesco, che non ci mise molto a lasciare treni, rotaie e gallerie per scegliere questa nuova e temeraria strada. L’industria inglese, che aveva generato già da decine d’anni la rivoluzione industriale, era assetata per le proprie manifatture di materie prime, che venivano rastrellate avidamente là dove si producevano. All’inizio degli anni settanta, poi, la


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crisi degli zolfi italiani (monopolizzavano quasi per intero il mercato internazionale) non si era minimamente prospettata come conseguenza della scoperta dei giacimenti americani, in quanto ciò avverrà alla fine dell’800, quindi il posto più promettente per capitalizzare le risorse era, senza dubbio, la Romagna e più precisamente il Cesenate. Qui si erano intensificate le ricerche di nuove coltivazioni di miniere sulfuree, erano sorte diverse raffinerie per la lavorazione dello zolfo grezzo. A parere degli esperti, poi, lo zolfo romagnolo era, come prodotto finito, migliore rispetto a quello siciliano e, quindi, assai ricercato dall’industria. Il nuovo direttore prese con mano ferma la situazione gestionale delle varie miniere – Boratella I, Polenta, Borello-Tana, Cà di Guido, Monte Aguzzo ed altre minori – acquistate, nel frattempo, dalla società inglese, introducendo nuovi metodi di lavorazione (compaiono le prime macchine a vapore), aumentando sensibilmente gli investimenti, abbandonando le vene sulfuree in via di esaurimento o poco redditizie, e, soprattutto, adottando una organizzazione aziendale più efficiente rispetto al passato. La miniera di Boratella I, la più importante del circondario cesenate, che produceva nel 1872 circa 3.000 tonn. di zolfo grezzo, passava a 8.000 tonn./annue dopo l’assunzione della direzione da parte di Francesco Kossuth. L’esuberante attività del giovane tecnico ungherese, forte dell’esperienza maturata nella Gran Bretagna vittoriana, veniva seguita da altri impresari minerari e non solo, tanto da influenzare positivamente la creazione di una cultura imprenditoriale in una Romagna, considerata, allora, arretrata e selvaggia. Divenne in poco tempo un leader, un protagonista della vita economica della provincia forlivese; comprese che andavano curate le relazioni con le istituzioni pubbliche, con la classe politica al fine di condizionarle per favorire scelte infrastrutturali atte a valorizzare maggiormente la produzione solfifera cesenate. Questa si trovava sempre in una posizione periferica rispetto a quella predominante siciliana, che era favorita sia da esenzioni daziarie che da vantaggiose tariffe di trasporto. Riuscì, poi, a dar prova di abilità non comune nel rapporto difficile con l’agguerrita, passionale e consistente maestranza dei minatori romagnoli, suscitando un certo rispetto per la sua persona in quel far west senza regole. Singolare fu la sua prima visita alla miniera di Boratella Iª e da lui raccontata:


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Volli scendere nel pozzo profondo 80 metri per rendermi conto delle condizioni di lavoro e dello stato di quella miniera. Nella cesta che serviva per il trasporto degli uomini era con me un ingegnere inglese, capo dell’impianto. Arrivato in fondo al pozzo mi accorsi che due dei tre canapi della corda, che sosteneva il carico, erano stati tagliati. Quei minatori scontenti avevano deciso di eliminarmi. Ma la Provvidenza aveva deciso diversamente. Mantenendo il sangue freddo ed una volta risalito andai dal minatore che ritenevo il più forte e dissi – volevate uccidermi. Da adesso in poi tutte le volte che devo scendere nel pozzo verrà con me un minatore, ma non saprete mai prima chi sarà. – Gli assassini tacquero e l’attentato non si è mai più ripetuto (KOSSUTH, 1906. Traduzione a cura della Soc. di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria).

Il suo coraggio conquistava i minatori, al punto che nei momenti di pericolo (incendi, crolli di gallerie, allagamenti) quando li chiamava per i soccorsi, questi facevano letteralmente a gara per andare con lui nei rischiosi interventi. Francesco Kossuth conobbe, sin dall’inizio, in quei lavoratori una marcata effervescenza sociale, un’insofferenza per l’autorità costituita, dei sussulti ribellistici, che personaggi anarchici, socialisti e repubblicani, frequentatori assidui dell’“inospitale” Boratella, spargevano a piene mani. La difficoltà delle forze di polizia nel controllare quella concentrazione così elevata di operai (nei momenti di maggior produzione solfifera si avranno impiegate oltre 4.000 unità) sfocerà in decine e decine di azioni delittuose, che per la maggior parte si verificheranno attorno ai complessi minerari. Scioperi duri, minacce, risse nei “bettolini” – sorta di bottega-osteria -, perfino omicidi politici (alcuni minatori, istigati da capi-popolo senza scrupoli, diventeranno sicari in nome di una mistificata idea politica) alimenteranno a livello nazionale, in negativo, “la questione romagnola”. La recrudescenza di tali fenomeni degenerativi coinciderà coi reiterati momenti di crisi dell’industria solfifera, soggetta, questa, ai contraccolpi di un mercato instabile per ogni sobbalzo che poteva avvenire anche dal più lontano paese, importatore di tale prodotto. Bastava lo smorzarsi di qualche conflitto, assai frequenti in quel periodo (lo zolfo era fondamentale in campo bellico come componente della polvere da sparo), o il reperimento di derivati dello zolfo, ad esempio, dalle piriti di ferro che il prezzo per tonnellata scendeva fulmineamente. Di conseguenza, chiudeva-


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no diverse miniere, centinaia di operai si ritrovavano sul lastrico e il conflitto sociale, legato ad un crescente grado d’anomia, era talmente percepito che le agitazioni dei minatori cesenati allarmavano primi ministri di governo, che chiedevano ai funzionari prefettizi mano ferma e l’impiego di battaglioni di soldati a cavallo. Il 12 agosto 1879 un sorvegliante di miniera, Pasinio Guizzetti, cadeva sotto i colpi di fucile esplosi da un minatore dopo il suo licenziamento; il 23 ottobre 1879 veniva ucciso a pistolettate il contabile della miniera Boratella Iª, Eugenio Cugniolio. L’ing. Kossuth così scriveva al sottoprefetto di Cesena: Quest’oggi, mentre Eugenio Cugniolio, contabile alla Boratella Iª, saliva, verso le ore 6 pomeridiane, le scale della propria abitazione in quelle miniere fu colpito da una fucilata tirategli da di dietro. Appena mezz’ora dopo questo deplorevolissimo fatto il prefato spirò. La Società scrivente si fa in dovere di avvertire la S. V. ill.ma che visto il fatto suddetto e l’assassinio poca fa avvenuto del sorvegliante Guizzetti Pasinio, essa Società ha deciso di chiudere le sue miniere situate in Romagna sospendendo la lavorazione in questa Provincia fintantoché l’assassino del compianto Cugniolio non sarà caduto vivo o morto nelle mani della forza pubblica e fintantoché non si saranno prese misure severissime per purgare codeste importantissime sedi di lavorazione dagli assassini e dalle varie associazioni che li infestano (KOSSUTH, 1906, traduzione a cura della Soc. di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria).

In questi continui sussulti, l’ing. ungherese tentava di trovare soluzioni di natura industriale – affitto di nuove concessioni minerarie, farsi promotore di provvedimenti governativi per tariffe di trasporto agevolate, incrementare economie di gestione – per frenare, a partire dal 1879, l’emorragia di bilanci in perdita della Cesena Sulphur Company. Solo con i pesanti prestiti che la banca torinese di Ulrico Geisser, ricco banchiere ebreo di origine svizzera, elargirà alla società inglese, questa riuscirà a tirare avanti, faticosamente, sino al fallimento, decretato il 27 maggio 1887. La lettera di Francesco Kossuth indirizzata al Prefetto di Forlì, in pari data, dopo essersi recato al Tribunale a portare a termine l’atto doloroso di consegna dei libri contabili è significativa: Oggi ho compito l’atto doloroso di rassegnare il Bilancio della Cesena Sulphur Company, e così questa Società, che sotto di me ha sparso a pie-


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ne mani il bene nel paese, ha cessato di vivere la sua vita benefica, ed io, allontanandomi fra pochi giorni, per quanto sarò meno agiato di £ 100 mila, porterò con me una consolazione, ed è che io feci quanto pochi Direttori di Società anonime hanno fatto, ma che per me, con il nome illustre che ereditai era un dovere, il quale dovere è stato da me compito fino agli estremi limiti. Ho potuto trovare un Curatore, che sarà accolto dal Tribunale, in modo che la lavorazione non sarà troncata e non mancherà il pane a tanta povera gente. Questo sarebbe il mio ultimo atto, se non mi rimanesse ancora un altro da compiere, ed è, di imporre coll’esempio all’adunanza dei creditori l’obbligo morale di volersi posporre coi crediti a quelli degli operai e dell’altra povera gente, ed allora avrò finito. (ASFo, Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 135, F. Kossuth al prefetto di Forlì)

Terminava in modo disastroso l’esperienza cesenate nell’industria dello zolfo dell’ing. Kossuth. Parimenti un altro colpo si abbatteva sulla sua famiglia: la bellissima moglie inglese, Emily Hoggins, sposata all’inizio del suo soggiorno a Cesena e che era stata una protagonista della vita mondana e culturale della cittadina romagnola, per una grave malattia moriva il 30 ottobre 1887, a Firenze. Il lussuoso palazzo Guidi, famoso per aver ospitato il generale Napoleone Bonaparte, Maria Luigia d’Austria ed i vari re e principi transitati per Cesena, fu la residenza della famiglia Kossuth; sul portone d’ingresso spiccava il motto: Omnia Kussuthius vincere debet, singolare modo di far capire di che tempra era il risiedente di quella casa. Nel giardino, solcato da piccoli sentieri, le piante tropicali davano un effetto particolare ai visitatori, nelle scuderie i quattro cavalli bianchi di razza pura erano accuditi di tutto punto, sempre pronti e veloci a soddisfare l’eccellente cavallerizza inglese, considerata dalle trasognate contadine romagnole, che la vedevano cavalcare per le campagne, come una “Madonna dai folti capelli dorati con ciglia nere ed occhi color viola”. A Firenze, nel Cimitero luterano degli Allori, riposa l’amata Emily nell’imponente tomba, fatta erigere dal marito, su cui lo stemma dei Kossuth - il montone bianco, con triplo giglio e sormontato dal copricapo dei capi ungheresi – campeggia a simboleggiare, tutt’oggi, la grandezza di quella nobile famiglia. Dopo il grave lutto Francesco Kossuth, aiutato dal fratello Lajos Tódor, anche lui ingegnere ferroviario e direttore dell’Esercizio delle ferrovie meridionale a Napoli, si trasferì in quella città dive-


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nendo ben presto amministratore delegato dell’Impresa Industria Italiana, società che costruiva ponti in ferro ed acciaio ed aveva lo stabilimento principale a Castellamare di Stabia. Il 20 marzo 1894, a Torino, moriva all’età di novantadue anni il padre Lajos. Questi, nei lunghi anni dell’esilio, aveva tessuto, prima con Cavour e poi con diversi rappresentanti di governi europei, la trama necessaria per tenere sempre desto il problema ungherese, al fine di giungere alla liberazione della sua patria dalle catene asburgiche. Nel 1867, il grande patriota respinse sdegnosamente il compromesso che una parte della classe politica e della nobiltà ungherese aveva accettato con la nascita dell’impero Austro-Ungarico. Sebbene il regno d’Ungheria avesse un proprio parlamento, il sovrano era sempre l’imperatore austriaco ed alcuni ministeri importanti erano in comune con Vienna. Nonostante che Lajos ed il figlio maggiore venissero eletti più volte deputati a Budapest, sempre rifiutarono il mandato. Era noto che il vecchio Kossuth aveva detto a suo figlio: Se vuoi prendere un incarico pubblico in Ungheria, aspetta che io chiuda gli occhi per l’eterno, poiché non potrei recedere dai miei principi nemmeno per quel tempo in cui tu godresti dell’ospitalità della patria (CSORBA, 2002).

Dopo ben quarantacinque anni d’esilio, Francesco sentì che più nulla lo tratteneva in Italia. Riportò le ceneri del padre a Budapest dove, il 1 aprile, si svolsero i solenni funerali con numerose delegazioni e grande concorso di popolo, accorsi a rendere omaggio al padre della nazione. Il 29 ottobre 1894, dopo aver definito i proprii impegni a Napoli e Torino, lasciava per sempre l’Italia mettendosi da subito alla guida del Partito dell’Indipendenza, che era stato fondato da suo padre. Nel 1905 la coalizione dei partiti indipendentisti, cioè di coloro che erano contrari al compromesso della Conciliazione del 1867, vinse le elezioni. L’imperatore Francesco Giuseppe non accettò la regola del gioco parlamentare di dare ai vincitori il mandato di formare il nuovo governo. Nominò come primo ministro il feldmaresciallo Fejérvay, capo della sua guardia personale, ed i ministeri andarono in mano a funzionari statali in aperta opposizione con il parlamento. Nelle città e province ungheresi si ebbero tumulti e questi andarono avanti per circa un anno e mezzo. Alla fine dopo trattative segrete venne nominato un


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nuovo governo formato da Sandor Wekerle; a Francesco Kossuth, forse per la sua esperienza imprenditoriale, venne dato il portafoglio del commercio ed industria. Pensava la nuova colazione governativa di poter incidere maggiormente nei confronti di Vienna, in particolare nella creazione di una banca di emissione ungherese autonoma e che l’esercito fosse esclusivamente nelle mani del governo di Budapest. Ciò non avvenne; alla fine del 1909 si aprì una nuova crisi politica: il partito dell’Indipendenza si spezzò in vari tronconi ed il governo di coalizione rassegnò le dimissioni. Francesco Kossuth formalmente era diventato un uomo importante in Ungheria: presidente del partito dell’Indipendenza, ministro di governo, un punto di riferimento, soprattutto, grazie al mito di cui aveva avuto gran parte la possente figura del padre Lajos. La sua vicenda politica, che si era trovata in serie difficoltà nei confronti dei partiti e partitini nazionali per i contrasti e le continue discussioni, subì spesso l’influenza di altre personalità piuttosto che imporsi con una propria prerogativa. Nella lettera del novembre 1913 scritta al fratello Lajos Tódor, rimasto in Italia, la consapevolezza di non aver dato una svolta nella politica d’indipendenza dell’Ungheria è evidente: Quando mi trovo qui accanto alla tomba del nostro povero padre […] si accende nel mio spirito il pensiero che mi doleva e mi duole che, sicuramente, se lui lo avesse sospettato, avrebbe disapprovato il mio ritorno a casa e le mie attività qui svolte (CSORBA, 2002).

Francesco Kossuth morì il 25 maggio 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, senza vedere realizzato il sogno della sua Ungheria indipendente. Venne sepolto accanto a suo padre, nel cimitero di via Kerepesi. Sarà Sandor Wekerle, il 19 ottobre 1918, a proclamare la repubblica d’Ungheria ed a distaccarsi definitivamente dall’Austria. Si completava il risorgimento ungherese atteso lungamente dalla famiglia Kossuth, il cui nome sarà sempre invocato, lungo il corso del ’900, nelle lotte per affrancarsi dalle dittature straniere e ritrovare in quel simbolico nome l’unità della nazione.


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FONTI E BIBLIOGRAFIA ASFo, Prefettura, Archivio generale e Archivio di Gabinetto. Fallimento della Cesena Sulphur Company limited, relazione del curatore. Bilanci dell’esercizio 1887-88, Cesena, Tip. Nazionale di G. Vignuzzi, 1888 (BCM, op. cesenati CXIX. 76); F. KOSSUTH, Harmincz parlamenti beszéde. életajzi adatokkal kiseri Hentaller Lajos, Budapest, 1906; R. RICCI, Memorie della baronessa Olimpia Savio, II, Milano, Treves editori, 1911, p. 236; P. P. MAGALOTTI, The Cesena Sulphur Company lim. ed il suo direttore Francesco Kossuth, “Studi Romagnoli”, XXXVI (1985), pp. 95-105; AA.VV., Zolfi e Zolfatari. Un’attività scomparsa del Cesenate, Cesena, Wafra, 1986; R. BALZANI, Industrie minerarie e trasporti in Romagna dall’Unità al primo conflitto mondiale, “Padania”, II (1988), fasc. 4, pp. 97-121; R. BALZANI, Francesco Kossuth imprenditore minerario in Romagna (1873-1887), in La Miniera. Tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, a cura di S. LOLLETTI, M. TOZZI FONTANA, Bologna, Edizioni Analisi, 1991, pp. 181-192; R. BALZANI, La democrazia cesenate fra radicalismo e repubblicanesimo, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 2 (1860-1922), a cura di A. VARNI e B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1991, pp. 313-516; A. PRETI, L’economia cesenate dall’inchiesta agraria alla prima guerra mondiale, ibidem, pp. 655-757; G. MONSAGRATI, Tra due patrie. La vita italiana dei figli di Lajos Kossuth, 1861-1894, “Il Veltro”, XXXVI, settembre-dicembre 1992, pp. 105-117; P. P. MAGALOTTI, Paesi di zolfo. Le miniere di zolfo nel Cesenate. Vicende storiche, economiche e sociali di un’attività scomparsa, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1998; L. CSORBA, F. Kossuth politico e statista, intervento alla giornata di studio su Lajos e Ferenc Kossuth, Cesena, 16 novembre 2002.

Pier Paolo Magalotti


Nazzareno Trovanelli

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Nazzareno Trovanelli Nazzareno Trovanelli nacque a Forlimpopoli il 31 agosto 1855 da Girolamo e Geltrude Massi. Il padre proveniva da Mercato Saraceno, da una prolifica e notabile famiglia del luogo: figlio di Benedetto e di Mattea Maggiori, nato il 10 gennaio 1822, ebbe come fratelli Audiface, consigliere anziano del Comune di Mercato e corrispondente del latinista Cesare Montalti, il dr. Pio (medico), Luigi (avvocato), di cui si conosce una corrispondenza epistolare con Eduardo Fabbri. Era ingegnere (architector mechanicus) e aveva studiato a Roma, dove aveva abitato in via dei Gigli d’oro, dietro Palazzo Altemps nella parrocchia di Sant’Agostino (ricordiamo che a Mercato Saraceno esisteva un piccolo convento agostiniano, ora parrocchia di Santa Maria Nuova). Nel 1842-43 risultava iscritto alla classe filosofica e frequentava il 4° anno di corso della Scuola speciale di matematica. Secondo quanto scritto nel suo necrologio, era stato espulso da Roma dalla polizia papale: lo troviamo quindi come patriota attivo e combattente a Vicenza e a Monte Berico nel 1848; successivamente si ritirò a vita privata. Aveva lavorato come ingegnere, prima per il comune di Forlimpopoli, dove la moglie aveva dato alla luce Leonilde nel 1854, Nazzareno l’anno dopo (padrino di battesimo lo zio paterno Audiface), Maria nel 1856 (morirà nel 1900), Erminia nel 1857, Benedetta nel 1859 e morta il giorno stesso, Benedetto nel 1860 e morto poco dopo. Successivamente, nel 1863, l’ingegner Girolamo risulta immigrato a Cesena con la famiglia; qui nel 1866 nacque l’ultima figlia, Anna. Secondo testimonianze coeve, per 25 anni lavorò per l’Ufficio Tecnico dell’Amministrazione Provinciale di Forlì. A Cesena fu consigliere comunale almeno dal 1878, membro della commissione municipale sanitaria a diverse riprese. Nel 1875 risultava fra i consiglieri eletti del “Consorzio pel Savio”, che duravano in carica per 5 anni; fu inoltre consigliere della Cassa di Risparmio, stimato da tutti per la probità e la correttezza nel pretendere il rispetto del bene pubblico. Rinuncerà alla carica di consigliere comunale con lettera dell’11 febbraio 1883 e morirà undici anni dopo. La madre Geltrude Massi era figlia del notaio Pietro e di Maria Ricchi ed era nata a Mercatino di Talamello il 26 settembre 1824.


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Lo zio di lei, Carlo, recatosi in Inghilterra con l’amico Francesco Mami, era un inventore e fu un collaboratore dello scienziato Faraday. Una parente della madre, Elisabetta Ricchi, era la madre di Guglielmo Gajani, il patriota e consigliere della Repubblica Romana del 1849, il cui libro di ricordi, The Roman Exile, scritto negli Stati Uniti, fu tradotto da Nazzareno. Nazzareno conservava quindi un notevole numero di cugini nella terra paterna e altri parenti ed affini arrivavano fino alla Valle del Marecchia, dove diversi Trovanelli lavoravano o avevano prestato il loro servizio come notai o medici nei vari paesi della zona. La famiglia Trovanelli giungeva quindi a Cesena nel 1863, in tempo per far frequentare gli ultimi tre anni delle elementari a Nazzareno. Abitava nel Rione rosso al n. 13 di S. Domenico, e apparteneva alla parrocchia del Duomo: la famiglia visse qui almeno fino al 1874, come attesta il Registro Generale del Liceo quando il T. frequentava l’ultimo anno. Il giovane Nazzareno aveva probabilmente già ricevuto in famiglia un’istruzione di base. Come ricorda il Bazzocchi, fu mandato a scuola dal “buon canonico Rondoni... che gli mostrava le belle figure sui libri”. T. aveva celebrato questo personaggio della sua prima infanzia in una poesia (L’io d’oggi all’io futuro) assieme alla sua perpetua, Rosa: un ricordo pieno di affetto e di nostalgia. Mentre le cittadine più grandi avevano la possibilità di aprire scuole primarie, i piccoli comuni con poche risorse finanziarie come Forlimpopoli ricorrevano alle scuole parrocchiali per l’istruzione dei fanciulli. Più tardi la Legge Coppino (15 luglio 1877) avrebbe stabilito l’obbligatorietà della scuola almeno per il primo biennio elementare. Dopo questa preparazione di base, T. nel 1864 varca la soglia del portone di levante del Palazzo degli Studi, appena costruito su disegno dell’arch. Davide Angeli (1863), vicino a quella biblioteca che imparerà ad amare e ad apprezzare profondamente. Negli ultimi due mesi dell’anno scolastico 1863-64, è ammesso nella sezione di prima inferiore del maestro Teodoro Ardizzoni (che andrà in pensione nel 1881), come uditore. Farà gli esami per la prima superiore (corrispondeva all’epoca alla 3a elementare), che frequenterà nella sezione del maestro Pio Pasini. Fu promosso con il voto di 27/30; l’anno successivo ricevette la sua prima menzione d’onore e il suo primo premio scolastico, che si aggiudicò anche l’anno successivo.


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Le materie oggetto degli esami all’epoca erano: catechismo e Storia Sacra, lettura, scrittura, grammatica, composizione, aritmetica, sistema metrico decimale e tenuta libri contabili. In terza superiore, nella sezione del maestro Francesco Detti, merita un dieci in tutte (votazione finale 30/30), e la menzione d’onore di 2° grado: è pronto per frequentare il Ginnasio Comunitativo (questo e la Scuola Tecnica erano gestiti dal punto di vista amministrativo e didattico interamente dal Comune). Nel registro del Ginnasio Comunitativo dei saggi mensili scritti dagli alunni (italiano, latino, geografia) risulta conseguire una media del 9 e negli anni successivi (1868-70) riceve menzioni di 2° grado in molte materie e negli esami finali consegue un punteggio di 42/50 in prima, 56/60 in seconda, 55/60 in terza. Sia in terza che in quarta ginnasio (anno scolastico1870-71, votazione finale 58/60) riceve il premio di 2° grado assieme al compagno Settimio Bonandi, classe 1853, di Monteleone, poi medico. La Giunta Municipale pubblica tutti i nomi dei “giudicati degni di premio e di menzione onorevole”. I risultati della quinta ginnasio furono migliori: la premiazione avvenne l’anno dopo, nel 1873, e il Comune si diede da fare per organizzare una cerimonia di tutto rispetto: fu pubblicato un manifesto pubblico il 28 maggio 1873 con i nomi degli alunni di tutte le scuole, iniziando dal Regio Liceo. La cerimonia avvenne il 1° giugno al Teatro Comunale. Il Sindaco Mami si assicurò la presenza di un picchetto d’onore, fornito dal 64° Reggimento di Fanteria Cagliari della Divisione di Bologna. T. ricevette il premio di 3° grado accompagnato da un libro: Storia dei viaggiatori italiani di Gaetano Branca, un volume di 500 pagine, che egli conservò gelosamente visto che è ancora presente nel suo Fondo librario, conservato in Malatestiana (T 11 237). Iniziano gli anni del Liceo, uno dei primi istituiti dopo l’Unità d’Italia, divenuto regio con decreto dell’8 novembre 1860: l’impegno nello studio, la sua indole riflessiva, l’esempio del padre e del nonno materno, il notaio Pietro Massi (che aveva redatto il testamento di Eduardo Fabbri), lo portano ad essere sempre uno dei primi a scuola: iniziano gli anni ricchi di studio e di scoperte culturali ed artistiche, con insegnanti preparati, che molto spesso animavano la cultura cittadina con le loro dotte conferenze. In questi anni impara l’inglese sotto la guida privata del prof. Pietro Pacchioni,


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perfezionando molto probabilmente lo studio teorico con la conversazione in lingua con lo zio Carlo Massi, tornato a Cesena nel 1864, dopo un soggiorno di 47 anni a Londra. Le materie studiate a scuola sono: italiano, latino, greco, storia, filosofia, matematica, fisica e storia naturale. In prima Liceo viene promosso alla classe successiva con una votazione di 82/100. Le due materie in cui eccelle sono italiano (9) e storia (10) e riceve una menzione onorevole di 1° grado; in seconda raggiunge una votazione finale di 100/120 e menzione onorevole di 2° grado: i verbali d’esame sono firmati dai professori Pacchioni (italiano e storia), Merlo (greco e latino), Morelli (filosofia); il preside di quegli anni è Giuseppe Carminati. Negli ultimi due anni di liceo T. scrive intensamente: la sua forma letteraria preferita è la poesia. Scrive poemi, odi, poemi satirici, sonetti di vari argomenti: le sue prime prove sono datate 1872 e spesso sono firmate Fuitéstero N. Trovanelli. La spiegazione di questo strano nome è riportata nella prefazione ad una raccolta manoscritta di sue poesie del 1873, dove, facendo un bilancio della sua vita, si dichiara non-cattolico, anzi non-cristiano, e deprecando il nome datogli dai suoi cattolicissimi genitori, lo cambia in “fuit-est-ero” (“quello che fu - è – sarò”): vi afferma che la sua religione si basa su un Dio universale, anche se a volte teme di essere ateo. Questa introduzione é anche una sintesi della sua vita fino ai 18 anni, in cui racconta di un’infanzia “ritirata”, dovuta alla preoccupazione della madre (“buonissima e santa donna, ma paurosa troppo”) per la sua “fisica costituzione”. Vergognoso di “uscire appresso alle sue gonne” o con il padre severo che parlava solo di lavoro e di politica con gli amici, Nazzareno stava in casa e leggeva tantissimo; volendo riempire il “vuoto in cui viveva” si dedicava alla composizione di poesie e di commedie, imitando i grandi scrittori italiani da Dante a Goldoni e perseguendo “l’amor della gloria”. Erano, come lui dice, pretese puerili; tanto più che avendo studiato in un libro la metrica, si era messo a rimaneggiare tutte le poesie precedenti pensando di realizzare grandi cose, ma per certo conseguendo notevoli successi scolastici nella materia. Oltre a questa raccolta vi sono tantissimi foglietti sparsi: il Satana del Carducci e Il Paradiso perduto di Milton lo ispirano a scrivere un poema simile, dove Satana rappresenta lo spirito libero del-


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l’uomo: le liriche sono rimaneggiate più volte in varie versioni. Molte poesie sono dedicate all’amico Uniade Belletti, che lavorerà poi come ingegnere comunale; alcune liriche sono chiaramente ispirate ad un amore giovanile (a G. A.). Tutto viene gelosamente tenuto in un “portafogli” al quale dedicherà a sua volta una poesia. Troviamo anche liriche introspettive come quella Su me stesso, saggi poetici per la quarta ginnasio, poemi su personaggi illustri o su fatti storici: come Gino Capponi, Francesco Guerrazzi, Pio IX, Niccolò Tommaseo; in seconda liceo, per la festa letteraria del Liceo Monti (12 marzo 1874), scrive un’ode all’astronomo Gian Domenico Cassini. Poi abbandona la poesia personale e preferisce cimentarsi in traduzioni poetiche dei suoi poeti inglesi preferiti. La prima che svolge è Enoch Arden di Alfred Tennyson, che inizia nel 1874 e finirà, dopo varie prove, nel 1876, quando sarà già a Roma, dove poi pubblicherà, sempre di Tennyson, Montenegro in “Rivista romana di scienze e lettere” (pubblicazione fondata dall’avv. Gustavo Pasquali nel 1878 e di brevissima vita). Di tutta questa produzione giovanile, nel marzo 1873 era stato pubblicato in “La Gazzetta degli studenti”, Sulla controversia di Lorenzo Valla e P. Bracciolini. Nel 1875 In morte di Maurizio Bufalini, mentre nel 1876 ne “La rivista europea” pubblica di Longfellow, Lo studente spagnolo e, nell’anno della sua laurea (1879), Evangelina. In terza liceo T. si presenta agli esami con 63/80. Gli esami di licenza si svolgono dal 19 al 27 luglio 1875: nelle prove scritte T. consegue 8 in italiano, 9 in latino, 9 in greco e purtroppo 0 nei quesiti di matematica, ma tutta la classe va ad ottobre con zero, eccetto un certo Ludovico Cicognani, che prende 5. Agli orali consegue 9 in letteratura italiana, letteratura greca e filosofia, 8 in letteratura latina e storia naturale, 10 in storia. Viene licenziato in matematica nella sessione d’ottobre come tutti gli altri compagni. Ricordiamo che in quegli anni il liceo era promotore di cultura ad alti livelli e i rendiconti di ogni anno scolastico con orari, materie e conferenze che vi si tenevano, venivano pubblicati a stampa. Questo giovane erudito sceglie di proseguire gli studi alla facoltà di legge a Roma, dove anche il padre si era laureato tanti anni prima: il 15 ottobre 1875 T. scrive al rettore per chiedere informazioni sull’immatricolazione; successivamente invia i documenti, fra cui il diploma licea-


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le originale: risulta quindi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza negli anni accademici dal 1875 al 1878. Le sue abitazioni (ogni anno ne cambia una) sono tutte collocate in quella zona che ora è la più prestigiosa di Roma e che gravita attorno a Piazza di Spagna: la sua prima dimora da studente si trova in via del Bufalo 133, dietro S. Andrea delle Fratte, presso Bruno Butkiewiecz; l’anno dopo l’8 dicembre 1876 abita in vicolo d’Alibert n. 11, una trasversale di via del Babbuino, presso la vedova Carnevali; infine nel terzo anno abita in via del Corso n. 391, in casa Pasinati. Roma è la vecchia capitale di un giovane regno. Dopo tanti anni di lotte è stata conquistata, ed è un ricordo recentissimo la breccia di Porta Pia: molte questioni politiche ed in primis la contrapposizione fra la nuova nazione e il Papato sono ancora aperte. Il giovane T., studente pieno di talenti, vive e studia in un ambiente culturale e sociale ben più ampio e sfaccettato della sua “piccola patria” cesenate. Certamente non perde tempo ad assorbire quello che più gli interessa: cultura, musica, arte, letture fanno da corona ad uno studio serio e profondo della legge. La sua vita da studente ci viene raccontata con tratti di profondo affetto dall’amico Alfredo Comandini nel necrologio pubblicato su “Il Cittadino” del 28 marzo 1915. I due non si conoscevano che di vista, Nazzareno aveva quasi due anni in più; il giovane Comandini approfittava della capitale per vivere come un giovane alla moda, mentre l’amico (ci si dava del “lei”) viveva in maniera frugale, mangiando nelle latterie, andando a letto presto ed alzandosi prestissimo. Aveva a disposizione 5 lire al giorno e riusciva a comperarsi almeno 30 lire di libri al mese; amava il teatro e la musica, ma non pretendeva altro che il loggione; era attento alla politica, ma non partecipava certo a quelle manifestazioni che il “rivoluzionario” amico caldeggiava, però era presente fra il pubblico ad ascoltare, a studiare i fatti. Il suo aspetto era “inelegante”, le sue “stonature di abbigliamento” erano diventate una sua natura e non se ne curava affatto: “come presentavasi pareva un originale un po’ strano. Parlava poco, era riservato, arrossiva facilmente, ma poi, se apriva bocca, bisognava ascoltarlo, e meravigliava. Si capiva che non parlava che di ciò che sapeva, e... si capiva che sapeva molto. Letteratura, arte, politica, storia, tutto destava in lui una improvvisa vivacità di idee”. Gli amici cercavano di portarlo con loro alla sera, ma


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era “irriducibile”, tornava alle sue stanze presto, “con qualche libro nuovo sotto il braccio o con qualche giornale inglese”. La conoscenza di questa lingua da parte di T. era uno “studio serio, sodo e profondo” e per Comandini una fonte di bonaria invidia. Quindi quello studente impacciato, malvestito non si dedicava certo solo alla legge, ma perseguiva una sua formazione culturale e civile, che già stava dando dei frutti ed era riconosciuta da tanti. Non aveva ancora presentato la sua tesi di laurea che nel giugno del 1878 già era riuscito a fondare il suo primo giornale, organo del partito liberale a Cesena: “La settimana”, la cui vita fu brevissima (dal 22 giugno al 20 luglio 1878), ma che mostrava in anticipo il valore di scrittore e di critico del suo fondatore. Il foglio, animato da giovani monarchici liberali come T., nasceva proprio in occasione delle elezioni parziali annuali e voleva riorganizzare un gruppo politico invecchiato fra ambizioni e personalismi contrapposti. Nel 1879 discute la sua tesi di laurea e l’estate dell’anno successivo si dedica ad un altro giornale locale: “Lo specchio, giornale letterario amministrativo”, che dal punto di vista politico vorrebbe unire tutti i liberali, sia costituzionali che democratico-radicali; un’altra caratteristica della pubblicazione è la presenza della storia locale con articoli di rilievo. T. spesso firma gli articoli usando pseudonimi di sapore anglosassone come Kewelin, altrove sarà Friend o Kenelm. Il primo numero del giornale esce il 4 luglio 1880 ed uscirà ogni domenica fino al 1882. Qui pubblicherà la traduzione poetica de La Parisina di Byron. L’attività di T. non si esaurisce certo nella cura di quel periodico, perché assieme ad altri studenti risulta segretario del Club Cesenate, guidato da Alessandro Albertarelli, e nel cui consiglio direttivo siedono i notabili della città (Turchi, Manaresi, Mischi, Angeli, Serra e il conte Pietro Pasolini Zanelli); malgrado ciò l’iniziativa fallisce. Dopo la morte dell’amatissima madre, il 2 luglio dello stesso anno Nazzareno abbandona la direzione del giornale “Lo specchio”. Giovanissimo e già impegnato pubblicamente, con un padre che da tempo era presente come consigliere comunale e membro di diverse commissioni consiliari, T. inizia a Cesena il suo cursus honorum tutto locale, ma di grande levatura. Lo troviamo per la prima volta nella seduta del 22 settembre 1881, durante la quale viene nominato fra i Soprintendenti delle


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scuole e biblioteche comunali, avendo già sostituito nel semestre precedente uno di questi, l’avv. Ernesto Mischi, il 30 luglio 1881. Nel 1882 gli vengono affidate le carte Fabbri, già depositate nella biblioteca per volere della vedova nel 1878. Il testo dell’atto dice: “affidandosene la cura al solerte Sopraintendente Signor Dr. Trovanelli, il quale li ha riordinati per materia, facilitandone così l’esame e lo studio”. Forse proprio dallo spoglio delle carte Fabbri inizia il desiderio di valorizzare la grande figura di questo patriota romagnolo: la sua passione per la ricerca storica si acuisce e inizia una raccolta di testimonianze e documenti per approfondire la conoscenza di quel lungo periodo storico che chiamiamo Risorgimento, dei fatti e dei personaggi che lo animarono, sia in sede locale (tanti erano ancora viventi e appartenenti alla generazione appena precedente la sua) che in sede nazionale. Ha solo 27 anni, ma il suo acume e la sua competenza non tardano a dare i loro frutti: redige una lunga relazione per riformare il metodo con cui sono amministrate le scuole cesenati e con cui sono gestiti gli insegnanti; nel giugno dell’ottantadue si discute in più sedute quasi esclusivamente dell’istruzione pubblica. Fra i consiglieri ci sono dei contrasti, alcuni si dimettono (Valzania, Turchi, Aventi, Fabbri e Spinelli); si dimette da assessore il dottor Pio Serra (padre di Renato e amico di famiglia dei Trovanelli) e tutta la Soprintendenza scolastica, il che costringe il Consiglio Comunale a rivedere ampiamente la materia e ad approvare infine il lavoro svolto dalla Soprintendenza, emettendo un nuovo Regolamento sia per le scuole che per la Biblioteca pubblica (14 luglio 1882) secondo le linee guida volute da T. Nel marzo dell’83 il Comune riceve dal Ministero della Pubblica istruzione una lettera di plauso per l’eccellente riforma e riorganizzazione delle scuole e dell’istruzione pubblica. L’anno successivo alla morte di Garibaldi (2 giugno 1882) il Comune cambia il nome a via Dandini: dal Duomo a porta Romana (porta Santi) si chiamerà via Garibaldi, dove T. abita al n. 37, nel palazzo che fu dei conti di Bagno, di fianco alla chiesa dei Servi. Dopo la chiusura de “Lo specchio”, Nazzareno torna al giornalismo collaborando ad un foglio uscito fra il giugno e l’ottobre del 1883, “L’Iride”, che, uscito alla vigilia di elezioni, aveva il fine di contrastare il protagonismo politico dei cattolici. La pubblicazione riapparirà nel 1889 con la direzione “del nostro amico personale e


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politico Dott. Pio Serra”, anche se T. commenta che troppi giornali della stessa parte politica ingenerano solo confusione. Nel frattempo la sua attività di soprintendente per le scuole e le biblioteche continua con grande fervore: l’acquisizione con atto pubblico delle carte Fabbri era stata sollecitata da lui con lunghe lettere e relazioni, come pure di quelle dell’illustre latinista Cesare Montalti (accettate il 1° maggio 1884). Inoltre invita il Comune a raccogliere e mandare in biblioteca le carte autografe di altri illustri cittadini; fa rifare la pavimentazione della sala di lettura e promuove il restauro dei dipinti della Pinacoteca pubblica. Il suo interlocutore è il direttore della biblioteca Adriano Loli Piccolomini, che rimarrà alla direzione fino al 1907. Continua a lavorare per promuovere la cultura cittadina. Il fallimento del Club Cesenate di qualche anno prima non lo scoraggia e promuove l’apertura del Circolo degli Strambi, per il quale l’11 dicembre 1884 si chiede al Comune il piano superiore del palazzo del Ridotto in affitto per dodici anni. Proprio in quello stabile che vedeva sotto i suoi portici il famoso Caffè Forti, dove T. alla sera soleva fermarsi a chiacchierare e a giocare a carte, come ci ricorda il nipote Sergio Camerani. Questo circolo voleva assomigliare ai famosi club inglesi, avrebbe dovuto essere un sodalizio che rappresentasse in qualche modo tutta la borghesia locale (naturalmente era vietato alle donne): secondo il suo statuto era aperto a tutti, ma gli aristocratici spesso lo snobbarono, come pure parte dei democratici. Le sue attività e i suoi sontuosi balli (unico momento in cui erano ammesse signore e signorine) furono stigmatizzati soprattutto dalla stampa locale cattolica. Gli fece da contrappeso il Circolo Filologico che fu fondato nel novembre del 1888 (il cui presidente fu Giovanni Urtoller) e che promuoveva “la cultura popolare mediante pubbliche conferenze” e voleva diffondere lo studio delle lingue con corsi appositi e dotte conferenze. Il circolo rappresentava l’élite borghese, mentre il Circolo degli Strambi annoverava soprattutto la classe dirigente cittadina e lo frequentavano gli uomini delle istituzioni cittadine, i militari, gli ufficiali superiori del presidio locale, il preside del Liceo, i professori. Le capacità e la determinazione di T. lo fanno riconfermare alla Soprintendenza l’anno dopo (10 settembre1885) assieme agli avvocati Luigi Venturi, Pietro Turchi ed Euclide Manaresi, tutti consi-


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glieri comunali da diverso tempo e di idee politiche certamente più radicali di T.: evidentemente la sua elezione era dovuta al rispetto per la sua profonda cultura ed il suo attento e indefesso lavoro. Nel giugno del 1886 verrà chiesto al Ministero della Pubblica Istruzione di convertire in scuole governative il Ginnasio Comunitativo e la Scuola Tecnica Comunale, che T. si era impegnato a riqualificare negli anni precedenti e a dotare di insegnanti idonei. In città esistevano anche diverse scuole private, che venivano ispezionate e controllate dalla Soprintendenza regolarmente, soprattutto per quanto riguardava l’idoneità igienica dei locali: anche le sorelle di T. ne gestivano una nella loro casa cesenate. T. viene riconfermato nella Soprintendenza per gli anni 1885-86. Il 1886 è anche l’anno in cui ottiene il notariato e viene nominato a Sarsina; di qui solo settimanalmente torna a Cesena, dove non gli mancano certo altri impegni. Nella prima sessione autunnale del Consiglio comunale del 1887 (1° settembre) lo troviamo consigliere comunale assieme a personaggi come Eugenio Valzania, Giovanni Urtoller, Pietro Turchi, Pio Serra, Ermete Nori, Pietro Mami e Pio Battistini, antesignano dei socialisti cesenati. Nella corsa con il dr. Serra ad assessore per sostituire l’avv. Nori, riceve 9 voti contro i 13 del ben più anziano e navigato amministratore. Sfogliando i verbali delle assemblee, notiamo che interviene soprattutto nelle sue materie: le scuole, i metodi d’insegnamento, l’estetica nella costruzione di nuovi edifici nella zona storica della città. È assente in diverse convocazioni, probabilmente a causa dei suoi impegni notarili. Nell’autunno del’87, al Circolo degli Strambi, conosce Giosuè Carducci, venuto a Cesena per un’ispezione scolastica: possiamo immaginare l’emozione di T., giovane intellettuale, di fronte al poeta “patriota” da lui amato e “copiato” nei suoi certami poetici di liceale. Da quell’anno inizia la sua amicizia con il poeta, che si recherà diverse volte nella villa di Lizzano presso i conti Pasolini Zanelli: alla sua morte, T. lo ricorderà diffusamente e con notarile precisione ne segnalerà i soggiorni cesenati e gli dedicherà un numero unico del suo giornale nel 1908, ad un anno dalla morte. D’altra parte nello stesso foglio aveva già ampiamente documentato ogni visita del grande personaggio a Villa Silvia, durante la quale T. era sempre presente e fungeva da guida nel mostrargli i tesori d’arte e di storia del territorio. Lo stesso Carducci, nell’edizione del 1902


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delle sue poesie, redige una lunga nota sulla chiesa di Polenta, dove, per descrivere la chiesa, riprende proprio un articolo de “Il Cittadino”: “Nazzareno Trovanelli buon cittadino e buon letterato, di cui sono notevoli parecchie traduzioni dal Tennyson al Longfellow”. Questa amicizia è attestata anche dalle undici lettere e dalle opere a stampa di T. conservate a Casa Carducci in Bologna. Riprendendo la sua attività pubblica, nel 1888 è presente in Consiglio comunale sia in gennaio che nelle sessioni di primavera, mentre nella sessione autunnale (1° ottobre 1888) si dimette da consigliere e dalle altre cariche con una lettera a stampa, in cui denuncia l’impossibilità di svolgere i suoi compiti serenamente. Nel 1889 si avvicina a Cesena, avendo ottenuto il bollo notarile a Mercato Saraceno, ed il 2 giugno dello stesso anno esce il primo numero de “Il Cittadino”. Un settimanale che lui scriveva quasi per intero e che fino al 1911 “è il documento più solido e più vasto della sua operosità, documento notevolissimo della vita municipale cesenate” (BAZZOCCHI). “Il Cittadino” è l’opera più compiuta di T., attraverso la quale cerca di creare una “memoria pubblica” che abbia come fonte la storia del Risorgimento italiano, partendo dalla fine del Settecento e dalla Rivoluzione Francese fino all’Unità d’Italia. Crede fermamente nella monarchia dei Savoia e la ritiene capace di adattarsi al progresso ed alla libertà. Quello di T. è un protagonismo culturale a tutto campo, che si avvale di documenti storici artistici e culturali, che, attraverso alcune eccezionali figure locali, ha come scopo la formazione di una coscienza nazionale anche in un piccolo centro come Cesena. “Il Cittadino” politicamente è anche il portavoce del Circolo democratico costituzionale, anche se i monarchico-liberali più intransigenti non gli perdoneranno le simpatie che il giornale aveva per gli esponenti più onesti e valenti della parte opposta, tanto da indurlo nel 1911 ad abbandonarne la direzione. Non si conosce a fondo Trovanelli se non si leggono i numeri di questa straordinaria e moderna pubblicazione, di cui tanti hanno diffusamente ed efficacemente parlato. Non manca a T. una rete di erudite amicizie: non c’è intellettuale che, passando per Cesena, non si rivolga a lui, soprattutto studiosi che consultavano i codici della Malatestiana, come il Mommsen; tiene corrispondenze con Zellide Fattiboni, con Benedetto Croce, De Gubernatis, con il patriota montianese Angelo Ferri, con Gio-


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vanni Pascoli, con la poetessa bolognese Francesca Pignocchi, con Giacinto Ricci Signorini, con Alfredo Oriani, Alfredo Panzini: a tutti loro chiede un piccolo contributo, una poesia, uno scritto, una testimonianza che possa essere utile ad “elevare” il suo settimanale. Intanto la situazione politica a Cesena si fa pesante e nell’autunno del 1891, in un’atmosfera di paura e di sospetto, che perdurava nella città da tempo, viene assassinato Pio Battistini. Questo gravissimo fatto di sangue induce tutto il consiglio comunale, la Giunta e il Sindaco a dimettersi: il comune è commissariato fino all’aprile del 1892 e il mese dopo ci sono nuove elezioni. Nel frattempo il commissario governativo Gandin aveva nominato di nuovo alla Soprintendenza alle scuole e biblioteche Trovanelli, assieme ai consiglieri Giuli e Venturi (16 novembre 1891). È nella commissione per la Congregazione di Carità nell’aprile-maggio 1892. In luglio viene nominato notaio e conservatore dell’archivio notarile: per il riordino degli archivi locali si avvale dell’opera del maggior archivista italiano, un innovatore come Carlo Malagola (1855-1910), già direttore dal 1882 dell’Archivio di Stato di Bologna e che dal 1888 aveva tenuto la cattedra di paleografia e diplomatica presso la Facoltà di Giurisprudenza. Questo prestigioso personaggio riordina l’archivio comunale antico (secc. 15º- 18º) e l’archivio delle corporazioni religiose soppresse, mentre T. stesso riordina l’archivio notarile dal 1386 al 1884. Questo lavoro gli consente di conoscere a fondo il materiale archivistico e gli permette l’acquisizione di quei documenti, che rimangono il fondamento della sua ricerca storica e la base delle sue eccellenti opere. La sua ricerca d’archivio aveva sempre il fine di divulgare la storia locale: l’argomento veniva trattato in un articolo su “Il Cittadino”, seguiva un opuscolo a stampa, in cui l’argomento era ampliato ed approfondito; spesso gli stessi argomenti erano ripresi in conferenze, come quelle famose dell’Università Popolare, che ebbero come conseguenza l’edizione del primo volume della storia di Cesena nel 1906. Fra i suoi studi più notevoli abbiamo Il cesenate Francesco Mami e Ugo Foscolo, La battaglia del Monte, Notizie storiche sulle opere pie di Cesena. Frattanto nell’aprile-maggio 1892, fa parte della Commissione per la Congregazione di Carità. In un momento di grande attività culturale e politica si adopera moltissimo per la candidatura di Antonio Alfredo Comandini, come è attestato dalle numerosissime lettere


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che si scambiano in questo periodo e riesce a farlo eleggere nel collegio di Cesena il 6 novembre 1892. L’amico “da quarant’anni” era anche il suo “agente” a Milano, gli commissionava lavori artistici presso artigiani della grande città e l’acquisto di libri ed oggetti che a Cesena non si trovavano. T. era attento e profondo conoscitore di storia dell’arte, la descrizione e i giudizi che esprime su “Il Cittadino”, riguardo a monumenti e opere locali, sono sempre pertinenti ed efficaci. Ma è anche interessato all’arte sua contemporanea, come è attestato dalla presenza di tanti volumi sull’argomento nel suo fondo librario nella collocazione “T 8”, che include la rivista “Emporium”, dal primo numero (1895) al 1915, dell’Esposizione mondiale d’arte (La Biennale di Venezia). Frequenta ed incoraggia gli artisti cesenati e promuove la loro arte. In modo particolare segue la carriera di Anselmo Gianfanti, di due anni più giovane di lui; commenta le sue opere già ne “Lo specchio”, poi sulle pagine de “Il Cittadino”, dove entusiasticamente descrive un suo quadro esposto a Milano: “La ravveduta”. Per lui Anselmo è uno di quei promettenti giovani talenti che meriterebbe di arricchire la sua esperienza artistica nei grandi centri europei. Il 20 giugno del 1894 fa parte, proprio assieme al Gianfanti e all’ingegner Luigi Bertoni, della Commissione per costituire un elenco di edifici e monumenti storici e di pregio artistico della città. Presenteranno l’elenco il 19 gennaio 1895. Più tardi sarà nominato Ispettore per la Conservazione dei Monumenti dell’Emilia per il Circondario di Cesena. Durante gli anni novanta quindi, pur non essendo soprintendente, è sempre presente nella Commissione per gli studi. In autunno fa trasferire l’archivio storico del Comune nel locale dell’archivio notarile. Nel 1899, il 19 giugno, viene eletto nella giunta municipale e terrà il suo incarico fino al 1902: è Assessore all’Istruzione pubblica elementare e secondaria e alle biblioteche; dopo questa data rimane consigliere e membro della commissione elettorale. Nel 1901 è assessore delegato per la Congregazione di carità, presiede il Consiglio comunale il 4 gennaio. Il 1902 è l’anno della grande svolta: i liberali sono sconfitti e anche a Cesena si insediano i repubblicani con l’appoggio esterno dei socialisti. T. non è più assessore: troviamo un suo intervento (non manca un cenno ironico) sulla


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mancata elezione del sindaco il 17 settembre. L’anno dopo muore di tisi il suo carissimo Anselmo Gianfanti e T. ne cura la commemorazione in Consiglio il 28 marzo1903. Rimane presente fino alla seduta del 17 ottobre 1904, poi è segnalato nell’elenco degli assenti fino alla seduta dell’8 maggio 1905, mentre già il 2 marzo 1905 si era dato atto delle dimissioni della minoranza consiliare (Evangelisti, Lugaresi, Mischi, Saladini, Trovanelli, Venturi e Zangheri). Continua, sempre attentissima, la sua battaglia politica e culturale su “Il Cittadino”, attraverso il quale spesso allarga il suo giudizio ad alcuni fatti nazionali importanti, dove si nota la scarsa simpatia per Giolitti o l’approvazione entusiastica della guerra di Libia e il favore per Crispi, ritenuto un vero patriota. Continua ad occuparsi degli archivi e della biblioteca: dopo la morte del direttore Piccolomini, aveva fatto parte della commissione per il concorso di bibliotecario, ma il vincitore, Gaetano Gasperoni, impegnato anche nella costituzione di una Scuola Normale e direttore della rivista “La Romagna”, era troppo spesso assente e infine aveva rinunciato alla carica il 27 giugno 1909. Così il 24 settembre promuove bibliotecario, con l’approvazione della Giunta comunale, il professor Renato Serra, di cui aveva già da tempo intuito le eccezionali capacità e che aveva convinto a proseguire la sua opera in sede locale. È presidente della Società Dante Alighieri, della R. Scuola Industriale e Professionale, segretario della Banca Popolare Cooperativa, consigliere della Società di Mutuo Soccorso fra le classi artigiane, membro della Deputazione di Storia Patria, della Commissione Provinciale di Beneficenza, del Consiglio Provinciale Scolastico e della Giunta Provinciale Amministrativa; quindi gli impegni, che onora sempre con puntualità e dando il meglio di sé, non gli mancano. Pur non facendo più parte del Consiglio Comunale, ne riassume sempre i contenuti nel suo giornale e arriva ad appoggiare alcuni progetti della giunta repubblicana guidata dall’ingegner Angeli, ma caratterizzata soprattutto dall’opera di Ubaldo Comandini: la sua libertà di giudizio e le sue larghe vedute non sono apprezzate dai suoi amici politici ed il 13 dicembre del 1911 lascia con rammarico la direzione del giornale: non è più il suo “Cittadino”. La sua vita operosa continua, soprattutto attendendo alla stampa della biografia politica del conte Eduardo Fabbri (Sei anni e due


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mesi della mia vita: memorie e documenti inediti), un lavoro lungo, attento ed appassionato, che uscirà solo nel febbraio del 1915, poco prima della morte che lo coglie, “preparato”, alle tre del pomeriggio del 20 marzo nel suo studio, proprio mentre legge un libro di storia. La città, attonita, perde un padre della “piccola patria”; i funerali, a cui partecipano tutte le scuole cesenati, le autorità e gran parte dei suoi concittadini, sono imponenti. Il 18 aprile, alla presenza del sindaco Vincenzo Angeli e di tutto il Consiglio comunale, Ubaldo Comandini commemora “il figlio illustre della nostra città”, morto “quando ancora il vigore degli anni gli permetteva di essere di utile e di decoro alla sua Cesena”. Ricorda il suo lavoro come Assessore, ma soprattutto vuole ricordare “le sue qualità rare e il fervore altissimo col quale si occupava del pubblico bene”, il grandissimo interesse che aveva per le “cose scolastiche”. Sottolinea il “sapere non comune” che assieme allo spirito di equanimità portava nelle commissioni e nelle pubbliche istituzioni di cui faceva parte. Ribadisce le sue qualità di studioso e di storico. “Al di sopra delle battaglie politiche, egli aveva vivo l’affetto per il nostro paese così da elevarsi al di sopra delle competizioni di parte quando si trattava del progresso civile e intellettuale della terra natia.” Assieme all’avv. Comandini, negli ultimi tempi aveva parlato proprio di come avrebbe voluto riordinare la Biblioteca “della quale avrebbe dovuto far parte la sua, rarissima e completa, del Risorgimento”. E l’ultimo dono di Nazzareno Trovanelli è ancora fra noi: un patrimonio di fonti risorgimentali di grande ricchezza che conta 3.464 opere ora modernamente catalogate e reperibili in SBN (Catalogo elettronico del Sistema Bibliotecario Nazionale) assieme a 1076 opuscoli a stampa (spesso sono volumi superiori alle 100 pagine, ma di piccolo formato) e 1.878 periodici più che altro di argomento storico. Fra tutti questi vi sono 474 volumi in inglese, 301 in francese. Le opere edite prima del 1830 sono 176, fra cui 6 “cinquecentine” e 20 “seicentine”. Tutto questo patrimonio venne consegnato alla “sua” biblioteca dalle sorelle Leonilde, Erminia ed Anna e dal cognato Umberto Camerani, suoi esecutori testamentari, nell’autunno del 1915 e inventariato nel 1916. Successivamente il lascito venne perfezionato con atto notarile il 3 febbraio 1925; con delibera del 16 maggio il Consiglio Comunale in seduta pubblica accettava la donazione.


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Ma vogliamo terminare con le parole commosse del suo giovane “erede”, Renato Serra, scomparso qualche mese dopo, così che la città rimase priva di due luminosi riferimenti culturali: “e non so scrivere altro, oggi che l’avv. Trovanelli è morto. Certe cose non si possono scrivere. Io avevo con lui un debito di affezione e di gratitudine, che mi era caro portare chiuso nell’animo; lo lasciavo crescere volentieri, senza curarmi molto di pagarlo o di riconoscerlo, se non con una promessa tacita. Oggi questo silenzio mi pesa sul cuore come un rimorso. Come potrei dire ad altrui cose che non ho avuto tempo di dire a lui?”.

OPERE DI NAZZARENO TROVANELLI BCM, Manoscritti Trovanelli, XIV, 1-110; Sulla controversia di Lorenzo Valla e P. Bracciolini, “Gazzetta degli studenti: rivista giovanile di scienze, lettere ed arti”, Torino, marzo 1873; In morte di Maurizio Bufalini, gli alunni del R. Liceo Monti di Cesena: aprile 1875, Cesena, Biasini, 1875; H. W. LONGFELLOW, Lo studente spagnolo, trad. di N. TROVANELLI, “Rivista europea”, Firenze, luglio-nov. 1876; E. H. W. LONGFELLOW, Preludio alle novelle d’un’osteria sulla strada, saggio di traduzione di N. TROVANELLI, Cesena, Biasini, 1880; Parisina, novella di Giorgio Byron, tradotta da N. TROVANELLI, Cesena, Collini, 1881; pubblicata anche ne “Lo specchio”, Cesena, 1881; A. TENNYSON, Montenegro, trad. di N. TROVANELLI, “Rivista romana di scienze e lettere”, Roma, Sininberghi, 1878; Carlo Massi (1790-1885). Ricordo, Cesena, Tip. Nazionale G. Vignuzzi, 1885; Notizie storiche sulle opere pie di Cesena, Cesena, Biasini, 1887; Sulle condizioni sociali ed economiche di Cesena prima e dopo la Rivoluzione Francese, conferenza tenuta nella sala del Comizio agrario cesenate il giorno 2 aprile 1888 da N. TROVANELLI, Cesena, Biasini di P. Tonti, 1888; E. MANARESI, Memorie intorno alla mia vita, raccolte di su gli autografi e corredate di note da N. TROVANELLI, Cesena, Biasini di P. Tonti, 1890; La decapitazione di Leonida Montanari e di Angelo Targhini, su documenti inediti, Cesena, Biasini di P. Tonti, 1890; Il cesenate Francesco Mami e Ugo Foscolo, con quattordici lettere del Foscolo e una del Manzoni inedite, Cesena, Biasini di P. Tonti, 1890; L’epistolario di un esule, lettere di Filippo Amadori a Zellide Fattiboni, raccolte e annotate da N. TROVANELLI, Biasini di P. Tonti, Cesena, 1891; A. TENNYSON, Enoc Arden, novella, tradotta da N. TROVANELLI, Cesena, 1894; Da E. W. Longfellow, traduzioni poetiche, Cesena, Biasini di P. Tonti, 1895; Per il centenario del tricolore a Cesena, conferenza tenuta la sera del 18 febbraio 1897 al Circolo democratico costituziona-


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le, Cesena, Biasini-Tonti, 1897; Storia di Cesena, lezioni tenute all’Università popolare nell’anno 1902, pubblicate su “Il Cittadino”, Cesena, 1903 (volume costituito da ritagli di giornale incollati); Cartografia cesenate, Cesena, Biasini-Tonti, 1905; Un frate cesenate cospiratore politico nel secolo XVII, frate Epifanio Fioravanti, Cesena, Biasini-Tonti, 1905; Lettera inedita di Papa Pio VII allo Czar Paolo I di Russia, pubblicata per le nozze Gessi-Pignatti Morano, a cura di N. TROVANELLI, Faenza, Montanari, 1904; Il patronato scolastico ne’ suoi primi otto anni di vita, 1898-1906, [introd. di N. TROVANELLI], Cesena, Vignuzzi, 1906; Cesena dal 1796 al 1859. 1. 1796-1831, Cesena, Biasini-Tonti, 1906; Pietro Caporali, Cesena, Biasini-Tonti, 1906; La battaglia del Monte, 20 gennaio 1832, su documenti inediti, Cesena, Biasini-Tonti, 1906; E. FABBRI, Sei anni e due mesi della mia vita, memorie e documenti inediti, a cura di N. TROVANELLI, Roma, Bontempelli, 1906.

FONTI E BIBLIOGRAFIA ACBSR, Consorzi Arla e Savio (Manifesto di notifica per l’elezione di consiglieri in sostituzione e surrogazione), 11 Agosto 1875, pubblicato anche in “Gazzetta dell’Emilia”, XVI, 237, 25 agosto 1875. ACMS, Registri di famiglia,1864-1885. ACPMS, Liber baptizatorum, reg. 2. ALCC, Ginnasio Comunitativo in Cesena (dal 1869-70 Ginnasio di Cesena), registro dei Saggi mensili per alunno, 1867-1872; Registro per gli esami di promozione, 1872-1875; Registro per gli esami di Licenza, 1874-1875. ASCe, ASC, XIII, 15, 1861; XIII, Archivio storico delle scuole elementari di Cesena, conservato presso il IV Circolo Didattico, Registri delle scuole maschili urbane e rurali, registro annuale delle scuole elementari; classe 1a inferiore, sezione del maestro Ardizzoni 1863-64; classe 1a superiore, maestro Pio Pasini, anno scolastico 1864-65; classe 2ª superiore, maestro Pio Pasini, anno scolastico 1865-66; classe 3ª superiore, maestro Francesco Detti, anno scolastico 1866-1867; registro generale della Direzione delle scuole urbane e rurali diurne 1866-1867, risultato degli esami semestrali e finali, p. 83; XIII, 1872, b. 3164, n. 10 ; b. 3165, n. 10; XIII, 5, b. 3174, 1882; XIII, bb. 3177, 3178, rubr. 5, 10-11, 1885-1886. APCD, Liber baptizatorum, X, p. 117 e Liber matrimoniorum, vol. B. ASFo, Archivio riservato di Leg., fasc. 2145, b. 99. ASFP, Carteggio Amministrativo, cat. I, XX, 1859. ASRFP, Liber baptizatorum. ASRoma, Archivio Storico dell’Università di Roma, b. 105, reg. 1045; b. 628, fasc. 8571.


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ASCe, ASC, Atti del Consiglio Comunale 1803-1897, reg. 2658 degli anni 1881-82, pp. 285-286; reg. 2659 degli anni 1883-84, p. 4; reg. 2660, 11 settembre 1884; reg. 2661 degli anni 1885-1886; reg. 2662 degli anni 1886-1887; regg. 2664-2665 degli anni 1888-1889; reg. 2666 degli anni 1890-1891; regg. 26702672 degli anni 1893-1895; Atti del Consiglio Comunale e della Giunta, dal 1901 al 1915; ASCe, ASC, IX, 309, anni 1909, 1925. AVC, Libro dei battezzati (1866-1873, Atto 257/1866), Parrocchia del Duomo di Cesena. BCM, mss. Trovanelli D4; A. A. COMANDINI, [Dattiloscritto sulla figura di Guglielmo Gajani], Milano, 1923; opusc. ces. IX, 27- 28; opusc. ces. VII, 136; mss. Montalti, lettera di Audiface Trovanelli a Cesare Montalti, 2.8.736, lettera di Luigi Trovanelli a Cesare Montalti. Il R. Liceo Monti di Cesena 1874-75, Cesena, Tip. Bisazia-Collini, 1876; FRIEND [N. T.], Giornalismo cesenate, “Il Cittadino”, I, 14, 1° settembre 1889; LA REDAZIONE, L’ing. Girolamo Trovanelli, “Il Cittadino”, VI, 25 febbraio 1894; N. TROVANELLI, Cesena e il Vasari, “Il Cittadino”, VI, 22 luglio 1894; IDEM, Pitture del Guercino a Cesena, “Bullettino della Società degli amici dell’Arte per la provincia di Forlì”, I, 4, aprile 1895, pp. 52-55; IDEM, Artisti cesenati, “Il Cittadino”, VIII, 6 dicembre 1896; IDEM, Cesena e Raffaello, “Il Cittadino”, IX, 22 agosto 1897; R. FACCIOLI, Relazione dei lavori compiuti dall’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti dell’Emilia, Bologna, 1898; G. CARDUCCI, Poesie. 1850-1900, Bologna, Zanichelli, 1902; Notizie su le scuole elementari: 1860-1904, Cesena, Vignuzzi, 1904; Le onoranze di Cesena alla memoria di Giosuè Carducci, “Il Cittadino”, XIX, 13, 31 marzo 1907; [N. T.] I soggiorni di Carducci a Cesena, XX, 8, 23 febbraio 1908; G. GASPERONI, Per la bibliografia di Romagna. I. Note. Un ventennio di un periodico cesenate (Note retrospettive), “La Romagna”, VI, n. 5-6, 1909, pp. 103-110; A. COMANDINI, Amici da quarant’anni, “Il Cittadino”, XXVII, 13, 28 marzo 1915 (numero unico In memoria di Nazzareno Trovanelli); R. SERRA, Illustrissimo direttore, “Il Cittadino”, XXV, 13, 28 marzo 1915; E. MICHEL, Necrologio, Nazzareno Trovanelli, “Rassegna storica del Risorgimento”, II, 1915, pp. 726-727; D. BAZZOCCHI, Nazzareno Trovanelli, Cesena, 1920; pp. 8, 20; G. GASPERONI, Nel solco delle grandi memorie. Problemi di cultura in Romagna, Milano, Garzanti, 1955, pp. 148-158; IDEM, Cesena e la Romagna nell’opera storica di Nazzareno Trovanelli, “La Romagna. Rivista mensile di storia e di lettere diretta da Gaetano Gasperoni e da Luigi Orsini”, XIII, 1917, pp. 1-12; A. PANZINI, Per amore di Biancofiore, Firenze, Le Monnier, 1948, pp. 223-225; S. CAMERANI, Nazzareno Trovanelli nel cinquantenario della morte, “Studi Romagnoli”, XVI (1965), pp. 355-363; A. MAMBELLI, Il giornalismo in Romagna, Forlì, Camera di commercio, industria e agricoltura, 1966, pp. 50-57; G. BIONDI, L’opera storica di Alfredo Comandini (1853-


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1923), appendice alla tesi di Laurea, Università agli Studi di Urbino, 1969-70 [contiene le lettere di A. Comandini a N. Trovanelli]; G. MONSAGRATI, Comandini Alfredo (Antonio), in Dizionario biografico degli italiani, XXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1976, pp. 514-515; D. ANGELINI et al., La stampa cesenate nel periodo giolittiano, Cesena, Assessorato ai servizi culturali, 1982; M. SAGRESTANI, I liberali dall’Unità al fascismo, in Storia di Cesena IV. Ottocento e Novecento. 2 (1860-1922), a cura di A. VARNI e B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1991; M. BIONDI, Trovanelli, Comandini e la storia erudita, in IDEM, La tradizione della città. Cultura e storia a Cesena e in Romagna nell’Otto e Novecento”, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori, 22”), 1995, pp. 122-123 e 141-144; M. RIDOLFI, Una “piccola patria” sociabilità culturale e opinione pubblica nel “lungo ottocento”, in Storia di Cesena. VI. Cultura 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2004, pp. 58-63; pp. 150-151; P. G. FABBRI, Storie di Cesena. Uomini, donne, cose e istituzioni fra tardo medioevo ed età moderna, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori. 33”), 2005, pp. 193-195; M. BIONDI, Lo scrivere storico di Trovanelli, in Storia di Cesena. VI. Cultura 2, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2005, pp. 31-65; P. G. FABBRI e O. PIRACCINI, Anselmo Gianfanti memorie e ritrovamenti, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2006 [Con testi anche di G. BOLOGNESI e A. BELLANDI]; E. BELLAGAMBA, Nazzareno Trovanelli, in La casa dei libri. Dalla Libraria Domini alla Grande Malatestiana. Per i duecento anni della Biblioteca Comunale (1807-2007), Cesena, Lyons Club, 2007, pp. 88-91.

Elena Bellagamba


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Agostino Lelli-Mami Nasce a Roversano di Cesena nel 1867 e all’età di tre anni Agostino Lelli viene accolto nella casa dei coniugi Pietro Mami e Orsola Romagnoli. Dopo la scuola dell’obbligo diviene allievo del collegio S. Carlo di Modena dove compie gli studi ginnasiali e liceali. Si iscrive alla facoltà di Medicina e Chirurgia, studio che abbandona non riuscendo a sopportare le esercitazioni anatomiche. Ha una certa predisposizione per il disegno e così frequenta i corsi del R. Istituto di Belle Arti di Firenze dove ottiene, nel 1890, il diploma d’insegnante. È probabilmente nel periodo trascorso a Firenze che incomincia ad interessarsi alla fotografia. Nel 1889 era stata fondata proprio nella città toscana la Società Fotografica Italiana che pubblicava una guida molto qualificata anche per i neofiti. Inoltre era frequente fra i pittori la passione per la nuova arte: l’insegnamento artistico era di notevole aiuto per l’uso della camera sia nell’inquadratura, che nella composizione e nella posa. Così, oltre alla matita ed al pennello che piacevolmente lo dilettano per quasi tutta la vita, è nella fotografia che Agostino trova un mezzo aderente alla propria personalità. A Cesena l’amicizia ed il sodalizio con Augusto Casalboni, fotografo professionista colto ed aggiornato, contribuiscono al suo affinamento; frequenta altri amatori della camera, Erardo Lugaresi e Alessandro Bagioli, pittore e scenografo col quale collabora anche alla realizzazione di alcuni fondali teatrali. È poi in contatto con Gaetano Brasa dal quale riceve e ricambia utili informazioni sui vari metodi di sviluppo e fissaggio che esegue in proprio; tutte notizie che appunta in taccuini, insieme ai tempi di posa che va via via sperimentando. Educato in una famiglia dai principi liberali e nazionalistici, compie un anno di volontariato in cavalleria. Nel 1894, adempiendosi la volontà testamentaria di Pietro Mami, con decreto umbertino il suo cognome assume anche quello di Mami. Erede del nobile cesenate, diviene proprietario terriero e all’agricoltura si dedica assiduamente frequentando manifestazioni e convegni al fine di sviluppare piantagioni all’avanguardia e colture innovative.


Agostino Lelli-Mami

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Si sposa con Bianca Bartoletti, figlia di Pietro, noto esponente clericale: dall’unione nasceranno cinque figli. Passione di Agostino è viaggiare per un grande desiderio di conoscenza: anche la bicicletta può soddisfare questo suo intento; e con lui c’è sempre la macchina fotografica. Nel 1897 aderisce al Touring Club Ciclistico Italiano, organizzazione adatta alle sue aspirazioni tanto da divenirne oltre che socio sostenitore, divulgatore e console in Cesena per oltre cinquant’anni. Scriverà Roberto Balzani in Ricordi di famiglia: “Agostino Lelli-Mami al pari di altri nobili e borghesi in vari luoghi della penisola, promuove nella sua città un Touring Club che rappresenta un effetto ulteriore, questa volta sociale e culturale, del nuovo ruolo assunto dalla vecchia classe dirigente del paese”. Nel 1905 prende la patente di guida e acquista la sua prima automobile, mezzo che gli permette viaggi più impegnativi e perigliosi. Partecipa al convegno ciclo-automobilistico del 1905 a Cesena, dove ottiene un premio per l’eleganza del suo veicolo. Ricopre numerose cariche pubbliche: nel 1900, nel 1905 e nel 1907 è sindaco di Mercato Saraceno, dove possiede una casa e alcuni terreni; nel 1910 è primo cittadino di Roversano, al tempo comune. Presidente e membro di vari comitati, prende parte attiva alla vita sociale e culturale della sua città. Durante la prima guerra mondiale ha due figli sotto le armi e partecipa assiduamente a varie iniziative patriottiche: aderisce alla Croce Rossa, fa trasporto di feriti con la propria auto, raccoglie materiale per l’esercito, ospita nella sua casa profughi friulani e frequenta l’ospedale militare recando conforto a soldati feriti ed ammalati, e ritraendoli in foto ricordo da inviare alle famiglie. Si spegne a Cesena nel 1957. La Biblioteca Malatestiana e la Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari dell’Emilia Romagna nel 1994 gli hanno dedicato una mostra con l’esposizione di oltre 200 immagini e relativo catalogo. Dal 2000 il suo corpus fotografico, consistente in 1061 lastre in vetro e 252 negativi in pellicola, fa parte del patrimonio della Biblioteca Malatestiana.


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FONTI E BIBLIOGRAFIA Il Convegno Ciclo-Automobilistico, “Il Savio”, VII, 38, 23 e 24 settembre 1905; Ricordi di famiglie. Un patrimonio nascosto: fotografie di cesenati (18501910), a cura di C. BATTISTINI, D. DOLCINI, M. ELENI, G. LELLI MAMI, M. MARZOCCHI, V. POLLINI, C. SANTINI, G. SAVINI, Cesena, Stilgraf, 2002; Agostino Lelli-Mami fotografo amatoriale, a cura di G. BENASSATI, G. BONI, Cesena 1994.

Guia Lelli Mami

Amilcare Zavatti Amilcare Guglielmo Zavatti, figlio di Carlo (1828-1897) e di Luigia Lucchi (1844-1914, sposata in seconde nozze), nasce a Cesena il 9 dicembre 1869. Amilcare è il terzo di otto figli, dei quali i primi due nati dal matrimonio del padre con Enrichetta Casadei (1834-1863). Dal 1889 al 1890, frequenta il corso biennale di matematica presso la Regia Università di Bologna, conseguendo la “licenza in fisico-matematica” poi, all’età di ventiquattro anni, ottiene la laurea in ingegneria civile presso la Regia Scuola d’applicazione per gli ingegneri di Bologna, con una tesi riguardante la progettazione di un policlinico (12 dicembre 1893). Rientrato a Cesena, avvia l’attività professionale frequentando l’ufficio tecnico dei Consorzi idraulici Arla e Savio. Nei suoi primi anni di libera professione si occupa inoltre della sistemazione del vecchio ospedale civile (oggi sede dell’Istituto tecnico industriale “Blaise Pascal”) – per la quale utilizza la sua tesi di laurea –, della costruzione della nuova sede del Monte di pietà, del riassetto degli uffici della Congregazione di carità – per conto della quale lavorerà almeno fino ai primi anni del Novecento – e della costruzione di una palazzina in corso Cavour. Il 5 agosto 1895, si laurea in architettura, sempre presso la Regia Scuola d’applicazione per gli ingegneri di Bologna. Nello stesso anno, inizia anche una pluriennale collaborazione con la Società cooperativa fra i muratori di Cesena, che lo vede impegnato sia nelle fasi preliminari al conseguimento degli appalti, sia nella direzione


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lavori. Nel 1896 estende il raggio della sua attività a Cesenatico, dove progetta e dirige i lavori di ristrutturazione del ponte sul porto-canale. Il profilo a schiena d’asino del vecchio ponte viene rettificato mediante l’uso di volte a strombo (ossia ad andamento obliquo) le quali hanno il pregio di riutilizzare le pile esistenti, consentendo un notevole abbassamento dei costi. Questo progetto costituisce il primo passo del rapporto professionale dell’ingegnere architetto con l’amministrazione comunale della cittadina costiera, che si protrarrà per venticinque anni. Sempre a Cesenatico, l’anno seguente, Zavatti viene incaricato del progetto per la manutenzione quinquennale delle strade del comune. Il 2 luglio 1897, muore il padre Carlo. Dal 1899 ricopre per un triennio il ruolo d’ingegnere comunale a Gatteo e avvia l’attività di docente presso l’Università popolare di Cesena. Nel 1902, il giovane ingegnere esegue “con lodevole precisione” il rilievo della Biblioteca Malatestiana, su incarico dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti, per allegarlo alla richiesta di inserimento dell’edificio nell’Albo dei monumenti nazionali. La pratica era stata promossa nel 1894 dal direttore della Malatestiana Adriano Piccolomini che si era servito fin dalle prime fasi della collaborazione di Zavatti. Nel 1904 insegna matematica e scienze presso la Scuola complementare annessa all’Orfanotrofio femminile gestito dalla Congregazione di carità cesenate. L’anno seguente l’attività di docenza si allarga in diversi istituti cesenati, fra cui la Regia Scuola Industriale, dove le sue materie sono: meccanica, meccanica e macchine, tecnologia, disegno di meccanica e macchine. Sempre nel 1905 partecipa, occupandosi del progetto architettonico, alla realizzazione della cappella della famiglia Gasperoni nel cimitero di Cesena, decorata dagli artisti bolognesi Achille Casanova e Odoardo Breveglieri. Mentre cura la ricostruzione del teatro Giardino (poi Verdi) a Cesena, distrutto da un disastroso incendio nel 1907, con delibera del 19 marzo 1908, Zavatti viene nominato ingegnere del comune di Cesenatico. Per l’ormai quarantenne ingegnere questo incarico rappresenta l’esperienza centrale della carriera, durante la quale riesce a dare prova di tutta la sua professionalità. La cittadina rivierasca stava iniziando la trasformazione da piccolo borgo di pescatori in centro turistico e aveva bisogno di tutte le strutture tecniche e


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urbanistiche necessarie a fronteggiare l’espansione, informate a quel decoro tra l’umbertino e il liberty ricercato dai pionieri della vacanza marittima. Fra le prime commissioni ricevute c’è la direzione dei lavori per la costruzione della tomba della famiglia del sindaco Caio Caimmi, progettata dall’architetto O. Bongi di Milano (190910), la predisposizione di nuovi approvvigionamenti d’acqua potabile, mediante scavo di pozzi artesiani e l’ampliamento del cimitero nella frazione di Sala. Nel 1910 partecipa alla redazione di un nuovo piano regolatore per l’organizzazione dei lotti di espansione residenziale turistica, nelle aree comprese tra l’antico borgo e la spiaggia, dove vengono aperti tre nuovi assi viari: viale Carducci, viale dei Mille e viale De Amicis. Ottenendo anche dai primi acquirenti dei lotti limitrofi alla spiaggia l’incarico della progettazione di alcuni villini, compresi tra viale Carducci, via del Tennis e viale Piave. Il 17 settembre vince la «gara d’onore» col premio di 150 lire, per la decorazione e l’arredamento della sala della provincia di Forlì nel padiglione emiliano romagnolo dell’esposizione nazionale di Roma dell’anno successivo, sfruttando con piena libertà le decorazioni quattrocentesche esistenti nei locali superstiti del convento cesenate di San Francesco fra cui, in primo luogo, la Biblioteca Malatestiana. Per la redazione degli esecutivi riceve poi, non senza qualche traversia, altre 500 lire. A Cesenatico nel 1911 progetta e realizza la pescheria e dirige lavori di ammodernamento del teatro comunale; l’anno dopo progetta e cura la realizzazione di un “Padiglione d’isolamento” per l’ospedale civile (ultimato nel 1916), del macello e di un lavatoio pubblico nei pressi di piazza Pisacane. Inoltre coordina i lavori di decorazione del soffitto della sala del Consiglio nel palazzo comunale, eseguiti dalla ditta G. Mandroni & F. Fornaciari con sedi a Bologna e a Cesenatico. Nel 1914 muore la madre Luigia Lucchi, mentre Zavatti progetta la sistemazione di viale Carducci e delle aree limitrofe, soggette all’espansione residenziale turistica. Nel 1915, realizza i disegni per l’ampliamento del cimitero urbano di Cesenatico, studiandone in particolare l’ingresso e la cappella funeraria; si occupa delle nuove fognature stradali e della costruzione di latrine e orinatoi pubblici. Inoltre elabora i disegni di un edificio scolastico per la frazione di Sala. Parallelamente continua anche


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l’attività di insegnante: negli anni scolastici 1915/16 e 1916/17 svolge incarichi di insegnamento presso tre istituti cesenati: la Regia Scuola Tecnica “E. Fabbri”, il Liceo Ginnasio “V. Monti” e la Regia Scuola Industriale, della quale, durante l’estate del 1917, funge da sostituto del direttore. Il 12 febbraio 1917 Zavatti si dimette dall’incarico di ingegnere comunale di Cesenatico ma, di fatto, continua a collaborare con l’amministrazione ancora per alcuni anni, in qualità di tecnico esterno. Nell’agosto dello stesso anno progetta la sistemazione edilizia di via Saffi e vicolo Cappuccini; nel 1919 dirige la sistemazione di alcune strade vicinali, la riselciatura del ponte di piazza Pisacane e progetta un nuovo collegamento stradale tra la stazione ferroviaria, il porto e la darsena – allora in costruzione – mentre, l’anno dopo, è chiamato a progettare un lotto di undici case popolari per quarantaquattro famiglie e un ampliamento del cimitero del capoluogo. Ad un certo punto però, i rapporti si incrinarono e non solo per il ritardo nel saldo degli onorari. L’ultimo incarico svolto per conto dell’amministrazione di Cesenatico risale al 1921 e riguarda la ristrutturazione dell’ospedale civile dopo di che, probabilmente a causa di contrasti anche di natura ideologica col locale fascismo nascente, i rapporti cessarono completamente. Oramai cinquantenne, abbandonato quel posto di ingegnere comunale per il quale era perfettamente qualificato sia per gli studi compiuti, sia per la pratica professionale maturata, Zavatti deve imprimere una svolta alla sua vita. Come chi, per educazione e per etica personale, non ami vedere esercitato l’arbitrio o esporsi a compromessi ‘politici’ di basso profilo, ma voglia tenere dritta la schiena, è costretto a una scelta radicale e senza dubbio dolorosa. Da qui in avanti, anche l’insegnamento diverrà occasionale e la sua attività di libero professionista sarà orientata soprattutto verso committenze private e, anche quando otterrà mandati da enti pubblici, saranno sempre legati a incarichi di carattere squisitamente culturale. Non sembra essere casuale che l’ostracismo più intransigente sia stato quello dei suoi concittadini, o almeno di una parte di essi, mentre altrove gli è riuscito di vedere riconosciute le sue indubbie qualità. Né la coincidenza di questa scelta professionale con i rivolgimenti politici di quegli anni culminati con la cosiddetta marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini.


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Un documento risalente a quegli anni conferma che Zavatti risiede nella casa di famiglia, una delle prime di sobborgo Federico Comandini, sul lato opposto alla chiesa di San Bartolomeo, assieme alle sorelle Luigia e Rosina e al fratello Luigi. Nel 1923, oltre a dirigere lavori per conto della Società Cooperativa Braccianti di Cesena e ad essere eletto nel consiglio di amministrazione dell’acquedotto consorziale per il triennio 1924-1927, viene chiamato a far parte della commissione cittadina per le celebrazioni del primo centenario della morte di Pio VII. Il rapporto con la Biblioteca Malatestiana è uno dei punti fermi nella vita di Zavatti e lo diventerà sempre di più col passare degli anni. In quell’occasione, uno degli obiettivi posti dall’amministrazione alla commissione era di studiare ove collocare in modo degno la raccolta libraria del pontefice, depositata dagli eredi presso la biblioteca cesenate. Con questo obiettivo, Manlio Torquato Dazzi, all’epoca direttore della Malatestiana, inizia a concepire un progetto di riassetto complessivo dei locali che non desse luogo solo a una mera risistemazione funzionale. Per ciò era necessaria una attenta analisi storica dell’intero edificio per la quale la collaborazione di Zavatti, benché ’spontanea’ e non ufficiale, si rivela preziosa, come è attestato nelle relazioni annuali del direttore al sindaco del 1924 e del 1925. Con una campagna di studi e assaggi sugli apparecchi murari dell’ex convento di San Francesco - i cui risultati saranno poi pubblicati in modo sintetico nella relazione annuale del direttore al sindaco del 1925 col titolo Vicende edilizie nel circondario della Biblioteca Malatestiana - Zavatti dimostra di essere aggiornato su quanto veniva elaborandosi a livello internazionale rispetto alle corrette modalità di approccio ad un intervento di restauro. Il suo tentativo pionieristico di passare dalla fase teorica al progetto, affrontando un nodo estremamente complesso della prassi del restauro, sarà destinato all’insuccesso. Ciò nonostante, va riconosciuta la assoluta modernità del metodo, cui si deve quasi tutto ancora oggi è dato sapere sulla storia della fabbrica del convento di San Francesco e sulla sua evoluzione. Il 6 marzo 1924 Zavatti viene chiamato a far parte di una commissione presieduta dall’assessore Giovanni Forgiarini, di cui fanno parte anche Urbano Amaducci e lo stesso Dazzi, avente per scopo un aggiornamento della toponomastica cesenate. L’anno seguente


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Zavatti entra a far parte della Commissione comunale di edilizia e di ornato e rappresenta la municipalità nella Società Amici dell’Arte. Poco prima del commissariamento del comune di Cesena, riceve l’incarico di occuparsi della redazione di un progetto di restauro della ‘Rocchetta di piazza’, costituita dall’alto muro scarpato, prospiciente l’odierna piazza del Popolo, coronato dalla cosiddetta Loggetta veneziana e dalla torre che fungeva da cerniera dalla quale partiva un altro muro sulla sommità del quale un corridore (percorso pedonale scoperto) consentiva un accesso privilegiato alla Rocca. La permanenza a Cesena del commissario regio Tullo Busignani, che si protrasse per poco più di un anno – tra il 1925 e il 1926 –, fu per Zavatti un evento propizio. Fra i due si stabilì immediatamente un rapporto di reciproca stima, simile a quello instauratosi con Dazzi. Zavatti non solo conservò tutti gli incarichi e le mansioni ottenute dall’amministrazione ordinaria, ma si vide anche investito da tutta una serie di nuove incombenze, piccole e grandi, che seppe svolgere brillantemente, fra cui l’appalto per i Bagni pubblici nell’odierna piazza Giovanni Paolo II, prospiciente il duomo. Nel gennaio del 1926, contemporaneamente alla partenza di Dazzi da Cesena – e forse su suo suggerimento –, Zavatti viene chiamato da Busignani a far parte della Commissione di vigilanza della Biblioteca Malatestiana e gli si affida l’incarico di elaborare un progetto per la ristrutturazione dei locali antistanti la Biblioteca Malatestiana (il cosiddetto ‘Braccio Malatestiano’) che dovevano essere riadattati e presentavano evidenti problemi di tenuta strutturale. In tal modo l’amministrazione straordinaria manifesta l’intenzione di concludere, nel segno della continuità, l’opera di riordino fisico dell’istituzione cittadina di maggior prestigio avviata da Dazzi. Prova ne sia il carteggio (1924-26) intercorso tra quest’ultimo, che scrive da Venezia dove dirige la biblioteca Querini Stampalia, e Zavatti allo scopo di realizzare i nuovi infissi dell’aula del Nuti, disegnati dall’ingegnere architetto, utilizzando le previste «invetriate a rulli di Murano». Al termine del mandato del commissario prefettizio, il 15 gennaio 1927, Zavatti gli indirizza una relazione a stampa dal titolo Per i monumenti cesenati, in cui, oltre ad un ringraziamento per la fiducia accordatagli, dà conto dello stato ancora non definitivo delle ricerche preliminari alla redazione dei progetti per la Roc-


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chetta di piazza e il Braccio malatestiano. Nell’ottobre dello stesso anno Zavatti invia copia delle due pubblicazioni a Gustavo Giovannoni, fra i fondatori della prima scuola superiore di architettura di Roma (dove ricopre la cattedra di architettura generale e, dal 1927 al 1933, il ruolo di direttore) e membro autorevole del Consiglio superiore di antichità e belle arti, invitandolo a compiere una visita a Cesena per esaminare le ipotesi di restauro formulate per i due monumenti e gli assaggi che le hanno determinate. Non si sa se il sopralluogo sia realmente avvenuto, quel che è certo è che il 31 maggio 1928 Zavatti termina la redazione di entrambi i progetti, che si compongono rispettivamente di trentadue (Rocchetta) e di ventisette tavole (Braccio). L’8 giugno seguente li inoltra al soprintendente Luigi Corsini per ottenere l’autorizzazione dal Consiglio superiore di antichità e belle arti, precisando tuttavia che «questi progetti furono da me compilati per incarico del Municipio di Cesena; ma restano di mia esclusiva proprietà finché non siano dichiarati meritevoli di esecuzione». A sostituire provvisoriamente Dazzi nella direzione della Malatestiana, per circa un anno tra il 1927 e il 1928 (prima della nomina di Alfredo Vantadori), è il poco più che ventenne Augusto Campana col quale Zavatti stringe un rapporto di durevole amicizia che lo porterà, fra l’altro, a conoscere Marino Moretti. Sempre nel 1927, il primo podestà di Cesena, Attilio Biagini, conferma le nomine nelle commissioni di edilizia e di ornato, di vigilanza del cimitero comunale e della Biblioteca Malatestiana; i primi due incarichi saranno ricoperti fino al 1929, l’ultimo fino al 1938. A questo proposito, occorre ricordare che Zavatti non era solo in possesso di una solida cultura tecnico-scientifica ma, oltre a leggere e scrivere correttamente in inglese e francese, era un appassionato bibliofilo e per questo corrispondeva con molte librerie specializzate di Torino, Milano, Trieste, Comacchio, Firenze e Napoli. Le carte del suo archivio, oggi conservate presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena, testimoniano quali altri interessi coltivasse; oltre a quelli più strettamente connessi con la sua professione, si interessava di letteratura, poesia, gastronomia, scienze, arte, ma anche di costume, melodramma, etologia e argomenti scolastici. Le firme maggiormente ricorrenti nelle sue rassegne stampa sono quelle di Alfonso Rubbiani (di gran lunga il più presente), Roberto Papini, Ugo Ojetti, Sal-


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vator Gotta, e del poeta cesenate Renato Bocchini; una menzione speciale merita la raccolta di articoli in memoria di Antonio Zannoni che seguì gli studi universitari del giovane Amilcare e con il quale in seguito ebbe anche alcuni contatti professionali. Nel febbraio 1928, i soprintendenti Luigi Corsini (Regia Soprintendenza all’arte medievale e moderna dell’Emilia e della Romagna) e Salvatore Aurigemma (Regia Soprintendenza alle antichità dell’Emilia e della Romagna) gli notificano la nomina a «Regio Ispettore onorario dei monumenti, degli scavi ed oggetti di antichità e d’arte per i mandamenti Cesena, Mercato Saraceno, Savignano di Romagna, e Sogliano al Rubicone in provincia di Forlì», compiti che Zavatti conserverà per un decennio. Nel marzo seguente, a riprova della maggiore considerazione goduta fuori da Cesena, Attilio Biagini, nella sua veste di presidente, lo chiama a far parte del Comitato per la preparazione dell’Esposizione Nazionale della Cooperazione che si sarebbe tenuta a Roma in ottobre. Sempre nel marzo del 1928, nel corso di alcuni lavori per l’impianto del nuovo acquedotto in via Tiberti a Cesena, vengono alla luce alcuni brani di pavimenti musivi romani risalenti al III-IV secolo d. C. al recupero dei quali Zavatti contribuirà, eseguendone rilievi e ricostruzioni grafiche che ebbero pubblicazione postuma. Tra il settembre del 1929 e il febbraio successivo il soprintendente Corsini trasmette a Zavatti il doppio parere negativo del ministero della pubblica istruzione sia sul progetto di restauro della Rocchetta, sia su quello del cosiddetto braccio malatestiano, entrambi formulati dopo aver consultato il Consiglio superiore per le antichità e belle arti. Nelle sue lettere, Corsini precisa come il Consiglio superiore abbia rigettato le soluzioni proposte, esprimendo tuttavia apprezzamenti alla parte analitica dei progetti. Ciò è con tutta probabilità da attribuire alla presenza nel Consiglio superiore di Gustavo Giovannoni, fautore del restauro fondato su una attenta ricostruzione storica del manufatto basata sulle fonti scritte, congiunta ad una analisi altrettanto approfondita della sua parte fisica, quello che oggi definiremmo rilievo critico. Perciò le motivazioni alla base del doppio rifiuto sono sicuramente composite e di non facile ricostruzione. Se in primo luogo possiamo porre quelle di natura economica, sempre presenti, dall’altro occorre riconoscere che


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altrettanto determinanti furono anche quelle di tipo ideologico, legate alla particolare congiuntura politica. Fra la soppressione della libertà di stampa e i patti lateranensi, la dittatura fascista sviluppa forme di controllo sociale e propagandistico sempre più pervasive che finiscono coll’interessare anche il campo dell’architettura e il restauro dei monumenti. Infatti l’attenzione del regime si andava focalizzando sull’esaltazione della romanità imperiale e non più sulle vestigia del medioevo che erano state, fin dall’unità d’Italia, oggetto di grande considerazione. Inoltre, Cesare Brandi andava elaborando in quegli anni il suo moderno pensiero teorico contrario alle forme di restauro romantiche e fortemente ricostruttive – alla Viollet Le Duc –, e avverso alle soluzioni progettuali di forte impatto visivo e all’utilizzo di elementi formali estranei al contesto in cui il manufatto era calato. Zavatti comunque difende le sue scelte progettuali e invia a Corsini le sue controdeduzioni. Nonostante tutto, le condizioni statiche dei locali antistanti la Biblioteca Malatestiana erano tali da rendere comunque necessario un intervento e, verso la fine di giugno, Corsini trasmette a Zavatti la richiesta di un nuovo progetto per il restauro del braccio malatestiano, formulata dal Ministero dell’educazione nazionale. Questo secondo progetto consta di una sola tavola in scala 1:50, intitolata semplicemente “variante”, con il prospetto della parete nord e una sezione trasversale. In esso si ipotizza la messa in sicurezza della parete nord, che presentava un vistoso fuori piombo, mediante la posa in opera sul prospetto esterno della stessa di un reticolo metallico a maglie larghe, composto da undici verghe di ferro verticali unite da tre ad esse perpendicolari, avente la funzione di bolzone delle chiavi da muro poste all’interno dell’edificio e dissimulate nelle murature. Purtroppo la lacunosità delle fonti note non ci consente di stabilire con certezza se il secondo progetto zavattiano sia stato realizzato e neppure in quale misura corrisponda a quanto fu effettivamente fatto. I lavori, comunque, non ebbero luogo almeno fino al 1933, nonostante il direttore della Malatestiana Alfredo Vantadori si adoperasse per ottenere tutti i permessi necessari. Osservando oggi quella facciata, si nota come all’antica parete sia stata sovrapposto uno strato di mattoni di fattura moderna che, se pure ne hanno deturpato l’aspetto, hanno riportato l’apparecchio murario alla forma verticale. Forse


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sotto questo paramento si nascondono le staffe metalliche disegnate da Zavatti. Un’appendice di questa vicenda progettuale riguarda la restituzione dei disegni relativi ai progetti per la Rocchetta e per il Braccio malatestiano al loro estensore, in quanto non «destinati all’esecuzione». Zavatti li reclama con una fitta serie di richieste, dal 3 maggio al 14 dicembre del 1931, prima rivolte al soprintendente Corsini, poi al podestà Rossi, e finalmente li ottiene nel gennaio del 1932, non senza aver dovuto minacciare di adire a vie legali. La cosa di per sé non avrebbe rilevanza se non perché fornisce una testimonianza tangibile dell’ostilità che Zavatti si trova di fronte in certi ambienti cittadini, che pure ne devono riconoscere le competenze, ma probabilmente non gradiscono le sue scarse simpatie nei confronti del fascismo. Gli insuccessi non sembrano avere avuto alcun effetto sul morale di Zavatti, né sulla sua attività di ricerca. Nel 1931, mentre si occupa del restauro della loggetta dell’ex convento di San Biagio a Cesena per conto della Congregazione di carità di Cesena, grazie all’interessamento di Francesco Filippini e di Guido Zucchini, due docenti dell’ateneo bolognese, ottiene dall’amministrazione cittadina il permesso di compiere rilievi e sondaggi nel palazzo comunale. Lo scopo della ricerca era di fare luce sulla struttura architettonica del nucleo trecentesco dell’edificio fatto costruire dal cardinale Albornoz e viene ispirata da una campagna di studi albornoziani, promossa in ambito accademico. Dopo appena alcune settimane di lavoro, il podestà Rossi revoca a Zavatti il permesso di proseguire gli assaggi nelle murature. Nonostante ciò l’ingegnere riesce a ricostruire la configurazione originale dell’antico edificio, mettendone in evidenza alcune tracce di particolare rilievo, come ad esempio le finestre ancora esistenti sulle facciate est e ovest. Il frutto di questa ricerca, pur parziale e frammentaria, viene stampato nel 1936 in un opuscolo che l’autore presenta nella sua relazione al primo Convegno nazionale fra studiosi della storia dell’architettura tenutosi a Firenze e promosso da Gustavo Giovannoni. La partecipazione ad un evento di tal genere conferma come solo al di fuori dal ristretto orizzonte della provincia Zavatti riuscisse ad ottenere il riconoscimento della validità del suo lavoro, come attesta in modo inequivocabile l’invito ricevuto direttamente da Giovannoni.


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Per quanto riguarda l’ambito più strettamente professionale, in anni di congiuntura economica negativa, l’ingegnere architetto vede rarefarsi sempre di più gli incarichi. Tra il 1926 e il 1932 progetta e cura la realizzazione delle tombe Passerini e Comandini nel cimitero di Cesena e sistema alcuni ambienti della sua casa in sobborgo Federico Comandini al civico 7. Si occupa in seguito del progetto del museo archeologico di Sarsina, della collocazione dei reperti rinvenuti durante gli scavi della necropoli di Pian di Bezzo, condotti dal soprintendente Salvatore Aurigemma a partire dal 1927, e della ricostruzione del mausoleo di Obulacco (1933-1938). Anche se questo non è propriamente un incarico professionale regolarmente retribuito, ma rientra nella sua attività di ispettore onorario, come testimonia l’unica attestazione di pagamento al riguardo (quaranta lire), ottenuta da Aurigemma nel 1934, a titolo di rimborso spese. Infine, dal 1936, su commissione della fondazione Almerici - Montevecchio, Zavatti cura i lavori di restauro alla torre malatestiana di Cesenatico, poi distrutta durante il passaggio del fronte, ultimati nel 1938. La sua principale occupazione, oltre allo studio, gli è fornita dall’incarico di ispettore onorario delle soprintendenze. Dal carteggio intercorso con Aurigemma, Luigi Corsini e Carlo Calzecchi Onesti, al di là degli aspetti burocratici, emerge come Zavatti abbia messo a disposizione tutta la sua esperienza e la sua professionalità, in modo assolutamente disinteressato, interpretando quella carica come un suo preciso dovere civile. In cambio non ha ricercato onori o riconoscimenti economici, nonostante la sua situazione finanziaria non fosse certo florida, ma ha ottenuto piuttosto quel rispetto e quella stima da parte dei funzionari ministeriali, dovuti a un collaboratore scrupoloso, puntuale e affidabile. A fronte di ciò l’attività di ispettore costringe l’ingegnere ad avere un rapporto assiduo con le amministrazioni municipali, nella non facile condizione di mediatore tra le necessità della salvaguardia del patrimonio storico e artistico e le esigenze, spesso non proprio orientate in tal senso, della politica locale. Un esempio è la vicenda dei mosaici pavimentali tardoantichi scoperti e recuperati da Zavatti appena un mese dopo la nomina a ispettore onorario in via Tiberti nel 1928. Questi erano stati collocati in modo provvisorio nei locali sottostanti la Biblioteca Malatestiana. Nel 1933, Aurigemma invita l’in-


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gegnere a sollecitare gli uffici comunali competenti perché provvedessero al risanamento degli ambienti. Lo scopo dell’iniziativa era quello di dare vita a “una raccolta municipale d’antichità e d’arte”, nella quale sarebbero dovuti confluire tutti i reperti fino ad allora raccolti. Il momento non era dei più propizi al successo dell’idea. Dopo il parere negativo al progetto zavattiano per il Braccio malatestiano, erano ancora in discussione gli interventi di risanamento e l’ingegnere stava conducendo gli assaggi nel palazzo comunale, che da lì a poco gli sarebbero stati negati. La soluzione al problema fu politica e ottenne il doppio risultato di evitare al comune la spesa del rinnovo dei locali malatestiani, garantendo la massima visibilità alle locali vestigia della romanità. Fu proprio Zavatti a doversi occupare della cosa. Prima collocando due colonne antiche nel vestibolo dello scalone del palazzo municipale prospiciente il portico su piazza Vittorio Emanuele II – l’odierna piazza del Popolo –, poi alloggiando i mosaici contro la parete che fa fronte alla prima grande rampa. È significativo che di fronte al silenzio delle autorità municipali, l’unico ringraziamento per l’opera svolta sia giunto all’ingegnere da Aurigemma il 28 settembre del 1934. Durante gli ultimi anni di vita, Zavatti è completamente assorbito nello studio e nella divulgazione anche a mezzo stampa. Si occupa della pubblicazione delle opere di Nazzareno Trovanelli, compie ricerche e restauri nel duomo di Cesena, nel 1924 collabora alla nuova edizione della Guida d’Italia del Touring Club Italiano, accompagna Cesare Brandi in un sopralluogo agli affreschi della chiesa di San Martino in Fiume, caldeggia attraverso studi e ricerche il restauro dell’oratorio di San Martiniano in via Sacchi, fa parte della Regia deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna. Nei suoi scritti sviluppa filoni di indagine su ambiti mai prima trattati in area cesenate, che vanno dalla archeologia romana e medioevale alle ricerche sul paesaggio e sulla centuriazione. L’apparente vita tranquilla dello studioso subisce però una violenta scossa nel giugno del 1938 quando, «per ordine dell’autorità politica», Zavatti è costretto a rassegnare le dimissioni da Regio Ispettore onorario, sia dei monumenti, degli scavi ed oggetti di antichità e d’arte, sia dell’arte medioevale e moderna. Contemporaneamente comunica al podestà Bonicelli la cessazione dell’incarico di soprintendente alle biblioteche del comune. L’anno seguente in febbraio


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riceve anche una citazione a comparire presso la Regia Pretura di Cesena. Nonostante tutto, a cinque mesi dalla morte dal 5 al 23 maggio, compie un viaggio a Roma dove, con la collaborazione di Augusto Campana, consulta documenti nell’Archivio segreto vaticano. Il 17 ottobre 1939, Amilcare Zavatti muore celibe a Cesena. Tre settimane dopo, il 24 ottobre, seguendo le sue ultime volontà, la sorella Rosa e il nipote Walter depositarono tutte le sue carte, i disegni, gli appunti e i libri di soggetto architettonico presso la Biblioteca Malatestiana. L’unica clausola posta all’atto della donazione fu di rendere disponibile il materiale all’uso degli studiosi. Non fu facile per l’Istituzione cesenate rispettare l’impegno preso con gli eredi. Per una serie di cause, l’archivio zavattiano è diventato pienamente agibile alla consultazione solo dal 2001 quando, in occasione delle celebrazioni del cinquecentocinquantenario della Malatestiana, per iniziativa congiunta dell’amministrazione e della biblioteca si è pubblicato un volume contenente tutte le opere inedite, il carteggio e l’inventario dei disegni (Amilcare Zavatti ingegnere architetto (1869-1939), a cura di P. ERRANI, Cesena [2001]). Oltre che ai materiali originali, si rimanda il lettore a quel testo, anche per ciò che riguarda la travagliata vicenda del fondo Zavatti, oggetto di una puntuale ricostruzione redatta da Andrea Daltri.

OPERE DI AMILCARE ZAVATTI A. ZAVATTI, Vicende edilizie nel circondario della Biblioteca Malatestiana, Cesena 1926 (BCM, Opusc. Ces. ZAV. AMI. 1a); A. ZAVATTI, Per i monumenti cesenati. Relazione al dott. Tullo Busignani commissario prefettizio del comune di Cesena, Imola, Cooperativa tip. edit. P. Galeati, 1927, pp. 6 (BCM, Opusc. Ces. XLIII.10); A. ZAVATTI, La battaglia del Monte, Cesena, Tip. Arturo Bettini, 1932, pp. 28; A. ZAVATTI, Storia di una biblioteca papale, Cesena, Tip. Arturo Bettini, 1933, pp. 25 (BCM, Opusc. Ces. XLVIII.11); A. ZAVATTI, L’università di Cesena. Nuovi documenti per la sua storia (estratto dalla rivista “Audace”), Cesena, Tip. Moderna, 1934, pp. 15; A. ZAVATTI, Sul canale dei Molini presso Cesena, Cesena, Tip. Arturo Bettini, 1935, pp. 9; A. ZAVATTI, Per il palazzo albornoziano di Cesena, Cesena, Tip. Arturo Bettini, 1936, pp. 8; A. ZAVATTI, Musaici romani (Cesena), (estratto dal volume II, serie VII, fascicoli 1°, 2°, 3° degli Atti della reale accademia d’Italia, Notizie degli scavi


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di antichità), Roma, Reale accademia d’Italia, 1941, pp. 6 (Pubblicato postumo. BCM, Opusc. Ces.XLIII.32).

ATTIVITÀ PUBBLICISTICA DI AMILCARE ZAVATTI A. ZAVATTI, Storie d’amore e impeti di fede, “Il resto del Carlino”, 5 dicembre 1930, p. 3; A. ZAVATTI, Il natale del Borgia. Fasti e nefasti di Cesena donna di prodi, “Corriere padano”, 20 dicembre 1932, XI, p. 4; A. ZAVATTI, Le recenti scoperte archeologiche, “Corriere padano”, 17 febbraio 1933, XI, p. 5; A. ZAVATTI (?), La via dei quattordici, “Corriere padano”, 16 febbraio 1933, XI, p. 7; A. ZAVATTI, Il ripristino di due antiche colonne, “Corriere padano”, 22 marzo 1933, XI, p. 7 [Nel vestibolo dello scalone del Palazzo comunale di Cesena]; A. ZAVATTI, Un quadro cesenate restaurato, “Corriere padano”, 29 aprile 1933, XI, p. 7 [Si tratta del san Pietro martire in San Domenico]; A. ZAVATTI, Uno studio su Renato Serra, “Corriere padano”, 15 giugno 1933, XI, p. 5; A. ZAVATTI, Nel Museo di Sarsina, “Corriere padano”, 30 giugno 1933, XI, p. 5; A. ZAVATTI, I tesori dello spirito. Le Biblioteche cesenati in una grande pubblicazione, “Corriere padano”, 16 marzo 1934, XII, p. 3; A. ZAVATTI, Da un Inventario Malatestiano, “23 marzo” (numero unico cesenate edito [il 23 marzo 1934] a cura dell’A.N.V.G.E. “Azzurri di Dalmazia”), p. 4; A. ZAVATTI, Da un Inventario Malatestiano, “Corriere padano”, 24 marzo 1934, XII, p. 6; A. ZAVATTI, Lettere di Renato Serra, “Corriere padano”, 25 luglio 1934, XII, p. 3; A. ZAVATTI, Nella rocchetta di piazza, “Corriere padano”, 7 luglio 1936, XIV – Duecentotrentatreesimo giorno delle inique sanzioni, p. 5; A. ZAVATTI, Il restauro della loggia dell’ex Monastero di S. Biagio, “Corriere padano”, 25 settembre [1936], XIV; A. ZAVATTI, Per l’arte, “Corriere padano”, 23 ottobre 1936, XIV, p. 4 [Sulla farmacia Giorgi di Cesena].

FONTI E BIBLIOGRAFIA “Il risveglio”, 25 novembre 1928 (sul cancello di ferro battuto per la chiesa di San Bartolomeo a Cesena); “Il risveglio”, 3 febbraio 1929 (sulla prima lezione “sui monumenti cesenati”, tenuta nel Ridotto del Teatro comunale il sabato precedente da Zavatti); “L’avvenire d’Italia”, 15 dicembre 1946, p. 2, nella rubrica “cronaca Di Cesena”, La rotta del Pisciatello e l’antico corso del Rubicone; A. CAMPANA, Gli studi romagnoli e il convegno di Cesena, “Studi Romagnoli”, I (1950), pp. 1-16; “Giornale della riviera”, 15 gennaio 1954, p. 3, Un’antica “vexata quaestio”. Quale “Rubicone” varcò Giulio Cesare?; “Il popolano”, 23 gennaio 1954, nella rubrica “da Rimini”, Alla Biblioteca


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Comunale “Gambalunga”; “Il popolano”, 13 febbraio 1954, nella rubrica “da Rimini”, Della “Gambalunghiana” e di altro; “Il popolano”, 27 febbraio 1954, Della “Gambalunghiana” e di altro; “Il popolano” del 6 marzo 1954, La pubblicazione degli scritti inediti dell’ing. Amilcare Zavatti; da Ancona, il 13 [?] marzo 1954 viene pubblicato nel Bollettino dell’Orbis n. 56, IX, pp. 2-3, l’articolo di S. ZAVATTI, Per le opere inedite dell’Ing. Zavatti di Cesena. Il punto sugli scritti inediti di Amilcare Zavatti; da Firenze, il 14 giugno 1954 viene pubblicato nel Bollettino dell’Orbis n. 132, IX, pp. 3-4, l’articolo: Ancora sull’ager caesenas di Amilcare Zavatti. La parola all’egregio studioso romagnolo Prof. [Giuseppe] Mussoni di Rimini; P. VAENTI, Cimitero Urbano di Cesena. II Catalogo delle opere d’arte, Cesena s.d.[1969?], p. 57; Amilcare Zavatti ingegnere architetto (1869-1939), a cura di P. ERRANI, Cesena [2001].

Alberto Severi

Quinto Bucci Quinto Bucci nacque il 25 febbraio 1912 a Ciola, frazione del Comune di Mercato Saraceno, in provincia di Forlì. I suoi genitori vissero dapprima come mezzadri, successivamente come braccianti, in condizioni economiche talmente disagevoli che decisero, come tanti, in quel tempo, di migrare in Belgio. Trovarono dimora a Ransart, vicino a Charleroi, rimanendovi fino allo scoppio della Grande Guerra, allorché il padre venne richiamato alle armi in Italia ed inquadrato come bersagliere ciclista. In quel breve spazio temporale, pieno di sofferenze, alcuni figli morirono, soprattutto in conseguenza dei disagi del lunghissimo viaggio di ritorno; altri morirono durante il conflitto. Anche il padre morì in un ospedale militare a Predazzo, nel Trentino, per complicazioni polmonari il 5 dicembre 1918. Della famiglia, alla cessazione del conflitto, oltre alla madre, Quinto era rimasto di sei figli l’unico ancora in vita. A Mercato Saraceno in molti si interessarono alla condizione della sparuta famigliola sopravvissuta. Importante fu per essa l’assunzione della madre come donna di servizio, presso il professor Ricchi, allora direttore delle scuole elementari del luogo. Egli proveniva da un solido ceppo repubblicano e fu personaggio di primo piano nel movimento politico di quel partito. Era divenuto diretto-


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re didattico nel 1907 e fu l’ultimo sindaco democratico nel 1920, prima dell’avvento del fascismo. Negli anni successivi il professor Ricchi fu nominato direttore didattico delle scuole elementari di Cesena e forse un po’ a malincuore dovette trasferirsi in questa città. Chiese allora a Caterina se volesse seguirlo sempre con le mansioni di domestica. Caterina non esitò un attimo. Alle condizioni precedenti, che garantivano comunque la sopravvivenza, veniva ad aggiungersi anche un nuovo ambiente nel quale poter vivere con più ampie e sicure occasioni ed opportunità, specialmente per Quinto. Tutti i suoi studi regolari cessarono al completamento del sesto anno, appunto alla famosa Sesta elementare, dopodiché nel 1924, sia pure con tanto suo rammarico, fu avviato al lavoro come apprendista cementista presso l’Istituto Artigianelli Lugaresi. Da quel momento al “Lugaresi” lavorò continuativamente per cinque anni come cementista. Nel 1929, anno terribile un po’ per tutti, rimase disoccupato e per un paio d’anni trovò solamente qualche saltuario lavoro settimanale come manovale muratore. La disoccupazione quasi cronica costrinse la famigliola ad una decisione meditata lungamente: si sarebbe tornati in Belgio, dove vivevano tanti parenti. Dichiarando di volere andare a trovare questi ultimi e soprattutto il nonno, che si trovava in condizioni di salute precaria, furono superate le difficoltà che il regime frapponeva. Poiché non vi erano a loro carico precedenti penali o sospetti di alcun genere ed avendo Quinto la dispensa dal servizio militare in quanto orfano di guerra, non fu difficilissimo ottenere il passaporto. Nel 1931 si recarono in Belgio, ove Quinto Bucci trovò lavoro come manovale muratore e minatore in una miniera di carbone. Dopo quasi due anni rientrarono definitivamente in Italia e nel 1933 Quinto venne assunto presso la Società Arrigoni di Cesena come cementista muratore addetto alla manutenzione. Aveva allora 21 anni, una preparazione culturale modestissima, qualche esperienza di vita grazie alla permanenza in Belgio, una condizione economica che poteva garantire solo una preoccupata sopravvivenza. Al ritorno fu inquadrato nel fascio giovanile. Vi rimase fino a quando, alcuni anni più tardi, fu espulso in seguito al suo arresto per attività antifascista. Egli ha scritto di essere stato fino a quel momento “estraneo a qualsiasi questione politica”, quasi ignaro di quanto avveniva in-


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torno a lui. Illuminante fu l’avvicinamento ad alcuni ambienti antifascisti, al quale contribuirono anche le condizioni interne dell’ambiente di lavoro: le paghe modeste, le belligeranze spossanti per il tutti i lavoratori. Punti di riferimento divennero immediatamente Eugenio Santerini, Giordano Dall’Ara ed Alberto Montalti, con i quali organizzò il Soccorso Rosso, una ridotta ma fitta ed efficiente raccolta di denaro per finanziare l’attività antifascista e dare sostegno economico alle famiglie dei detenuti politici. Alla fine degli anni Trenta si iscrisse al Partito Comunista. Il 23 novembre 1941, durante le manifestazioni di protesta contro il blocco dei salari ed il razionamento del pane, fu arrestato assieme ad altri antifascisti. Le accuse furono di aver organizzato e contribuito a Soccorso Rosso, di aver finanziato attività sovversive e di aver organizzato una cellula comunista nel Comitato di Cesena della Croce Rossa. La commissione istruttoria presso il Tribunale per la Difesa dello Stato, il 12 agosto 1942 riassunse i capi d’accusa nella costituzione di un’organizzazione comunista operante a Cesena nell’inverno 1941-42, nell’appartenenza alla stessa ed in una generica attività di propaganda. Alcuni imputati erano militari di stanza a Cesena ed avevano costituito cellule comuniste “nell’esercito in collegamento con l’organizzazione di Cesena”. Con quella sentenza vennero condannati anche Giordano Dall’Ara, Giovanni Amaducci, Primo Brighi, Nando Giuliucci, Pietro Magalotti, Aurelio Marchiani, Renato Paolucci, Alberto Santerini, Domenico Solfrini, Elmo Sasselli, Derno Varo, Oliviero Magalotti, Mario Galli, Desiderio Rigonat, Mario Blason e Tardivo Arcù, gli ultimi due compagni militari attivi in città. Furono 11 mesi di carcere che Quinto Bucci scontò, in parte a Forlì ed in parte a Roma a Regina Coeli, prima che il Tribunale Speciale lo condannasse definitivamente, a tre anni di reclusione. Era il 12 agosto 1942. Il carcere cui fu destinato (scelto appositamente per l’attuazione delle condanne comminate dalla dura politica di repressione dal Tribunale Speciale) era lo stabilimento penale “Santa Caterina” sito a Fossano, una cittadina piemontese in provincia di Cuneo. Qui dovette rimanere fino alla sua scarcerazione che fu conseguenza dei tumultuosi avvenimenti. Il carcere maturò la formazione culturale di Quinto Bucci ed in esso scoprì la propria vocazione di politico. Adeguandosi di buon grado al risoluto com-


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portamento dei carcerati politici e desideroso di apprendere, Quinto studiò la lingua tedesca, l’economia politica, approfondì la propria cultura generale, migliorò il proprio lessico ed arrivò ad una conoscenza della matematica superiore. Con il ritorno alla vita normale, o borghese come si diceva allora, riprese il lavoro all’Arrigoni. Ormai era saldamente inserito nella organizzazione comunista ed ebbe immediatamente l’incarico di riorganizzare il partito nella fabbrica, nella quale era ripreso anche fermento fra gli operai. Dopo il 25 luglio era stato costituito il “Comitato locale di azione antifascista”, che a partire dall’8 settembre era divenuto “Comitato Romagnolo di Liberazione”. Ripresero anche le quindicinali sottoscrizioni per finanziare l’attività partigiana e la adesione degli operai fu quasi totale. Si associarono pure diversi tecnici, impiegati e perfino molti dirigenti. Si ebbero anche tentativi di organizzazione di manifestazioni per la pace, che però furono stroncati presto dalla presenza di uomini armati, che erano una diretta emanazione della direzione dell’Arrigoni. Prima di questa data Bucci era stato eletto componente della Commissione Interna, in seno alla quale aveva assunto la funzione di segretario. L’atmosfera in fabbrica era completamente cambiata, tanto che perfino la stessa direzione dello stabilimento ebbe a versare contributi di vario genere e di varia entità al Comitato di Liberazione. A fine settembre Bucci ebbe contatti con Battaglia (Alberto Alberti) e venne designato, oltre che a far parte del comitato federale del partito, a dirigere il partito di tutta l’area cesenate. Pienamente inserito ormai nell’organizzazione comunista, gli fu assegnato, assieme a Werter Ricchi, il compito di ricostituire l’organizzazione comunista all’interno dell’Arrigoni. Nell’interregno badogliano ricoprì incarichi di diversa natura, divenendo fra l’altro segretario della commissione interna dell’azienda. Riprese quindi in pieno la propria attività, compresa la raccolta di fondi per sostenere la lotta partigiana. Ormai significativamente esposto, fu costretto alla clandestinità nel dicembre del 1943. Fu chiamato a far parte del comitato federale clandestino del PCI ed a dirigere il partito a Cesena. Seguì in prima persona l’or-


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ganizzazione degli scioperi, ma nel luglio dell’anno successivo, quando la guerra partigiana era in uno stadio molto avanzato, fu inviato nell’Ottava Brigata Garibaldi, insediata fra Santa Sofia e Pieve di Rivoschio, in qualità di commissario politico del III battaglione, guidato da Guglielmo Marconi. Con il nome di battaglia di Alfredo rimase in montagna fino al 25 settembre, quando il comando dell’Ottava Garibaldi lo fece tornare in pianura per organizzare l’occupazione della città di Cesena. Divenne membro effettivo del CLN nella qualità di segretario del PCI. Quando Cesena fu liberata, fu uno dei primi ad entrare in città. Nell’ottobre del 1944 fu designato a far parte della giunta comunale, guidata da Sigfrido Sozzi, ricoprendo la carica di assessore ai problemi del lavoro e della previdenza sociale. Si dimise nel gennaio del 1945 per divenire vice presidente del CLN. Notevole fu il suo contributo sui temi della ricostruzione fondati su una linea di sviluppo antimonopolistico, sulla centralizzazione dei contratti di lavoro, sul blocco dei licenziamenti e sul controllo dei prezzi. Si manifestò in questa fase la sua rilevante efficacia oratoria che porterà il PCI ad utilizzarlo ampiamente nell’azione di comunicazione con le masse popolari. Il 2 giugno 1946 fu eletto deputato all’assemblea costituente, risultando settimo di nove eletti comunisti nella circoscrizione che faceva capo a Bologna. Nell’aprile del 1947 divenne segretario della Camera del Lavoro di Forlì sostituendo Luciano Lama, chiamato a Roma. Il suo contributo fu di grande rilievo. Nel 1952, lasciò la Camera del lavoro di Forlì, chiamato dall’organizzazione nazionale a dirigere la Camera del Lavoro di Ancona e delle Marche, entrando come membro supplente nel direttivo nazionale della CGIL. Lasciò questo incarico nel 1956 per tornare in provincia di Forlì. Qui occupò ininterrottamente, fino alla morte, incarichi vari territoriali ed in commissioni di lavoro nella federazione comunista e fu per anni capogruppo comunista nel consiglio comunale di Cesena, nonché membro del consiglio di amministrazione dell’OIR, ed assessore alla Provincia di Forlì. Morì a Cesena all’età di 58 anni, il 28 aprile 1970.


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FONTI E BIBLIOGRAFIA Archivio famiglia Bucci; Atti del Consiglio Comunale di Cesena: anni 1945-1952; 1956-1964. S. FLAMIGNI, L. MARZOCCHI, Resistenza in Romagna. Antifascismo, partigiani e popolo in provincia di Forlì, Milano, La Pietra 1969, ad indicem; In ricordo del compagno Quinto Bucci, “Zona 15”, maggio 1970; L’8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza, a cura di D. MENGOZZI, I, Milano, La Pietra 1981; W. ZANOTTI, La Federazione comunista di Forlì attraverso i suoi congressi (1921-1989), Forlì 1989; Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 3 (19221970), a cura di A. VARNI E B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1994, ad indicem; G. MARONI, Il secondo dopoguerra, in Storia della Chiesa di Cesena. I/2, a cura di M. MENGOZZI, Cesena, Stilgraf, 1998, p. 545; P. NEGLIE, Le stagioni del sindacato. Storia della Camera del lavoro di Ancona, Rubbettino 2000; O. TEODORANI, Comunisti a Cesena. Storie, personaggi ed eventi del Partito Comunista cesenate. 1920-1975, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2002, ad indicem; L. BAGNOLI, Gli anni difficili del passaggio del fronte a Cesena, Cesena, Stilgraf, 2004, p. 193; C. GNETTI, Bucci, il militante che parlava al cuore della gente, “Il Mese”, inserto di “Rassegna Sindacale”, n. 37, 2005; M. BALESTRA, Il passaggio del fronte e la resistenza a Cesena e dintorni, Cesena, Tosca, 2005; A. BUCCI, Dall’Arrigoni all’Assemblea Costituente. La vita e l’opera di Quinto Bucci, partigiano, sindacalista, politico e amministratore pubblico, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2006.

Augusto Bucci


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Vittorio Bonicelli La corposa, e per certi versi preziosa, Enciclopedia della televisione di Aldo Grasso (Garzanti, 1996) non riporta tra le voci quella di Vittorio Bonicelli. Manchevolezza piuttosto grave, non tanto per motivi di campanilismo romagnolo, quanto perché non riconosce a Bonicelli il ruolo fondamentale svolto nel momento in cui la Rai consolidava il programma di fiction, sia sul versante di quelli che allora venivano definiti sceneggiati che su quello del cinema d’autore prodotto direttamente. Funzione a cui Bonicelli era arrivato dopo un lungo e variegato percorso intellettuale, iniziato da giornalista negli anni ’50. Nato il 28 aprile 1919 a S. Valentino in Abruzzo da genitori cesenati, dopo l’infanzia e la giovinezza vissute a Cesena, Vittorio Bonicelli si trasferisce nell’immediato dopoguerra a Milano, con in mano una laurea in giurisprudenza e il desiderio di intraprendere la carriera giornalistica. I motivi della sua trasferta in terra lombarda è lui stesso a spiegarli: «Primo perché a Milano mi ero innamorato. Mia moglie [Silvana Sirotti] è nata a Cesena, ma era sempre vissuta a Milano e là la incontrai. Il secondo motivo è che dovevo trovarmi un mestiere e pensavo che a Milano sarebbe stato più facile. Erano i giorni caotici e meravigliosi del dopoguerra. Avevo una laurea in legge ma l’unica cosa che sapevo fare bene era battere a macchina. Potevo fare il dattilografo o il giornalista. Tentai la seconda strada. Nel ’46 ero già in cronaca all’ “Avanti!”, per merito di qualche amico socialista. Il redattore capo era Arturo Tofanelli, un ottimo letterato, il quale scoprì che io sapevo scrivere in buon italiano. Un anno dopo, e anche meno, credo, rifondò il settimanale “Tempo” (che era già stato di Mondadori) e mi portò con sé. Tutto ciò che poi ho fatto e sono stato, cominciò da Tofanelli. Gli devo molto». Queste e tutte le successive citazioni sono tratte da un’intervista rilasciata nel settembre del 1991 a chi scrive e pubblicata nel volume Vittorio Bonicelli critico e sceneggiatore. Quella di “Tempo” (settimanale di attualità e cultura che alla fine degli anni ’50 faceva registrare una tiratura di 500.000 copie) si rivelerà una tappa fondamentale. Nel giro di qualche anno, infatti, Bonicelli non solo assume il ruolo di caporedattore ma diviene titolare della rubrica di critica cinematografica. Un approdo casuale e non cercato. Più interessato alle cose teatrali che non a


Vittorio Bonicelli

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quelle cinematografiche, Bonicelli è invitato dal direttore ad occuparsi di cinema perché la rubrica teatrale viene affidata a Salvatore Quasimodo. Sulle pagine del settimanale milanese Bonicelli aveva già scritto di cinema anche negli anni precedenti, con pezzi su film in lavorazione o di presentazione di pellicole americane annunciate (articoli ricavati per lo più dalla lettura dei giornali americani; Bonicelli in quell’epoca di giornalisti e critici in gran parte francofili era uno dei pochi a conoscere bene l’inglese), ma è dal numero dell’11 novembre del 1950, con la recensione a I cavalieri del NordOvest di John Ford (autore molto amato e seguito), che firma come titolare la rubrica di critica cinematografica, posizionata in un’ampia colonna da un centinaio di righe. Folgorato dal Rossellini di Paisà («Un giorno a Torino, dove stampavamo il giornale, entrai in un cinema di seconda o terza visione che programmava un film già vecchio: Paisà di Rossellini. Fu una folgorazione. Tutto il film, ma soprattutto l’ultimo episodio dei partigiani sul Po, mi rivelò di colpo le possibilità espressive del cinema e, soprattutto, un linguaggio proprio, irriproducibile in altre forme»), Bonicelli diventa nel giro di breve tempo uno dei critici più apprezzati, sia per la scrittura brillante e arguta che per il personale approccio con cui affronta i film da recensire. In un periodo di forti dogmatismi, sia a destra che a sinistra, Bonicelli è un “critico di gusto” (come lui stesso si definisce) che prende posizione ed entra nel vivo delle cose. Ad un’inchiesta-questionario pubblicata dalla rivista specializzata “Cinema Nuovo” (n. 6, 1 marzo 1953), tra i critici di quotidiani e periodici inizialmente dell’area milanese (in mezzo ci sono anche Enzo Biagi de “La notte”, Ugo Casiraghi de “L’Unità”, Arturo Lanocita del “Corriere della Sera”, Pietro Bianchi per “L’Illustrazione italiana”) Bonicelli risponde: «Mi piace difendere le cose in cui credo. Non potrei scrivere […] da una posizione di distacco, di impassibilità». Nel corso di un decennio (l’ultima recensione su “Tempo” riguarda Tutti a casa di Comencini ed è pubblicata il 19 novembre del 1960), Bonicelli prende decise posizioni in difesa del Neorealismo in tutte le sue varianti, dedica molta attenzione al cinema italiano, dichiara i propri amori (Rossellini in primis, poi Fellini, Antonioni di cui intuisce le potenzialità fin dagli esordi e che difende, quasi solo, a Cannes per L’avventura) e coglie le novità in arrivo dalla Francia (è tra i primi a lodare le opere dei giovani del-


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la Nouvelle Vague come Truffaut, Resnais e Godard). Poi all’apice della carriera (è, tra l’altro, lui a firmare lo scoop dell’intervista proposta da “Tempo” in tre puntate, a Rossellini e alla sua nuova compagna indiana Sonali Das Gupta rifugiati a Parigi, inseguiti dalla denuncia della Bergman), arriva improvvisa la svolta che così Bonicelli ricorda: «Abbandonai una carriera giornalistica affermata, un città in cui stavo benissimo, una casa, gli amici milanesi (mia moglie, milanese per scelta alla maniera di Stendhal, non mi ha mai perdonato di averla portata a Roma da un giorno all’altro). Il motivo è uno solo: ero stanco, fisicamente e mentalmente. Continuavo a fare il redattore capo di un giornale che intanto era cresciuto (500.000 copie), avevo altri incarichi editoriali (“Successo”, “Visto”, “Civiltà delle macchine”). Dovevo partecipare ai festival, ai convegni, alle proiezioni romane. Quando diedi le dimissioni, l’editore mi disse: “Sa, lei, quanto guadagna?”. Gli risposi: “Lo so, ma ci muoio”. E poi c’era quella colonnina di critica settimanale che mi pesava come un macigno». L’occasione di cambiare aria e mestiere arriva dal produttore Dino De Laurentiis che lo invita a Roma a lavorare per lui. Bonicelli accetta anche se i compiti non sono ben definiti. Per quattro anni si occupa a vari livelli dei film messi in produzione da De Laurentiis. Tra le altre cose, Bonicelli, traduce, con Goffredo Parise, i dialoghi per l’edizione italiana di Jules e Jim di Truffaut, e partecipa alla sceneggiatura di La Bibbia di Huston e di Waterloo di Bondarciuk. «Ero entrato finalmente – ricorda Bonicelli – nella “bottega del cinema”, avevo imparato ciò che in futuro mi sarebbe stato prezioso (le tecniche della sceneggiatura e della fabbricazione di un film), mi ero immensamente divertito. Viaggi ininterrotti in tutto il mondo, conoscenze interessanti come quelle di Hollywood. La storia finì bruscamente: “Guarda, io sono praticamente fallito – disse Dino un giorno – . Vado in America e tu ti arrangi”. Era, se ben ricordo, il ’64». Rimasto all’improvviso senza lavoro, Bonicelli viene chiamato dalla Rai per lavorare ad una riduzione della Bibbia (cosa che non ebbe seguito) e gli viene offerta la conduzione della trasmissione Cordialmente (“una rubrica di corrispondenze, una sorta di lettere al direttore”). Lui, che non era mai apparso in video, accoglie la proposta e la trasmissione ha successo. Dopo due anni di conduzione, però, abbandona e sta per accettare l’offerta fattagli dal direttore generale Ettore Ber-nabei di


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andare a Parigi come corrispondente giornalistico, quando Pier Emilio Gennarini, il funzionario responsabile del settore dello spettacolo, lo invita a restare a Roma per occuparsi di cinema. «Disse sostanzialmente Gennarini: “Dobbiamo fare o finanziare o promuovere i film che la produzione commerciale non fa: le opere a rischio, le opere prime, le opere di interesse culturale e spettacolare insieme se possibile”. […] Nacquero molti film, che sono orgoglioso di aver “promosso”. Ne cito alcuni a memoria: Tristi tropici di Gianni Amico, Strategia del ragno di Bertolucci, Milarepa della Cavani. Intanto seguivo, in prima persona, la produzione del “quasi-cinema”: la serie infinita degli sceneggiati alla Maiano, con clamorosi successi come Il segno del comando, fatti in studio o in 16 mm. La mia figura non aveva connotazione ben definite. Ero di nuovo una sorta di capo-redattore, mettevo insieme i vari elementi del giocattolo, talvolta mettevo mano alle sceneggiature, rarissimamente le firmavo». La sua firma, invece, appare ben evidente, essendo anche il responsabile ultimo del copione, nella sceneggiatura dell’Odissea di Franco Rossi, uno dei capolavori assoluti della televisione italiana, a cui segue qualche anno dopo, sempre per la regia di Rossi, Eneide. In mezzo c’è il lavoro con Rossellini per Gli atti degli apostoli e le sceneggiature cinematografiche di Giovinezza giovinezza di Franco Rossi e de Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica (con tanto di nomination all’Oscar). La fama, conquistata nell’ambiente, di scrittore esperto in storie a carattere religioso e storico (“Credo di essere l’ateo più religioso d’Italia”) spinge Bonicelli al lavoro su diversi copioni, dal Mosè di De Bosio a L’inchiesta di Damiani. Una caratteristica che conserva anche quando lascia la Rai e continua a lavorare all’ideazione e alla scrittura di film per la televisione e per il cinema, come ad esempio la serie per Canale 5 di Un bambino di nome Gesù di Franco Rossi e Cellini una vita scellerata di Battiato. Tra i molti progetti rimasti solo sulla carta ci sono un’Iliade e un film su Cesare Borgia. Lusingato dai successi dei suoi lavori, Bonicelli ha sofferto negli ultimi anni anche di alcune amarezze, dovute ad esempio, a Pertini, girato sempre da Franco Rossi, (“Pertini da giovane, tra il 1925 e il 1931. […] Una cosa a cui tengo molto, un esperimento in quanto mi sforzo di raccontare in tonalità di avventura, perfino di allegria, un personaggio che rischia l’enfasi monumentale”) ma mai mandato in onda per


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l’opposizione della vedova, e ad un Carlo Magno la cui realizzazione ha stravolto il suo testo. Nel 1988 a Bonicelli è stato assegnato il Premio Flaiano per la televisione. Spentosi a Roma il 26 luglio del 1994, Vittorio Bonicelli è sepolto nel cimitero di Cesena. Il suo archivio personale è stato donato dalla moglie Silvana Sirotti al Centro Cinema Città di Cesena. FILMOGRAFIA (sceneggiature) 1966: La Bibbia, di John Huston. 1968: Odissea, di Franco Rossi (tv). 1969: Giovinezza giovinezza, di Franco Rossi; Atti degli Apostoli, di Roberto Rossellini (tv). 1970: Waterloo, di Sergej Bondarciuk; Il giardino dei Finzi Contini, di Vittorio De Sica. 1971: Eneide, di Franco Rossi (tv). 1974: Mosè, di Gianfranco De Bosio (tv). 1976: Come una rosa al naso, di Franco Rossi. 1979: La commediante veneziana, di Salvatore Nocita (tv). 1980: Arabella, di Salvatore Nocita (tv). 1981: Le ali della colomba, di Gianluigi Calderone (tv). 1982: Progetti di allegria, di Vittorio De Sisti (tv). 1984: Un delitto, di Salvatore Nocita (tv). 1986: L’inchiesta, di Damiano Damiani. 1988: Sei delitti per padre Brown, di Vittorio De Sisti (tv); Un bambino di nome Gesù, di Franco Rossi (tv); Un bambino in fuga, di Mario Caiano (tv). 1989: Un bambino di nome Gesù. L’attesa, di Franco Rossi (tv). 1990: Il colore della vittoria, di Vittorio De Sisti (tv); Cellini una vita scellerata, di Giacomo Battiato. 1991: Un bambino di nome Gesù. Il mistero, di Franco Rossi (tv). Un bambino in fuga tre anni dopo, di Mario Caiano (tv). 1992: Dov’era quella notte (sera), di Salvatore Samperi (tv). 1994: Carlo Magno, di Clive Donner (tv; soggetto); A rischio d’amore, di Vittorio Nevano (tv).

FONTI E BIBLIOGRAFIA Vittorio Bonicelli critico e sceneggiatore, a cura di A. MARALDI, Centro Cinema Città di Cesena 1992; V. BONICELLI, Principe in maschera nera. Materiali per un film su Cesare Borgia, a cura di A. MARALDI, Centro Cinema Città di Cesena, Il Ponte Vecchio, 1997.

Antonio Maraldi


LE VITE



Mattia Mariani cuoco, cronista cesenate nell’età della Restaurazione e del Risorgimento La collocazione 164 della Biblioteca Malatestiana raccoglie cronache manoscritte di autori cesenati dei secoli XVI-XIX, laici e religiosi, interessanti per la ricostruzione della storia di Cesena, nei suoi avvenimenti generali e nelle vicende più minute. I limiti di queste storie sono legati alla preparazione culturale e alle ideologie degli autori, oppure si rivelano nella forma approssimativa, talvolta sgrammaticata e scorretta, in cui sono state redatte. Il loro valore consiste invece nel fatto che i cronisti raccontano avvenimenti a cui hanno assistito, raccolgono le testimonianze di coloro che sono stati presenti a certi eventi, conservano, trascrivendole, memorie antiche della storia della città. Ogni operazione storiografica legata a Cesena non può dunque prescindere dalla consultazione di queste opere, né esimersi dal confronto con esse. Per questo non sembra inutile richiamare l’attenzione su questi cultori di storia locale, tentando di ricostruirne le vicende biografiche e di mettere in luce le caratteristiche delle loro opere. Tra i vari cronisti cesenati, una figura interessante appare quella di Mattia Mariani, vissuto nel XIX secolo, di professione cuoco, scrittore di cose locali “per passione”, stando alle sue dichiarazioni, che ha lasciato otto manoscritti in dodici tomi, gran parte dei quali ci offrono un vivo ritratto della Cesena ottocentesca. Nelle sue pagine la descrizione degli avvenimenti storici e politici si intreccia alla rappresentazione dei casi più minuti, delle “piccole storie”, mentre sullo sfondo si alternano le chiese, i palazzi, i teatri della città con i vicoli, le piazzette, le locande, le osterie. L’orizzonte del cronista si amplia a comprendere tutto ciò che avviene nel microcosmo della sua città: tutto è motivo di interesse e degno di nota, gli avvenimenti pubblici, i fatti di cronaca nera, le variazioni del clima, l’andamento dei raccolti.


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La vita La maggior parte delle notizie biografiche su questo autore si possono ricavare dall’autobiografia, che egli intitolò Descrizione della nascita di me Mattia Mariani, e mia vita e impieghi1. Si tratta di un manoscritto di ventisei carte, di cui le prime tredici sono occupate dal testo, le altre sono rimaste bianche, steso in una scrittura uniforme e regolare, tale da far pensare a una bella copia da appunti o da un brogliaccio steso precedentemente. La lettura di questa autobiografia dà effettivamente ragione al titolo: alla breve descrizione della nascita (nel 1802) e dell’adolescenza, Mariani fa seguire un resoconto schematico degli avvenimenti più o meno importanti e incisivi della sua vita, comunque sempre in relazione agli impieghi di volta in volta da lui assunti; nella narrazione è caratteristico il tono, sempre uguale, con cui sono descritte tutte le vicende di cui egli è protagonista: il matrimonio, le visite alle città, la morte dei genitori e di altri parenti, il passaggio dall’uno all’altro padrone. I sentimenti del Mariani sono espressi sempre con moderazione, come attenuati; traspaiono però vivissimi la devozione e l’attaccamento verso il conte Giulio Masini, presso il quale il Mariani visse dal 1835 fino alla morte del conte, continuando a servire la famiglia sino alla fine della sua vita, nel 1872. L’autobiografia si interrompe bruscamente al 1858, e si deve rilevare che anche gli anni dal ’51 al ’58 sono trattati molto rapidamente, salvo il 1853, in cui viene descritta la morte del conte Masini. Un esame della scrittura con cui sono registrate le notizie relative a questi anni – si tratta di una scrittura con un modulo più minuto e con un andamento abbastanza irregolare, stesa con un inchiostro più chiaro – fa pensare che le note degli anni ’51-58 siano frutto di un’aggiunta fatta nel 1858, o in un periodo immediatamente successivo, ad un’opera che era stata composta o per lo meno trascritta entro il 1853. D’altra parte anche le altre opere del Mariani sembrano composte entro gli anni ’50. Sarebbe interessante scoprire perché egli ab1 M. MARIANI, Descrizione della nascita di me Mattia Mariani, e mia vita e impieghi, ms., BCM, 164.57. Il testo completo è trascritto nell’Appendice II.


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bandonò la pratica della scrittura per circa vent’anni, fino alla sua morte. Vediamo intanto che cosa ci dice l’autobiografia. Mariani nasce da una famiglia di coloni il 24 febbraio 1802, “sul primo colle per passare al santuario di Santa Maria del Monte… parrocchia di S. Maria delle Grazie, detta Ponte Abbadesse, subborghi della città di Cesena”2. All’età di dodici anni impara a leggere e a scrivere sotto la guida di don Sante Zani, presso il quale si trovava “come chierico a servir messe”, e che sarà suo maestro per tre anni. È questo il fondamento dell’istruzione del Mariani, perché la frequentazione delle scuole pubbliche, iniziata nel 1816, deve essere presto tralasciata, per necessità economiche. Dopo un breve servizio prestato presso la parrocchia, dal 1819 al 1828 è servitore di don Pietro Malatesta, arciprete di San Demetrio, “una bellissima collina posto lungo il fiume Savio, e la Villa Acquarola, luogo certamente bello per l’orizzonte che vi si scorge e l’aria sottile che si gode”. Di questi anni Mariani ricorda alcuni avvenimenti notevoli: le visite pastorali dei vescovi di Cesena Castiglioni (il futuro papa Pio VIII) e Cadolini3, la gita a Cesenatico in compagnia dell’arciprete, “non avendo mai visto il mare”, i viaggi a Ravenna e a San Marino, il pellegrinaggio alla basilica di Loreto4, e infine il matrimonio con Orsola Suzzi5. Non sono chiari i motivi per cui nel Figlio di Domenico e Teodora Sintucci (o Santucci), fu battezzato nella cattedrale di Cesena lo stesso giorno della sua nascita coi nomi di Mattia, Girolamo, Gioacchino. Il certificato di battesimo e quello della cresima, stando a ciò che afferma il Mariani nella sua autobiografia, avrebbero dovuto essere annessi a quest’opera; ora si trovano invece incollati rispettivamente alla controguardia e al recto della guardia anteriore del ms. 164.49, conservato nella Biblioteca Malatestiana e intitolato Delle parrocchie ed oratorii della Diocesi di Cesena esistenti fuori di città. La legatura di questo ms., in carta marmorizzata su piatti di cartone, con dorso e punte in tela, da collocarsi probabilmente ai primi anni del Novecento, è uguale a quella di alcuni mss. di Mariani, rilegati quindi nello stesso periodo e nello stesso laboratorio; ciò fa pensare a una svista compiuta dal rilegatore. 2

3 Francesco Saverio Castiglioni e Antonio Maria Cadolini furono vescovi di Cesena rispettivamente dall’8 marzo 1816 al 19 aprile 1822 e dal 19 aprile 1822 al 12 febbraio 1838. 4 Narrato estesamente nel ms. intitolato Relazione del viaggio fatto alla Casa Santa di Loreto, 1826 (BCM, 164.56). 5 Orsola Suzzi, figlia di Carlo e di Angela Dominici, nacque a Cesena il 5 aprile 1807, sposò il Mariani il 5 febbraio 1828, morì nel settembre 1863.


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1828 Mariani lascia il servizio di don Malatesta: nell’autobiografia si parla di “varie circostanze” ed è trascritto un attestato di benemerenze rilasciato al Mariani dall’arciprete, in cui si sottolinea come al sacerdote “dispiacesse la sua partenza”. Presso l’Archivio della Curia vescovile di Cesena si conservano alcuni documenti che possono chiarire la vicenda6. Si tratta di una denuncia anonima fatta pervenire al vescovo Cadolini da alcuni parrocchiani di San Demetrio, in cui si accusa “il domestico dell’arciprete”, cioè il Mariani, di pronunciare “continue bestemmie ed eresie che incendiano l’aria”, di tenere “pubbliche e scandalose pratiche”, di parlare “da anticatolico”, e infine di rubare “a mano salva”, fino a giungere ad utilizzare la questua per la Beata Vergine per l’acquisto “di varie mobilie per farsi lo sposo”. Non valsero a modificare la decisione di Cadolini alcune dichiarazioni, queste sottoscritte, di altri parrocchiani volte a smentire le accuse e a testimoniare l’onestà e la correttezza del comportamento di Mariani, e una supplica indirizzata al vescovo dallo stesso Malatesta, che sosteneva la causa del suo domestico: il Mariani andava allontanato dalla parrocchia; all’arciprete non restò che obbedire all’ordine superiore, pur dolendosi apertamente in una lettera al vescovo di essere costretto a licenziare il suo servitore. Dopo la partenza da San Demetrio, il Mariani non tarda tuttavia a trovare un altro impiego. Dal 9 settembre 1828 entra al servizio di Giuseppe Mazzola; dopo la morte di questi, avvenuta l’anno seguente, rimane presso la famiglia per altri due anni, per i quali l’autore registra l’arresto e la carcerazione nelle prigioni di Forlì di Emanuele, figlio di Giuseppe, “si disse per affari politici”, e la morte dell’arciprete Malatesta. Dopo un breve periodo trascorso a servizio della famiglia Brighi Fanciaresi, il Mariani torna in casa Mazzola e accompagna i padroni a Bologna ad assistere a un’opera lirica, protagonista la famoso soprano Maria Malibran. Qui approfitta dell’occasione per visitare la città e i suoi monumenti: “il tempio di San Petronio, le due torri, i larghi e lunghi portici, i ricchi negozi…, la certosa o campo santo”. Lasciata la famiglia Mazzola, il 1º settembre 1835 Mariani viene assunto in qualità di cuoco dal 6 Cfr. AVC, Vescovi, Vescovo Cadolini, Vicariato di Monte Reale, 1828. Ringrazio Andrea Daltri per avermi segnalato questi documenti.


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conte Giulio Masini7; abbandona quindi le due stanze in affitto, presso cui abitava con la moglie, e si trasferisce in un’abitazione di proprietà del conte posta in vicolo dei Gatti8. Inizia a questo punto la seconda parte dell’autobiografia, in cui l’autore dapprima si diffonde nella descrizione della genealogia della famiglia Masini, poi dà ampio spazio alla narrazione delle vicende della casa di cui è l’orgoglioso servitore: la nascita delle quattro figlie del conte, Orsola, Giovanna, Elisabetta, Virginia, il viaggio 7 La famiglia Masini, nota a Cesena dal XIV secolo, contò fra i suoi membri più illustri Niccolò II (1533-1602), medico, autore della prima biografia di Domenico Malatesti, detto Malatesta Novello, signore di Cesena dal 1433 al 1465, e fondatore della celeberrima biblioteca che porta il suo nome; Francesco, vissuto nel XVI secolo, pittore e scultore, autore della fontana monumentale di Piazza del Popolo; Vincenzo (16891762), autore del poemetto Il zolfo. Morto questi senza figli maschi, il conte Giulio Cesare della Massa, sposando la figlia di Vincenzo, e aggiungendo al suo cognome quello di Masini, continuò la discendenza della famiglia. Tra i suoi figli si ricorda soprattutto Niccolò (1745-1807), preposto della cattedrale, che ebbe un ruolo di primo piano durante gli anni del dominio francese a Cesena, nella tutela della Malatestiana e nella costituzione della nuova biblioteca comunale. Giulio, nipote di Giulio Cesare, nacque il 3 agosto 1800 da Pietro e da Orsola Bertoni, rivestì varie cariche (comandante della Guardia civica nel 1831, consigliere comunale e provinciale, gonfaloniere di Cesena), e per motivi politici fu imprigionato nel 1830 nel carcere di Civita Castellana. Nel 1848 fu eletto deputato dello Stato Pontificio. L’anno successivo fece parte di una delegazione provinciale inviata a Gaeta a rendere omaggio al pontefice Pio IX. Morì il 20 luglio 1853. Fu autore di composizioni musicali sacre, tra le quali lo stesso Mariani ricorda due messe, una eseguita a Longiano nel luglio 1836, e un’altra diretta da Masini a Cesena, in occasione della festa della Madonna del Popolo il 6 aprile 1845, la quale “fu di sommo grido e piaciuta ed applaudita sì dai Cesenati, come dai forestieri in gran numero quivi concorsi. Questa fu scritta dal Masini veramente con filosofia” (M. MARIANI, Cenni biografici del signor conte Giulio Cesare Masini cesenate, BCM, s.c., pp. 4-5). Cfr. C. MASINI, Genealogia della famiglia Masini, e Vite d’alcuni suoi più illustri antenati, Venezia, Recurti, 1748; G. PECCI, Della famiglia Masini e del conte Giulio, patriota e musico cesenate, Faenza, Lega, 1933; R. BALZANI, La vita politica a Cesena dal 1832 al 1846, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, pp. 177-229, in part. pp. 198, 209n, 210; C. CECCUTI, La vita politica a Cesena dal 1846 al 1859, ibidem, pp. 231-315, in part. le pp. 245, 256, 265. 8 Il vicolo dei Gatti, oggi non più esistente, “prendeva il nome dalla famiglia Gatti, venuta da Reggio Emilia nel 1552, e che abitava in un palazzo situato nel vicolo stesso… Fu chiuso in seguito all’approvazione del Consiglio Comunale nel 1871. Sboccava nella strada Cervese, non aveva uscita e dal popolo veniva detto “Cul di sacco”, (N. TROVANELLI, citato in Cesena. Il volto della città, a cura di B. DRADI MARALDI e A. EMILIANI, Cesena, Banca Popolare, 1973, p. 321).


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compiuto dal conte fino a Gaeta, quale rappresentante di una deputazione provinciale, per “ossequiare il santo padre papa Pio IX”, la morte del Masini. Con l’“amatissimo padrone” doveva davvero esistere un rapporto di familiarità e di amicizia, come mostra il fatto che Mariani fu scelto come padrino per il battesimo della figlia secondogenita e che Masini era il primo lettore e critico delle opere composte dal suo domestico9. Delle vicende personali e familiari di questi anni sono annotate poche cose: i viaggi compiuti dalla moglie a Sant’Angelo in Vado, a Firenze e a Sarsina, e l’amicizia stretta da lui col cesenate Tommaso Pizzi, “suonatore di violino e diletante di poesia”. Per gli anni ’54-’55 la narrazione di Mariani si riduce ad accennare rapidamente alla villeggiatura trascorsa nella villa di Bulgaria dalla contessa e dalle figlie; con la registrazione della morte del suocero, avvenuta il 16 aprile 1858, si chiude bruscamente l’autobiografia. Da fonti documentarie si ricavano pochi altri dati della vita del Mariani: nel 1863 rimase vedovo e due anni dopo si risposò con tale Carlotta Ghini10, non ebbe figli, continuò a prestare servizio presso i Masini e ad abitare nella casa di vicolo dei Gatti fino alla morte, avvenuta il 5 dicembre 1872. Fu sepolto nella tomba di famiglia dei Masini, dove fu apposta una lapide “per lodevole iniziativa della Commissione del Cimitero”11, con la seguente iscrizione: “Mattia Mariani / benché umile cuoco privo di studi / per impulso di naturale ingegno / per molto affetto alla terra nativa / compilò / con animo retto imparziale / una voluminosa cronaca / de’ tempi suoi / memorabilissimi nell’età moderna / N. il 24 febbraio 1802 – m. il 5 dicembre 1872 / La famiglia dei conti Masini / che n’ebbe lungo e onorato servizio / consentì il collocamento di questa lapide”12. Mariani conclude così il lungo titolo apposto al quinto tomo delle sue Cronache: “Di più mi vanto, che questi miei scritti si è degnato ed à avuto la bontà di leggerli il mio riveritissimo padrone”. 19

10 Carlotta Ghini, figlia di Pietro e di Rosa Ballardini, nata a Cervia il 19 novembre 1821, sposò il Mariani il 27 febbraio 1865. Rimasta vedova, si risposò con Paolo Fiumana. Morì il 10 agosto 1905. 11 Così N. TROVANELLI, Un modesto centenario. Il cuoco cronista, “Il Cittadino”, XIV (1902), n. 8. 12 Cfr. P. VAENTI, Epigrafi del cimitero urbano di Cesena, dattiloscritto, BCM, Tesi 58 bis, p. 4 (2° gruppo).


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Nell’autobiografia non ci sono riferimenti particolari inerenti alla sua attività di cuoco: questa viene però richiamata da un documento allegato al manoscritto, intitolato “Inventario degli oggetti esistenti nella cucina li 31 agosto 1835”, e firmato da Giulio Masini, che oltre a mostrarci un interessante panorama degli attrezzi in uso in una cucina di una casa abbiente, indica anche le pietanze che venivano preparate a metà dell’Ottocento, alcune delle quali sono tuttora tipiche della nostra regione (p.e. passatini, cappelletti, tagliolini). Al suo mestiere di cuoco Mariani riserva pochi accenni anche nelle altre opere, peraltro molto vivi, come lo sfogo che si legge nella sua Miscellanea di notizie: “Noi poveri cuochi che ci limbiechiamo [sic] il cervello, e giorno e notte per il bene delli nostri padroni e del ventre di essi, dalla mattina alla sera noi stiamo inchiusi nella nostra magione adorna di pignatte e di casseruole, e ci bruciamo le cervella col fuoco vivissimo di un fornello; noi siamo come il sommaro [sic] che porta vino e beve acqua. E quale è la ricompensa di noi sacrificati? Il disprezzo di tutti e specialmente delle fantesche. Benché però molti dicono che noi abbiamo la sporta per compagna, ma per me è stata sempre nemicissima”13. I manoscritti Oltre all’autobiografia, le opere del Mariani che si conservano manoscritte presso la Biblioteca Malatestiana sono le seguenti: [Cronache cesenati], in cinque tomi; Miscellanea, o diverse notizie e memorie di me Mattia Mariani cesenate; Relazione del viaggio fatto alla Casa Santa di Loreto. 1826; Cenni storici sulle vite dei due sommi pontefici Pio VI, e Pio VII cesenati, e con quelli della vita di Pio VIII Castiglioni; Compendio della storia di Napoleone Buonaparte fatto nel 1843; Libro dove ho descritto diverse cose dei cenni storici sulla vita, e pontificato di Pio IX; Cenni biografici del signor conte Giulio Cesare Masini cesenate. Quest’ultimo manoscritto, a cui Mariani accenna nella pagina finale della sua autobiografia, fu posseduto dallo studioso Giuseppe Pecci nella prima metà del Novecento14, e non si sa 13

BCM ms. 164.55, c. 203r-v.

Il Pecci, nel suo saggio Della famiglia Masini e del conte Giulio cit., parla di questo manoscritto affermando che si trovava presso di sé e che da esso aveva attinto molte notizie su Giulio Masini (p. 20). 14


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quando sia entrato a far parte delle raccolte malatestiane. Gli altri manoscritti figurano nel secondo volume dell’inventario dei libri appartenenti alla Biblioteca Comunale, redatto dal bibliotecario Adriano Loli Piccolomini nel 1879, e sono registrati sotto la segnatura 13915. Nel 1897 furono spostati in una nuova collocazione, la 164, che comprende opere manoscritte di autori cesenati16. Non si sa se i manoscritti del Mariani entrarono in Malatestiana dopo la morte dell’autore, nel periodo cioè fra il ’72 e il ’79, o quando il Mariani era ancora in vita, se costituirono un lascito fatto alla Biblioteca dalla famiglia Masini o dall’autore stesso, o se, infine, siano frutto di un acquisto da parte dell’istituto. Registrati nell’inventario nel ’79, furono comunque subito accessibili alla pubblica lettura, se lo storico cesenate Nazzareno Trovanelli ne dà notizia in un suo articolo pubblicato sul periodico locale “Lo specchio” il 10 settembre 188017. Nell’appendice e nell’indice del quinto tomo delle Cronache cesenati Mariani accenna a un “giornale” che stava scrivendo e che doveva contenere il resoconto degli avvenimenti cesenati fino al 1861, ma questo manoscritto non ci è pervenuto18. I manoscritti presentano un discreto stato di conservazione; alcuni di essi sono forniti di una legatura in carta marmorizzata con dorso in tela, da assegnare probabilmente ai primi del Novecento, i cinque tomi delle Cronache, la Miscellanea e il volume su Pio IX hanno una legatura in mezza pelle, frutto del restauro eseguito nel laboratorio dell’abbazia di Santa Maria del Monte di Cesena nel 197419. Come mostrano i titoli, la maggior parte delle opere si iscrivono nel genere storico-cronachistico, spaziando dal racconto degli avve15

Si tratta dell’ inventario delle Collocazioni da 124 a 154, BCM, s.c.

Cfr. Catalogo dei manoscritti della Biblioteca Comunitativa finito di compilare il 12 marzo 1897, pp. 32-36, BCM, s.c. 16

Cfr. N. TROVANELLI, Mattia Mariani e la sua Cronaca cesenate, “Lo specchio”, I (1880), n. 10. 17

Cfr. 164.54, tomo V, indice, c. 249v: “Nei giornali separati da questo libro dal 1856 al 1861 si legge i fatti accaduti in mia patria Cesena”; tomo V, appendice, c. 230r: “I fatti successi nella mia città vedi nel giornale a parte del suddetto anno, non descrivendoli in questo 5° libro per non duplicarli, e perché da me non aver tempo per essere occupato in altro etc”. 18

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Per le descrizioni più dettagliate di ogni ms. cfr. Appendice I.


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nimenti accaduti a Cesena nella prima metà dell’Ottocento, alla biografia di personaggi illustri dei secoli XVIII e XIX, quali i papi Pio VI, VII, VIII e IX e Napoleone Bonaparte. Le Cronache sono suddivise in cinque tomi, il primo dei quali, dopo un’introduzione comprendente un breve excursus sull’origine della città e notizie sui monasteri, chiese e conventi soppressi durante il periodo francese, tratta la storia di Cesena in forma annalistica dal 1814 al 1838. Gli altri quattro tomi continuano la narrazione delle vicende locali per gli anni rispettivamente 1839-1840 (tomo 2), 1841-1847 (t. 3), 1848 (t. 4), 1849-1857 (t. 5). Ogni volume è chiuso da un indice dettagliato e comprende un’ampia appendice documentaria costituita da bandi, manifesti, editti, emanati da autorità civili e religiose, opuscoli a stampa, incisioni, ritagli di periodici, a corredo delle vicende descritte. La Miscellanea si compone di due parti, la prima con notizie di storia antica e moderna riportate senza un ordine particolare, la seconda contenente la descrizione di tutte le chiese di Cesena. Nelle vite dei papi e di Napoleone, molto brevi, vengono elencati gli episodi più significativi di cui essi sono stati protagonisti. Carattere personale rivestono la descrizione del pellegrinaggio a Loreto, compiuto nel 1826 dalla Compagnia del SS. Crocifisso di San Zenone, e ovviamente l’autobiografia. La biografia di Giulio Masini, infine, nata dall’esigenza di rendere omaggio all’amato padrone, oltre a fornire notizie sulla famiglia, è corredata dalla trascrizione di lettere del conte e da altri documenti a lui appartenenti. Mariani scrittore Stando a ciò che ci riferisce il Mariani stesso nella sua autobiografia, egli iniziò nel 1814, appena dodicenne, a “descrivere i fatti più rimarchevoli che accadano in Cesena”. È difficile prendere alla lettera questa asserzione: forse Mariani intendeva dire che si accinse a scrivere le sue Cronache a partire dal 1814, e da tale anno inizia effettivamente a narrare le vicende della città; certamente si può pensare che egli abbia incominciato presto ad annotare fatti e avvenimenti e a raccogliere notizie, poi riordinate e confluite nei suoi libri di cronache.


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Quali siano i motivi che lo spingono a scrivere, lo rivela il Mariani in vari passi delle sue opere, nei quali, prevenendo le possibili critiche in cui potrebbe incorrere, si dichiara consapevole dei propri limiti di scrittore e del fatto di non essere un letterato, ma afferma risolutamente di esporre i fatti in modo veritiero; sostiene inoltre di scrivere per proprio “divertimento” o “passatempo”, mosso dal desiderio che provava fin dalla fanciullezza, di “descrivere le cose che accadono nella [sua] patria”. All’inizio del secondo volume delle Cronache scrive infatti: “Anco in questo mio secondo libro mi protesto che tutto ciò che scriverò sarà bensì scoretto e mal scritto perché mancai di studio, ma pure sincero. Sarò eziandio da quelli che leggeranno cotesti miei scritti molto criticato perché diranno mi perdeva in notare cose che niente può essere utile né a me, né ad altri, ma io ci risponderò che ciò lo faceva per passatempo, e per non stare ozioso in quelle ore dopo terminate le mie facende, e che pure potrebbero anche essere giovevole in qualche circostanza, ed in ultimo poi li lascerò ciarlare a suo modo, e voglio fare quello che sino dalla mia fanciullezza aveva desiderio, e passione cioè discrivere le cose che accadono nella mia patria”20. Intitola così il quinto volume della stessa opera: “Libro quinto dove io Mattia Mariani vado segnando giornalmente i fatti più rimarchevoli che accadono in questa mia patria di Cesena… protestando che io lo faccio per mio puro diversivo, non che mi tenga letterato. Se poi il cortese lettore trovasse scorretti questi rozzi scritti mi compatisca del mio piccol talento, perché sappia che il mio mestiere è quello di debole cuoco per comporre alla meglio pasticci, polente e intingoli, non di comporre storia…”21. E con queste parole conclude la narrazione del pellegrinaggio a Loreto: “Io Mattia Mariani ho fedelmente segnato questo pellegrinaggio, né più né meno dell’esposto, per essermi anch’io trovato presente, dichiarando di aver ciò fatto rozzamente sì ma con sincerità”22. Dunque Mattia Mariani, di professione cuoco, cronista di storia locale per passione, narra i fatti cui assiste o che gli sono riferiti da persone degne di fede, e a riprova della sua serietà inserisce nelle 20

BCM, 164.54, tomo II, p. 19.

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BCM, 164.54, tomo V, p. 1.

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BCM, 164.56, c. 31r.


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sue opere documenti di varia natura inerenti agli avvenimenti che va descrivendo. Cita inoltre le fonti a cui attinge per ricostruire momenti della storia passata o per narrare le vite di santi e personaggi illustri; a questo proposito viene da pensare che il servizio in casa Masini gli offrisse la possibilità di accedere alla fornita biblioteca della famiglia23. Conosce poi le opere dei cronisti cesenati che lo hanno preceduto: in particolare, l’amicizia con l’arcidiacono della cattedrale Francesco Ghini gli consente di poter consultare i volumi dell’opera Cesena sacra, composta da Don Carlo Antonio Andreini tra il 1807 e il 1817, fonte di preziose informazioni sulla storia religiosa della città24. La cronaca del Mariani si pone come ideale ripresa e continuazione delle Memorie del sopraccitato Andreini25, della Rivoluzione 23 Nella Miscellanea di notizie troviamo p.e. le seguenti annotazioni di Mariani: alla fine della vita di San Severo: “Tutto ciò ricavato da me Mattia Mariani cesenate dal compendio della vita del santo stampato in Cesena 1771” (p. 9), di quella di Caterina Sforza: “Ricavato dalla di lei vita scritta dall’abate Antonio Burrièl sacerdote spagnolo, stampata a Bologna 1795” (p. 24), di quella di Cesare Borgia: “Dalle altre cose di quest’uomo storno (sic) piene le storie di quel tempo, oltre alla sua vita scritta da Tommasi Tommaso” (p. 31), di quella di san Nicola da Tolentino: “Tutto ciò tolto dalla sua vita scritta compendiosamente dal p. m. Domenico Lippici priore agostiniano in Roma. Stampata nella stessa città 1790” (p. 49). E ancora, a chiusura delle notizie su Gregorio IX: “Ved. Le vite de’ pontefici del Platina pag. 165” (p. 55); al termine della storia dell’orologio: “In un libro ho letto quanto segue e lo trascrivo” (p. 121). Il sacco dei Bretoni è “Estratto dalla Cronica senese di Neri di Donato, riportata dal Muratori Rer. Ital. Tom. XV pag. 252” (p. 131). 24 Sempre nella Miscellanea leggiamo infatti: “Come ritrovo nelle Memorie intorno l’origine, e propagazione delle famiglie illustri di Cesena, la di Lui [i.e. l’arcidiacono della Cattedrale Francesco Ghini] famiglia è originaria di Siena… Alcuni anni dopo vennegli conferito l’arcidiaconato seconda dignità del nostro Capitolo, che il primo del quale fu Carlo della illustre famiglia Verardi 1430, come ritrovato ho nelle antiche memorie cesenate [sic]. Egli è amico mio, quell’ottimo e buon sacerdote che benignamente e con tanta gentilezza si compiacque di favorirmi con sommo mio piacere a leggere i tomi di Cesena Sacra, scritti dal fu sacerdote don Carlo Antonio Andreini cesenate; dai quali ho ricavato la fondazione di varii monasteri, chiese, parrocchie, e confraternite di questa città; con eziandio altre notizie etc.” (cc. 200v-201v). 25 Il canonico Carlo Antonio Andreini (1746-1817) lasciò una quarantina di volumi manoscritti contenenti la storia civile ed ecclesiastica di Cesena. Cfr. N. TROVANELLI, Effemeridi cesenati, “Il Cittadino”, 22 luglio 1894; L. BAGNOLI, Don Carlo Andreini cronista cesenate, “Ravennatensia”, VII (Atti del convegno di Parma, 1976), Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 1979, pp. 275-283; P. ERRANI-A. FAEDI, Schede di ecclesiografia cesenate. Dai manoscritti della collocazione 164 della Biblioteca Malatestiana, in Storia della Chiesa di Cesena, II, a cura di M. MENGOZZI, Cesena, Stilgraf, 1998, pp. 471-519; P. G. FABBRI, Le cronache cesenati, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2004, pp. 411-452, in part. pp. 434-442.


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italiana di Don Domenico Nori26 e del Giornale di Mauro Guidi27, dei cronisti cioè che si trovarono a vivere e a descrivere nelle loro opere il tumultuoso periodo che vide la dominazione francese e il governo napoleonico e che si concluse con la Restaurazione. Dal 1814 prende infatti l’avvio della narrazione del Mariani, che si rivela un attento testimone dei fatti del periodo del Risorgimento, fino alla II guerra d’Indipendenza e alla vigilia dell’Unità d’Italia. Come è stato di recente sottolineato, la sua posizione di domestico in una delle famiglie più importanti della città lo mise nella condizione di “spettatore privilegiato” delle vicende politiche cesenati, in grado di narrare avvenimenti di cui aveva informazioni di prima mano28. Il già citato Trovanelli giudicò la cronaca del Mariani “opera di grandissimo valore… veramente singolare, data l’umile condizione dello scrivente: è capitalissima per la rivoluzione del 1831 e per il periodo del 1846-49”29. Oltre alla narrazione degli avvenimenti storici più notevoli, le pagine della cronaca sono occupate dalla descrizione delle feste religiose, processioni, messe solenni, da cui spesso prendono l’avvio digressioni sull’origine e la fondazione delle chiese, sul culto e la venerazione di alcuni santi. Altrettanto messe in risalto sono le feste civili, soprattutto gli spettacoli teatrali. La cronaca degli anni 1831 e 1848 presta particolare attenzione alle vicende politiche: per il 1831 sono interessanti le pagine in cui Mariani parla del nuovo governo provvisorio costituitosi a Cesena in seguito ai moti scoppiati nello Stato Pontificio, della partenza di duecentocinquanta cesenati che andavano ad unirsi all’avanguardia dell’Armata Nazionale, e dell’arrivo in città di Eduardo Fabbri, liberato dalla prigionia. Al 1848 Mariani dedica un intero tomo, in cui la narrazione delle vicende locali è necessariamente legata a quelle di portata nazionale. 26 Domenico Pasquale Nori (1765-1824) fu parroco della chiesa di San Bartolomeo. Cfr. P. ERRANI-A. FAEDI, Schede di ecclesiografia cesenate cit. 27 Mauro Guidi (1761-1829), architetto, oltre a numerosi atlanti di disegni e progetti, lasciò una cronaca manoscritta in quattro volumi, Il giornale, che tratta gli avvenimenti cesenati dal 1781 al 1829. Cfr. N. TROVANELLI, Effemeridi cesenati, “Il Cittadino”, 26 maggio 1907; P. G. FABBRI, Le cronache cesenati cit., pp. 446-452; Mauro Guidi tra utopia e realtà (1761-1829), a cura di M. GORI, D. SAVOIA, Cesena, 2006. 28

Cfr. P. G. FABBRI, Le cronache cesenati cit., p. 446.

29

N. TROVANELLI, Storia di Cesena. Lezione I, “Il Cittadino”, 5 aprile 1903.


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Qual è la posizione politica del Mariani di fronte a tali avvenimenti? Secondo il Trovanelli, che mostra di conoscere bene l’opera del cuoco cronista, “il Mariani è un buon cattolico, devoto al papa anche politicamente; ma la generosità del cuore lo porta a simpatizzare con la rivoluzione, tanto più che il suo ultimo padrone, il conte Masini, era stato anch’egli prigioniero politico a Civita Castellana, e che fu poi deputato di Cesena al parlamento pontificio. Quando il papa abbandona la causa liberale, egli sta col primo; ma non ha ire e molto meno calunnie contro i patrioti, come qualche altro cronista clericale”30. Alla descrizione degli eventi politici si alterna la rappresentazione della vita a Cesena nei suoi aspetti quotidiani, nei suoi luoghi caratteristici come le piazze, i vicoli, le botteghe, le osterie, spesso sfondo di vicende delittuose, furti, ferimenti, omicidi. Molta “cronaca nera”, dunque, di cui sono protagonisti persone del popolo, ma anche narrazione delle varie attività di questi popolani, che ci restituisce un quadro assai vivo della Cesena del primo Ottocento31. Un ulteriore motivo di interesse presente nella cronaca è costituito dalle notazioni relative al clima, all’andamento delle stagioni, alla quantità dei raccolti32. 30

Cfr. N. TROVANELLI, Un modesto centenario cit.

Interessantissima a questo proposito la seconda parte del volume di P.G. FABBRI, Artigiani, botteghe, osterie e locande. Ricerche sui luoghi del lavoro a Cesena nei secoli XV-XIX, Cesena, Società di Studi Romagnoli, 2001 (“Saggi e repertori, 28”), dove l’Autore si rifà alle cronache del Mariani per la ricostruzione della vita quotidiana a Cesena nella prima metà del XIX secolo [cfr. in particolare i capp. I (Da una cronaca dell’Ottocento. 1832-1840. Fatti di sangue, artigiani e ritrovi pubblici, pp. 157-172) e V (Vita di un cuoco. Un salto indietro: l’età napoleonica, pp. 221-233)]. 31

32 Per esempio, nella Miscellanea, si legge, riferito al giugno 1855: “Non vi ho detto niente nella mia gita della bella messe della campagna: bellissimo osservai essere il grano, così pure nel suo essere presente il formentone, unitamente ai fagioli; dimostrano le vite grande abbondanza di uva, come pure vedensi bellissima fiorita negli olivi, ubertoso spero il raccolto: quello che si vede brutta è la canepa in generale. Dei frutti specialmente le cerase non ve [sic] memoria di tanta quantità; così pure gli erbagi massimamente piselli, carciofoli, fave, ed insalate, ma queste come sapete poco vengono mangiate per paura del colera”(cc. 207v-208r). E nel tomo IV delle [Cronache]: “Descrizione dell’andamento del 1848. L’inverno andò con neve e geli a sufficienza. La primavera fu bella ma mancante di pioggie e per via di ciò i fieni non furono molti. I bachi da seta fruttarono poco, i boccioli si vendettero sotto al nostro pavajone al più baj.


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Dove e quando scriveva Mariani? Forse in cucina, senza dubbio nei momenti liberi dalla sua attività di cuoco: possiamo immaginarcelo sulla scorta di ciò che lui stesso annota, in una delle ultime pagine della sua Miscellanea: “Dopo pranzo mi sono messo in cucina mia residenza onde sciroppare quelle già notovi fravole [= fragole], e nello stesso tempo mi sono messo a scrivere alcune cose nella mia Cronaca, in compagnia solo d’una domestica gattina”33.

13. La mietitura si cominciò verso li 17 e li 18 giugno, riuscendo il grano non molto in abbondanza, si vendette sulla nostra piazza a pavoli 35, 36, 37 e 38 allo staio. L’estate andò assai asciutto, e calorosa, e per due volte per ottenere la pioggia pregarono e scoprirono le immagini di Maria Santissima, fra le quali la Madonna del Popolo e del Monte… Il raccolto del formentone ed altri marzatelli sono pittato pochi stante la mancanza di pioggia. Quello della canapa fu poco ma di buona qualità… Prima della metà di settembre si udirono alcuni crolli di terremoto, fece burrasca in mare, si udì il tuono e si sentiva freddo, stante la neve che si vedeva sulle alte montagne…” (cc. 194-195). 33

BCM, 164.55, c. 208v.


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Mattia Mariani, cuoco, cronista APPENDICE I

Manoscritti di Mattia Mariani conservati presso la Biblioteca comunale Malatestiana I manoscritti sono riportati secondo l’ordine dell’attuale collocazione. Di ciascuno di essi si danno il titolo trascritto per esteso (se il ms. è anepigrafo, il titolo è posto tra parentesi quadre), la data (se non è presente nel ms. ma è desumibile viene riportata tra parentesi quadre; se è incerta è tra quadre, seguita da punto interrogativo), la materia [i mss. Mariani sono cartacei (cart.)], il formato (espresso in millimetri), la consistenza (numero delle pagine o carte ed eventuali allegati), la scrittura (con autogr. si indica se il testo è di mano dell’autore), la legatura. Segue una descrizione abbastanza dettagliata degli allegati. Sono poi segnalati gli eventuali restauri subiti dalla legatura e le collocazioni precedenti. Si specifica con una nota contrassegnata da asterisco se esiste un’altra numerazione e di quale tipo, rispetto a quella indicata nella consistenza. Infine si indica brevemente il contenuto del manoscritto.

164.54 [Cronache cesenati] [1838?-1857?] Cart.; 5 v.; autogr.; leg. in pergamena su piatti di cartone, dorso e punte in pelle. 1: Libro primo di diverse notizie antiche e moderne della città di Cesena, e di varii fatti più rimarchevoli accaduti dall’anno 1814 a tutto l’anno 1838 nella stessa città scritti da me Mattia Mariani nativo della medesima. 278x196 mm; I, 349 c., I’* + 5 tav. Tit. delle tavole: - [Pianta della città di Cesena con l’indicazione di tutte le chiese], 1 disegno (667x475 mm); - SASSI, SEBASTIANO, [Veduta di Cesena], 1 disegno acquerellato, 1775 (259x642 mm); - NICOLETTI, FRANCESCO-PETROSCHI, GIOVANNI, Tabula potamographica exhibens cursum fluminis Rubiconis, 1 incisione (386x521 mm); - PETROSCHI, GIOVANNI, Tabula corographica continens tractum Romandiolae a Ravenna usque ad Ariminum, 1 incisione (371x440 mm); - [Pianta della città di Cesena], 1 disegno acquerellato (740x523 mm). Nel vol. sono legati 10 bandi e avvisi e 2 opuscoli, che si riferiscono agli avvenimenti di volta in volta descritti dal Mariani, e un’incisione. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974.


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Collocazioni precedenti: 139.213; 29.91. * La cartulazione, moderna, a matita, comprende anche gli inserti a stampa. Esiste una numerazione originale per pagine in più sequenze. Nelle prime sessanta carte sono riportate notizie generali sulla città (origine del nome, forma della pianta, dimensioni, monumenti), l’elenco dei vicariati, delle parrocchie, dei monasteri, chiese, oratori soppressi e atterrati durante l’occupazione francese e di quelli ancora esistenti nel 1834, l’elenco dei vescovi cesenati fino al 1838, il repertorio dei palazzi e degli edifici più notevoli della città. Dalla c. 61 in poi si ha la cronaca degli avvenimenti cesenati, a partire dal 1814, svolta in forma annalistica. 2: Libro secondo in cui io Mattia Mariani vado notando i fatti più rimarchevoli che accadranno nella città di Cesena mia patria… cominciando dal principio del 1839 mentre io suddetto serviva in qualità di cuoco nella nobil casa dell’illustrissimo signor conte Giulio Della Massa Masini… 279x200 mm; II, p. 1-258, cc. 259-287], I’ c.* Nel vol. sono presenti 31 allegati fra bandi, avvisi, opuscoli, componimenti a stampa, locandine di teatro, che si riferiscono agli avvenimenti di volta in volta descritti dal Mariani. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974. Collocazione precedente: 139.213. * Le pp. 1-158 sono numerate dal Mariani, le cc. 259-287 hanno una numerazione moderna, a matita. Le cc. 271r-283v contengono l’indice di mano del Mariani. Viene trattata la storia di Cesena per gli anni 1839-1840. 3: 1841 libro terzo. Sotto il pontificato del sommo pontefice Gregorio XVI…diedi principio al terzo libro dei fatti più rimarchevoli che accadono nella mia patria di Cesena, negli anni seguenti 1841, 1842, 1843, 1844, 1845, 1846, 1847. Mattia Mariani scrissi. 283x210 mm; III, 488, [48] p.* Nel vol. sono presenti un centinaio di allegati fra bandi, avvisi, opuscoli, componimenti a stampa, locandine di teatro che si riferiscono agli avvenimenti di volta in volta descritti dal Mariani. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974. Collocazione precedente: 139.213.


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* Esiste una numerazione moderna a matita da 1 a 354. Viene trattata la storia di Cesena per gli anni 1841-1847. 4: Libro quarto 1848… dove io Mattia Mariani vado scrivendo i fatti più rimarchevoli che accadono giornalmente in questa mia patria Cesena, cominciando il primo dell’anno bisestile 1848; coll’aggiungervi in questo libro alcune notizie di altre città. 280x240 mm; II, [231] p. + 61 fogli a stampa* Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974. Collocazione precedente: 139.213. * Esiste una numerazione originale per pagine da 1 a 195. Sono trattati gli avvenimenti accaduti a Cesena e in altre città nel 1848. 5: Libro quinto dove io Mattia Mariani vado segnando giornalmente i fatti più rimarchevoli che accadono in questa mia patria di Cesena, con alcune notizie di altre città etc., protestando che ciò lo faccio per mio puro diversivo, non che mi tenga letterato. 273x195 mm; 229 c. + 49 fogli a stampa* pp. 1-219: [Cronaca degli anni 1849-1853]. pp. 220-229: Appendice al libro presente di alcuni fatti accaduti in questa città volti dal mio giornale del 1854. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974. Collocazione precedente: 139.213. * A questa numerazione originale ne segue una moderna, per carte, fino a c. 317. Viene trattata la storia di Cesena per gli anni 1849-1853, a cui segue il resoconto di alcuni avvenimenti degli anni 1855-1857. 164.55 Miscellanea o diverse notizie e memorie di me Mattia Mariani cesenate 1854 Cart.; 280x220 mm; III c., 106 p., cc. 107-214, I’ c.*; autogr.; leg. in pergamena, su piatti di cartone, dorso e punte in pelle. p. 1-c. 135r: [Miscellanea di notizie]. cc. 136r-195v: Descrizione di tutte le chiese di Cesena. In alleg. due numeri di periodici, due ritagli da gazzette. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974.


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Collocazione precedente: 139.213 bis. * Si è riportata la numerazione moderna, effettuata per pagine e poi per carte. Vi sono due numerazioni di mano del Mariani, una da p. 1 a 66 e da p. 107 a p. 158 nella prima parte dell’opera, l’altra da p. 1 a p. 101 nella seconda parte. Nella prima parte sono riportati diversi avvenimenti della storia antica e moderna, senza un ordine particolare, dati geografici, statistiche della popolazione; nella seconda si danno brevi notizie storiche e la descrizione delle chiese, conventi, oratori, ospedali e luoghi pii esistenti a Cesena prima della venuta dei Francesi nel 1796. Le cc. 196r-202r contengono la descrizione della villeggiatura che Mariani fece a Bulgaria insieme alla sua padrona nel 1854, in forma di lettera “a un amico”, datata “Cesena, la primavera del 1855”. Ad essa fa seguito un’altra lettera, datata “Cesena, 8 giugno 1855”, con la descrizione di ciò che accadde durante l’assenza della padrona dall’8 al 14 giugno (cc. 203r-210r). 164.56 Relazione del viaggio fatto alla Casa Santa di Loreto 1826 [1826?] Cart.; 273x201 mm; I, [6], 31, [8] p. + 3 incisioni e un foglio a stampa; autogr.; leg. in carta marmorizzata, su piatti di cartone, dorso in pelle. Le [8] p. finali contengono: Alcune notizie dell’origine della S. Casa di Loreto, sottoscritte Cesena, 5 gennaro 1838, Mattia Mariani. Alleg.: - Rittratto del SS.mo Crocefisso che si venera nella Parrocchiale di S. Zenone in Cesena, 1 incisione (272x197 mm); - FEDERICO SARTORI, Spaccato, o sia interno di Santa Casa, 1 incisione (258x364 mm); - Facciata della basilica Loretana, 1 incisione (263x175 mm); - A monsignore Francesco Spalletti vicario generale di Cesena che in qualità di sacro oratore ha seguito li confratelli della Pia Unione del Santissimo Crocifisso di San Zenone nel devoto pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto in attestato di indelebile gratitudine e per ringraziamento li priori della medesima OO.DD.CC. il seguente sonetto (inc.: Alto Signor, che libero tuonasti), Cesena, Costantino Bisazia, 1826. Collocazione precedente: 139.236. Si tratta della relazione del pellegrinaggio compiuto dalla Compagnia del SS. Crocifisso di San Zenone a Loreto nel maggio 1826.


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164.57 Descrizione della nascita di me, Mattia Mariani, e mia vita e impieghi [post 1858] Cart.; 273x240 mm; I, 26, I’ c. (bianche le cc. 14-26); autogr.; leg. in carta marmorizzata, su piatti di cartone, dorso in pelle. Tra le cc. 8 e 9 è inserito un f. ms. con l’Inventario degli oggetti esistenti nella cucina li 31 agosto 1835. Giulio Masini (460x330 mm). Collocazione precedente: 139.227. 164.58 Cenni storici sulle vite dei due sommi pontefici Pio VI, e Pio VII cesenati. E con quelli della vita di Pio VIII Castiglioni [post. 1830] Cart.; 293x220 mm; I, 22, II’ c. + 5 manifesti e 3 opuscoli; autogr.; leg. in carta marmorizzata, su cartone, dorso in pelle; sul piatto ant. etichetta cart. con tit. ms.: Mariani. Cenni storici sulle vite dei pontefici Pio VI, Pio VII e Pio VIII. A c. 1v sono incollati due foglietti mss., uno di mano di Domenico Cantoni (Cesena, sec. XIX), l’altro di mano di Gioacchino Sassi (Cesena, 1811-1880), che certificano rispettivamente il battesimo di Pio VI e la cresima di Pio VII. A c. 2r è incollato un foglietto con appunti di Mariani per ricerche sulla vita di Pio VI. A c. 15v è incollato un foglietto ms., di mano di Domenico Cantoni, che certifica il battesimo di Pio VII. Fra le cc. 2 e 3: - [In occasione di un triduo di ringraziamento alla Madonna del Popolo per l’elezione al soglio pontificio di Gianangelo Braschi], Cesena, Gregorio Biasini, 1775, 1 f. a stampa. - Dilectis in Cristo filiis Conservatoribus civitatis Caesenae patriae nostrae Pius VI salutem, et apostolicam benedictionem…dato dal palazzo nostro Vaticano li 15 febbraio 1775. [2] c.; 27 cm; - Supplemento agli avvisi sulle feste fattesi nella città di Spoleto in occasione della gloriosa elezione del sommo pontefice papa Pio VI dalla nobilissima famiglia Loccatelli, Martorelli, Orsini [s.n.t.]. [2] c.; 27 cm; fra le cc. 3 e 4: LUIGI VALENTI GONZAGA, [Per proteggere i proprietari di terreni nel territorio cesenate ], in Ravenna, 7 dicembre 1782, 1 f. a stampa; incollata alla c. 20r: LUIGI BANZO, “Auxilium Christianorum ora pro nobis”. Pio VII di Cesena in ringraziamento alla Vergine per i favori rice-


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vuti nell’illustre sua cattività, li 24 maggio 1814 ritornato in Roma ne instituì la festa universale sotto il titolo suddetto, 1 incisione (173x116 mm); fra le cc. 20 e 21: - FRANCESCO SAVERIO CASTIGLIONI, Epistola pastoralis ad clerum et populum Caesenatensem, Roma, Francesco Bourlié, 1816. XIII p.; 27 cm; - ERCOLE CONSALVI, [Programma di governo del restaurato Stato Pontificio], Roma, 5 luglio 1815, 1 f. a stampa - STEFFANINI, [L’Austria cede a Pio VII i territori già appartenuti allo Stato della Chiesa], Bologna, 18 luglio 1815, 1 f. a stampa; - ERCOLE CONSALVI, [Si assicura ai possessori la conservazione dei beni acquistati nel periodo della dominazione francese], [Roma] 15 novembre 1817, 1 f. a stampa; fra le cc. 21 e 22: - Discorso pronunciato al Sacro Collegio da sua eccellenza il signor visconte di Chateaubriand. Risposta di sua eminenza reverendissima il sig. cardinale Castiglioni, Forlì, Luigi Bordandini, [18..]. Collocazione precedente: 139.215. Si danno brevi notizie biografiche sui pontefici cesenati Pio VI (17751799) e Pio VII (1800-1823) e sul papa Pio VIII (1829-1830), già vescovo di Cesena dal 1816 al 1822. 164.59 Cenni storici sulla vita di Napoleone Buonaparte 1843 Cart.; 282x210 mm; I, 11, I’ c.; autogr.; leg. in carta marmorizzata su piatti di cartone, dorso in pelle; sul piatto ant. etichetta cartacea con tit. ms.: Mariani M. Cenni storici sulla vita di Napoleone I. A c. 2 è stata incollata una cornice cartacea decorata che racchiude nello spazio bianco centrale una nota di mano del Mariani: Compendio della storia di Napoleone Buonaparte fatto nel 1843. Alle cc. 8 e 9r è trascritta l’ode di A. Manzoni, 5 maggio. Alle cc. 9v11 è trascritta la Legge relativa alla traslazione degli avanzi mortali dell’imperatore. Fra le cc. 2 e 3: Storia di Napoleone colle nozioni sulla traslazione delle ceneri dall’isola di S. Elena a Parigi, Perugia, Santucci, 1845. 15 p.; 25 cm. Fra le cc. 7 e 8: - Funerali dell’imperatore Napoleone. Relazione officiale della traslazione delle sue spoglie mortali da Sant’Elena a Parigi. Gabinetto eseguito sulle incisioni di celebri artisti parigini, Fano, Giovanni Lana, 1842. [4] c.; 20 cm. - [Resoconto della battaglia di Lipsia], “Notizie del giorno”, Trieste, 3 novembre 1813, n. 14, 1 f. a stampa.


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- BELLEGARDE, [Proclama agli Italiani dopo la battaglia di Lipsia], Verona, 5 febbraio 1814, 1 f. a stampa. - GIOVANNI BATTISTA RIDOLFI, [Comunicazione dell’occupazione di Parigi da parte delle armate di Russia e Prussia], Ferrara, 12 aprile 1814, 1 f. a stampa. Collocazioni precedenti: 140.221, poi 139.216. 164.60 Dei cenni storici sulla vita e pontificato di Pio IX* Sec. XIX (post 1846) Cart.; 324x215 mm; I, 291, I’ c.**; autogr.; leg. in pergamena, su piatti di cartone, dorso e punte in pelle. In alleg. 10 fogli a stampa contenenti sonetti, canzoni, odi etc., 25 ritagli di giornali, 6 numeri di gazzette e periodici, 16 opuscoli, 11 manifesti. Restaurato nel Laboratorio dell’Abbazia del Monte di Cesena nel 1974. Collocazioni precedenti: 110.21, 139.214. * Il tit. completo è il seguente: Libro dove ho descritto diverse cose. Dei cenni storici sulla vita e pontificato di Pio IX. Con alcuni fatti accaduti in Europa nel corso del medesimo suo pontificato, da me Mattia Mariani notati e tolti da diversi giornali etc. etc. N. B. Diverse carte, poesie, e gazzette riguardanti ai suddetti cenni storici ho formato un fascicolo a parte etc. Tengo ancora presso di me il terzo volume della Raccolta delle leggi e decreti dello Stato Pontificio, stampato in Bologna 1849. Nelle cronache degli almanacchi del 1846-47-48 e 49 esistenti presso di me, si legge diverse cose analoghe come sopra. Anco i decreti del Governo di Roma dal 1° del 1849 a tutto marzo anno suddetto si leggano nelle Gazzette di Bologna, le quali si trovano presso di me e questi sono analoghi ai cenni suddetti. ** Esiste una numerazione moderna a matita per carte, compresi gli inserti a stampa, da 1 a 193. s.s. Cenni biografici del signor conte Giulio Cesare Masini cesenate [post 1853] Cart.; 271x198 mm; III, 30, I’ c.*; autogr.; leg. in carta marmorizzata su piatti di cartone. A c. IIv ritratto a matita del conte Giulio Cesare Masini.


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Alleg.: - Orazione funerale nelle settime del fu conte Vincenzo Masini eruditissimo cavaliere della nostra città di Cesena, ms., [6] cc.; - [Necrologi di Orsola Bertoni e Pietro Masini], ms., [1] c.; - STATO PONTIFICIO, [Licenza per la caccia con l’archibugio], Forlì, 19 maggio 1833; - MASINI, GIULIO CESARE, [Lettera a Gaetano Gaspari], Cesena, 26 giugno 1839; - MASINI, GIULIO CESARE, [Lettera a Gaetano Gaspari], Cesena, 17 settembre 1842; - BERSANI, VALERIO, [Lettera al fratello], Cesena, 23 ottobre 1845; - Estr. da “La gazzetta privilegiata di Bologna”, 23 aprile 1845, n. 47 (contiene l’elogio di Giulio Masini per la messa da lui composta e diretta in occasione della solennità della Madonna del Popolo l’8 aprile 1845); - GIOACHINO DA VERUCCHIO, Compianto, Cesena, G. C. Biasimi, [1853], [2] c. - Stemma della famiglia Masini, 1 disegno a matita (di mano di Mariani?). * Si è riportata la numerazione moderna. È presente una numerazione di mano del Mariani, da p. 1 a p. 56, con salto delle attuali cc. 15 e 16. A una breve biografia di Giulio Masini fanno seguito la trascrizione di alcuni sonetti in morte del conte, a lui dedicati dagli amici, le copie di alcune lettere scritte dal Masini (due dal carcere di Civita Castellana nel 1830, quattro alla moglie Anna Zauli nel 1849, tre alle figlie nel 1852-53) e di due lettere di Sempronio Romagnoli.


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Mattia Mariani, cuoco, cronista APPENDICE II

Descrizione della nascita di me, Mattia Mariani, e mia vita, e impieghi La mia nascita, fu sul primo colle per passare al Santuario di Santa Maria del Monte, sul podere della nobil casa Venturelli, parrocchia di S. Maria della Grazie, detta Ponte Abbadesse, subborghi della città di Cesena. Li 24 febbraro 1802 fu il giorno della mia nascita come si vede nella qui unita fede battesimale. Nell’anno 1810 del mese di giugno fui messo al sacramento della Cresima, vedi l’anessa fede. In questa età mi fu anestato i vajoli, dal medico o chirurgo sig. Galli, come usava in quei tempi. La professione della mia età giovanile, di dieci anni circa, mi esercitai alla campagna, di poi passai per chierico per servir messe, alla suriferita parrocchia, che fu li 4 maggio 1814 in questo tempo comincia a descrivere i fatti più rimarchevoli che accadano in Cesena e in tale occasione dal sig. D. Sante Zani cappellano di detta chiesa, mi diede i principi di leggere, e prosegui sotto alla sua disciplina, per il corso di tre anni. In questo tempo fui amesso al sacramento dell’Eucaristia, dal paroco D. Andrea Teodorani. Il medesimo parroco morì li 25 marzo 1818. Dindi nel 1816 mi venne volontà di battere le scuole pubbliche, per vie più fondarmi, in quelle scienze, che da quei precettori venivano istruiti gli altri giovani; indi fui costretto tralasciare le suddette scuole, e ritornare dal prelodato sacerdote D. Zani, al uffizio di chierico come sopra. Sul finire del 1817 e principio del 1818 ebbi una forte malatia di riscaldamento di sangue per cui mi occorsero varie sanguigne, e viscicanti dal dottor Belletti. Nel corso di questa malatia passò da questa miglior vita il suddetto D. Sante con sommo mio dispiacere, che fu la notte dei 24 settembre anno 1817. Nel tempo che stava amalato il detto sacerdote, essendo io ancora in letto fui dal Rev. Padre Egidio guardiano de’ Capuccini di Cesena confessato, di poi dal Rev. Sig. D. Luigi Baronio mi portò la Santa Comunione, e di li a pochi giorni cominciai a rimettermi in salute, alli 15 gennaro 1818 mi portai ad udire la S. Messa, e poscia tornai alla suddetta parrocchia in qualità di servitore, essendo ecconomo il Sig. D. Pietro Lughi; dal medesimo sacerdote Lughi, dopo che l’ebbe servito per varii mesi, mi presentò un viglietto, nel quale mi licenzava, aducendo non aver più di bisogno di mio servizio. In età di circa anni 16 in cui soggiornava con mia famiglia, giunse casualmente l’arciprete di S. Demetrio, D. Pietro Malatesta, in compagnia


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del Sig. Mariano Biagini di Cesena, per affari, e nel tempo stesso il su riferito arciprete, abbisognandoli il servitore, e osservandomi essere abile per il di lui servizio, mi adimandò se voleva accettare di andare seco lui, ed io risposi ben volontieri, non tostamente andai ma bensì sul finir di marzo, resi personalmente di portarmi il primo aprile 1819, ed in detta giornata fui pronto nell’atto che s’enpartì Silvestro Medri. Il luogo poi di questo mio servizio, è una bellissima collina posta verso il fiume Savio, e la Villa Acquarola, luogo certamente bello per l’orizonte, che vi si scorge, e l’aria sottile che si gode. La chiesa poi bellissima, distante dalla città di Cesena circa tre miglia, adornata di ogni sorta di aredi sacri. La casa parrocchiale posta vecino alla medesima chiesa, guardando tutte le quattro parte del mondo. Nel corso poi del medesimo anno che fu li 28 giugno, mi trovai in dover servire sua eminenza rev. ma il Cardinale vescovo Castiglioni, in occasione di visita. Il medesimo porporato fu poi papa col nome di Pio Ottavo li 31 marzo 1829. Governò soltanto mesi venti. Non avendo io mai veduto il mare, il mio padrone scelse una giornata di libertà, e mi condusse a quella volta del Cesenatico. Nell’anno 1823 tre maggio Monsignor Antonio Maria Cadolini vescovo di Cesena venne in visita alla chiesa del mio padrone, per cui io mi trovai in dover prestarli quei servigi necessari alla sua persona. Li 28 settembre 1823 in compagnia del Sig. Mariano Biagini mi reccai in Ravenna. Alli 7 settembre 1824, mi portai in compagnia di Vincenzo Guidi, alla Repubblica di S. Marino, in tempo di fiera cioè li 8 detto passando per varii castelli, arrivato feci ricerca d’una mia zia per nome Annunziata Sintucci, maritata in casa Richi speziale di detto paese, in cui la ritrovai indisposta di salute, con tutto ciò fui benignamente accolto dai parenti, i quali mi fecero mille attenzioni, e dopo che ebbi terminato le mie facende in fiera presi congedo dalla suddetta zia, e partii per casa, dopo aver vedute le rarità di quella Repubblica. Sul principio del mese di aprile del 1826, intesi come nel giorno sei maggio dell’istesso anno, un’unione di persone devote del SS.mo Crocifisso che si venera nella chiesa priorale di S. Zenone di Cesena, si portavano in pio pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto, io bramoso di fare simile viaggio cercai modo di potermi fare inserire nell’elenco degl’altri confratelli che fui subito accolto non solo fra questi, ma bensì per quello che doveveva [sic] agire in porre il manto al Cristo allorché si doveva inalberare. Prima però dimandai il permesso al mio padrone il quale sentendo la mia volontà benignemente mi concesse la libertà di andar pure a far tal viaggio. Nel giorno poi 5 maggio m’incaminai verso a Cesena, per poscia par-


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tire la mattina seguente tutti uniti confratelli. La mattina adunque sei detto si radunammo tutti uniti nella chiesa di S. Pietro fuori di Porta Romana dove eravi la Sacra Immagine incassata portata processionalmente la sera scorsa con gran pompa, intraprendessimo il Sacro Pellegrinaggio verso le ore sei e mezza, in numero d’uomini sessantacinque compresi fra questi dodici sacerdoti, e due chierici, con Monsignor Francesco Spalletti vicario generale della Diocesi, e predicatore di detta Unione; e giugnemmo alla città santa alle ore una e mezza del giorno 10 detto senza lesione alcuna del Sacro convoglio, e facemmo ritorno alla Patria, ed io agli amplessi del mio padrone nel dì 16 suddetto terza festa di Pentecoste con incontro magnifico. Non mancai io perciò di notare tutto ciò che sucesse per il viaggio; e tutte le funzioni che si fecero, e ne feci una circostenzata descrizione. Fui molto contento di fare simil viaggio, non solo in vedere i belli incontri, e funzioni che facevano quei popoli al Divino Pellegrino Gesù Crocifisso, ma in vedere ancora le belle città, cioè di Rimini, Pesaro, Fano, Sinigallia, Ancona, Osimo, e la Città santa, ed altri paesetti. In ogni città cercava modo di potere vedere le rarità di esse specialmente in Loreto, e non potei girare d’entro detta città con molto mio comodo a mottivo del breve tempo d’un giorno e mezza che si soggiornò, e della continua pioggia. La mattina di martedì 5 febbraio 1828 verso le ore sei e mezza nella chiesa di S. Agostino ora Parrocchia di S. Giovanni Evangelista fui congiunto nel vincolo del S. Matrimonio colla giovane Orsola figlia di Carlo Suzzi, e Angela Domenici di Cesena, dal mio padrone D. Pietro Malatesta arciprete di S. Demetrio in età allora d’anni 86 circa: avendo avuto prima il permesso dal paroco di detta chiesa Sig. D. Agostino Gazzoni. Quindi sposati, ascoltata la S. Messa, e benedetti dal detto mio padrone, alla presenza dei testimoni Filippo Tamberlicchi, e Tommaso Pozziambi di S. Giovanni, partemmo dalla chiesa accompagnati da non molti parenti, ci fermassimo in casa di mia zia Maria Sintucci ove era preparato caffè per tutti i convitati: ivi a mezzo giorno era preparato piccolo pranzo ordinato da me, in cui desinò in nostra compagnia il mio padrone, ed ambi i genitori di noi con altri parenti, e varii amici; dopo pranzo passeggiassimo il corso, e poscia ritornati a casa, da molti miei amici professori di varii istromenti ci fu fatta una lunga, e bellissima sinfonia, fino alle ore undici pomeridiane. Non per questo però tralasciai allora di prestare il servizio al mio padrone dopo aver affidato la mia consorte in mano della suddetta mia zia. Ma riconoscendo che mi era di troppo peso il mantenerla in tal luogo, risolvei pro bono pacis di ritirarla in una camera del mio padrone in Cesena, nel giorno 21 marzo 1828.


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Per varie circostanze dovetti abbandonare cotal padrone D. Pietro Malatesta, e ricercarne un altro in città; per cui avendo io saputo che il sig. Giuseppe Mazzola cercava un domestico, mi presentai dal medesimo la sera 9 settembre anno come sopra, il quale vedutomi, e conosciuto abile al di lui servizio, e combinato per il salario, mi disse, sarei andato al suo servizio il primo ottobre anno corrente. Avuto dunque parola dal suddetto sig. Mazzola, tostamente presi congedo dal mio padrone, dopo averlo servito per lo spazio di anni dieci, il quale sapendo le mie circostanze mi diede buona licenza benché li dispiacesse la mia partenza, facendomi un buon servizio del tenor seguente. S. Demetrio 10 settembre 1828. Certifico a chiunque, a lode della verità, che Mattia Mariani avendomi per il corso di anni dieci circa servito in qualità domestico, non mi ha mai dato mottivo di disgusto, che anzi l’ho trovato fedele, premuroso, onesto, rispettoso, e capace in qualunque servizio, per cui mi è sommamente rincresciuto che sia da me partito, essendo io rimasto dolentissimo. In fede D. Pietro arciprete Malatesta affermo quanto sopra. Nel giorno due ottobre anno detto il nuovo mio padrone volle mi portassi secolui, e suo figlio Emanuele alla città di Cervia, e quindi in Ravenna. Li 9 detto mi portai nuovamente coi suddetti a Cervia, passando per la volta del Cesenatico. La mattina delli 28 marzo 1829 morì il Sig. Giuseppe Mazzola con assai disturbo della famiglia ove serviva. Fu duopo che io con altri tre portassi sulle proprie spalle il suo cadavere, tanto alla chiesa di S. Zenone sua parrocchia per farci il funerale, che al trasporto al Campo Santo ove fu sepolto nella catecomba del sig. Pietro Pasini. Morto il sig. Giuseppe restò erede il figlio Emanuele, ammogliato colla signora Maddelena Raggazzini, per cui seguitai io a prestare servizio ai medesimi. Avvenne che nella nostra città furono carcerati varii signori, ed altre persone cesenate si dissero per affari politici fra ai quali fu nel numero anche il mio padrone Sig. Emanuele. La notte dei 24 giugno 1829 fu la notte in cui venne levato dagli amplessi della sua consorte, e tradotto nelle carceri di Forlì, qual fosse poi il disturbo della famiglia lascio giudicarlo ognuno da se medesimo. Nel tempo che stava carcerato il mio padrone Sig. Emanuele, il Sig. arciprete di S. Demetrio mio primo padrone soprafittò la di lui casa posta in Cesena ove godeva due stanze io e mia moglie, fu duopo quindi ne trovassi altre due in casa di Antonio Fiumana posta per la contrada o vicolo Talamello guardando colle finestre per la via del Suffraggio, pagando una pigione di scudi 7 annualmente: e il primo di settembre anno 1829 mi trasportai in detta casa.


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La mattina dei 9 ottobre 1830 intesi con sommo mio dispiacere la morte del primo mio padrone Sig. Arciprete D. Pietro Malatesta, avvenuta in S. Demetrio sua residenza improvvisamente la sera 8 detto in età circa di anni 88. Dopo una carcerazione di circa mesi sedici finalmente il mio padrone Sig. Emanuele fu posto in libertà; e il giorno 11 ottobre 1830 fu il giorno in cui ribraciò la sua moglie, i suoi figli, e tutta la sua famiglia. Il primo agosto del 1831 cambiai servizio, passando da casa Mazzoli, in casa Brighi Fanzaresi sig. Paolo. La mattina 8 novembre 1831 ebbi dai miei fratelli la trista notizia della perdita di mia madre Teodora Sintucci, morta la notte scorsa, dopo pochi giorni di malatia, in età circa di anni 68. La mattina 9 detto fu sepolta nella chiesa arcipretale di San Tommaso apostolo diocesi della nostra città. Dopo quindici giorni della morte di mia madre il dì 19 novembre morì anche mio padre di nome Domenico Antonio Mariani figlio del fu Pietro, e della fu Maddalena Pollini, in età circa di anni 73. Era stato pochi giorni prima della sua morte (già amalato) portato dalla posidenza ove abitava innallora con sua famiglia in Maranino nell’Osservanza, e fu per questo che vennegli fatto il funerale nella chiesa dell’Osservanza ora parrocchia del Ponte delle Abbadesse, e poscia trasportato al Campo Santo, ed ivi sepolto all’area degli uomini al n. 1457 della fossata n. 14 seconda... Il primo maggio 1832 tornai a prestare servigio in casa Mazzoli. Nel mese di novembre anno detto avendo i miei padroni saputo che in Bologna eravi buona opera in musica, e brava prima donna Madama Malibran, risolvettero di andarla ad udire; ed io fui destinato andare seco loro, e nella mattina di sabato 24 detto s’intraprese il viaggio, e si giunse in quella città di Bologna la sera di detto giorno verso le ore cinque, e mezza felicemente. La mattina dei 25 detto mi recai a girare varie contrade e piazze della città suddetta per cui molto mi sorprese la magnificenza della medesima, specialmente la grandezza del sacro tempio di S. Petronio, l’altezza delle due torri, i larghi e lunghi portici, i ricchi negozi, ed altri edifizi. Li 26 detto mi recai a vedere la Certosa o Campo santo di quella città, che molto mi piacquero i sepolcri di quel cimitero. Si tornò alla patria li 29 detto e si giunse Cesena verso le ore una di notte, senza lesione alcuna. Gli ultimi giorni di Carnevale del 1833 i miei padroni deliberarono di farli questi in altra città, per cui quella di Pesaro scielsero, per esservi nella medesima una sua parente, e partissimo per quella città li 15 febbraio, e tornassimo alla patria la sera del giorno primo di Quaresima 20 detto, senza ci accadesse nulla di sinistro, tanto nell’andare, che nel tornare. La mattina 30 giugno 1833 verso le ore otto, e mezza la mia padrona signora Maddalena Ragazzini ne’ Mazzoli partorì un putto maschio, fu


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battezzato nella chiesa di S. Zenone dal paroco della cattedrale D. Bianchi, e li posero i nomi di Giuseppe Pietro e Paolo, il padrino fu il sig. Antonio Mazzoli fratello del putto nato, allora di anni sette. Li 25 settembre 1833 morì la signora Marta Ragazzini nata Campadelli, ava della mia padrone, onde io in compagnia d’altri tre servitori convennomi portarla sulle spalle, tanto al deposito la sera 26 detto alla sua parrocchia di Boccaquattro, che al Campo santo la mattina seguente. Il dì 14 maggio 1834 morì in mia casa Giovanni Suzzi mio nipote in età di anni 5 mesi 9 e giorni 16. Venne portato al Campo santo e sepolto. La notte dei 25 venendo li 26 settembre 1834 morì il sig. Pietro Pasini alias Capotto zio materno dei miei padroni, tanto la sera per portarlo in deposito alla sua parrocchia di S. Zenone, e il dopo pranzo del dì seguente al Campo santo mi convenne portarlo in compagnia d’altri tre servitori portarlo sulle mie spalle. Sul principio del 1835 presi in affitto due stanze in casa del signor Valente Montalti, ed ivi andetti ad abitare con mia moglie il primo gennaro, per cui pagava di pigione scudi sei all’anno. Sulla metà di agosto 1835 lascia il servizio Mazzoli, e presi quello dell’illustrissimo signor conte Giulio Masini in qualità di cuoco nel giorno primo settembre anno suddetto. Sul principio di ottobre anno detto venni ad abitare con mia moglie nella casa di proprietà del mio padrone, posta nel vicolo de’ Gatti al n° civico 321. Questo signor conte unico della nobilissima famiglia Masini di Cesena ammogliato nel 1833 il dì 18 gennaio colla nobile signora contessa Anna Zauli di Faenza, dopo dieci mesi circa dal suo matrimonio la contessa gli partorì un putto imponendoli nome Pietro, ma prima che giungesse a compire dieciotto mesi circa e pochi giorni che l’avevano levato da balia morì nel suo palazzo con sommo dolore di tutti; fu sepolto al Campo santo. La progenie di questa famiglia come si trova nella sua genealogia viene dal Piemonte, che il primo scoperto trapianto delle sue radice in queste contrade fu Fabbrizio I°, il quale viveva circa l’anno 1340. Ha sempre prodotti uomini illustri, e di singolare giudizio, non solo celebri in lettere, ma in armi ancora eccelenti; fra questi Nardo bravo condottiere di squadre nel 1490. Giacomo II° di questo nome, che nel 1500 fu per la Repubblica di Venezia capitano di cavalaria e servì il duca di Urbino, ed il marchese di Ferrara, e Filos, che si distinse nel 1570 in servizio della Santa Sede, e della Repubblica di Venezia. Anche il mio padrone merita di essere posto fra questi tali suoi antenati, oltre di essere signore di talento e letterato e adotato eziandio di conoscere a fondo la musica, per cui nei giorni 25 e 26 luglio 1836 battè la messa composta da lui medesimo in


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Longiano, che poteva stare a petto ad altri professori di simile scienza, come asserivano molti di ciò intendenti. L’illustrissima mia padrona la sera 21 aprile 1836 partorì una putta, e gli posero al battesimo nome Orsola Carolina Maria. La medesima mia padrona la mattina 30 aprile anno 1838 alle ore quattro partorì di nuovo un’altra putta. Fu battezzata nella cattedrale dal paroco Bianchi imponendoli i nomi di Giovanna, Adele, Maria e Catterina. Io fui il padrino, e la Geltrude Castagnoli donna di servizio in detta casa fu la madrina. La suddetta mia padrona sulle ore undici pomeridiane dei 5 novembre 1840 diede alla luce una terza putta, fu battezzata nella cattedrale dal paroco D. Bianchi, imponendoli i nomi di Elisabetta, Maria Teresa Clarice. Li 20 maggio 1842 mia moglie si portò a S. Angelo in Vado, in compagnia del fattore Mauro Ravaglia, l’ex arciprete don Buda, e con altre donne; ritornò li 24 detto felicemente. Sui primi di maggio 1843 feci amicizia col signor Tommaso Pizzi cesenate suonatore di violino, e diletante di poesia, il quale sapendo che io notava i fatti che accadono in Cesena mi dedicò i seguenti versi: Li sucessi presenti, e li passati Son da Mattia Marian tutti notati. Mattia che registra tutti i fatti Alberga nello viottolo de’ Gatti. Tutti i fatti che nascon nel paese Tu li fai saper a proprie spese. La storia, che tu imprendi a trattare Col corso d’anni s’andrà aprezzare. Fra la classe de’ cuochi sei stimato Il mio caro storiografo garbato. E morto che sarai avrai gl’onori Non comuni agl’altri servitori. Avendogli poi fatto palese per mezzo d’una lettera scritogli da me, i miei pochi studi etc. ei mi fece in risposta i seguenti versi. Con quei principi così mal fondati Restan tutti di te maravigliati; e stupiscon ch’un uom di cucina possa avere in sé tanta dottrina. Nei primi giorni di giugno anno suddetto il signor Pizzi intese che il mio padrone stava poco bene, compose il seguente epigramma.


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La malatia del conte Masini Ha disturbato tutti i cittadini E Mattia però suo servitore Ne sente più degl’altri gran dolore. Sulle ore 4 e mezza pomeridiane del giorno 15 luglio 1843 partorì la quarta putta la mia padrona. Fu battezzata dal canonico curato D. Bianchi nella capella della Madonna del Popolo, e li posero i nomi di Verginia, Maria, Adele e Luigia. La mattina di lunedì 4 settembre anno suddetto mia moglie si portò in Firenze, in compagnia di Geltrude Pizzoccheri, e suo nipote Ercole; ella ritornò felicemente li 11 suddetto. Li 26 agosto 1844 mia moglie si portò in Sarsina e ritornò li 31 detto. Il giorno 11 giugno 1847 morì mio fratello Luigi. Il giorno 20 settembre 1847 i miei padroni partirono per Ancona conducendo in monastero la loro figlia signorina Orsola. Il riverito mio signor padrone conte Giulio Masini fu scelto dalla Provincia di Forlì per uno della Deputazione per andare ad ossequiare il S. Padre papa Pio IX in Gaeta, in compagnia del signor conte Pietro Guerrini di Forlì, il quale partiva dalla sua casa la mattina di domenica 12 agosto 1849. Il medesimo scriveva alla di lui consorte per la prima volta da Firenze in data 15 detto, quindi scriveva alla medesima li 18 detto da Livorno, poi da Roma li 22, da Terracina li 24, da Gaeta li 30, ove diceva di aver avuto udienza dal Papa nel giorno stesso, e di essere stato accolto benignamente da Sua Santità. In data dei 3 settembre tornò a scrivere come sopra da Napoli, come pure scrisse dalla stessa città li 6 e li 10 detto, e finalmente la mattina di domenica 16 settembre 1849 fece il suo ritorno sano e salvo: raccontando di aver veduto delle bellissime cose, tanto delle rarità di quella capitale e tanto dell’arrivo del sommo pontefice Pio IX da Gaeta a Napoli nella villa reale di Portici, della gran festa li 8 detto della madonna di Piedigrotta, e della veduta dell’andata della corte di Napoli in gran folla in detto luogo etc. Raccontò eziandio che nel tempo che stette in Napoli egli si recò a vedere i scavi della città pompeiana. Il giorno di mercoledì 7 novembre 1849 i miei padroni partirono per Ancona conducendo in monastero la seconda figlia Giovannina. 1851. Il mio padrone fu fatto gonfaloniere come fu nel 1842 della sua patria di Cesena. 1852. La mattina delli 23 giugno partirono i miei padroni alla volta di Rimini per condurre la loro terza figlia Elisabetta nel monastero di Ancona.


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1853. Il padrone nel principio di detto anno ebbe da Roma la provazione della rinuncia da Gonfaloniere, stante la malatia d’una gamba, etc. 22 marzo 1853. Morì la madre di mia moglie. 1853. Morte del mio padrone. Dopo una lunga malatia di maligno morbo in una gamba di circa 9 mesi moriva la mattina alle ore undici e mezza di mercoledì 20 luglio anno suddetto tra i conforti di nostra religione, assistito dal canonico curato della cattedrale il molto reverendo signor D. Paolo Bentini sino all’ultimo respiro del viver suo il signor conte Giulio Masini. La mattina delli 21 detto fu portato il suo corpo fatto cadavere nella chiesa cattedrale sua parrocchia; le furono fatte le funzioni ecclesiastiche e nel dopo pranzo del dì detto venne trasportato al Campo santo ed ivi sepolto nella sepoltura di sua famiglia. Era nato li 3 agosto 1800 dal conte Pietro della Massa Masini e dalla signora contessa Orsola Bertoni di Faenza, unico avanzo di tredici loro figli. Io Mattia Mariani lo serviva in qualità da cuoco sino dal primo settembre 1835. La perdita del suddetto amatissimo buon padrone fu per me a dire il vero la più grande del mondo che non mi scorderò giammai. In seguito poi descrissi comunque siasi composta la di lui biografia, letta dalla mia signora, e da altre persone. Nell’autunno del 1853 feci con la mia signora contessa Anna Zauli Masini e le di lei due figlie Giovannina e Verginia una villeggiatura di tre mesi nel suo casino di Bulgaria, partendo da Cesena li 24 agosto 1853 tornando in città li 21 novembre, di cui io descrissi un ragguaglio ad un mio amico sulla medesima villeggiatura, etc. Vedi il medesimo presso di me, come pure vedi presso di me la biografia del padrone conte Giulio Masini. 1854. Come rilevasi da un giornaletto scritto da me Mattia Mariani sul principio di giugno 1854, la mia signora contessa Anna Zauli Masini condusse nel monastero di S. Pallazzio (?) in Ancona la quarta ed ultima di lei figlia Verginia, e condusse a casa la più grande signora Orsola, che giunse la sera delli 20 giugno. Il giorno 3 ottobre anno suddetto partii colle mie signore per la villeggiatura di Bulgaria, e si tornò in città il sabato 25 novembre in seguito poi ne descrissi una lettera di ragguaglio ad un mio amico dandogli notizia di tutto ciò che successe per corso di tal villeggiatura. 1855. In quest’anno si partì per la villeggiatura di Bulgaria il venerdì 28 settembre. Avendo col signor dottore di medicina e letterato Gommi certa servitù ed amicizia per cui mi comandava a fargli qualche piatto, scrivendomi alcuni biglietti i quali sono qui uniti scritti di suo proprio pugno; il mede-


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simo moriva il 23 gennaro 1856 con sommo mio dispiacere, e veniva sepolto al Campo santo etc. 1858. Il venerdÏ 16 aprile 1858 moriva il padre di mia moglie Carlo Suzzi, nato li 4 novembre 1782. Alcune lettere e biglietti scrittomi da persone etc. Giulio Masini Inventario degli oggetti esistenti nella cucina li 31 agosto 1835 Paiuolo attaccato alla catena, n. 1; girarrosto, n. 1; padelle, n. 2; treppiedi rotondo per le medesime, n. 1; idem triangolari, n. 2; graticole, n. 2; spiedi grandi, n. 2; idem piccoli, n. 3; capifuochi, n. 2; paletta grande, n. 1; molle piccole paja, n. 1; coperchio del forno - di ferro, n. 1; forno, cosÏ detto, di campagna, n. 1; cazzaruole di diversa grandezza col coperchio, n. 12; pesciera o casseruola per il pesce con coperchio, n. 1; marmite di rame, n. 2; leccarda, n. 1; catinella di rame con manichi di ferro, n. 1; piatti da pasticcio - di rame, n. 3; idem piÚ piccolo, n. 1; tegghie di rame - piccola e grande, n. 2; padelle di rame da fornello per gli umidi – senza coperchio, n. 2; piatti di rame da cuocer uova, n. 2; stampi da budino grandi, n. 3; idem piccolo, n. 1; piccoli stampi da paste di rame e latta, n. 25; stadera, n. 1; porta schiumaroli di latta, n. 1; sgummarelli, n. 2; ramine o schiumarole, n. 3; cucchiarone di rame, n. 1; forchettoni, n. 2; mezzaluna per il battuto, n. 1; falcione, n. 1; coltelli da tagliolini, n. 2; idem di diversa grandezza, n. 4; piccola grattugia pei limoni, n. 1; sciringa, n. 1; stampi per la medesima, n. 4; stampo di latta a guglia, n. 1; stampi di latta da paste, n. 6; idem senza fondo, n. 2; idem grande senza fondo, n. 1; zocca per pestar carne ed altro, n. 1; mortaro con pistello, n. 1; ferri per i passatini, n. 2; stampo di legno per i cappelletti, n. 1; piccolo vaso di rame con manico per tirare la fiocca, n. 1; piccolo stampo da umido od altro, n. 1; assotigliatore grande da sfoglia, n. 1; idem piccoli, n. 2; setacci, n. 2; setaccino, n. 1; cassetta per la farina onde infarinare il pesce, n. 1; piccolo vaglio pel medesimo uso, n. 1; altro idem pel toliere, n. 1; toliere a ribalta, n. 1; grattacacio, n. 1; batti-lardo, n. 1; piccola pala di legno per la minestra, n. 1; cassetta di latta per le droghe, n. 1; altro setaccio, n. 1; idem piccolo, n. 1; cattinella di terra, n. 1; catini idem, n. 2; pignatte di diversa grandezza, n. 5; altra piÚ grande, n. 1; marmitta di rame con coperchio, n. 1; recipiente di latta con trepiedi di ferro per scolare il fritto, n. 1. G. Masini NOTA. Le ultime due righe sono cancellate con un tratto di penna.

Paola Errani


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Zeffirino Re Zeffirino Re, nato nel 1782, figlio di orefici, fu seminarista fino allo studio della retorica, studiò filosofia in quelle scuole municipali chiamate università, poi fece pratica di notaria. Parlare e scrivere furono dunque le sue attività caratteristiche. Si potrebbe considerare come prima opera l’orazione che egli recitò per i funerali del fratello del papa Chiaramonti. Fu amico del Giordani e di Eduardo Fabbri. Nel 1805 sotto il regno italico fu segretario del viceprefetto di Cesena Pietro Brighenti. Caduto l’impero napoleonico cercò cattedra, ma invano. Dovette accontentarsi di uffici governativi: fu segretario della delegazione del governo austriaco e poi del commissario pontificio a Cesena ed a Faenza, segretario del comune di Roversano, cancelliere a Santarcangelo, a Filottrano, a Cingoli e a Loreto. Non superò mai questi gradi professionali che si potrebbero classificare medio-alti. Nonostante gli impegni pubblici non dimenticò mai i suoi interessi storico-letterari. A venticinque anni sposò la cesenate Santa Buda. Una figlia morì giovane. I suoi interesse di ricercatore e studioso furono Petrarca, Cola di Rienzo, la poesia epigrammatica e la filologia. La storia del 1347 di un Cola di Rienzo che tentò di riformare il governo romano fu unica nel suo genere in quell’epoca. Il biografo C. Giannini dice, forse esagerando, che Cola desiderava “riformare tutta Italia all’obbedienza di Roma”. La storia fu raccontata da un certo Lietto Petrone contemporaneo di Cola. Fu pubblicata a Bracciano nel ’600, poi corretta dal Muratori e inserita nella monumentale Rerum Italicarum Scriptores. Zeffirino Re ne avrebbe corretto una che in seguito pubblicò a Forlì nel 18281. Fu anche traduttore dell’opera del IV secolo di Aurelio Prudenzio Clemente di Saragozza di cui tradusse la seconda parte dell’Enchyridion. Imitò Valerio Catullo dall’epitalamio di Giulia e Manlio. Tradusse le satire di Giovenale che corredò di lunghe note esplicative. Alla morte dell’amico e maestro Cesare Montalti scrisse una canzone sulla sua vita e un’al-

1 Scelse dalla Cronica di Anonimo la vita di Cola. Il I capitolo di Re corrisponde al XVIII capitolo di Anonimo (Cronaca). Pubblicò una seconda edizione a Firenze nel 1854, presso Le Monnier.


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tra in occasione del primo Parlamento Italiano. Scrisse anche un volumetto di epigrammi, ristampato con aggiunte2. Non erano però queste le opere su cui voleva fondare la propria vita di studioso3. Fece domanda per essere nominato segretario comunale a Cesena ed arrivò terzo. Si trasferì quindi a Fermo nel 1837 e lì rimase fino alla morte nel 1864. Fu cancelliere nel Tribunale civile e penale di Fermo; fu preside del locale liceo classico e scrisse un lavoro storico teso a dimostrare la cittadinanza di Lucio Celio Lattanzio Firmiano: nacque a Fermo e morì a Treviri. Un grande interesse di Zeffirino Re fu la vita e l’opera di Petrarca. Studiò l’iconografia di Laura fino a dimostrare che forse il disegno del viso di Laura lasciatoci in incisione da Raffaele Morghen aveva la fonte in ritratti di Memmo. La poesia petrarchesca Spirto gentil negò che fosse diretta a Stefano Colonna sostenendo che invece Petrarca la indirizzò a Cola di Rienzo. Lo scritto I biografi del Petrarca si conclude con il ragionamento che è un’analisi commentata dei principali argomenti petrarcheschi, tra cui, sempre Laura e Cola di Rienzo4. Il saggio è del 1859 e Zeffirino Re vi amplia uno 2 Dall’edizione Udine 1830: Epigramma IV: “Lamenti di un medico. Duolsi il medico Albin che biasimato / Io l’abbia senza averlo ancor provato. / Se provato l’avessi, o sommi Dei, / Come mai biasimare ora il potrei?”. Epigramma VIII: “Epigrammi pieni di sale. Degli epigrammi tuoi vidi, o Pasquale, / I libri in mano al salumier; or dimmi: / Chi opporre a te potrà che non han sale?”. Epigramma X: “Medico avverso al suono delle campane. Delle campane al suon ti sdegni, o Ismeno? / Non far ricette, e suoneran di meno.” Epigramma XXVI: “Nuovo comento sulla storia di Orfeo e di Euridice. Quando il tracio Cantor dall’atre soglie / Ottenne di condur seco la moglie, / Narrasi che, pensando all’error fatto, / Pentito si rivolse e ruppe il patto”. Epigramma LXIV: “Per una traduzione di epigrammi tolti in origine dal francese. In gallica favella, Aulo, tu vuoi / Volgere in brieve gli epigrammi tuoi? / Sì presto, e sì mal conci, Aulo scortese, / Hai cuor di rimandarli al lor paese?”. Epigramma XCIX: “Epitafio fatto in vita dallo stesso defunto: “Poiché previde Ismen, che ad alcun patto / Dir del bene di lui nessun vorria, / Ei da sé stesso il suo pitafio ha fatto”. 3 Vi sono tuttavia tre sue cc. autografe, nelle quali Zeffirino Re faceva la storia dell’epigramma, e fanno pensare, insieme alle altre carte mss. che seguono, al progetto editoriale di un’antologia degli epigrammi. 4 L’elenco dei biografi del Petrarca è il seguente: Domenico Aretino, Coluccio Salutati, Filippo Villani, Pier Paolo Vergerio, Sicco Polenton, Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, Antonio da Tempo, Bernardo Lupini, Francesco Filelfo, Girolamo Squarciafico, Alessandro Vellutello, Fausto da Longiano, Silvano da Venafro, Lelio de’ Lelli, Giovanni Andrea Gesualdo, Bernardino Daniello, Luigi Beccadelli, Vita di Petrarca pubblicata nel Canzoniere di Giovanni de Tournes, Vita Anonima stampata nel Canzoniere a cura di Guglielmo Rovillio, Filippo Maldeghen, Andreas Schröder, Jacopo Fi-


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studio del 1855 Sulla canzone del Petrarca “Spirto gentil”. Considerando che Zeffirino Re morì nel 1864, il Ragionamento può considerarsi l’ultima e più grande sua opera, in cui spiccano le doti di erudizione e di logica dell’Autore. Fu pure cultore di studi religiosi come si vede nella traduzione della seconda parte dell’Enchyridion di Aurelio Prudenzio di Saragozza. Il titolo del libro di Prudenzio è Enchyridion del Nuovo Testamento (1858). Si tratta di 24 brevi poesie dedicate al conte F. Benotti che raccontano il Nuovo Testamento5. Scrisse un poemetto in due canti, Il Bersaglio (1863). È la storia di Guglielmo Tell con l’episodio più famoso: il pomo posto sulla testa del figlio, come prova estrema. Giannini ci ricorda (1869) che di Zeffirino Re resta non pubblicata la novella Il conte Onio, piacevole racconto. Per bene interpretare l’opera di Zeffirino Re, non è inutile ricordare che il Giannini inizia la sua biografia con Inf. XXVI, vv. 118-120: Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza.

Così lo vediamo scrivere una poesia in occasione della morte di don Cesare Montalti, personaggio a suo tempo scomodo (ed. Fermo 1841):

lippo Tommasini, Placido Catanusi, Lodovico Antonio Muratori, Pier Antonio Serassi, Giuseppe Bimard barone de la Bastie, Luigi Bandini, Donatien-Alphonse-François Sade, Girolamo Tiraboschi, Abate Arnaud, Giovan Battista Baldelli Boni, Federigo Cavriani, Pierre-Louis Ginguené, Abate Costaing de Pusignan, Abate Antonio Marsand, Abate Ambrogio Levati, Carlo Biolchi, Abate Giulio Cesare Parolari, Carlo Leoni. Le precise e secche quartine di Prudenzio diventano spesso sestine e anche ottave. Ciò per salvare il contenuto dell’opera di Prudenzio. I titoli della composizione di Prudenzio seguono il racconto neotestamentario e sono: Gabriele – Maria; Cristo nasce; I doni dei Magi; I pastori avvisati dagli Angeli; Eccidio degli infanti in Betlemme; Cristo battezzato nel Giordano; Il pinnacolo del Tempio; L’acqua convertita in vino; La piscina di Siloe; Martirio di Giovanni; Cristo cammina sul mare; I demoni in suina mandria; Cinque mani e due pesci; Lazaro resuscitato; Il campo del sangue; La casa di Caifa; La colonna in cui Cristo fu flagellato; La passione del Salvatore; Il Monte Oliveto; Il martirio di Stefano; La porta speciosa; Visione di Pietro; Il vaso di elezione; L'Apocalisse di Giovanni. Questo è il sintetico Evangelo di Prudenzio che tuttavia ci parla anche di un episodio forse conosciuto solo dai biblisti e non dal comune lettore: la porta speciosa. È la porta del Tempio nella quale Pietro guarisce un paralitico. 5


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Alma cortese, / Che mi additasti un giorno / E del bello e del ver la pura luce.

Scrisse anche cenni biografici sull’archeologo Raffaele De Minicis, oltre a una Vita di San Gaugerico. Ci sono anche suoi interventi in riviste e fogli periodici che meriterebbero altre ricerche (come due racconti, Adria figlia di messer Pietro Aretino e Giovanni da San Giovanni in Valdarno, quest’ultimo di chiara ispirazione vasariana). Alcuni segni dei suoi interessi sono nella “novella” in versi, ms., intitolata La giostra di Cesena e nel progetto di un saggio sulla cultura di Fermo e del Piceno in genere. Alcune opere non citate dal Giannini, che però in buona parte abbiamo seguito come unica traccia biografica esistente, sono Canzone ad onore di Pio IX, senza data; Epistola a Severino conte Servanzi Collio; Catalogo di opere ebraiche greche latine e italiane stampate dai celebri tipografi Soncini ne’ secoli XV e XVI, compilato da don Gaetano Zaccaria prete ravennate e raccolte dal Cav. Zeffirino Re cesenate (Fermo 1865). Questa potrebbe essere l’ultima opera di Zeffirino Re, morto l’anno precedente6. Altro breve saggio di qualche rilievo oggi, quanto presumiamo che lo fu a quei tempi, è del 1861 in onore degli sponsali Collio – Boccaccio7. In breve, gli interessi di Zeffirino Re sono spesso sui confini tra tradizione e attualità, insolite e comuni, civiltà occidentale odierna e civiltà antiche. Si ha l’impressione di aver di fronte scritti di un illuminista. La vita di Cola di Rienzo che lui ha reso in “lezione migliore” comprende note così estese quasi a mostrare il suo interesse debordante e una sorte di paternità che elimina l’anonimato dell’Autore. L’epistola in versi al conte Severino Servanzi Collio richiama apertamente la pariniana “caduta” e il misto di note personali e note colte ne fa un piccolo gioiello.

I Soncini erano spesso ebrei convertiti, il carattere delle loro stampe va dalla Bibbia al Talmud. La prima stampa fu quella del Berachòth, le Benedizioni (1484). 6

Esso contiene “l’etimologia e l’origine” delle parole: Imeneo, Sposa, Anello nuziale, Teda, Paraninfo, Talamo, Toro, Coniuge, Dote, Banchetto nuziale, Moglie, Riti nuziali. Questo dizionarietto etimologico è accompagnato da Riti nuziali degli Ebrei, Riti dei Greci, Riti romani. 7


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OPERE DI ZEFFIRINO RE Epigrammi, Bologna, Nobili, 1823; Epigrammi. Seconda edizione con l’aggiunta di Nuovi epigrammi, Milano, Artaria, 1824; Epigrammi. Terza edizione, con l’aggiunta di Nuovi epigrammi, Udine, Fratelli Mattiuzzi, 1830; Epigrammi. Quarta edizione riveduta ed aumentata, Firenze, Borghi, 1834; Epigrammi. Nuova centuria, Loreto, Rossi, 1838; Satire di D. G. Giovenale, tradotte da ZEFIRINO RE cesenate, Padova, Cartallier e Sicca, 1838; In morte del professore Don Cesare Montalti cesenate. Canzone, Fermo, Fratelli Paccasassi, 1841; Epigrammi. Quinta edizione riveduta ed aumentata, Padova, Sicca, 1844; Epigrammi. Nuova centuria, Padova, F. A. Sicca e figlio, 1847; Per le solenni feste celebrate in Fermo ad onore di Pio IX. Canzone, Fermo, Gaetano Paccasassi, s. d.; Epistola a Severino conte Servanzi Collio, s. d.; La vita di Cola di Rienzo, tribuno del popolo romano, scritta da incerto autore nel secolo XIV, ridotta a migliore lezione, ed illustrata con note ed osservazioni storico-critiche, Firenze, Le Monnier, 1854; Sulla canzone del Petrarca che incomincia “Spirto gentil che quelle membra reggi”. Nuove osservazioni, Fermo, Fratelli Ciferri, 1855; Adria figlia di messer Pietro Aretino. Racconto storico, “Letture di famiglia”, VIII, 36, Firenze 1856, pp. 273-275; Giovanni da San Giovanni in Valdarno, pittore del secolo XVII. Racconto storico, “Letture di famiglia”, IX, 10, Firenze 1857, pp. 73-78; Poesie sacre per le solennità e feste in ciascun giorno dell’anno. I semestre, Fermo, Ciferri, 1856; Poesie sacre per le solennità e feste in ciascun giorno dell’anno. II semestre, Fermo, Ciferri, 1857; Alcune dicerìe etimologiche, Fermo, Fratelli Ciferri, 1857; I ritratti di Madonna Laura, Fermo, Fratelli Ciferri, 1857; Enchiridio del Nuovo Testamento di Aurelio Prudenzio Clemente, tradotto da ZEFIRINO RE, Fermo, Fratelli Ciferri, 1858; Rimino avanti il principio dell’era volgare. Volume I. Dal principio dell’era volgare all’anno MCC. Volume II. Opera del dott. Luigi Tonini, “La enciclopedia contemporanea”, Nuova Serie, II, Fano, Gabrielli, 1858, pp. 9-16; Intorno alla patria alla vita ed alle opere di L. C. Lattanzio Firmiano. Ragionamento, Fermo, Fratelli Ciferri, 1858; Rimino avanti il principio dell’era volgare. Vol. I. Dal principio dell’era volgare all’anno MCC. Volume II. Opera del dott. Luigi Tonini, “La enciclopedia contemporanea: formante un repertorio universale di fatti e notizie importanti”, N. S., II, Fano, Gabrielli, 1858, pp. 9-16; I biografi del Petrarca. Ragionamento, Fermo, Fratelli Ciferri, 1859; Al Parlamento italiano. Canzone, Fermo, Fratelli Ciferri, 1861; Sulla etimologia ed origine di alcune parole relative alle nozze. Per le nozze Giuseppe Servanzi Collio – Laura Narducci Boccaccio, Fermo, Fratelli Ciferri, 1861; Catalogo di opere ebraiche greche latine ed italiane, stampate dai celebri tipografi Soncini ne’ secoli XV e XVI, compilato da Gaetano Zacca-


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ria prete ravennate con brevi notizie storiche degli stessi tipografi, raccolte dal cav. ZEFIRINO RE cesenate, Fermo, Fratelli Ciferri, 1863; Il Bersaglio. Poemetto, Fermo, Fratelli Ciferri, 1863; 150 epigrammi, in Lo spirito di Rossini, Roma, Perino, 1885, pp. 25-64; Volgarizzamento inedito delle odi IV, XI, XXIV, XXX, XLI, e LI di Anacreonte, a complemento dell’Anacreonte tradotto dallo stesso ZEFIRINO R E. Fermo pei tipi del Paccasassi, 1838, Recanati, R. Simboli, 1886. FONTI E BIBLIOGRAFIA ASCe, ASC, 2646, p. 9, 9 marzo 1826. BCM, mss. cesenati, XXV, 165-56; lettere di Zeffirino Re, 4. 3. F. RAFFAELLI, Raccolta di lettere inedite d’illustri italiani del secolo 18.mo, San Severino, Ercolani, 1846; C. GIANNINI, Vita di Zefirino Re cesenate, Cesena, Biasini, 1869; [N. TROVANELLI], Dono del Ministro Finali, “Il Cittadino”, 9 giugno 1889; [N. TROVANELLI], Scritti inediti di Zeffirino Re, “Il Cittadino”, 23 giugno 1889; F. MINECCIA, Tra riforme e rivoluzione. L’economia del Cesenate dalla fine dell’antico regime alla caduta del regno italico, in Storia di Cesena. IV. Ottocento e Novecento. 1 (1797-1859), a cura di A. VARNI, L. LOTTI, B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 1987, p. 368; F. LOLLINI, Bologna, Ferrara, Cesena: i corali del Bessarione tra circuiti umanistici e percorsi di artisti, in Corali miniati del Quattrocento nella Biblioteca Malatestiana, a cura di P. LUCCHI, Milano, Fabbri editori, 1989, p. 27; M. BIONDI, La tradizione della città. Cultura e storia a Cesena e in Romagna nell’Otto e Novecento, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori, 22”), 1995, ad indicem; IDEM, Erudizione e letteratura. “Per Augusto Campana” e altri studi, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori, 24”), 1999, p. 14; M. RIDOLFI, Una “piccola patria” sociabilità culturale e opinione pubblica nel “lungo ottocento”, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 1, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi editore, 2004, p. 71; F. FIORAVANTI, La tipografia cesenate, ibidem, p. 398; M. BIONDI, Il conte Eduardo Fabbri. La patria e le lettere nei commentari di Nazzareno Trovanelli, in Storia di Cesena. VI. Cultura. 2, a cura di B. DRADI MARALDI, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena – Ghigi edi-

tore, 2005, p. 53.

Arnaldo Ceccaroni


Giuseppe Antonio Bagioli

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Giuseppe Antonio Bagioli La Biblioteca Malatestiana di Cesena conserva la partitura di un’opera buffa, databile agli anni ’20 del secolo decimonono, intitolata L’equivoco. Il manoscritto non è anonimo e l’autore compare chiaramente sul frontespizio col nome di Antonio Bagioli. Tutto sarebbe chiaro se fosse esistito un solo compositore con un tale nome. Se non fosse un titolo teatrale assai diffuso all’epoca, si potrebbe anche pensare che l’opera L’equivoco alludesse all’esistenza di due omonimi compositori cesenati, con gli inevitabili scambi di persona di cui il teatro comico si è nutrito per secoli. Ciò che segue è un ulteriore tentativo di dipanare la confusa matassa di informazioni relative ai due omonimi compositori e maestri di cappella cesenati che si son fatti conoscere col nome di Antonio Bagioli. Si seguiranno qui le sole tracce del più talentoso tra i due ovvero Antonio Bagioli figlio di Mauro (Bologna, 17 novembre 1795 – New York, 11 febbraio 1871)1 perché, sebbene di esperienza e spessore musicale più elevato rispetto ad Antonio Bagioli figlio di Luigi (Cesena, 26 settembre 1783 – ivi, 21 agosto 1855), quello ha avuto minori attenzioni dai pochi musicologi che hanno loro dedicato studi biografici. Secondo il Registro Napoleonico2, compilato tra il 1812 ed il 1821, il compositore Giuseppe Antonio Bagioli3 figlio di Mauro, viveva a Cesena da 14 anni al secondo piano di una casa di proprietà di Luigi Gazzoni, situata al numero civico 114 di Contrada Talamello nel rione verde. Nacque a Bologna ed a Cesena viveva con il padre Mauro (nato nel 1767), con la madre Teresa Puglioli di origini bolognesi (nata nel 1770) e con due sorelle: Adelaide (nata nel 1799) e Maria (nata nel 1806). Il padre Mauro era di professione sensale mentre la madre era una negoziante di stoffe. Anche Giuseppe Antonio Bagioli, come il suo omonimo, ebbe probabilmente gli insegnamenti musicali del celebre maestro boloLa data ed il luogo della morte di Giuseppe Antonio Bagioli è di fonte statunitense. Cfr. Edited Appletons Enciclopedia, 2001. 1

2

Famiglia n. 450, in ASCe, ASC, Registro Napoleonico, 2605. 4.

Il nome Giuseppe non compare nel registro napoleonico ed è stato aggiunto in seguito per distinguerlo dal suo omonimo. 3


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gnese padre Mattei perché nel Libro sesto delle fughe a quattro voci da lui composto, conservato manoscritto all’Accademia Filarmonica di Bologna, si legge: «fatte da Antonio Bagioli sotto la direzione del Rev. P.re Stanislao Mattei lì 17 dicembre 1818». Sono cinque composizioni: In gloria Dei in Fa maggiore, Kirie eleison in Do maggiore, In gloria Dei in La minore, una fuga in Si bemolle maggiore ed un’altra fuga in Re maggiore. Frequentò inoltre il Liceo Musicale bolognese, come si evince da alcuni suoi lavori musicali composti per gli “esperimenti” del 1818 e del 1819. Ancora alunno del Liceo Musicale, propose a Bologna nel 1818 un suo Kirie a quattro voci per la festa di Santa Cecilia. Le poche informazioni finora apprese sulle sue prime attività musicali lo descrivono dal 1821 al 1826 al Real Conservatorio di Napoli4 dove fu allievo del famoso maestro Nicola Antonio Zingarelli5. La corrispondenza6 del padre Mauro con Francesco Maria Ferri, priore della Compagnia del SS. Crocifisso di Longiano, conferma che nel 1821 Giuseppe Antonio Bagioli era a Napoli e che si stava prospettando un suo coinvolgimento per le feste musicali longianesi che si svolgevano il 25 luglio di ogni anno e dove abitualmente venivano eseguiti vespri, messa ed oratorio7. Il maestro di cappella era disponibile a presentare per il 1822 sue composizioni inedite ma poi si preferì far eseguire un oratorio sacro di Simone Mayr. Tra i maestri di cappella invitati ad esibirsi a Longiano il nome di Antonio Bagioli compare negli anni 1807, 1829, 1838 e 1839, ma in tutti questi casi – diversamente da quanto affermato da me in 4 “Giuseppe Antonio Bagioli di Cesena di anni 31 [nel 1826] dimorante da 6 anni nel Regio Conservatorio di Napoli”, in L. BRAMANTE, La Cappella Musicale del Duomo di Urbino, Roma, Ed. Psalterium, 1933, p. 193.

“La musica è del Sig. G. A. Baggioli maestro di cappella alunno del celebre Sig. Maestro Zingarelli direttore del Real collegio di musica”, in Il figlio bandito, Napoli, Tipografia Flautina, 1824, p. 3. “La musica è del maestro Sig. G. A. Bagioli, allievo del celebre maestro Zingarelli”, in Odda e Polusko, Napoli, Tipografia Flautina, 1826, p. 3. 5

6 Lettere del 6, 20, 23, 25 ottobre 1821, in APBMC, B 5/Y. 87, Festa del SS. Crocifisso, 1821. 7 Cfr. F. DELL’AMORE, Le feste musicali longianesi secc. XVIII-XIX, in Il crocifisso di Longiano. Fulcro di Fede e di Arte, a cura di C. RIVA, Cesena, Stilgraf, 1992, pp. 231-342.


Giuseppe Antonio Bagioli

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altri saggi8 – si tratta di Antonio Bagioli figlio di Luigi attivo a Cesena. Nel 1824 compose le musiche del melodramma Il figlio bandito, su testi di Giuseppe Checcherini rappresentato nell’autunno a Napoli al Teatro Nuovo sopra Toledo. L’interesse ed il gradimento della musica di Bagioli sono dimostrati dalla pubblicazione di alcune riduzioni, per pianoforte e voci, di arie tratte da quell’opera. Sono conservate le parti a stampa del duetto Ah se chiudete in petto che venne ridotto per pianoforte da Andrea Leonhardt ed eseguito – come indicato sul frontespizio – “dalla signora Pepe e dal signor Zilioli”. Così come venne edita la preghiera Se pietoso ho giusto Dio tratta sempre dall’opera Il figlio bandito e cantata dalla Pepe con accompagnamento di pianoforte. Nell’agosto dello stesso anno progettò di passare da Cesena per poi trasferirsi a Milano e Venezia dove era stato chiamato a presentare sue composizioni9. A Napoli, nello stesso Teatro Nuovo, propose nella primavera del 1826 un suo melodramma semiserio in tre atti intitolato Odda e Polusko, sempre su libretto di Checcherini. Verso la metà del giugno 1826 Giuseppe Antonio Bagioli era ancora attivo a Napoli, ma stava raggiungendo Cesena dopo aver trascorso un breve soggiorno a Bologna10. Nella città emiliana, nel novembre del 1826, presentò al Teatro Comunale Il torneo, un suo dramma per musica in due atti interpretato, tra gli altri, dal soprano cesenate Santina Ferlotti. L’opera venne diretta da Giovanni Tadolini, primo violino era Ignazio Parisini e direttore dei cori Filippo Ferrari. Nel libretto a stampa si legge: “opera nuova composta espressamente dal sig. Giuseppe Bagioli mº di Cappella in Bologna”. Non si conosce l’autore dei testi, mentre è nota l’impresa di R. Maffei. Tra le composizioni di carattere sacro – non rilevanti rispetto al resto della sua produzione musicale – compare anche un Tantum ergo per tenore solo ed organo conservato manoscritto nella Biblioteca Capitolare della Cattedrale di Vicenza.

48

Ibidem.

49

Lettere del 4 e 10 agosto 1824, in APBMC, B 5 /Y.92, Musica 1825.

10

Lettera del 13 giugno 1826, in APBMC, B 5/Y.93, Musica, 1826.


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A partire dal 1° gennaio 1829 fino al 6 febbraio 1832 Giuseppe Antonio Bagioli è a Ferrara in qualità di maestro di cappella del duomo e del teatro. La città di Ferrara aveva perduto nel giugno del 1828 il maestro Brizio Petrucci per cui si trovava nella necessità di “provvedere ad un maestro, che alla musica teoretica congiunga l’attitudine alla pratica istruzione non solo del contrappunto, ma ben anco del canto”11. Brizio Petrucci era di origine romagnola ed aveva forti legami con Cesena perché lo si ritrova quale autore delle musiche di un oratorio e di un dramma su testi del cesenate Gian Francesco Fattiboni, rispettivamente del 1769 e del 1771. Nel duomo della città di Ferrara – o chiesa metropolitana come veniva chiamata – il maestro di cappella era tenuto a far eseguire, nell’arco di un anno, vespri e messe cantate in occasione di 34 funzioni religiose dal calendario prefissato ed altre 23 funzioni in occasione delle feste mobili. Per quanto riguardava il Teatro Comunale vi era l’obbligo, imposto dall’impresario, di uno spettacolo nel carnevale e di un altro nella primavera o nell’autunno e per questo impegno il compenso per il maestro di cappella era di scudi 70. A teatro il maestro doveva mettere in scena l’opera ed essere al cembalo per le prime due rappresentazioni, doveva sovrintendere all’istruzione dei cori ed arrangiare gli spartiti quando fosse necessario, con l’esclusione dal dover comporre nuovi brani musicali per i quali avrebbe percepito un compenso appropriato. Ferrara affidava al maestro di cappella, oltre la cura delle musiche al duomo ed al teatro, anche l’istruzione musicale di qualche allievo dell’Orfanotrofio de’ Mendicanti. “Detto orfanatrofio è solito impiegare a quest’oggetto annui scudi 60, a condizione che il maestro dia ogni mese quindici lezioni della durata di un’ora”12. Al mantenimento del maestro di cappella abitualmente partecipavano diverse istituzioni della città, la cappella del duomo, gli orfanotrofi laici e religiosi, il teatro e l’accademia filarmonica, per un totale di 356 scudi annuali ed il maestro poteva usufruire di due mesi di vacanza e recarsi in altre piazze per l’esercizio della sua professione. 11

Lettera del 16 luglio 1828, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.

12

Lettera del 31 luglio 1828, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.


Giuseppe Antonio Bagioli

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Giuseppe Antonio Bagioli non era l’unico candidato all’incarico di maestro di cappella della città di Ferrara. Sono ancora conservate alcune lettere di raccomandazione, fra cui una da Bologna del cardinale Albani, a favore del compositore romano Pietro Persichini, di ottima reputazione. Fu il gonfaloniere di Ferrara a scrivere a Giuseppe Antonio Bagioli, in quel momento residente a Bologna, per concordare le condizioni dell’ingaggio che prevedeva un incarico triennale. Immediata fu l’accettazione del maestro che si trasferì a Ferrara nel dicembre 1828 per poter iniziare la sua attività dal 1° gennaio 1829. Nella corrispondenza ferrarese il nostro si firma Giuseppe Antonio Bagioli, anche se costantemente viene chiamato “Maestro Biagioli”. Non passarono che alcuni mesi ed il maestro si trovò nella condizione di lamentarsi col gonfaloniere per non aver avuto tutti gli incarichi e quindi gli interi compensi promessi. “Io sono pertanto nel caso di porre sotto la sua benigna considerazione che non vidi effettuarvi la speranza che mi era fatta concepire di aver l’insegnamento dell’Orfanatrofio de’ così detti Bastardini, speranza tanto forte, che ella perfino degnossi di assicurarmi per lettera direttami in Bologna, e poi di presenza come mancando quel ramo di mio onorario avrei ottenuto un compenso per altra parte. Ora io sono a rammentare a V. S. questo compenso che mi è assolutamente necessario, poiché col soldo presente ella ben intende non poter io portare il peso di mia convenevole sussistenza, e sostener qui l’incarichi addossati. Conosco quanto ella, e tutti li sg.ri Ferraresi siano umani, e giudici ottimi delle fatiche onorevoli, e vantaggiose alla società, e perciò non diffido del loro ajuto”13. Nonostante le pressioni del gonfaloniere nei confronti dell’arcivescovo da cui dipendeva l’orfanotrofio, Bagioli non vide il supplemento di stipendio connesso all’incarico di istruttore degli allievi “così detti bastardini”, come lui li definiva, e minacciò di abbandonare la città14. In realtà portò a termine il suo incarico triennale e chiese di poter prolungare la sua attività in città15. L’incarico gli 13

Lettera del 4 aprile 1829, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.

14

Lettera del 22 ottobre 1829, ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.

15

Lettera del 10 giugno 1831, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.


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venne prorogato per un anno16 e cioè per tutto il 1832, ma arrivò una grande opportunità per il maestro che esplicitò in una sua ultima lettera alle autorità comunali ferraresi: “Una circostanza ben straordinaria fà che a me sia tolto l’onore di poter proseguire a prestar l’opera mia nella qualità di maestro di musica presso questa Comune poiché sono stato assunto per lo spazio di anni tre nelli Stati Uniti d’America; è mio dovere darlene parte, e la V. E. non sdegnasse che io proponessi un supplemento si compiaccia darmene cenno. La mia partenza sarà (se a Dio piace) appena terminata le trentasei recite d’Opera che si vanno ad eseguire in questo teatro, che sù tal particolare oso rammentare alli V. E. che in vista del contratto da me, e col cessato Sig. Gonfaloniere combinato, mi si appartengono scudi uno, e baj venti per recita... Sarà sempre me perenne la ricordanza deli E. V. e della benignità verso me usata, non che del compatimento per le mie fatiche”17. Giuseppe Antonio Bagioli raggiunse nel 1832 gli Stati Uniti per dirigere, quale maestro al cembalo, la “Giacomo Montresor troupe”, la prima compagnia d’opera italiana arrivata sul suolo Nord Americano18. A testimoniare le vicissitudini della “missione italiana in America” di quella compagnia d’opera resta l’amaro scritto di Lorenzo Da Ponte (1749-1838), Storia della compagnia dell’opera italiana condotta da Giacomo Montresor in America in agosto dell’anno 1832, dato alle stampe nell’anno successivo e da considerare un’appendice alle sue conosciute memorie19. La lettura, nella quale più volte è citato il maestro Giuseppe Antonio Bagioli, è uno spaccato della cruda realtà dell’impresariato artistico – una storia musicale vista da dietro le quinte – e di grande interesse per capire perché e chi ha mosso il primo nugolo di musicisti e cantanti italiani verso il Nuovo Mondo. L’artefice di tutto fu l’ultraottantenne Lorenzo Da Ponte che intravide la necessità culturale ed il possibile 16

Lettera del 1° luglio 1831, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.

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Lettera del 6 febbraio 1832, in ASCFe, Istruzione Pubblica, busta 1, fasc. 3.

L. DA PONTE, Storia della compagnia dell’opera italiana condotta da Giacomo Montresor in America, New York, 1833. 18

19 L. DA PONTE, Memorie di Lorenzo da Ponte da Ceneda scritte da esso, New York, 1823-27.


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successo dell’opera italiana negli Stati Uniti. Per due anni scambiò lente corrispondenze con Giacomo Montresor per accordarsi sulla consistenza numerica ed artistica della compagnia, sulle disponibilità finanziarie e le abitudini degli americani, sul successo economico e la scarsa qualità delle opere francesi che circolavano in quel paese, sul vestiario e le partiture musicali da trarre dall’Italia. All’inizio del 1832 Da Ponte mandò il vascello Varsavia dei fratelli Heksher a Livorno per imbarcare la compagnia, ma questa fu pronta solo alla fine di maggio e non riuscì a partire. L’attesa delusa del librettista mozartiano gli fece dire: “Tanto New York che Filadelfia vi aspettano, come gli ebrei aspettano il Messia”. Altre delusioni gli vennero dai comitati per l’opera italiana di New York e Filadelfia che, diversamente da quanto promesso, riuscirono a raccogliere cifre molto al di sotto delle previsioni, rispettivamente 4.500 e 1550 piastre. La troupe sbarcò in America nell’agosto del 1832 con 53 artisti, un numero più che raddoppiato rispetto la ventina prevista dagli accordi e con un costo per il solo viaggio di 3.500 piastre. C’era già da mettersi le mani nei capelli e l’ardito ottantenne imprecò: “E se, invece di scritturar tanti soggetti, che potean rimaner a Bologna e a Verona a mangiar tortellini e gnocchi ed a ber del buon vino a sei soldi al boccale, col tranquillo guadagno de’ loro rispettivi talenti, non avesse impegnato in numero e in merito se non i pochi descritti da me”. Lorenzo Da Ponte poi – questa volta nelle parti di un personaggio non suo ovvero Pantalone pagatutto – riuscì parzialmente a sistemare le cose e gli spettacoli ebbero inizio nel gennaio 1833. Vennero programmate 35 rappresentazioni a New York e 18 a Filadelfia con sufficiente successo di pubblico20. Nonostante i consigli e l’intraprendenza spesi dal più conosciuto italiano a New York, questi venne messo da parte per volere soprattutto del cantante buffo Ernesto Orlandi, occulto direttore della compagnia con il quale Lorenzo Da Ponte ebbe vari contrasti. 20 Cfr. Americal Premiers of Bellini’s, Lesser-Known Operas, Cropsey Opera Quarterly, 2001, 17, pp. 435-450; Public Music Performances in New York City from 1800 to 1850, Delmer D. Rogers, E.T.S. Annuario Interamericano de Investigacion Musical, VI, 1970, pp. 5-500; K. K. PRESTON, Opera on the road: travelling opera troupes in the United States, 1825-60, Urbana, University of Illinois, Illinois Press, 1993.


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Il nostro Bagioli sembra essere figura di secondo piano nelle questioni organizzative nonostante avesse la fiducia di Da Ponte che lo voleva in un triumvirato direttivo costituito da se stesso, l’Orlandi ed appunto il maestro. Oltre ad essere “singolarmente ammirato” sia come direttore d’orchestra sia come compositore, Bagioli è ricordato da Lorenzo Da Ponte perché a Filadelfia, dove condivideva l’albergo, nei momenti di massimo sconforto fu, assieme a L. Gardenghi, l’unico a confortarlo delle pene sofferte e così Da Ponte scrisse: “Testimoni de’ miei dolorissimi casi, non poteron mirarli senza un pietoso dolore, e corsero volontari ad offrirmi conforti, ch’io con riconoscenza accettai dalle lor mani amichevoli e che furono di gran sollievo al mio cuore, non tanto perché opportuni al momento, quanto pel piacere inesplicabile di vedere in questi due carissimi amici che la razza dei buoni non è affatto estinta in Italia”. La conclusione di questa esperienza la trasse lo stesso Da Ponte, che attribuì l’enorme deficit finanziario – nonostante il discreto successo di pubblico – all’impresario Montresor ed alle aspettative degli artisti. Errori fatali commessi: “per non aver seguiti i consigli miei, dall’aver fissati salari eccessivi, senza conoscere il carattere, i costumi e i mezzi che somministrerebbe un paese ancor giovane in tutto, e specialmente nella conoscenza della lingua e della musica italiana”. Alcuni hanno scritto che maestro del coro di quella compagnia era un certo Piero Maroncelli (Forlì, 21 novembre 1795 – New York, 1° agosto 1846), compagno di Silvio Pellico, appena uscito (1830) dalle segrete austriache dello Spielberg. Ciò non corrisponde a verità. In realtà Maroncelli diresse solo i cori nelle rappresentazioni del nuovo teatro italiano gestito dalla compagnia Rivafinoli, l’Italian Opera House, sorto a New York tra Leonard e Church Street (Lower West Side) ed inaugurato il 18 novembre 1833. Piero Maroncelli raggiunse New York in quello stesso anno, assieme alla moglie Amalia Schneider, cantante lirica sposata a Parigi l’anno prima. Anche Maroncelli frequentò il Conservatorio Musicale di Napoli, ma non ebbe occasione di conoscere colà il nostro Giuseppe Antonio Bagioli perché nel 1813 il patriottico romagnolo venne espulso dal Conservatorio per aver fondato una società segreta detta della “Colonna Armonica”. Dopo un paio di stagioni d’opera il


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lussuoso teatro italiano di New York fu messo all’asta per le sopraggiunte difficoltà economiche. Fu l’occasione per Lorenzo Da Ponte – infaticabile ambasciatore della cultura italiana in America – per scrivere un’accorata lettera ai “Signori americani ch’aman le belle arti e sopra tutto la musica” perché non venisse distrutta “la più bell’opera, il più bello ornamento della vostra città”. In quella lettera cita ed esprime ancora il suo apprezzamento per il maestro Giuseppe Antonio Bagioli con le seguenti parole: “Affidate a lui (Rocca) il vostro teatro; egli avrà per consiglieri, per cooperatori il bravo e onorato Bagioli, e avrà me”21. Dopo una stagione – come si è visto – piena di delusioni e perdite finanziarie – la compagnia Montresor si trasferì a L’Avana (Cuba), mentre Bagioli rimase a New York dove si stabilì come insegnante ottenendo, così è stato scritto, una notorietà superiore ad ogni altro professore di musica. Oltre ad insegnare, si dedicò prontamente a scrivere metodi per apprendere la musica e soprattutto la prassi vocale. È della fine degli Anni Trenta il Bagioli’s New method of singing; si tratta di un metodo di canto con 12 solfeggi per due voci e pianoforte. Seguirono altri metodi, stampati tra il 1833 ed il 1867, utili ad eseguire ed apprendere l’arte del canto. La notorietà come maestro di canto è avvallata dalla pubblicazione nel 1852 di suoi metodi in un’antologia di solfeggi e vocalizzi assieme ad altri pregevoli autori come Auguste-Mathieu Panseron, Ferdinando Päer, Alexis de Garaudé, Peter von Winter ed altri22. Vennero anche pubblicati arrangiamenti e riduzioni per pianoforte realizzati da Bagioli come il duetto Deh senti pietà23 ed il rondò Della Gioja e del Piacere24 entrambi composti da Vincenzo 21 F. DURANTE, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880, I, Milano, Mondadori, 2001, p. 190. 22 B. F. BAKER and L. H. SOUTHARD, A complete method for the formation & cultivation of the voice. Illustrated by numerous & comprehensive examples and solfeggios from works of Panseron, Päer, Garaudé, Bagioli, Winter, and others, Boston, E. H. Wade, 1852. 23 Deh senti pietà. Duetto from the opera of Elisa e Claudio by Vincenzo Bellini. Arr. For the piano-forte by Antonio Bagioli, New York, M. Bancroft, s.d. 24 Della Gioja e del Piacere. Rondo composed by Bellini. Introduced in the opera of Elisa e Claudio by Signora A. Pedrotti. Arranged for the piano forte by Sig.r A. Bagioli, New York, Dubois & Stodart, s.d.


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Bellini e presentati in occasione della rappresentazione dell’opera Elisa e Claudio di Saverio Mercadante. Tra le riduzioni per pianoforte si trova anche la cavatina Nel fior degli anni miei di Gaetano Donizetti tratta dall’opera L’ajo nell’imbarazzo25. Come Lorenzo Da Ponte, che sperimentò nel Nuovo Mondo ogni sorta d’impresa, l’intraprendenza americana contagiò anche Giuseppe Antonio Bagioli facendogli assumere per di più il ruolo di editore musicale. Nel 1855 circa, a New York, il suo nome compare quale editore del libretto del melodramma Chiara di Rosemberg, musicato da Luigi Ricci26. Nella stessa città pubblica composizioni di Gaetano Donizetti: l’arietta A mezza notte27, l’aria Pas d’autre amour que toi!28, una cavatina dall’opera Adelia29 e Dio clemente ah mi perdona30. Pubblica inoltre il rondò Come frenar il pianto31 di Giovanni Pacini e L’aurora d’Italia32 di A. de Beauplan. Bagioli non solo insegna e pubblica, ma continua anche la sua attività di compositore, non più di opere destinate ad essere rappresentate come avvenne in Italia, ma più immediate e forse più richieste arie e canzoni per solisti ed organico ridottissimo. Compone e pubblica a proprio nome nel 1857 un’Ave Maria per voce e organo (o pianoforte) dedicata alla sua allieva Henrietta Behrand33. L’indirizzo dell’editore che compare sulla copertina della partitura corrisponde all’84 East 15th, forse anche l’abitazione newyorchese del compositore. Un’altra Ave Maria venne pubblicata nel 1866 e dedicata ad un’altra allieva: S. Anna Vail. Questa vol-

25 G. DONIZETTI, Nel fior degli anni miei, cavatina dall’opera L’ajo nell’imbarazzo, New York, S. T. Gordon, s.d. 26 L. RICCI, Chiara di Rosemberg, New York, A. Bagioli, ca. 1855 (New York State Library, SCO11716). 27

G. DONIZETTI, A mezza notte. Arietta, New York, A. Bagioli, s.d.

28 ID.,

Pas d’autre amour que toi! Mélodie/paroles de Emile Barateau. Musique de G. Donizetti, New York, A. Bagioli, s.d. 29 ID.,

Cavatina dall’opera “Adelia”, New York, A. Bagioli, s.d.

30 ID.,

Dio clemente ah mi perdona, New York, Bagioli, 1840 c.

31

G. PACINI, Come frenar il pianto, New York, A. Bagioli, 1857 c.

32

A. DE BEAUPLAN, L’aurora d’Italia, New York, A. Bagioli, 1845.

33

Ave Maria. Composed and dedicated to his pupil Miss Henrietta Behrand by Antonio Bagioli, New York, Published by A. Bagioli, s.d.


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ta l’indirizzo delle edizioni A. Bagioli è collocato al 43 West 32nd. Un altro paio di composizioni di carattere religioso di Giuseppe Antonio Bagioli furono pubblicate da editori diversi nel 1864 dai titoli: Prayer for two or more voices e l’inno Come Holy Spirit. Sempre nel 1864 pubblica il metodo di studio One Hour of Daily Study for the Acquirement of a Correct Pronunciation of the Vowels, which is the only Method to become a Perfect Vocalist che è destinato, come esplicitamente indicato nel titolo, ai cantanti che intendono perfezionare la corretta pronuncia delle vocali nel canto operistico. La sua integrazione nella società americana è attestata dalla pubblicazione attorno al 1862 di una canzone patriottica intitolata The American standard e dedicata alla bandiera americana, all’epoca con 24 stelle. Il titolo della composizione è seguito da una frase tratta dalla Dichiarazione di Indipendenza, stampata nel 1776 da John Dunlap. L’anno 1862 è storico per la Old Glory (vecchia gloria) ovvero l’affettuoso nome dato alla bandiera americana dal capitano William Driver che per la prima volta la fece sventolare a bordo della brigantina Charles Doggett, che tra l’altro raccolse anche gli ammutinati del Bounty. La storia in breve è la seguente. Nel 1837 William Driver si ritirò a Nashville portando con sé Old Glory. Durante la guerra civile, quando lo stato del Tennessee si staccò dall’Unione, i ribelli cercarono caparbiamente ma inutilmente la bandiera-simbolo per distruggerla. Il capitano l’aveva ben nascosta. Nel febbraio 1862 i soldati del Sesto Reggimento Ohio presero Nashville ed innalzarono la loro bandiera sul Campidoglio, ma la gente iniziò a domandare al capitano Driver se Old Glory esistesse ancora. Questa volta Driver aveva l’esercito dalla sua parte ed allora corse a casa strappò le cuciture del copriletto e ricomparve l’originale bandiera a stelle e strisce che lui stesso, sebbene sessantenne, innalzò sulla torre del Campidoglio dove, da allora, la bandiera americana sventola – eccezionalmente 24 ore su 24 – senza mai essere ammainata. La canzone The American standard, musicata da Giuseppe Antonio Bagioli venne dedicata all’Army of the Union e fu cantata con grande successo da Kate Dean. Venne composta per voce e pianoforte – con “tempo marziale” – su testo del poeta George P. Morris (1802-1864), ma diverso dal conosciuto poema intitolato The Flag of Our Union.


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Un’altra composizione dedicata all’America composta da Bagioli è l’Hymn to America su testi di Lorenzo da Ponte con la quale sempre apriva e chiudeva i concerti34. Sono state rintracciate anche sue composizioni in lingua inglese come la “much admired ballad” Good night love e la canzone You ask me the why and wherefore. L’attività del maestro Bagioli in America non è mai stata ricordata in patria ad eccezione di una nota di Masseangelo Masseangeli che lo descrive come «maestro compositore, molto stimato da Mercadante. Nella metà di questo secolo trovasi in America»35. La notorietà di Giuseppe Antonio Bagioli in America è dovuta non solo a motivi musicali, ma anche a fatti di cronaca – caparbiamente documentati – che coinvolgono la figlia Teresa. Facciamo un piccolo passo indietro. Giuseppe Antonio Bagioli in America sposò Maria (o Eliza) Cooke (1819-1894) figlia adottiva di Lorenzo Da Ponte e da questa unione nacque Teresa Da Ponte (New York, 1836 – ivi, 5 febbraio 1867). Sin da piccola Teresa frequentò la casa del nonno materno dove conobbe Daniel Edgar Sickles (1819-1914) – generale e carrierato esponente democratico del congresso, conosciuto anche come un gran dongiovanni – che sposò, contrariamente al volere del padre, nel 1853 all’età di 18 anni. Trascurando i reportages sulla vita nella hight society della coppia Sickles, si arriva presto alle reciproche frequentazioni extraconiugali che ebbero una tragica fine perché Edgar Sickles assassinò con un colpo di pistola, nel 1859 a due passi dalla Casa Bianca, il suo rivale in amore: Philip Barton Key. Ne seguì un processo che è tuttora punto di riferimento nella procedura penale americana in quanto fu il primo caso di alleggerimento della pena per infermità mentale. Il tutto accompagnato dalla curiosità morbosa della gente e dei giornalisti che si appropriarono del caso accompagnandolo da una serie innumerevole di particolari, tra cui le innocenti confessioni di lei sugli incontri amorosi clandestini, la museificazione dei reperti tra cui il femore della vittima trapassato dal proiettile, i disegni a stam34 La notizia, non avvallata da riscontri documentari, è tratta da T. KENEALLY, The Life of the Notorius Civil War General Dan Sickles, New York, Nan A. Talese/Doubleday, 2002. 35

M. MASSEANGELI, Catalogo della collezione d’autografi, Bologna 1881, p. 10.


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pa del processo e dell’assassinio. Sickles continuò a svolgere l’attività di senatore mentre Teresa morì di tubercolosi qualche anno dopo, quasi a confermare che i personaggi femminili dell’opera muoiono spesso di tisi. La biografia di Giuseppe Antonio Bagioli in America continua tuttora ad essere associata più alla cronaca giudiziaria che alla storia della musica. Altri omonimi di Bagioli hanno lasciato deboli tracce, ma tutti costoro non possono essere associati al maestro di cappella in argomento. Nel libretto della tragedia lirica Bice Alighieri di Alessandro Sala, rappresentata al Teatro Ristori di Verona nel 1865, si ritrova tra gli interpreti vocali un Antonio Bagioli nelle parti di Mercuriale36. È difficile pensare che un settantenne sia chiamato a cantare a teatro. Così come è sicuramente altra persona l’Antonio Bagioli interprete nel 1872 dell’opera romantica in tre atti Der Freyschuetz di Johann Friedrich Kind37. Un direttore d’orchestra e maestro del coro dal nome Giuseppe Bagioli compare nel libretto del dramma lirico Graziella di Alfredo Soffredini rappresentato a Milano38. La prima esecuzione del dramma avvenne a Pavia nel 1902 ed è perciò impossibile si tratti del nostro. La compilazione di un catalogo delle composizioni di Giuseppe Antonio Bagioli è appena iniziata. Ne diamo qui un resoconto allo stato attuale delle ricerche sapendo bene che non può essere considerata esaustiva perché sono ancora da consultare inaccessibili archivi musicali. La partitura manoscritta de L’equivoco conservata presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena è mutila, resta infatti il solo atto secondo dell’opera. Si tratta di un’opera semi-seria a giudicare dalle scene così come dai protagonisti ed era divisa probabilmente in sole due parti, in quanto al termine del secondo atto compare un indubbio finale. Nell’organico strumentale compaiono violini, viole, flauti, oboe e clarinetto, fagotti, corni in Re, trombe e timpani. L’atto secondo si apre con in scena i personaggi di Carletto e Ro36

Bice Allighieri. Tragedia lirica in quattro atti, Verona, G. Daldò, 1865, p. 3.

J. F. KIND, Der Freyschuetz, Milano, Ricordi, 1872, in Milano, Bibl. Teatrale Livia Simoni (MUS W VI). 37

38 A. SOFFREDINI, Graziella. Dramma lirico, Milano, Soc. Cooperativa degli operai, s.d., in Venezia, Biblioteche della Fondazione Giorgio Cini (VE-ROLANDI-SMESOFF).


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setta, entrano poi man mano gli altri: Giocondo, Don Crepazio, Pandolfo, Laurina e Metilde. Mentre si redigeva questa biografia è stata rintracciato, presso la Biblioteca Comunale di Correggio, un manoscritto musicale nel cui frontespizio si legge: “Sinfonia del Maestro Antonio Bagioli”39. Non è stato ancora possibile capire a quale degli omonimi attribuirla. Un’etichetta posta sulla prima pagina della partitura con la scritta: “B. Asioli” indica l’appartenenza della composizione alla raccolta del compositore e teorico musicale Bonifacio Asioli (1769-1832) nativo di Correggio. Antonio Bagioli avrebbe potuto conoscere personalmente il compositore correggese, ma non si hanno ancora riscontri di cronaca. Infine il mistero di Astarte. Tra i fogli musicali americani della Thomas A. Edison Collection compare una composizione di Giuseppe Antonio Bagioli – probabilmente una riduzione per pianoforte di un brano d’opera – intitolata Astarte, contessa di Caserta, sorella di Manfredi, Re di Sicilia. COMPOSIZIONI MUSICALI DI GIUSEPPE ANTONIO BAGIOLI L’equivoco, atto secondo, ms. sec. XIX. Esemplari: BCM, 164.90.2. Libro sesto delle fughe a quattro voci fatte da Antonio Bagioli sotto la direzione del Rev. Padre Stanislao Mattei lì 17 decembre 1818, a. 1818. Esemplari: Bologna, Biblioteca dell’Accademia Filarmonica, Scansia 19. Lett.ra B. Fasc. 6. N. 1. Chirie a 4 Voci Concertato di Antonio Bagioli di Cesena, a. 1818. Esemplari: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, TT.CXVIII. Coro a 3 Voci Concertato di Antonio Bagioli di Cesena alunno del Liceo Filarmonico di Bologna fatto per il primo degl’esperimenti del 1818, a. 1818. Esemplari: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, TT.CXIX.

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BCC, Sinfonia del Maestro Antonio Bagioli, ms. sec. XIX, 50 carte (44.7.6.9).


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Duetto di Antonio Bagioli di Cesena Alunno del Liceo Filarmonico di Bologna. Compito per gli esperimenti dell’anno 1819 nel mese di giugno, a. 1819. Esemplari: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, TT.CXXXV. Dove sei, dove t’ascondi, cavatina di Antonio Bagioli di Cesena, scritta per la Sig.ra Carlotta Angelini in occasione degl’esperimenti fatti nel mese di luglio 1819, a. 1819. Esemplari: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, TT.CXXXIV. Tantum ergo a Tenor solo con Organo obbligato, ms. sec. XIX. Esemplari: Vicenza, Biblioteca Capitolare della Cattedrale, XXXIX.18. Il figlio bandito. Melo-dramma semiserio in tre atti, a. 1824. Esemplari: Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, 13.7.4. Il figlio bandito. Melo-dramma semiserio in tre atti, Napoli, Tipografia Flautina, 1824. Esemplari: Venezia, Biblioteche della Fondazione Giorgio Cini, VEROLANDI-BAC-BAK; Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, Rari 10.1.18/4; Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, Rari 10.1.24/4; Firenze, Biblioteca Marucelliana, Mel. 2202.5. Ah se chiudete in petto, duetto nell’opera Il figlio bandito, Napoli, Gius. Girard, s.d. Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, 2.6.1 (4); Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, Arie App. B 34.3.116. Se pietoso ho giusto Dio, preghiera nell’opera Il figlio bandito, Napoli, Gius. Girard, s.d. Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, 2.6.1 (5); Milano, Biblioteca del Conservatorio di musica Giuseppe Verdi, Noseda. B.45 . Odda e Polusko. Melo-dramma semiserio in tre atti, a. 1826. Esemplari: Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, 13.7.5.


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Odda e Polusko. Melo-dramma semiserio in tre atti, Napoli, Tipografia Flautina, 1826. Esemplari: Venezia, Biblioteche della Fondazione Giorgio Cini, VEROLANDI-BAC-BAK; Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, Rari 8.1/4; Napoli, Biblioteca Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella, Rari 8.7/1; Firenze, Biblioteca Marucelliana, Mel. 2112.5. Il torneo. Dramma per musica, Bologna, Tipografia Cardinali e Frulli, a. 1826. Esemplari: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, 378; Bologna, Biblioteca della Cassa di Risparmio (Fondo Moderno). Astarte, contessa di Caserta, sorella di Manfredi, Re di Sicilia, New York, O. Torp’s Music Magazine, sec. XIX. Esemplari: Thomas A. Edison Collection of American Sheet Music, VO 1830. B33 1. Bagioli’s New method of singing, with an accompaniament for the piano forte or harp, New York, 1839 c. Esemplari: New Haven (Conn.), Yale University, Music Library, MT542. B665 N93; Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, MT885. B14; New York (N.Y.), The New York Public Library. Ave Maria. Composed and dedicated to his pupil Miss Henrietta Behrand by Antonio Bagioli, New York, Published by A. Bagioli, 1857. Good night love, a much admired ballad, New York, Atwill’s Music Saloon, s.d. Esemplari: Thomas A. Edison Collection of American Sheet Music, VO 1830.B33 2. You ask me the why and wherefore, New York, Firth, Pond & Co, 1859 c. Esemplari: Thomas A. Edison Collection of American Sheet Music, VO 1850. B324 2; Thomas A. Edison Collection of American Sheet Music, VO 1850. B324 3. The American standard. Sung by Miss Kate Dean with great success.


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Words by Geo. P. Morris. Music composed by A. Bagioli, New York, Firth, Pond & Co., 1862 c. Esemplari: Philadelphia (Pennsylvania), University of Pennsylvania Libraries, M1.A13 K4 Box 30, n. 3; Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, MT885. B14 1839. Hymn to America. Testi di Lorenzo Da Ponte. Wait. O my soul. Hymn, New York, S.T. Gordon, 706 Broadway, 1862 c. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, M1. A13 B. One Hour of Daily Study for the Acquirement of a Correct Pronunciation of the Vowels, which is the only Method to become a Perfect Vocalist, New York, 1864. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, MT885.B15. Prayer for two or more voices, New York, Firth, Son & Co. 563 Broadway, 1864 c. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, M2074.2.B. Come Holy Spirit. Hymn, New York, Wm. A. Pond & Co., 547 Broadway, 1864 c. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, M2072.4.B. Twelve solfeggi for two voices, New York, s.e., 1865. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, MT890. B14; Ithaca (N.Y.), Cornell University, Music Library. Ave Maria. Composed and dedicated to his pupil, Miss S. Anna Vail, New York, A. Bagioli, 43 West 32nd st., 1866 c. Esemplari: Washington (D.C.), The Library of Congress, Music Division, M2079. L16 B.

Franco Dell’Amore



LE STORIE



Questa sezione ospita le vite dei cesenati nel modo che non può essere compiuto nella forma della biografia, o perché non ebbero un ruolo rilevante nella storia della città o perché alcune di quelle figure non sono sostenute da sufficienti supporti documentari. Le notizie che sono emerse dagli archivi su alcune personalità del Quattrocento, ad esempio, fanno pensare che un supplementare corredo di informazioni su di loro giustificherebbe l’inserimento fra i cesenati “illustri”. Naturalmente gioca a loro svantaggio la distanza temporale, così come all’opposto avvantaggia chi ci è stato vicino nel tempo e che abbiamo avuto la possibilità di conoscere. I protagonisti della Coppa Renato Serra 1962 meritavano di occupare lo spazio riservato loro da chi vide quella corsa e a distanza di anni ha voluto fissarne tutti i particolari che gli erano rimasti impressi nel ricordo. La memoria e il tempo sono i termini con i quali non solo gli storici ma tutti debbono fare i conti.

I cesenati dal ritorno allo stato pontificio (1465) alla strage in San Francesco (1495). I 1. I “maneggi” della politica I contrasti fra le famiglie eminenti cesenati occupano prepotentemente la scena pubblica sia nella parte della cronaca in cui Giuliano Fantaguzzi raccontò la fine del XV secolo, sia nella varia produzione storiografica, memorialistica cittadina dei secoli successivi che prendeva in esame i decenni a cavallo fra Quattro e Cinquecento. Agli intellettuali cesenati che meditarono sulla storia del passato, particolarmente a quelli di loro che ebbero responsabilità di governo, gli scontri fra le famiglie rivali procurarono ragioni di riflessione che infine si concentrarono sostanzialmente sulle rivalità fra Martinelli e Tiberti. Un motivo per riassumere il conflitto in quei nomi derivava sostanzialmente dalla consapevolezza delle forze sociali in campo, che erano la borghesia produttiva e la nobiltà di tradizione, rappresentate la prima dai Martinelli e la seconda dai Tiberti. La signoria malatestiana nella sua fase finale, sotto Malatesta Novello, cercò di bilanciare i privilegi concessi ai rappresentanti di entrambe le fami-


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glie, rivolgendo però un’attenzione particolare verso i primi, che da Pesaro avevano raggiunto i signori per porre al loro servizio le proprie competenze di uomini d’affari, di amministratori, di giuristi1. L’indagine quasi ossessiva sui conflitti che avevano posto così violentemente alcune famiglie contro le altre ha un’origine comprensibile: per tutti coloro che fino alle soglie dell’età contemporanea hanno ritenuto la storia un ripetersi continuo delle medesime passioni che avevano animato soprattutto gli appartenenti alle alte classi sociali, per quegli uomini e donne scoprire le cause di quelle violenze significava credere di individuare le origini del malessere sociale. Così, ancora nell’Ottocento, un letterato originario dell’Irlanda, il frate John Cooke, raccogliendo le informazioni fornite dalle diverse cronache locali, scriveva che la causa dell’“implacabile inimicizia” che aveva diviso le due famiglie derivava dalla morte procurata ad un Martinelli da Lorenzo Zane, che fu governatore di Cesena, “per le insinuazioni ed i maneggi di Achille Tiberti”2. Le une e gli altri rimandano ad ogni genere di intrighi, e naturalmente occorrerebbe sapere a chi si deve attribuire quel giudizio, quando fu formulato e se è stato trasmesso a Cooke e quindi a noi in quegli stessi termini. Che è questione non da poco e sulla quale si addensano tanti problemi storiografici. Gli scavi e le ricerche fatte in questi ultimi anni ci mettono a disposizione un ritratto abbastanza focalizzato della società cesenate e delle relazioni al suo interno. A voler definire i tratti fondamentali che l’hanno caratterizzata nel corso del Quattrocento, dovremmo dire che l’aspirazione fondamentale della stragrande maggioranza dei cesenati era la sicurezza. La signoria malatestiana soddi-

1 P. G. FABBRI, Una città e una signoria: Cesena nell’età malatestiana (1379-1465), Manziana, Vecchiarelli, 1997; IDEM, La signoria di Malatesta Malatesti (Andrea) signore di Cesena (1373-1416), Rimini, Ghigi (“C.S.M. - Rimini. Storia delle signorie dei Malatesti. III”), 1999; IDEM, La società cesenate nell’età di Malatesta Novello Malatesti, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Quaderni degli Studi Romagnoli, 17”), 2000; IDEM, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello, in La signoria di Malatesta Novello Malatesti (1433-1465), a cura di P. G. FABBRI e A. FALCIONI, Rimini, Ghigi (“Centro Studi Malatestiani - Rimini. Storia delle signorie dei Malatesti. XVII”), 2003. 2

BCM, cc. mss. XXXI/4, Tiberti.


I cesenati dal 1465 al 1495

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sfece quel bisogno a partire dal 1393, se proprio vogliamo trovare una data, quando l’esercito della dinastia, composto da truppe inviate da diverse città del dominio, ebbe la meglio su quello della vicina Forlì. L’esultanza dei cesenati coincideva con il passaggio ad un’età in cui il predominio dei comuni cedeva il passo alle regole dello stato territoriale, quello, per intenderci, che in Romagna faceva capo alla signoria malatestiana, ed estendeva il proprio potere dalle propaggini appenniniche cesenati fino a Rimini e quindi fino alle Marche. Le altre signorie romagnole, che avevano Forlì, Faenza e Imola come città di riferimento, non erano in grado di disporre di risorse paragonabili. Per Cesena fu l’inizio di un periodo di respiro dai timori degli attacchi in cui si concentravano, nelle aree di confine, le incursioni dei comuni limitrofi. La città, pur continuando a tenere alta la propria difesa con il sistema delle mura, cominciò a vivere l’esperienza della vita in pianura, nella quale scese portando dal colle Garampo la cattedrale, creando una grande piazza, attorno alla quale si estendeva un sistema di contrade. Promotore di quelle iniziative fu Andrea Malatesti; parallelamente l’economia ricevette forte impulso dall’ampliamento dei mercati procurato dalla stabilità politica. Domenico Malatesti, nipote di Andrea, riprese le direttrici di governo dello zio, del quale volle rinnovare significativamente il nome chiamandosi Malatesta Novello, creando un sistema di collaborazione con la classe dirigente cesenate che diede un serie di frutti, che possiamo vedere culminati nell’edificazione di una biblioteca all’interno del convento di San Francesco. Malatesta Novello nel 1461 la regalò alla città, perché altro non significava trasmettere al consiglio cittadino l’obbligo di garantire la conservazione della dotazione libraria. Quando Malatesta Novello morì nel 1465, era giunto ad un livello avanzato il progetto dello stato della Chiesa di realizzare il recupero delle terre dell’Italia centrale sottraendole alle signorie che le avevano avute in vicariato. Malatesta Novello non aveva avuto figli e papa Pio II riuscì più facilmente nel suo intento, non senza minacciare la città di Cesena ed i suoi abitanti. Per meglio dire occorre usare le parole di Giuliano Fantaguzzi: Pio papa secondo mandò el campo a Cesena e guastò molto el teritorio e d’acordo, perché el signore preditto non avea fioli, li citadini se obligoro-


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no doppo le morte sua de darli Cesena, el quali morì del 1465, et papa Paulo prese Cesena per la eclesia. 1460. Peste crudele fo a Cesena doppo el campo e guera de papa Pio preditta e morì infiniti citadini3.

L’esercito mandato dal papa aveva insomma saccheggiato la campagna cesenate per piegare il consiglio cesenate ad accettare il ritorno in seno alla Chiesa. Gli effetti erano stati terribili: è il primo caso annotato nella cronaca di Giuliano Fantaguzzi di guerra portata nel territorio di Cesena dal tempo in cui era iniziata l’esperienza malatestiana. Dopo il 1465 la città godette di più di vent’anni di pace al suo interno e all’esterno. Nel 1489 la guerra ritornò sotto la specie delle discordie intestine, per opera delle parti e delle loro componenti sociali4. Quel clima e quelle vicende portarono alla strage dei Martinelli nella chiesa di San Francesco, avvenuta il 14 luglio 1495 ad opera dei Tiberti. Fu uno degli avvenimenti più sconvolgenti della storia di quel periodo e passato sotto silenzio nelle fonti. 2. Fornai e venditori di pane Per capire il senso di provvisorietà provato dalla popolazione del tempo, basta far caso alla fluttuazione dei prezzi del grano, che

G. FANTAGUZZI, Occhurentie et nove, BCM, ms. 164. 64, cc. 3v-4r (legata alla stessa opera se ne trova un’altra dello stesso autore, il cosiddetto Caos. Su di esso, si veda P. G. FABBRI, Il “Caos” di Giuliano Fantaguzzi, “Quaderni di storia”, XVI, 31, 1990, pp.103-120). Il procedimento con il quale Fantaguzzi datò quegli avvenimenti ricorda la datazione del primo matrimonio di Dario Tiberti. Fantaguzzi scrisse che il matrimonio avvenne nel 1440, ma dopo un ripensamento di cui si ha prova dal ms. [si veda l’edizione fatta in FABBRI, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello cit., p. 409], dove all’inizio era scritto “in questi tempi”. Sicuramente l’intenzione non era di indicare un anno preciso ma il decennio in cui erano avvenuti i fatti. Come l’assedio a Cesena avvenne nel 1465 ed in seguito si diffuse la “peste crudele”, così bisogna intendere che il primo matrimonio di Dario Tiberti fu celebrato nel quarto decennio del Quattrocento. 3

4 P. G. FABBRI, Cesena tra Quattro e Cinquecento. Dai Malatesta al Valentino a Giulio II: la città, le vicende, le fonti, Longo, Ravenna 1990.


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a Cesena oscillò da venti soldi allo staio nel 14715 a cento soldi cinque anni dopo6. Il salario medio di un lavoratore, ammontante a 4 soldi giornalieri7, consentiva l’acquisto nel 1471 di 5 kg di grano al giorno, nel 1476 solo di uno8. Se poi ipotizziamo che “da 100 kg. di frumento si ricavassero 80 kg di pane”9 e consideriamo i costi della trasformazione del frumento in pane10, il peso di quest’ultimo doveva ancora diminuire notevolmente11. Seguiamo ora da vicino una serie di avvenimenti che ci forniscono un’ampia ed interessante documentazione. 15 Nei mesi di marzo ed aprile furono comperate alcune decine di staia di grano “per fare pano per donare” al duca di Modena. Fu pagato ora venti, ora ventidue soldi allo staio, ASCe, ASC, 1483, c. 87r, 11 marzo – 4 aprile 1471. Una lira corrispondeva a venti soldi; un soldo a dodici denari. 16 Si veda infra. Addirittura circa sedici soldi costava nel 1493, in un periodo di abbondanza (FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 18v). Sulla fluttuazione dei prezzi del grano in area fiorentina, ai primi del Quattrocento, G. PINTO, Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna, Clueb, 1996, pp. 99-100. Per quanto influenzati dalle varie contingenze esterne, essi non ebbero variazioni così divaricate come a Cesena, mantenendosi intorno ai 20 soldi lo staio e negli ultimi trent’anni a livelli superiori (R. A. GOLDTHWAITE, I prezzi del grano a Firenze dal XIV al XVI secolo, “Quaderni storici”, X, 28, 1975, p. 34; S. TOGNETTI, Problemi di vettovagliamento cittadino e misure di politica annonaria a Firenze nel XV secolo (1430-1500), “Archivio Storico Italiano”, CLVII, 1999, pp. 426-430). 17 P. G. FABBRI, Storie di Cesena. Uomini, donne, cose e istituzioni fra tardo medioevo ed età moderna, Cesena, Società di Studi Romagnoli (“Saggi e repertori. 33”), 2005, pp. 28-29. Sui salari nel settore edile, si veda M. ABATI, P. G. FABBRI, P. MONTALTI, La rocca Nuova di Cesena. Dai Malatesti a Cesare Borgia, all’età contemporanea, Cesena-Firenze, Banca Popolare dell’Emilia-Romagna-Giunti, 2006, pp. 247-304. 18 A prendere per buona l’equivalenza di uno staio di grano cesenate a 25 kg. Secondo A. MARTINI, Manuale di metrologia, Torino, Loescher, 1883, lo staio cesenate corrispondeva a 69 litri, quello di Forlì a 72, di Faenza a 36, di Imola a 34, di Roma e di Firenze a 24. Secondo la proposta fatta da A. I. PINI, L'economia di Cesena e del Cesenate in età malatestiana e postmalatestiana (1378-1504), in Storia di Cesena. II. Il Medioevo. 2 (secoli XIV-XV), a cura di A. VASINA, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena - Ghigi, 1985, pp. 211-212, uno staio cesenate corrispondeva a 110 kg, con la conseguenza che – ad accettare tale corrispondenza - un salario medio giornaliero di 4 soldi avrebbe dato la possibilità di guadagnare 22 kg di grano. 19 A. GUENZI, Pane e fornai a Bologna in età moderna, Venezia, Marsilio, 1982, p. 77. Si veda anche ibidem, p. 116. 10 Si veda la sintesi fatta ibidem, pp. 28-29: acquisto del frumento e successiva mondatura, trasferimento del grano mondato ai mulini, con la conseguente raffinazione della farina ottenuta presso la bottega del fornaio, cottura e quindi vendita del pane. 11 Va anche considerato che l’acquisto del pane composto solo di farina di frumento doveva essere riservato a strati sociali benestanti. Purtroppo non abbiamo documentazione sui cereali con i quali era fatto il pane a fine Quattrocento, a Cesena.


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Le storie

Nell’estate del 1475, da più parti si erano sentite a Cesena previsioni fosche di carenza di grano per l’anno venturo, complice l’insorgere di una pestilenza12. I reggenti della comunità si chiedevano se fosse opportuno disporre un controllo numerico delle staia di grano che entravano attraverso le porte della città13, probabilmente per appurare se stavano intervenendo processi di approvvigionamento anomali rispetto al passato. Nel gennaio del 1476 il consiglio dei conservatori formalizzò la decisione che aveva dato corpo alle preoccupazioni dei mesi precedenti, dando incarico a due personalità cittadine perché procurassero rifornimento di grano, dal momento che la carestia incombeva minacciosamente giorno dopo giorno ed occorreva garantire di sfamare la popolazione14 con il prossimo raccolto. Le vicende legate a quell’impegno si leggono tutte nel Libro del grano dell’anno 1476, nel registro cioè in cui furono trascritti i dati finanziari di quella complessa operazione15. La comunità cesenate aveva ottenuto il permesso dal papa di potere importare il grano dall’esterno16, il che significava, se non la garanzia di ottenerlo, almeno una certa libertà di movimento. Allo scopo di procurarselo dovevano dedicarsi le forze di governo locali e riuscirci da sole. I reggenti cittadini si mossero su diversi fronti, contraendo ai primi di giugno un consistente debito con alcuni banchieri e con diversi prestatori cesenati. Il primo di loro fu Iacopo di Angelo Bucci, che anticipò quattrocento ducati17, duecento dei quali dove12

FABBRI, Storie di Cesena cit., pp. 18-19.

“A pluribus audiverunt querelare quod in proximo anno multum frumentum deffitiet isti nostre comunitati”, ASCe, ASC, 51, c. 8r (riunione di consiglio dei conservatori del’8 luglio 1475). 13

14 ASCe, ASC, 51, 21 gennaio 1476: “cum instet quotidie magna indigentia” (c. 75r); “ne populus detrimentum patiatur” (c. 75v). Le due personalità incaricate furono Ettore Fattiboni e Francesco Severi. 15 “Qui in questo libro se scrivirà tucto del grano che se condurà overo venderà per la dicta comunità de Cesena et sibene tucti quilli che prestaranno dinari per comparare et condure dicto grano et ogn’altra spexa che achaderà de fare per lo dicto grano” (ASCe, ASC, 1476. Libro del grano, 856, c. 2r). D’ora in poi sarà usata l’abbreviazione: Libro del grano. 16

ASCe, ASC, 51, c. 75r.

Nel registro compaiono come monete utilizzate per le contrattazioni all’esterno di Cesena soprattutto il ducato ed il fiorino. Valevano entrambe dai 55 ai 57 soldi. Per 17


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vano servire “per mandare in la Marca per comparare grano”18 e ad Agostino da Sogliano fu dato incarico di sovrintendere a quelle operazioni. Anche nel riminese si poteva sperare di trovare frumento ed un altro cesenate, Bartolomeo Romanini, ebbe quel compito insieme con 150 dei ducati prestati dal banchiere19. Venticinque ducati furono poi indirizzati all’acquisto di grano a Verucchio20. Contemporaneamente il comune lanciò una sottoscrizione sostenuta da una trentina di cesenati che, fra il 4 ed il 6 giugno 1476, prestarono una somma complessiva di poco superiore a quella fornita da Iacopo Bucci. Erano fornai che con quel prestito contavano di avere per contropartita la materia prima indispensabile alla propria attività, ma soprattutto erano notai, artigiani, imprenditori, proprietari di botteghe, banchieri, che evidentemente sentivano i propri investimenti garantiti dalle istituzioni pubbliche; e poi c’erano figure legate agli appalti pubblici, personalità che avevano ricoperto il ruolo di ufficiali o di fornitori di beni e servizi e conoscevano quindi quel mondo di affari ed i meccanismi che lo regolavano21. le oscillazioni fra questi due valori, si veda ad esempio in Libro del grano, c. 9r, 6 giugno 1476 (55 soldi) e c. 2v, 15 luglio 1476; c. 48r, 17 settembre 1476 (57 soldi). Altre monete erano il trono veneziano e l’alfonsino d’oro, la moneta che prendeva il nome da Alfonso d’Aragona. 18

Libro del grano, c. 3r, 5 giugno 1476.

19

Libro del grano, c. 3r, 6 giugno 1476.

Libro del grano, c. 3r, 6 giugno 1476. Ne fu dato incarico a ser Pietro Zanolini. I restanti 25 restarono in deposito presso uno dei conservatori in modo che si potessero affrontare le varie spese (ibidem). 20

Qui sono tutti elencati con, fra parentesi, l’indicazione della somma prestata: Piero di Bordino calzolaio (15 ducati, due fiorini, 2 alfonsini); Piero Levorino (2 ducati, 3 fiorini); Gaspare di Ugolino di ser Simone (3 ducati, 21 lire), Aloisio di Graziano, speziale (50 ducati); ser Cecchino Abati (2 ducati); mastro Gaspare del Giovane, fabbro (1 ducato); mastro Gaspare Bertuzzoli (1 ducato, 3 fiorini); Baldassarre di ser Bencino (3 ducati, 7 fiorini); ser Stefano di ser Maso (4 ducati); Gaspare Fantaguzzi (14 ducati, 7 fiorini); ser Lancillotto Lancetti (4 ducati, 1 fiorino); ser Francesco da Canipa (2 ducati, 1 fiorino); Gaspare di ser Giuliano (10 ducati); Giovanni di Ramberto da San Severo (4 ducati); mastro Giovanni di Nicolò “schiavo”, cioè originario della Dalmazia, pellicciaio (14 fiorini, 2 ducati); ser Morano Morani, speziale (9 ducati, 5 fiorini); Francesco di Piero, beccaio (5 fiorini); Piero “Lumaga pamvendolo” (21 lire); Piero Paolo “boratino” (30 lire); Federico fornaio (10 ducati); mastro Simone Benintendi, calzolaio (2 ducati, 3 fiorini); Marco Gualaghini (11 ducati); mastro Giacomo di mastro Perino, fabbro (2 ducati, 3 fiorini); ser Giacomo di messer Dalfino (7 ducati, 1 alfonsino); Andrea di mastro Gabriele dal Sale (8 fiorini, 2 ducati), Federico pellicciaio (1 ducato); 21


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Le storie

Vi furono investimenti alti: un banchiere prestò 100 fiorini, il fattore di un ecclesiastico altrettanto22. Il 6 giugno Bartolomeo Romanini dimostrò di essere riuscito nel suo intento di trovare il grano a Rimini: dal porto di questa città l’aveva condotto in “doe barche” a quello di Cesenatico. Qui era stato “mixurado”, cioè ne era stato valutato il peso, e poi era stato caricato nei carri e trasportato a Cesena, nel magazzino che aveva Iacopo di Angelo Bucci nelle Tavernelle23. Questo particolare ci indirizza sulla natura della sua attività di banchiere, che investiva là dove convergevano anche i suoi interessi mercantili. Mentre quaranta staia di grano fruttarono le ricerche a San Marino e a Verucchio24, nelle Marche Agostino da Sogliano trovò quanto stava cercando attraverso la mediazione di un mercante riminese, Marsilio di mastro Carlo: trenta carri di grano provenienti dalla Puglia furono intercettati e comperati a Senigallia25, dopo che era giunta da Cesena l’autorizzazione all’acquisto26. Quell’operaAbbadone di ser Francesco (20 fiorini); Marchionne Martinelli (14 lire); Angelo di Angelo di mastro Giovanni, banchiere (100 fiorini); don Giuliano, fattore del preposto (60 fiorini, 40 ducati), Libro del grano, cc. 4r-9r. Su qualcuno di loro, P. G. FABBRI, La società cesenate nell’età di Malatesta Novello Malatesti cit. 22 È difficile rintracciare gli interessi che percepirono. C’è solo l’ingenuità di uno di loro a fornire una traccia. Aloisio di Graziano, speziale, diede 50 ducati d’oro il 5 giugno a Bartolomeo Romanini, che si trovava a Rimini “per comparare grano”, secondo l’incarico datogli dal consiglio cesenate. Nella pagina contrapposta del libro, corrispondente alle voci del dare, lo stesso Aloisio dichiarò di avere ricevuto il corrispettivo del suo credito, scrivendo che gli erano stati dati 51 ducati ed obbligando così l’estensore delle note del libro a correggere la voce dell’avere (Libro del grano, cc. 3v-4r). Il numero 50 divenne 51 e all’indicazione in lettere “cinquanta”, che terminava alla fine della riga, fu aggiunto all’inizio della riga successiva “uno” (ibidem, c. 4r). Quel ducato in più era chiaramente l’ammontare dell’interesse del 2%. Tutti gli altri furono invece più accuratamente mimetizzati. 23 Libro del grano, c. 19v, 6 giugno 1476. Alla c. 50r-v (in data 29 giugno, quindi quando furono completate le operazioni di trasporto anche del grano dalle Marche) sono elencati i carradori, parte dei quali abitava nell’area che da Cesenatico si estendeva fino a Cesena (tre erano di “Ponte de la Preda”). I trasporti costarono 2 soldi per ogni staio di grano (ibidem). 24

Libro del grano, c. 15r, 15 giugno 1476.

“In mare, sopra Pexaro” è la prima annotazione del registro (Libro del grano, c. 10r, 12 giugno 1476). In seguito, come si vedrà, fu fatto più volte il nome di Senigallia. 25

26 L’estensore del Libro del grano annotò quanto spese Agostino da Sogliano per “uno roncino ch’el tolse a Senegaglia a vectura per venire a Cesena a parlare cum li


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zione richiedeva la competenza di un mercante, come appunto Marsilio da Rimini, che conosceva le rotte e i padroni delle barche che trasportavano il grano lungo l’Adriatico27, ma ebbe anche un carattere, a dir poco, avventuroso perché si cercò in ogni modo di acquistare quel prezioso cereale, anche incorrendo nei rischi di requisizione da parte della potenza che vantava diritti di proprietà su quel grano. Infatti Venezia intervenne e “fo prexo dicto grano sopra el Cexenadego da le barche armade e menado in Ravenna”28, in quegli anni sotto il dominio veneziano. Immediatamente Polidoro Tiberti, uno dei maggiorenti di Cesena, fu inviato come ambasciatore a Venezia con l’incarico di recuperare “quattro barche de grano de la dicta comunità che fo tolto da le barche armade sopra el nostro porto”29. Nello stesso tempo, Francesco Severi, uno dei due cesenati incaricati dal consiglio cesenate di provvedere all’approvvigionamento del grano, correva da Senigallia, dove aveva seguito l’operazione di acquisto del grano pugliese, a Gubbio, “per parlare al duca d’Urbino per caxone ch’el dicto grano era sequestrado”30. Sicuramente Francesco Severi aveva invocato l’autorità del ducato d’Urbino per sottrarre il grano alla giurisdizione veneziana, facendo perno sulla territorialità delle acque in cui era avvenuto la transazione. Tutti questi interventi non diedero nessun risultato. Solo un breve del papa, rivolto al doge veneziano Andrea Vendramin31, sbloccò la situazione ed era la fine di giugno quando quel grano poté giungere a Cesena32. conservatori per havere licentia de comparare el grano da Marsilio da Rimino” (Libro del grano, c. 16r). Un corriere fu poi mandato da Pesaro a Cesena con lettere di Agostino per i conservatori (ibidem). 27 Probabilmente Agostino da Sogliano fece vari tentativi vani, come sembra dire la nota dei suoi viaggi, per due giorni, da Senigallia a Iesi (“per la spexa de uno garzone per dui die, che l’acompagniò da Senegaglia a Yese e in più altri loghi cercando per grano”, Libro del grano, c. 16r). 28

Libro del grano, c. 10r, 12 giugno 1476.

Libro del grano, c. 13v, 8 giugno 1476. Aveva seguito la sorte delle altre anche “una barca de grano de circa carra dexe de uno patrone ch’è nominato Schiavino da Loredo, el quale fo menado in lo porto de Ravenna da le barche armade inseme con le altre” (ibidem, c. 10r, 12 giugno 1476). 29

30

Libro del grano, c. 16r.

31

ASCe, ASC, 13, XXI, 22 giugno 1476.

In data 27 giugno 1476 Francesco di ser Zono, estensore delle note del Libro del grano, scrisse di avere dato un compenso ai marinai che portarono “el grano de Marsi32


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Le storie

Dai primi di giugno, appena arrivato il primo grano, il comune saldò i propri debiti vendendo quello conservato nei magazzini33. Ne furono beneficiari i privati, che lo acquistarono per il proprio consumo, ed i produttori, cioè i fornai ed i rivenditori di pane34. Esistevano due figure principali, secondo il latino in cui furono compilati gli Statuti cesenati: i fornarii ed i pistores35, che nel Libro del grano avevano il nome corrispettivo di fornai e pamvendoli. I primi dovevano essere a disposizione dei privati e cuocere per loro il pane che questi portavano36, ma al tempo stesso potevano organizzare più fasi dell’intero processo che portava alla produzione del pane ed infine vendere il pane in proprio. Non a caso, la maggioranza di loro era definita sia con il termine di fornaio che di panvendolo. C’erano poi i “mondadori” e “boratini”, i quali rispettivamente separavano il frumento dalla pula e setacciavano la farina, ed erano talvolta definiti dalle fonti come panvendoli, perché qualcuno di loro organizzava anche la vendita del pane. Il Libro del grano ci informa su tutti gli acquisti che furono fatti dopo che il regolatore cominciò a vendere, a 5 lire allo staio, il cereale alla popolazione37 e a tutti i produttori di pane38. Quindi possiamo ricavare dei dati omogenei per ciascuno di questi ultimi. Al tempo stesso disponiamo di un elenco di quelli “che se obligano de fare tucto questo anno el pane in la citade de Cesena del grano del comune”39. Erano venti produttori che accettavano le disposizioni comunali e prevedibilmente anche il calmiere sul prezzo del lio” (Libro del grano, c. 12r). Il 27 giugno 1476 il regolatore saldò i conti del denaro fornito ad Agostino da Sogliano (ibidem, cc. 44v-45r). 33

Libro del grano, cc. 3v, 4v, 5v, 6v, 7v.

Il regolatore del comune, lo speziale Biagio Romanini, fu incaricato di saldare il debito che la comunità aveva con loro (Libro del grano, c. 6v). 34

35

PINI, L'economia di Cesena e del Cesenate cit., pp. 212-213.

36

Statuta civitatis Caesenae cum additionibus ac reformationibus pro tempore factis, Caesenae 1589, p. 280. 37

Libro del grano, c. 23v, 11 giugno 1476.

Il 14 giugno 1476 appare il primo acquisto fatto da un panvendolo, Nardo di mastro Gaudenzo, il quale ne acquistò 6 staia, ibidem, c. 34v, 14 giugno 1476. Dal 18 giugno appaiono regolarmente i nomi di tutti coloro che svolgevano un’attività legata alla produzione del pane. 38

39

Libro del grano, c. 96v, 28 giugno 1476.


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pane ricavato dal grano acquistato dal comune. Fra di loro c’era anche un Matteo “mondadore pamvendolo”. La distanza fra questa categoria e le altre si può cogliere nelle disponibilità finanziarie e nel giro d’affari di Matteo, che dopo avere prelevato a debito dai magazzini comunali tre staia di grano in un primo momento e successivamente una soma (la soma corrispondeva ad uno staio e mezzo), al momento della scadenza del proprio impegno restituì la parte di grano che non riusciva a pagare40. Al contrario di lui, la maggioranza di fornai e panvendoli erano pronti ad acquistare tutte le quote messe a loro disposizione, di volta in volta, a distanza costante in giugno, in luglio, in agosto41 e nella stagione fredda, attingendo dai vari granai che il comune ebbe a disposizione, e sicuramente gli ultimi avevano caratteristiche le quali permettevano una migliore conservazione del grano. Il magazzino dal quale fu venduto inizialmente fu la sala del palazzo dei conservatori (nella quale dobbiamo immaginare steso sul pavimento parte del cereale acquistato in giugno); poi fu venduto quello che si trovava in casa di Iacopo di Angelo Bucci alle Tavernelle, infine quello contenuto nelle fosse da grano di Cristoforo Iseppi42. Abbiamo visto già all’opera il primo come banchiere che finanziò l’acquisto del grano nelle Marche; gli interessi economici del secondo erano quanto mai vari, dalle attività finanziarie alla produzione e commercio dei panni di lana43. Veniamo ora all’elenco dei panvendoli del 1476, che si apriva con il nome di mastro Antonio di Federico, sarto44. La ragione del40 Matteo di Giacomo comperò, a debito, tre staia di grano il 18 giugno e uno e mezzo il 21 giugno 1476, per un totale di 22 lire e 10 soldi (a 5 lire lo staio). Il 28 giugno pagò, in contante, 3 lire e 10 soldi; il 18 luglio 5 lire; il 1° agosto 6 lire e 10 soldi. Il 7 agosto restituì lo staio e mezzo di grano “a li regolatori in lo magagino de Iacopo de Agnolo, il quale poi fo asignato agli altri fornari che tolse l’altro grano del comune” (Libro del grano, cc. 38v-39r, 41v-42r). 41 Sulla notizia che nel mese di agosto passarono carri carichi di grano attraverso le porte della città, si veda FABBRI, Storie di Cesena cit., p. 18. Ciò significa che il trasporto del frumento avvenne in diverse fasi e che fu quindi l’elemento che ne condizionò la distribuzione. 42

Libro del grano, c. 47r, 2 luglio 1476.

43

FABBRI, La società cesenate cit., ad indicem.

Libro del grano, c. 96v, 28 giugno 1476. “Mastro Antonio de Federigo, sarto; Drago, barbero; Tamberlano; Agostino de Alegrino, fornaro; Domenego de Bartolomio da Modena; Bartolomio de ser Zuhanne da Rubera, da la Strada Dentro; Iacomo 44


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Le storie

l’apparente contraddizione ci è detta da un documento dell’anno successivo, anch’esso un elenco dei pistores per conto del comune, che iniziava con il nome di Federico fornaio, abitante nella piazza del comune di Cesena. Seguivano i nomi del figlio, ancora chiamato sarto, e del nipote45; quindi Federico era il vecchio proprietario del forno centrale della città, il cui figlio Antonio, che faceva il sarto, aiutava il padre e si disponeva a continuare, insieme con il proprio figlio Iacopo, quell’attività decisamente lucrosa, a giudicare dal giro di affari legato al grano comunale, acquistato per complessivamente quasi 50 quintali46. Chi voleva vendere il pane doveva farlo nella piazza del comune e nelle vie che conducevano ad essa47, quindi la posizione di quel forno nella piazza della città favoriva le vendite. Simile a quella di Antonio e di Federico era anche l’impresa di Guido e del padre, mastro Bartolomeo dal Pane, ai quali appaiono da Lode, habitadore al porto, fornaro; Abraam de Bartolomio da Modana, fornaro; Mengarino, calzolaro e pamvendolo; Matheo de Iacomo, mondadore pamvendolo; Piero Paulo de Zuhanne di Lunghi da Milano, fornaro; Matheo de Iacomo de Binello da Caxalbono, fornaro; Bernabò de Cenne, fornaro da la Strada Dentro; Nardo de Gaudenzo; Baldesserra de mastro Bartolo del Zavatero; Guido de mastro Bartolomio dal Pane; Piero Lumaga; Lario de Stevano da Parma; Domenego Prognola; Francesco de Buoxo, calzolaro” (Libro del grano, c. 96v, 28 giugno 1476). 45 “Phedericus fornarius, habitator in platea comunis Cesene; magister Antonius Phedrici, sartor; Iacobus filius dicti magistri Antonii” (ASCe, ASC, Matricula beccariorum Cesene, pistorum seu panvendolorum, 855/I, 23 luglio 1477). 46 Ad un primo acquisto di grano il 21 giugno 1476 per 7 lire e 10 soldi (una soma) (Libro del grano, c. 41v), fatto da Antonio, ne seguiva uno per 15 lire fatto l’8 luglio (tre staia) da Federico (ibidem, c. 55v); uno di Antonio il 13 luglio (7 lire e 10 soldi), ibidem, c. 58v; uno fatto da Antonio il 5 agosto per 55 lire del grano depositato nella sala dei conservatori e per 35 lire del cereale ricavato dal granaio di Iacopo di Angelo Bucci alle Tavernelle (ibidem, c. 59v); un altro per 22 lire e 10 soldi, acquistato il 13 gennaio 1477 da Federico “fornaro in piaza” “de quello de le fosse de Cristovano d’Ixeppo”, ibidem, c. 64v; ed uno di 45 lire di grano anch’esso del magazzino di Iacopo Bucci, acquistato da Antonio di Federico lo stesso 13 gennaio 1477, ibidem, c. 68v. Che non fossero due attività distinte ce lo dice l’intestazione al solo maestro Antonio dell’obbligo preso col comune (ibidem, c. 96v, 28 giugno 1476). Nella matricola dell’arte erano invece iscritti anche il padre, Federico, ed il figlio Iacopo. 47 Statuta civitatis Caesenae cit., p. 280. Nei capitoli stilati nel 1573, ai fornai era fatto obbligo di “vendere, o mandare a vendere, non in altro luocho che […] nelli dieci cassoni della piazza e dai cassoni, over bottega, per ciascheduna strada maestra”, ad una certa distanza dalle porte (ASC, 855, 15 febbraio 1573).


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intestate distinte “ragioni”, ma essi erano compatti nella medesima azienda48. Con lo stesso criterio occorre probabilmente interpretare l’attività di Francesco Ravaglini, definito ora calzolaio ora panvendolo49. La figura di Cassiano “speciale e pamvendolo” era invece diversa: si procurava il grano50 per garantire il rifornimento di pane che vendeva all’interno della propria bottega di speziale, senza impegnarsi a fare il servizio richiesto dal comune. I venditori di pane che assumevano questo compito si dividevano in due categorie: coloro che avevano una produzione consistente, come sembra provare l’acquisto di 20-30 quintali del grano comunale51 (e Federico fra di loro sappiamo che aveva una posizione di preminenza grazie al proprio forno) e gli altri, molto inferiori di numero, che ne acquistarono poco52. Sicuramente per questi ultimi, mai definiti fornai53, la vendita del pane era sussidiaria ad altre attività di lavoro. Chi faceva il fornaio vendeva anche il pane, così come il personaggio eminente di questa categoria, Antonio detto “Tamberlano”, che acquistò cento quintali di grano dal comune ed aveva una fornace che produceva anche mattoni. In questi anni lo si vede attivissimo a rifornire di laterizi il cantiere in costruzione della rocca

48 Libro del grano, cc. 53v, 61v, 73v. Sotto la ragione di Bartolomeo, l’estensore delle note del Libro del grano scrisse che 5 lire del debito di Bartolomeo erano state versate da “Guido suo figlio” (ibidem, c. 54r). 49 Libro del grano, cc. 62v-63r, 66v, così come nell’elenco dei panificatori del 28 giugno 1476 è indicato un “Mengarino calzolaro e pamvendolo” (ibidem, c. 96v). 50

Libro del grano, cc. 63v-64r.

In questa categoria troviamo Abramo, panvendolo e fornaio; Agostino di Allegrino, fornaio; Baldassare del Zavatero, panvendolo; Bartolomeo dal Pane; Drago, barbiere; Francesco, alias Boxo; Matteo, boratino e panvendolo; Nardo di Gaudenzo; Piero Lumaga, panvendolo; Pier Paolo, boratino (Libro del grano, cc. 42v-79r). Tutti questi compaiono nell’elenco del 28 giugno 1476. Quelli che non vi appaiono sono Cassiano, speziale panvendolo; Francesco Ravaglini, calzolaio e panvendolo; Giovanni di Maso, “spirtuale”; Francesco di Francesco di Severo, fornaio; Mariano fiorentino, fornaio e panvendolo; Bruno da San Severo, panvendolo (ibidem). 51

52 Barnaba di Cenne da Calisese, panvendolo; Domenico Prognola; Giacomo da Lodi, fornaio a Cesenatico; Lario da Parma, panvendolo; Mengarino, calzolaio e panvendolo (l’unico di questa categoria che appare nell’elenco del 28 giugno 1476); Salomone, fornaio (ibidem, cc. 42v-56r). 53 Ad eccezione di Giacomo da Lodi, fornaio a Cesenatico. La distanza da Cesena può giustificare l’assenza di Giacomo nei giorni in cui il grano era messo in vendita.


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Nuova54. Non solo cuoceva il pane, ma lo vendeva anche55. Quel Fiorentino e Piero Lumaca panvendoli, che nel 1477 procurarono il pane per i contadini che accompagnarono i conservatori a misurare gli appezzamenti di terreno a Capodargine, potevano essere andati presso un forno oppure averlo cotto in casa, perché non erano quantità eccessive56. Avevano il vantaggio di essere fornitori del comune57, ma l’attività di venditore pubblico di pane, o meglio di venditrice poiché erano tutte donne58, si poteva esercitare anche con i mezzi del banco in piazza o quello più modesto del canestro all’interno del quale disporlo in vendita. Certamente il controllo delle diverse fasi di passaggio dal grano al pane cotto rendeva quei fornai, che erano in grado di esercitarlo, delle figure che potevano contare su una maggiore stabilità del proprio lavoro. Nel 1477 il comune compilò una matricola dei “pistores sive panvendoli” che si impegnavano a vendere nella città di Cesena, nella sua piazza e nel suo porto il pane e a garantirne l’“abbondanza”, cioè il rifornimento costante. Ne erano elencati 54 ABATI, FABBRI, MONTALTI, La rocca Nuova di Cesena cit., pp. 48, 51, 268, 279281, 283-284, 286, 296-299. 55 È infatti detto sia “fornaro” (Libro del grano, c. 39v) che “pamvendolo” (ibidem, c. 57v). 56 ASCe, ASC, 1485, c. 288r, anno 1477. Il Fiorentino ebbe quattro lire e quindici soldi, ma non conosciamo le quantità; Piero Lumaca incassò 44 soldi per mezzo staio di farina dalla quale ricavò il pane (si veda anche ASCe, ASC, 1492, c. 129r, che fornisce la data di pagamento: 20 giugno 1477). A prendere per buona la riduzione del 20%, secondo la stima proposta da GUENZI, Pane e fornai a Bologna, p. 77, il prezzo del pane venduto da Piero Lumaca istituisce una corrispondenza con quello del grano del 1476, cioè di cinque lire allo staio (è vero che si parla di mezzo staio di farina e non di grano, ma dovremmo computare altri costi). Per capire meglio, in generale, occorrerebbe conoscere i costi delle cotture. Abbiamo notizia del prezzo di cottura degli arrosti che finirono sulla tavola comunale: una lira e tre soldi (il fornaio è Federico, una nostra conoscenza: ASCe, ASC, 1492, c. 134v), ma il dato è troppo generico perché non conosciamo le caratteristiche di quella fornitura (se cioè avvenne con una o con più infornate). 57

Si veda un’altra fornitura del Fiorentino per il comune in ASCe, ASC, 1485, c. 69v.

A loro gli Statuti imponevano di non filare in attesa dei clienti (Statuta civitatis Caesenae cit., p. 280) sicuramente per ragioni di salvaguardia dell’igiene. Altrettanto prescrivevano gli Statuti delle località pedemontane (A. M. NADA PATRONE, Il cibo del ricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1981, p. 107). 58


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33, quindi 13 in più rispetto all’elenco dell’anno precedente. Fra quei tredici c’erano già artigiani di nostra conoscenza, che fra giugno 1476 e gennaio 1477 si erano precipitati ad acquistare il grano comunale. A leggere le loro ragioni sociali si scoprono alcuni nomi di figli al posto dei padri, che erano ancora vivi, segno di un’associazione familiare, che spiega talvolta perché quel tal fornaio era anche calzolaio o sarto59. In quella matricola appaiono anche altre figure cittadine di rilievo, come Francesco Iseppi, che si presentò davanti al notaio a nome di Giovanni “spirtuale”, impegnandosi per conto di lui a rifornire di pane la città. Altrettanto fece Francesco Masini che era proprietario della casa in cui abitava il fornaio di Cesenatico, Giacomo. Quindi, per risparmiare il viaggio al proprio affittuario, si presentò al suo posto nella cancelleria comunale di Cesena60. Cinque anni dopo, il panorama di quell’attività era profondamente cambiato: una serie di imprese era costituita da fornai in gran parte provenienti da fuori Cesena ad alcuni dei quali si associarono dei fornai cesenati, ed è significativa l’origine esterna an-

59 “Phedericus fornarius, habitator in platea comunis Cesene; magister Antonius Phedrici, sartor; Iacobus filius dicti magistri Antonii; Andreas Alegrini, nomine Augustini eius fratris; Guido magistri Bartolomei; Iacobus filius Nardi magistri Gaudentii, nomine sui patris; Brunus Mathei; Tamberlanus Cesene; Dominicus Prognolus; Abraam fornarius; Petrus Lumaga; Cassianus ser Francisci; Andreas barbitonsor, alias el Drago; Simon Parmisianus fornarius; Dominicus fornarius; Salomon fornarius; Florentinus fornarius; Franciscus Bosius; Iohannes Spiritualis, cuius nomine comparuit Franciscus Iseppi; Iacominus hospitator in portu Cesene, in domo Francisci Masini, cuius nomine comparuit Franciscus Masini; Mengarinus Lapi, cerdo; Angelus, ortolanus fratrum Sancti Francisci; Franciscus Ravaglini, et eius nomine comparuit eius mater; Londideus Blasii de Lassano; Iacobus Pauli, fornarius; Lazarinus Antonii; Mattheus Iacobi Binelli; Larius de Parma; magister Gregorius Petri; Franciscus Bonzanini; Simon magistri Iohannis Bargelini; Romanus Bartoli Romani; Bassanus hospitator in hospicio Hectoris, in portu” (ASCe, ASC, Matricula beccariorum Cesene, pistorum seu panvendolorum, 855/I, 23 luglio 1477). 60

Ibidem.

Dall’11 al 16 luglio 1482 si presentarono davanti al notaio a garantire la fornitura del pane alla città imprese costituite da una sola persona (Domenico del fu Bartolomeo da Modena, fornaio; Bartolomeo del fu Cristoforo, da Arezzo; Pietro di Cecchino, alias Lumaca, della contrada di San Zenone dentro; Giorgio Righi, “de Alemania”, fornaio; Tomaso del fu Guglielmo “de burgo Sancti Donini”) e da due (Nardo del fu mastro Gaudenzo della contrada di San Severo, insieme con Francesco del fu Cristofo61


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che di alcuni di questi ultimi61. Il fornaio di piazza, Federico, era “todescho”62. Le scarne indicazioni sui luoghi in cui potevano essere collocate le botteghe che abbiamo finora incontrato ne segnalano due in contrada San Zenone Dentro, due in contrada San Severo, due in Strada Dentro. Circa la continuità della gestione dei forni, dagli archivi ci giunge solo il nome di Allegrino, passato nel 1509 ad un altro membro della famiglia che aveva ancora il forno63. Il grano del quale abbiamo finora parlato era frumento, il cereale più nobile fra quanti componevano il pane che finiva sulle mense del tempo64. Nelle case benestanti esistevano riserve di grano, di altri cereali e di leguminose: si andava dalle dieci staia di frumento nella dimora di un notaio, a venti e anche a quaranta in quelle delle famiglie più ricche65, mentre nulla sappiamo dei maggiorenti cittadini, i cui granai si trovavano nella casa di città ma anche in quelle dei loro possedimenti in campagna. Quei magazzini, ben più ampi di quelli destinati all’autoconsumo (abbiamo visto un esempio della loro capacità ricettiva nel granaio di Iacopo Bucci alle Tavernelle), erano riservati alla fornitura del mercato, garantendo così ai proprietari “la remunerazione della rendita fondiaria”66. Destinatarie del pane di scaffa erano le classi più povere, che non avevano il denaro per acquistare il grano del comune, venduto a ro di Arezzo; mastro Pietro del fu Antonio da Milano, insieme con Antonio del fu Bartolomeo da Arezzo, fornaio e panvendolo; Agostino del fu Allegrino, fornaio della contrada di San Severo, insieme con Giovanni del fu Gasparino Bonzanini di Arezzo; Pier Paolo del fu Giovanni Longhi di Milano, abitante in contrada San Zenone dentro, insieme con Angelo del fu Tomaso “de Monte Boagino”), ASCe, ASC, Matricula beccariorum Cesene, pistorum seu panvendolorum, 855/I, 11-16 luglio 1482. 62

Libro del grano, c. 97r.

P. G. FABBRI, Artigiani, botteghe, osterie e locande. Ricerche sui luoghi del lavoro a Cesena nei secoli XV-XIX, Società di Studi Romagnoli ("Saggi e repertori, 28”), Cesena 2001, pp. 68-69. 63

64 “Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di biado e non di frumento” (D. ALIGHIERI, Il Convivio, a cura di G. BUSNELLI e G. VANDELLI, I, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 60 (I, X, 1-2). Si veda la disamina dei cereali in età tardomedievale, in NADA PATRONE, Il cibo del ricco ed il cibo del povero cit., pp. 62-73. 65

FABBRI, Storie di Cesena, cit., pp. 50, 53, 57 (nota 268).

GUENZI, Pane e fornai a Bologna, p. 28. 67 Secondo MARTINI, Manuale di metrologia cit., p. 153, ad uno staio cesenate corrispondevano due quartarole; PINI, L’economia di Cesena e del Cesenate cit., pp. 211-212, 66


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partite minime di una quartarola67. Comperarono quella quantità di grano e talvolta anche qualcosa di più sia alcuni cesenati di modesta condizione che riuscirono a fare fronte al pagamento, sia i proprietari di botteghe e gli uomini d’affari, che lo acquistarono per i loro dipendenti. Vangelista da Faenza, proprietario di una fornace68 ne acquistò uno staio “per li soi fornaxari”69, Gaspare da Urbino comperò “cinque quartarole”70 (quindi per cinque distinte persone71), e poi c’è la serie in cui Malatesta figlio di Bonifacio Martinelli (che era stato segretario di Malatesta Novello), Andrea dall’Arme, Gaspare Fantaguzzi, il fabbro Gaspare del Giovane, Bartolomeo Romanini, lo speziale Aloisio di Graziano presero ora una quartarola, ora uno staio, ora mezzo, ora una soma per i loro “lavoradori”72. In quei gesti possiamo vedere confermata la preoccupazione dei “ceti legati alle attività manifatturiere […] che sul mercato cittadino vi fosse abbondanza di grano a prezzi contenuti per la massa dei salariati urbani”73. Presumibilmente quel denaro sarebbe stato scontato dai salari, ma intanto quei lavoratori avevano una piccola riserva alla quale attingere, che poteva procurare un po’ di sicurezza in clima di carestia. Di fronte a quei pochi chili di grano spiccano i quintali messi al riparo nei granai delle famiglie abbienti, in grado di tenere lontani gli spettri che si sarebbero materializzati nel

fa valere la quartarola 27,5 kg, dividendo per quattro lo staio supposto di 110 kg. Qui si cita la testimonianza di chi, in età recente, in un’area influenzata da forti persistenze culturali, come l’Eremo Nuovo di Camaldoli, ricorda che la quartarola era la quarta parte di uno staio, il quale pesava 25 kg. Per raccogliere il grano nella quartarola si utilizzava un recipiente ricavato da un segmento di tronco d’albero cavo (testimonianza resa da Bruno Rossi, che ringrazio). 68 Su di lui, si veda infra. 69 Libro del grano, c. 26v. 70 Libro del grano, c. 24v. 71 Altrimenti Francesco di ser Zono, l’estensore delle note del Libro del grano (definito poi da Ettore Fattiboni di suo pugno nel Libro del grano, c. 70v, “exattor de dinari del grano”) avrebbe parlato di uno staio e di una quartarola. 72 Libro del grano, cc. 24v-30v. Destinate ad un loro “lavoradore” erano le quantità acquistate da Gaspare Fantaguzzi (ibidem, c. 27v), da mastro Antonio di Perondo (c. 29v), da Aloisio di Graziano (c. 30v). 73 G. PINTO, I rapporti economici tra città e campagna, in R. GRECI, G. PINTO, G. TODESCHINI, Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale, a cura di R. GRECI, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 52.


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1483 nella morte per fame che colpì le persone più indifese. In quell’occasione, le città romagnole cacciarono “li forestieri et poveri homini”74, secondo un criterio che sarebbe ricomparso successivamente75. A questo punto, dopo avere esaminato alcuni aspetti della vicenda legata ai rifornimenti di grano nel 1476, spicca la notizia, che si legge nel libro del depositario del comune, che nel 1461 Malatesta Novello aveva prestato alla comunità cesenate mille ducati “per comparare grano”, pagando gli interessi per due anni e quattro mesi ad un banchiere ebreo76. La nota che rammenta quell’avvenimento è dell’8 giugno 1466, di pochi mesi successiva alla scomparsa del signore di Cesena. Cristoforo Iseppi, Baldassarre Bencini, Nicolò Martinelli reclamarono il denaro che avevano dato a Malatesta Novello per pagare quel debito77. Che poi sia stato interamente saldato non sappiamo. La situazione però era la stessa che si sarebbe riproposta nel 1476, con la medesima necessità di denaro con il quale la comunità aveva dovuto acquistare il grano. Al posto di Iacopo Bucci e dei trenta sottoscrittori, nel 1461 il signore di Cesena aveva fatto fronte personalmente indebitandosi con un banchiere. Anche allora erano intervenute le personalità del mondo della finanza e degli affari, però dopo due anni e più che il debito era stato contratto, e si può pensare che Malatesta Novello avesse sollecitato il loro intervento perché stretto nella morsa dei debiti. Quello che è difficile immaginare è la diversità del contesto provocato da quell’intervento diretto di mediazione fra la città ed i banchieri. L’altro aspetto politicamente interessante della vicenda è il ruolo giocato dal papa. Sisto IV mandò il suo breve al doge il 22 giugno 1476, quindi tutti gli interventi precedenti erano stati evidente-

74

FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 9r.

Si veda il decreto di espulsione dei forestieri dalla città e dal territorio di Lucca nel 1522 in Tra abbondanza e carestia. Per una storia dell’alimentazione lucchese dal medioevo al XIX secolo, a cura di M. BROGI, Lucca 1995, p. 41. 75

76

ASCe, ASC, 1476, c. 79v, 8 giugno 1466.

“Mi medeximo Nicolò texaurero lire diexidoto de quatrini per resto de ducati diexe che mi prestai a la comunità de Cesena per dare al magnifico signore miser Malatesta Novello per resto de ducati mille che la sua signoria haveva prestato al ditto comune per comparare grano de l’anno 1461”, ibidem. 77


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mente vani, sia quello diretto di Polidoro Tiberti presso Venezia, sia la mediazione invocata del duca di Urbino, ed anzi era passato molto tempo, come diceva lo stesso papa quando ad Andrea Vendramin faceva notare che la requisizione del grano e la perdita del denaro avrebbe potuto causare un tumulto a Cesena, stretta dalla fame78. Alla fine del breve, Sisto IV usò l’argomento principale, e cioè che lo stato della Chiesa aveva fatto fronte altre volte alle necessità frumentarie di Venezia ed in quel momento si aspettava lo stesso trattamento79. Il papa si spese dunque per chiedere un favore a Venezia per i cesenati, e questo fu sicuramente un precedente, fra i tanti, che dovette creare una sorta di condizionamento delle relazioni politiche fra Cesena e Roma. Sisto IV non diede nessun sostegno finanziario, ma quell’intervento sbloccò la requisizione e dovette pesare politicamente ancora di più nella coscienza politica dei ceti cittadini che gestivano la cosa pubblica, dimostrando il vantaggio dello Stato regionale rispetto a quello cittadino. Una città non sarebbe mai stata in grado di esprimere l’orgoglio con il quale il papa ricordava ai veneziani di aver mandato loro, quando ce n’era stata necessità, il grano dai territori pontifici (“ex nostris provinciis”). Era lo stesso grado di superiorità dimostrato rispetto alle contemporanee signorie di Romagna e delle Marche quando, a fine Trecento, il signore di Cesena Andrea Malatesti mise in campo le forze congiunte della dinastia contro Forlì. Settant’anni dopo, morto Malatesta Novello (1465), che il panorama politico fosse cambiato lo dimostrò la scelta dei cesenati di entrare nello Stato pontificio piuttosto che sostenere pericolosamente la causa di una signoria divenuta impotente80.

3. La vita amministrativa della comunità. La Giustizia I limiti dell’intervento pubblico in materia annonaria, nell’ulti78

ASCe, ASC, 13, XXI, 22 giugno 1476.

“Nos quotiens opus est, ex nostris provinciis frumenti copiam tuis subministramus: nec minus tuorum quam nostrorum commoda cara habemus” (ibidem). 79

80 FABBRI, La signoria di Malatesta Malatesti (Andrea) signore di Cesena cit.; IDEM, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello cit.


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mo quarto del XV secolo, si rivelano nella precarietà degli investimenti. La comunità cesenate non aveva nessun magazzino proprio in cui ammassare le scorte e doveva quindi pagare l’affitto degli ambienti dei privati (come abbiamo visto che capitò nel 147681), così come non aveva un locale da adibire a scuola e ricorreva quindi all’affitto82. Possedeva altri edifici: primi fra tutti le cosiddette porte, cioè quelle costruzioni che prendevano il nome dalla loro parte più importante: i portoni83 che collegavano la città con il territorio esterno. Di esse la comunità curava la manutenzione muraria84 e di ciò che era sottoposto a ininterrotta usura, come gli elementi metallici ed in legno delle porte sempre in movimento e dei ponti le81 “Nobil Iacomo d’Agnolo di Bucci […] per nolo de quatro mesi del suo granaro, cioè marcio, magio, giugno e luglio, in lo qual fo messo el gran del comune condusse Bartolome Romanini del mese de marcio e da poi quello che condusse Augustin da Sugliano et altre persone in nome de la comunità, a rason de lire 20 l’anno” (ASCe, ASC, 1485, c. 257v, 13 luglio 1476). 82 Dario Tiberti fu risarcito con 22 lire per il “danno” ricevuto nella casa che egli aveva dato in affitto “ad uso di scola” (ASCe, ASC, 1485, c. 288r, anno 1477). Anche Iacopo Bucci diede una propria casa in affitto alla comunità (ibidem, c. 203v). Nel 1491 la scuola era nei locali di una casa di proprietà dell’Ospedale del Crocifisso, data a nolo al prezzo di 20 lire ogni sei mesi (ASCe, ASC, 1516, c. 70v). Nello stesso anno era presa in affitto da Agusello Aguselli una casa per il medico della comunità, al prezzo di 22 lire e 10 soldi ogni sei mesi (ibidem). Da notare che, per pagare le spese del maestro di scuola, nel 1476 ci si propose di attingere al dazio del macello, “quod vulgo dinarinum appellant” (ASCe, ASC, 51, c. 81v). 83 “Portuni” sono chiamati quelli di porta Trova (ASCe, ASC, 1485, c. 70r, anno 1472). C’è poi il significato estensivo di Porta ai vari spicchi dell’area cittadina: “la “Porta” non è più un piccolo, limitato centro giurisdizionale, ma si allarga, si territorializza, diventa un elemento distintivo dei suoi abitanti” (C. G. MOR, Topografia giuridica: stato giuridico delle diverse zone urbane, in Topografia urbana e vita cittadina nell’alto medioevo in occidente, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, I, Spoleto 1974, p. 339). 84 ASCe, ASC, 1485, c. 73r, dove si parla di fornitura di coppi per il tetto di porta Trova. 85 “Dui rastelli ha facto alla porta Figarola, […] per l’usso dal canto de fora dal ponte levaduro” (ASCe, ASC, 1483, c. 85r, 9 gennaio 1471). “Per quatri peroni tondi con quatre rodelle et quatre biette de ferro per li rastelli de la porta Figarola et per quaranta doe caviglie per ficare in dicti rastelli” (ibidem, c. 85v, 22 gennaio 1471). “Per conzare la porta da le calegarie et per una chiave grossa e ficare et reconzare la seradaura a l’argano de la dicta portaza, […] per una chiave grossa have li piazari per potere andare a sonare la campana de la raxone” (ibidem, c. 86r, 9 febbraio 1471). “Per do coregge nove […] per le strache del ponte de la porta del Fiume (ibidem, c. 73v, anno 1472).


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vatoi, che si abbassavano tutte le mattine e si rialzavano la sera85. Aveva avuto poi in eredità da Malatesta Novello la cura della libreria del convento di San Francesco e prendeva quel compito molto sul serio, come dimostrano le spese affrontate per la riparazione del tetto86, per la legatura dei libri, ed anche quelle impreviste, come quando ci furono difficoltà per fare rispettare le volontà di Giovanni di Marco. Nel suo testamento il medico riminese di Malatesta Novello aveva deciso che i propri libri confluissero nella biblioteca cesenate che era stata realizzata anche con il proprio contributo di idee, ma dopo la sua morte qualcuno cercava di trattenere i libri a Rimini87, cosicché un inviato del consiglio cesenate dovette recarsi sul posto ad imporre il rispetto della volontà del testatore. Quel gesto costò denaro alla comunità, perché il notaio Antonio Zanolini si trattenne a Rimini per nove giorni88 a controllare l’esecuzione del testamento, cioè per verificare che i libri di Giovanni di Marco non fossero sottratti o sostituiti con altri di minor pregio e probabilmente quell’intervento della comunità cesenate garantì l’integrità della raccolta libraria89. Un altro campo di competenza del comune era il controllo della regolarità del commercio e del mercato; la spesa in questo settore era più modesta ed è utile a noi per riuscire a capire. Il comune commissionava ad un magnano la fattura di “trenta pixi de ferro 86

ASCe, ASC, 1485, c. 69v, anno 1472.

I conservatori mandarono a Rimini Baldassarre da Lizzano e ser Antonio Zanolini “per deffendere e vedere de havere li libri forono de mastro Giovanni de Marco lassati per testamento suo a la libraria de San Francesco […] da Cesena, i qual libri ce sonno impediti e bisogna co la rason defenderli” (ASCe, ASC, 1485, c. 206r, 30 giugno 1474). 87

88 Ser Antonio Zanolini andò a Rimini “per conseguir, in nome de la libraria del convento de San Francesco, i libri de mastro Giohanne de Marco da Rimino legati per testamento suo a ditta libraria, li quali volumi sonno circa centoventi condutti secondo l’inventario de mano de ser Nicolino d’Arimino, dove ditto ser Antonio stette dì nove comenciati […] per tutto dì XXI de luglio con un cavallo e un famiglio”, con una spesa complessiva di sei lire e dieci soldi (ASCe, ASC, 1485, c. 207v). 89 P. G. FABBRI, Dentro il dominio e la cultura dei Malatesti: Giovanni di Marco a Cesena, in La biblioteca di un medico del Quattrocento. I codici di Giovanni di Marco da Rimini nella Biblioteca Malatestiana, a cura di A. MANFRON, Torino, Allemandi, 1998, pp. 17-37. 90

ASCe, ASC, 1483, c. 84v, 17 dicembre 1470.


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comenzando a meza libra l’uno perfino a libre cinque de pexo per fornire cinque banche da bechari”90. Quindi le cinque botteghe di beccaio in quel 1470 erano obbligate ad usare i pesi forniti dal comune e contrassegnati dal bollo pubblico per garanzia dei consumatori. La serie di sei pesi partiva dal più piccolo di mezza libbra ed arrivava al maggiore di cinque. Già due mesi dopo, quel magnano ricevette l’ordine di approntare altre due serie di pesi per altri due beccai, disposizione che fa pensare a norme non rigide di concessioni di licenze e che ci informa anche sui pesi intermedi di uno, due, tre, quattro libbre91. I campi di intervento erano più ampi di questi ora abbozzati, e la nascita dell’ufficio dei regolatori, addetti al controllo del commercio, ci parla di una consapevolezza delle proprie attribuzioni che la comunità avvertiva sempre di più. Nel 1469 i tre regolatori in carica (fra i quali era Andrea Zanolini) ebbero dai conservatori l’incarico di misurare una “barila”, cioè uno dei recipienti più comunemente usati, e di affidarla, munita di una bolla, agli ufficiali deputati alle misure perché controllassero l’adeguatezza a quello strumento di tutti i recipienti di quel nome presenti sul mercato. Come facessero quegli uomini ad approntare una “barila” che avesse un contenuto corrispondente all’ideale fissato dalle leggi del comune cesenate, è detto dal testo della delibera pubblica. I regolatori (fra i quali c’era un fabbro) dovevano comperare una “barila” e quella “ponderare et mensurare” con un barile e boccale “giusto” del comune di Cesena, cioè corrispondente alla misura invocata92. Sicuramente la “barila” appropriata doveva essere quella, fra le tante prese in considerazione dai regolatori (proba-

91 “Ultra le cinque banche di bechari che sono forniti, per doe altre banche, zoè quella de Cristofano de madonna Albura et de Bartolomeo de mastro Iacomo dai Puci per dui pixi forniti da meza libra perfino a libre cinque, che assende in somma a libre trentauna” (ibidem, c. 86r, 9 febbraio 1471). 92 “Andreas Zanolinus, Monte Tibertus regulatores et magister Gaspar Iuvenis emant pro comune Cesenne unam barilam et illam iuste et bene debeant ponderare et mensurare cum barila et bocale iusto comunis Cesene, et illam bullatam et sic mensuratam consignare debeant offitiali super mensuris et bullis deputato" (ASCe, ASC, 50, c. 10v, 22 agosto 1469). 93 Secondo MARTINI, Manuale di metrologia cit., p. 153, il barile cesenate corrispondeva a 32,97 litri, e conteneva 27 boccali (ciascuno dei quali conteneva a sua volta 1,22 litri).


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bilmente a prestito dagli artigiani produttori), che conteneva la quantità esatta del numero di boccali previsto93. Il sistema messo in opera da quei tentativi denuncia dei limiti apparsi ancora più evidenti in altre circostanze, come quando prese fuoco una notte l’osteria della Campana e contestualmente almeno due dipendenti del comune furono incaricati di andare a comperare presso uno speziale due torce per vincere il buio della notte e due secchi per attingere acqua con la quale spegnere il fuoco. “Fo cosa debita e necessaria” aggiungeva a commento giustificativo il depositario che aveva annotato quella voce di spesa94. L’incendio dell’osteria doveva essere stato un imponente fenomeno collettivo, se ne aveva preso nota anche il giovane Giuliano Fantaguzzi, allora diciannovenne, che nella sua cronaca cittadina aveva registrato sotto il 1472 quell’unico avvenimento (“la ostaria con le stalle da la Campana questo anno se abrusò tutta, fuoco grandissimo”)95. L’edificio di cui andava maggiormente orgoglioso il gruppo dirigente era il palazzo del conservatori, fatto erigere dopo il ritorno di Cesena allo stato ecclesiastico. Un dipinto della metà del Seicento ce lo mostra coronato di merli, come la rocca96. Le note del depositario, oltre ad enumerare arredi anche preziosi97, ci parlano della vita amministrativa che vi ferveva. Quell’ufficiale della comunità registrava la spesa di 42 soldi, fatta dallo scalco del palazzo, per l’acquisto di torce e di candele di sego. Queste si erano “logorate per fare lumo la notte” a coloro che erano stati incaricati di rivedere i conti del precedente depositario e di farne altri ancora. Si erano trattenuti fino a mezza notte e le torce erano servite poi per accom“Sante de Molducio soldi 26 per dui dopieri tolti la notte se caciò el fogo in la ustaria da la Campana […] e per doe sechie per portar aqua al ditto fogo […]. Fo cosa debita e necessaria” (ASCe, ASC, 1485, c. 71r, 12 marzo 1472). Sulla spezieria di Sante di Molduccio si veda almeno ibidem, c. 69v. 94

95

FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 6v.

M. MENGOZZI, La Cattedrale di Cesena, Cesena, Stilgraf, 2002, p. 31. Che fosse merlato ci è detto anche da Fantaguzzi, quando raccontò le conseguenze del terremoto del 1483: “gettò a terra li merli del palazo d’im piaza et de li conservaturi” (FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 9r). 96

97 Un orefice fece un calice, del valore di 34 lire, per quel palazzo (ASCe, ASC, 1485, c. 75r). 98

ASCe, ASC, 1492, c. 125r, 10 dicembre 1476.


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pagnarli a casa98. Le incertezze del cammino in quella profonda notte invernale dovevano essere tante, ad incominciare dal fossato che circondava la città e che era possibile attraversare sopra i ponti levatoi gettati dalle porte. Nel 1476 una pestilenza aveva colpito degli “albanesi”, che furono ricoverati nell’ospedale di Sant’Antonio, subito fuori dalle mura, e lì accuditi. Per agevolare chi portava loro il cibo, con “stanghe e pali” fu fatta “una asciadura sopra el fosso che va a Santo Antonio, dove erano li albanexi amalati de morbo”99. Quel ponte provvisorio era dunque un’eccezione che favoriva il cammino, ma ve ne potevano essere altre ad impedirlo, facendo fare brutti incontri con malviventi o con nemici personali. Al tema della sicurezza erano dedicati gli sforzi del potere sia centrale che cittadino. Dentro il palazzo un maestro pittore, di nome Giovanni, “depinse la iusticia in la sala grande”100, rappresentò cioè la figura femminile che ornava i palazzi comunali italiani ad illustrare quello che era ritenuto il compito principale del comune: garantire cioè il rispetto delle leggi attraverso la repressione dei delitti. A Siena la Giustizia sorreggeva una bilancia sui cui piatti un angelo decapitava i rei ed incoronava i buoni ed un altro distribuiva secondo i meriti. Successivamente era raffigurata mentre teneva in una mano una testa mozzata101. Non a caso le espressioni che nominavano le esecuzioni capitali avevano al centro la parola giustizia: un esecutore di giustizia aveva mozzato la mano ad un tale e poi l’aveva impiccato102, era stata fatta giustizia ad un altro, che fu ucciso dal boia103, così come fu

ASCe, ASC, 1492, c. 129v. Alla c. 132v notizie su chi si occupava di loro e portava il cibo (30 giugno 1477). 99

100

ASCe, ASC, 1485, c. 220r, 31 ottobre 1475.

M. M. DONATO, Il pittore del Buon Governo: le opere “politiche” di Ambrogio in Palazzo Pubblico, in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, a cura di C. FRUGONI, Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 218-221. M. ASCHERI, Le città-Stato, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 126, 144, ricorda la Maestà dipinta da Simone Martini in Palazzo Pubblico, con il Bambino che reca un cartiglio sul quale è scritto: “Diligite iustitiam vos qui iudicatis terram”. 101

102

ASCe, ASC, 1485, c. 204r.

103

ASCe, ASC, 1485, c. 287v.

104

ASCe, ASC, 1492, c. 125r, 8 gennaio 1477.

105

ASCe, ASC, 1483, c. 85r, 9 gennaio 1471.


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fatta “iusticia de Bartolomeo”104. Quel pittore aveva ricevuto otto lire, non poche se paragonate ai venti soldi (cioè una lira) che ebbe il pittore Agostino “per dopingere la bandirola da la giostra”105 e ai tredici soldi “per dopingere el pe’ de la nostra Donna, quale è in conservato”106. I pittori avevano un compenso commisurato anche al loro ingegno. Giovanni dipinse cinque figure nella casa delle gabelle, pagate con undici lire e quattro soldi “per sua fadica e mente”107. Queste immagini, così come la Madonna (di cui Agostino ritoccò probabilmente soltanto un particolare) in atto probabile di Maestà e la figura della Giustizia nel palazzo dei conservatori, dovevano avere un immediatamente percepibile significato simbolico che esprimeva i programmi politici del gruppo dirigente cesenate. Fra di questi, determinante per la vita pubblica, era il sistema delle relazioni con il comitato108. Nella precedente età malatestiana, la signoria aveva mitigato le asprezze dell’élite cittadina che non voleva accettare nessuna delle ragioni degli abitanti del comitato, e gli argomenti usati da Malatesta Novello rivelano molto buon senso quando riconosceva ai contadini il diritto di non pagare per i servizi non goduti. Il ritorno di Cesena nello stato pontificio fu accompagnato da un periodo di dura repressione delle simpatie per il dominio malatestiano. Dopo l’impiccagione dei sostenitori di casa Malatesti nella piazza di Cesena109, il governatore invitò il consiglio a nominare una commissione per accertare la consistenza dei beni requisiti ai ribelli, una quarta parte dei quali, per volontà del pon106

Ibidem.

107

ASCe, ASC, 1500, c. 64v, 27 giugno 1478.

Disponiamo di una lettera inviata il 24 gennaio 1484 da Angelo da Recanati, luogotenente di Lorenzo Zane, al vicario del castello di Roversano, che in quel momento era il notaio Dante Alessandri. In essa gli imponeva di non permettere la vendita del grano ai forestieri, sotto pena di una multa e della perdita delle bestie usate per il trasporto (ASCe, notarile, Dante Alessandri, 115, c. 9r). Quel grano evidentemente doveva costituire una scorta per la città e la proibizione della vendita toglieva ai proprietari l’occasione di fare bei guadagni, dato l’aumento, in quegli anni, del prezzo del prezioso cereale. 108

109 “Qui ex rebellione suspensi fuerunt de anno pressente preterito in publica platea Cesene” (ASCe, ASC, 50, c. 42v, 1° febbraio 1470). Si veda anche FABBRI, Cesena tra Quattro e Cinquecento cit., p. 23. 110 ASCe, ASC, 50, c. 42v, 1° febbraio 1470. Quella commissione fu formata da Francesco di ser Zono, da Francesco Iseppi e da Giovanni il Guascone.


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tefice, era destinata al comune di Cesena110. Pochi mesi prima, nel 1469, Lorenzo Zane, nella sua qualità di tesoriere di Romagna, aveva esposto ai conservatori cesenati le sue volontà: Ho ordinato che de tutto el conta’ de Cesena continuamente siano qui in campo cento guastatori ultra li balestrieri ho domandato, forniti almanco per otto dì et scambiati de tempo in tempo, advisandove che ho etiam ordinato se ne tenga bon conto meglio che non s’è facto per lo passato111.

L’avvertimento che i metodi del passato non sarebbero stati tollerati sembra tradursi nella nota che riguarda il pagamento ad un tagliapietre di un’arma in cui comparivano le insegne del papa, del governatore e della comunità, “la quale pedra vole mettere per memoria in la sponda del ponto novo fatto sopra del Pisadello, apresso Sam Lagiaro”, ed il denaro necessario per quella commissione veniva dalle “pene de li dexobidienti che non andorono a lavorare ditto ponto”112. Dunque i disobbedienti erano stati multati e quell’insegna di pietra messa sulla sponda del ponte voleva ricordare l’intervento di punizione e costituirne la prova, concretizzandosi nei simboli dei poteri oltraggiati, unanimi nella decisione. Sicuramente dentro il consiglio dei 96 le relazioni con il comitato costituirono sempre materia di confronto politico. In quegli anni sentiamo particolarmente levarsi le voci di chi non voleva ascoltare le ragioni dei contadini. Così come di continuo si alzavano le richieste di revisioni degli estimi in modo da favorire una diversa ripartizione delle imposizioni fiscali. Un consigliere, di mestiere tintore, interveniva in merito alle richieste che aveva fatto Lorenzo Zane nel 1469 per mantenere il campo ecclesiastico, le quali prevedevano il versamen111

ASCe, ASC, 50, c. 8r, 21 agosto 1469.

ASCe, ASC, 1492, c. 133r, 30 giugno 1477. Il disobbediente fu Rodolfo da Formignano. 112

113

ASCe, ASC, 50, c. 8v.

Exercitium è la parola latina usata dal verbalizzante che traduceva l’intervento di Pietro tintore (“imponatur colecta inter cives et habitatores omnes huius magnifice civitatis, ipso facto exigendam per extimum et per fumum ac etiam super exerciis eorum qui extimum non habent” (ASCe, ASC, 50, c. 9v). Exerciis vale probabilmente exercitiis, e la stessa abbreviazione troviamo in un atto in cui si parla di commercio “in arte, traffico, merchancia et exercio piscium” (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 90, 18 novembre 1472). 114


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to da parte dei cesenati di duecento ducati113. Quell’artigiano si diceva d’accordo che fossero fatte per estimo e per fumo, cioè sulla base delle proprietà (“per extimum”) e di imposizioni fisse (“per fumum”), ma voleva estendere verso il basso la fascia contributiva114. 4. Gli Albizzi a Cesena. Il caso Eburniolo Eburnioli. I clan Una delle maggiori occasioni di affari offerta dall’economia cesenate era l’appalto della riscossione dei dazi e delle gabelle. Nel 1480 Ettore Fattiboni si lamentava di fronte al consiglio che quell’impresa gli era andata male, perché le provvidenze pubbliche per timore della peste115 avevano tenuto i mercanti lontani da Cesena ed egli ne aveva ricevuto danno116. La sua richiesta di risarcimento, seppure sostenuta da qualche consigliere117, si era scontrata con un’opposizione che si può comprendere non fosse molto toccata dagli argomenti di chi piangeva sulla sorte di un investimento fallito, in particolare perché Ettore Fattiboni non doveva riscuotere molte simpatie. Dario Tiberti lo accusò di avere mescolato “cum mixtura” il grano, per il cui acquisto la comunità gli aveva affidato 400 ducati d’oro118. 115 Si vedano il testamento di una donna “languens morbo epidemie”, ASCe, notarile, Antonio Forti, 170, 28 ottobre 1478. Sulla peste in un’altra città romagnola, si veda O. DELUCCA, La peste del 1485 a Rimini, “Studi romagnoli”, XXXIX (1988), pp. 41-49. 116

ASCe, ASC, 53, c. 9v.

Ser Antonio Zanolini: “iusta petenti non est deneganda iustitia”, ASCe, ASC, 53, c. 10r. 117

118 Ibidem, c. 20r. Si veda in ASCe, ASC, 51, c. 75r-v, 21 gennaio 1476, la riprovazione del consiglio verso Ettore Fattiboni e Francesco Severi, che non avevano portato il grano promesso, in un momento in cui la mancanza di esso si sentiva (“cum instet quotidie magna indigentia et a predictis non conducantur frumenta”): Pier Antonio Eburnioli disse che Ettore Fattiboni doveva essere obbligato a mantenere le proprie promesse, ser Stefano Stefani invitava a cercare altre strade più affidabili. C’è da aggiungere il vecchio risentimento provato da Dario Tiberti nei confronti di Ettore Fattiboni, che nel 1461 si era offerto di acquistare il bosco che Dario Tiberti non aveva denunciato come proprio: FABBRI, La società cesenate cit., pp. 26-27.

Al conduttore dei dazi e delle gabelle era fatto carico di dover provvedere alla manutenzione della Via Nuova, al pagamento dei salari della podesteria del porto e degli ufficiali addetti alla manutenzione delle vie (ASCe, notarile, Dante Alessandri, 115 bis, 12 aprile 1486). 119


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Nel 1486 Francesco degli Albizzi vinse l’appalto della riscossione dei dazi e delle gabelle della comunità. La somma, per la quale il nobile di origine fiorentina si impegnò, era alta: 14.600 lire d’argento all’anno, oltre ai compensi da corrispondere agli ufficiali addetti alle operazioni annesse119. Trovò allora come soci i due fratelli Bartolomeo e Malatesta, figli di Bonifacio Martinelli. Il primo, a sua volta, divise i rischi dell’impresa con Annibale Lapi ed il notaio Pietro Zanolini120: periodicamente bisognava corrispondere all’amministrazione comunale una quota della somma per la quale ci si era impegnati, confidando nel successo della società, che dipendeva da variabili di difficile previsione. La paura della peste, come abbiamo visto, era una di queste. Fra i nomi dei prestatori per l’acquisto del grano della comunità ed i nomi di chi era in grado di affrontare grosse imprese, come l’acquisto dei mulini e la conduzione delle gabelle, si apre un solco: questi ultimi appartenevano agli strati più alti della società e si può supporre che tali occasioni fossero loro riservate per consuetudine. Basta far caso ai nomi dei primi conservatori per capire che occupavano tali posizioni la nobiltà di origine feudale121 e tutti coloro, i più numerosi, che avevano ricoperto cariche di prestigio al servizio della cosa pubblica. I figli di Bonifacio Martinelli, che era stato cancelliere di Malatesta Novello e aveva riscosso consensi da tutte le parti sociali per aver assolto bene il proprio incarico, rientravano in tale categoria. In questi anni si manteneva quindi intatta l’eredità malatestiana con l’alto ruolo riservato ai Martinelli, agli Eburnioli e a Gottifredo Isei. La concessione dell’appalto delle gabelle a Francesco Albizzi ha un sapore di intervento della parte più alta delle famiglie cesenati, mirante a procurare occasioni di affari ad una famiglia che era stata accettata all’interno della comunità grazie al matrimonio che Francesco aveva contratto con Catalina, figlia di Giovan Antonio Almerici122, consigliere dotato di un alto reddito. Da una parte c’e120

Ibidem.

I cosiddetti cavalieri. 1486: “miser Marcho Casino, miser Agosello, miser Polidoro, miser Camillo da Iseo se feceno cavalieri” (FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 11v). 121

122 ASCe, notarile, Gaspare Antonini, 255, 22 gennaio 1484. Si parla di Catalina, moglie di Francesco del fu Masio degli Albizzi, e figlia di Giovan Antonio “domini Ghirardi de Almericis”.


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ra dunque l’accordo, fra i consiglieri che in quel momento sedevano in conservato (perché anche di queste coincidenze viveva la politica cittadina), di procurare un grado confacente all’esule da poco arrivato. Certamente quella decisione fu influenzata dalla protezione concessa da Sisto IV al membro di una dinastia perseguitata dai Medici, ai quali il pontefice aveva tolto la propria fiducia123. Negli anni dal 1477 al 1479 Francesco, figlio di Masio di Rinaldo degli Albizzi, era vicetesoriere della camera apostolica124, viveva a Cesena nella casa che era appartenuta a Golfino da Barignano, cugino di Antonia, madre di Malatesta Novello125. In quella casa era vissuto

123 Sull’inimicizia fra Sisto IV e Lorenzo de’ Medici, alla cui famiglia il papa nel 1474 aveva tolto “l’incarico di principali banchieri papali”, L. MARTINES, La congiura dei Pazzi. Intrighi politici, sangue e vendetta nella Firenze dei Medici, Milano, Mondadori, 2004, pp. 84, 178-202. Il LITTA, Famiglie celebri italiane, 14, tav. XVI, ricorda l’intenzione di Sisto IV “di fare cosa non grata ai Medici”, nominando Francesco degli Albizzi “tesoriere della Romagna nel 1478”. 124 Il titolo di vicetesoriere della camera apostolica, di cui era insignito Francesco degli Albizzi, si trova in atti del 1477 e del 1479, citati qui di seguito. Nel 1482 Francesco degli Albizzi è chiamato invece tesoriere. Si tratta di un atto con il quale questi cedeva la propria quota di proprietà della compagnia dei mulini a Francesco Severi, annullando con ciò un debito di 450 lire che egli aveva contratto verso quest’ultimo nella condotta delle gabelle cesenati (ASCe, notarile, Dante Alessandri, 114, 12 giugno 1482, c. 51r). E con ciò avremmo la prova di un coinvolgimento di Francesco degli Albizzi in quest’impegno pubblico in età antecedente al 1486. 125 Su Golfino da Barignano a Cesena, FABBRI, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello cit., ad indicem. In un atto di remissione di un debito rogato a casa di Francesco degli Albizzi, così scrisse il notaio: “in contrata Crucis, in domo [heredum Gulfini in qua: depennato] habitationis magnifici viri domini Francisci de Albicis” (ASCe, notarile, Dante Alessandri, 113, 2 settembre 1479). La discendenza di Francesco degli Albizzi da Rinaldo è documentata in ASCe, notarile, Dante Alessandri, 115 bis, 12 aprile 1486 cit. (“generosus vir dominus Franciscus quondam felicis memorie domini Masii domini Rainaldi de Albicis”). Sulla discendenza di Masio degli Albizzi, si veda LITTA, Famiglie celebri italiane cit., dove appaiono Nicolò, Pier Antonio e Francesco come figli di Masio. 126 Si trattava di una dote di 1200 fiorini (su di essa, FABBRI, Storie di Cesena, cit., p. 147). Ai documenti ivi citati, si aggiunga ora anche ASCe, notarile, Dante Alessandri, 113, 14 luglio 1477, cc. 22r-v, 31r. L’atto, con cui Francesco degli Albizzi si impegnava alla restituzione della dote, fu rogato a Croce di Marmo, “in domibus heredum Gulfini, in qua dicti dominus Franciscus et domina Castora ad presens habitant”. Furono presenti alla stesura dell’atto i dottori in legge Baldassarre del fu ser Giovanni da Lizzano, Andrea Allegri di Rimini e i due fratelli Bartolomeo e Malatesta Martinelli. Erano uomini legati per tradizione alla dinastia malatestiana.


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insieme con il fratello Nicolò, che aveva sposato Castora, figlia di Biondo Flavio. Nel 1477, alla morte di Nicolò, Castora aveva chiesto la restituzione della dote126 e Francesco aveva nominato proprio rappresentante Gaspare Biondo, fratello di Castora e segretario apostolico, a recuperare parte del denaro di quella dote presso il fratello Pier Antonio degli Albizzi127. La residenza degli Albizzi nella casa appartenuta ad un membro dei Malatesti rivela il favore di cui godevano a Cesena gli esuli fiorentini nipoti di Rinaldo, il principale rivale dei Medici negli anni Trenta e non è difficile immaginare che la protezione continuasse con Innocenzo VIII, salito al pontificato nel 1484. Nicolò e Francesco si inserirono a pieno titolo nella società cesenate, aiutati dal sostegno pontificio che si espresse sicuramente attraverso i governatori di Cesena. Un atto di prelievo di venti dei quaranta ducati d’oro, che Francesco degli Albizzi aveva depositato presso Aloisio di Graziano128, ci conferma un dinamismo che non poteva che nascere da una realizzata integrazione locale129. Inoltre ci fa anche capire l’origine della ricchezza di Aloisio di Graziano, che era dunque banchiere oltre che speziale. 127 Nell’atto di nomina di Gaspare Biondo a rappresentante di Francesco Albizzi, il notaio scrisse a parte, scrupolosamente, i titoli con i quali insignire Gaspare Biondo: “Magnificus dominus Gaspar Blondus, apostolice camere custos, sanctissimi domini nostri secretarius ac scriptor apostolicus”, dopo di che sostituì con quei titoli corretti gli altri con i quali gli era sembrato di averlo definito impropriamente nel documento (ASCe, notarile, Dante Alessandri, 113, 5 aprile 1479, c. 64r-v). 128 ASCe, notarile, Dante Alessandri, 113, 21 giugno 1479. Anche in questo documento Francesco degli Albizzi era definito vicetesoriere della camera apostolica, e si diceva che abitava “in domo heredum Gulfini, habitationis ipsius domini Francisci”. 129 Si vedano anche i seguenti documenti: ASCe, notarile, Dante Alessandri, 114, 30 maggio 1481, c. 10r (cessione di un mulino a Francesco degli Albizzi, da parte di un bertinorese, per 400 lire); ASCe, notarile, Dante Alessandri, 114, 6 ottobre 1481, c. 21r (controversia sulla produzione e vendita dell’olio, in cui Francesco degli Albizzi era una delle due parti). 130 ASCe, ASC, 52, c. 42r, 24 agosto 1479. Nel 1484 in un atto notarile era definito “nobilis vir Iohannes Franciscus quondam Iohannis Iseppi olim Almerici” (ASCe, notarile, Antonio Forti, 172, 13 novembre 1484). Altrove si legge che il “vir nobilis Iohannes Franciscus quondam Iohannis Iseppi Almerici” aveva dal 1478 in affitto una tenuta di Lucrezia Malatesta “extense” per la quale aveva pagato 144 ducati d’oro (ASCe, notarile, Antonio Forti, 172, 12 agosto 1483). Nel 1488 era dichiarato morto ed il patrimonio passò in eredità al fratello Lodovico (ASCe, notarile, Antonio Forti, 172, 27 febbraio 1488).


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Un’altra prova dell’avvenuta integrazione di Francesco degli Albizzi è nel sostegno, fatto in consiglio nel 1479, a Giovanni Francesco Iseppi a ricoprire il posto di consigliere130. Quella presa di posizione dimostrava l’inserimento nel meccanismo delle logiche dei clan, i cui legami sarebbero diventati utili in qualche circostanza. I consigli di Giovanni di Paolo Morelli ai figli, perché si procurassero in tutti i modi possibili l’amicizia e le buone relazioni con i propri concittadini131, andavano in quella direzione, compresa la ricerca di benevolenza quando si dovevano fissare i ruoli fiscali. L’intervento fatto nel 1483 da papa Sisto IV perché fosse nominato nel consiglio cesenate Polidonne Tiberti, al posto del padre Ascanio defunto, rivela che la cura degli equilibri all’interno delle classi dirigenti cittadine era sentita anche ai vertici dello stato, consapevole della forza dirompente che potevano avere certe attese non corrisposte. Polidonne Tiberti aveva un anno in meno dei 25 previsti dagli Statuti cittadini perché potesse entrare in consiglio, e così occupare le ambite cariche pubbliche132, ma il papa alluse al posto che sarebbe di lì a poco stato reso vacante dall’allontanamento di Eburniolo Eburnioli, accusato del “crimine di lesa maestà”. Poteva Polidonne Tiberti, “nobili familia oriundus”, non subentrarvi? E a questo punto abbiamo anche notizia di un procedimento aperto contro uno degli uomini che avevano fatto parte della cerchia di Malatesta Novello133. Eburniolo era uno dei tre sottoscrittori dell’acquisto dei mulini appartenuti ai Malatesti: con il proprio nome aveva dato la garanzia di partecipazione di un settore del gruppo dirigente che nel 1483 sembrava non essere più richiesta ed anzi sembrava essersi sfilacciata. Nel 1484 il suo destino infine si consumò, subendo egli l’esilio e la privazione di tutti i beni134. La raccomandazione di Sisto IV a favore di Polidonne Tiberti ri131 Lo ricorda opportunamente E. CONTI, L’imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1427-1494), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1984, pp. 105-106. 132 Il breve, inviato da Sisto IV il 22 novembre 1483, fu trascritto in ASCe, ASC, 56, cc. 6v-7r. Stando alle informazioni in esso contenute, Polidonne Tiberti era nato nel 1459 circa. In quel 1483 Polidonne aspirava alla carica di maggiore della custodia (ibidem). 133 Nel breve si legge che il consigliere Eburniolo Eburnioli “ob crimen lese maiestatis ac alia sua demerita ab ipso consilio deponendus veniat” (ibidem). 134

FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 11r.


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chiama qualcosa di analogo che aveva turbato i lavori del consiglio cesenate qualche anno prima. Il 10 settembre 1480 il papa aveva inviato al consiglio cesenate un breve con il quale si ingiungeva di nominare podestà di Cesena Masio Maldenti, “militem et doctorem forliviensem”. Se i cesenati nel frattempo ne avessero nominato un altro, egli annullava la loro decisione135. In quell’occasione intervenne anche Girolamo Riario con una lettera, con la quale ricordava al consiglio cesenate la volontà di Sisto IV136. Per il prediletto nipote il pontefice aveva acquistato Imola da Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e aveva combinato il matrimonio di Girolamo con Caterina, figlia naturale del duca137. Per annodare alcuni fili che tenevano unite le famiglie romagnole favorite da Sisto IV, ricordiamo che Flavio Biondo aveva sposato nel 1423 Paola di Iacopo Maldenti138 e comprenderemo meglio il ruolo che aveva Gaspare Biondo come rappresentante di Francesco Albizzi. Alla base di tutte quelle relazioni era la volontà di Sisto IV e l’adeguamento ad essa del gruppo dirigente cesenate. Nell’atto che disciplinava le modalità del confino comminato ad Eburniolo Eburnioli, era detto che questi aveva attentato contro lo stato della Chiesa e di Girolamo Riario, vicario pontificio di Imola e Forlì139. L’accusa era formulata in termini generali, ma la presenza del nipote di Sisto IV come parte lesa fa capire bene che la colpa commessa da Eburniolo Eburnioli consisteva nell’essersi opposto al potente nuovo signore romagnolo. Nell’atto Eburniolo si im-

135

ASCe, ASC, 13, XXXII, 10 settembre 1480.

Si vedano le trascrizioni del breve e della lettera in ASCe, ASC, 53, c. 28r, 19 settembre 1480. La lettera di Girolamo Riario, da Roma, ai “priori” cesenati, è in data 12 settembre. 136

137 M. PELLEGRINI, Congiure di Romagna. Lorenzo de’ Medici e il duplice tirannicidio a Forlì e a Faenza nel 1488, Firenze, Olschki, 1999 e anche MARTINES, La congiura dei Pazzi cit., pp. 110, 156.

GIOVANNI DI M°. PEDRINO DEPINTORE, Cronica del suo tempo, a cura di G. BOR- M. VATTASSO, con note storiche di A. PASINI, I-II, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana (“Studi e testi, 50”), I, 1929, p. 486; R. FUBINI, Biondo Flavio, in Dizionario biografico degli italiani, X, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1968, p. 539. 138

GHEZIO

139 ASCe, notarile, Gaspare Marri, 102, 31 ottobre 1483. L’originario strumento di condanna di Eburniolo Eburnioli è in ASCe, notarile, Antonio Forti, 170, 11 ottobre 1483.


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pegnava a non allontanarsi dal luogo dell’esilio, ed erano evocati come suoi fideiussori dieci “nobili” cittadini di Cesena: Azzo Lapi, il fratello Pier Antonio Eburnioli, Marco Casini, Agusello Aguselli, Bartolomeo e Malatesta figli di Bonifacio Martinelli, Annibale e Camillo figli di Taddeo Lapi, Pietro Zanolini, Francesco di Gaspare Fantaguzzi. Si impegnarono tutti a pagare in proprio qualora le ricchezze di casa Eburnioli non fossero bastate a far fronte alla pena di 1500 ducati d’oro prevista in caso di fuga del condannato dal confino140. Eburniolo aveva sposato Virginia, figlia di Taddeo Lapi, quindi Annibale e Camillo erano cognati del reo. La relazione con i Lapi toccava anche la famiglia Fantaguzzi, perché Violante, un’altra sorella di Annibale e Camillo, aveva sposato nel 1481 Francesco Fantaguzzi, fratello di Giuliano141. I fratelli Martinelli, infine, erano cognati di Pier Antonio Eburnioli142. Eburniolo non stette ai patti e quindi gli fu requisito ogni bene: [1484] Borniolo questo anno fo confinato a Napolli et, abiando rotto le confine, la camera li tolse ogne cosa143.

L’origine di quella cattiva sorte si colloca, secondo quanto si sa, almeno all’aprile 1483, data di un documento con il quale Pier An140 Per di più erano impegnate le doti della madre e della moglie di Eburniolo, Virginia figlia di Taddeo Lapi (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 102, 31 ottobre 1483). 141 Si veda l’atto di costituzione della dote di 600 lire alla quale si obbligarono Camillo e Annibale per la sorella Violante, sposa di Francesco Fantaguzzi (ASCe, notarile, Novello Borelli, 240, 27 novembre 1481). Nel 1493 nacque Flaminio da Camillo Lapi e Orsina Fantaguzzi (FANTAGUZZI, Occhurentie et nove cit., c. 18v), quindi quei legami familiari si saldarono ulteriormente. Abbiamo visto che Giuliano aveva un fratello di nome Francesco, e si chiamava come il figlio di Stefano, fratello di Gaspare Fantaguzzi. Lo scialacquatore Francesco, che doveva essere rosso di capelli (“el Rosso Fantaguzo”, ibidem, c. 7v), era presumibilmente cugino di Giuliano e di Francesco. 142 Caterina era figlia di Pier Antonio Eburnioli e di Lucrezia, figlia di Bonifacio Martinelli. Quindi Lucrezia era sorella di Bartolomeo e di Malatesta: “Catarina filia magnifici aurati equitis domini Petri Antonii quondam specialis aurati equitis domini Petri Iohannis de Eburneolis de Cesena et quondam nobilis domine Lucretie uxoris quondam dicti domini Petri Antonii et filie quondam magnifici aurati equitis domini Bonifacii de Martinellis” (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 100, 10 febbraio 1481). 143 FANTAGUZZI, Occhurentie et nove, cit., c. 11r. 144 L’atto fu rogato in contrada San Zenone, in casa degli eredi di Stefano Fantaguzzi, in quel momento abitazione di Pier Antonio Eburnioli (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 102, 11 aprile 1483).


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tonio Eburnioli assumeva come proprio il debito che il fratello Eburniolo aveva nei confronti di un calzolaio di Ruffio, il quale aveva depositato presso di lui 200 lire144. Non abbiamo finora trovato notizia, nelle fonti, che ci parli delle iniziative prese da Eburniolo per ritornare padrone delle proprie sostanze. Passarono sicuramente attraverso tentativi di accordi con le potenze confinanti, poiché l’atto di condanna proibiva ad Eburniolo di recarsi a Ravenna, dominio veneziano145. Per pagare la pena pecuniaria di 1500 ducati d’oro furono venduti terreni di Rosata, madre di Eburniolo, situati a Gattolino, ed il palazzo di famiglia, secondo le volontà dettate in precedenza dallo stesso condannato, il quale aveva voluto che in caso di propria disobbedienza fossero liberati dall’obbligo di pagamento i suoi fideiussori146. Così il palazzo situato in contrada Talamello fu acquistato da Malatesta Martinelli, figlio di Bonifacio, e da Pietro e Tomaso, figli di Melchiorre Martinelli147, e tutto dà l’impressione che non lo si volesse lasciare in balia di altri acquirenti148. Le proprietà restavano dunque nell’ambito del clan familiare, al quale era stata inferta una dolorosa ferita, che colpiva alcuni autorevoli esponenti di quello che era stato, fino ad una generazione prima, il partito filomalatestiano. Basta far caso ai matrimoni delle due figlie di Bonifacio Martinelli, Lucrezia e Pantasilea: la prima aveva sposato appunto Pier Antonio Eburnioli e la seconda Annibale Cerboni149, cioè due illustri ufficiali di Malatesta Novello. Quei matrimoni volevano saldare fra di loro famiglie provenienti dall’esterno (i Martinelli da Pesaro, gli 145

ASCe, notarile, Gaspare Marri, 102, 31 ottobre 1483.

ASCe, notarile, Gaspare Marri, 101, 3 dicembre 1483, cc. 101v-102v. Il medico riminese Nicolò dal Dito acquistò quei terreni (ibidem). 146

147

Ibidem.

Un altro atto, che tratta la condanna di Eburniolo, fu rogato a Talamello, nella casa un tempo di Eburniolo, “nunc autem Bartolomei de Martinellis”, che poi fu venduta a Malatesta, Pietro, Tomaso Martinelli, come abbiamo visto. Confinava per due lati con la via pubblica e con Antonio Alessandri e con gli eredi di Agapito Visdomini dagli altri due (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 101, c. 96v). In un atto in cui Pier Antonio Eburnioli agiva come amministratore di Caterina, la sua casa risultava in contrada San Giovanni (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 100, 9 febbraio 1481). Tre anni dopo l’abitazione di Pier Antonio Eburnioli era a San Severo (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 104, 30 giugno 1484). 148

149

FABBRI, Una città e una signoria cit., p. 99.


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Eburnioli da Rimini, i Cerboni da Città di Castello) e formare un blocco costituito dalle figure eminenti della corte malatestiana. Al centro c’erano, non a caso, i Martinelli. Dalle fonti non sappiamo se avessero agito, contro Eburniolo, sospetti di tentativi di alleanza con le altre potenze regionali italiane. Certo è che quando Roberto Malatesti, signore di Rimini, acquistò delle case nella sua città, il denaro da lui versato ai venditori fu depositato da questi ultimi presso il banchiere ed aromatario cesenate Aloisio di Graziano. Il documento attestante quel deposito recitava che Roberto Malatesti era capitano della Repubblica di Venezia150. Una relazione fra molte di queste persone si può trovare nella comune contrada di Croce di Marmo, dove abitavano Aloisio di Graziano, il notaio Antonio Forti, Antonio Scariotti, Annibale ed Azzo Lapi, Giuliano Fantaguzzi. In più c’è la contiguità, non immediatamente fisica, con Rimini. Rimasto vedovo di Lucrezia, figlia di Bonifacio Martinelli, Pier Antonio Eburnioli sposò Margherita, figlia di Antonio Leopardi di Rimini. La sorella di lei, Graziosa, era moglie di Gottifredo Isei. Restiamo dunque nell’ambito degli ex ufficiali malatestiani151. Tre anni dopo la condanna di Eburniolo, la vicinanza con Rimini si fece evidente. Camillo Lapi ricevette nel 1487 l’ufficio del castello di Mondaino, secondo quanto recita il testo dell’atto notarile152, con il quale Camillo Lapi nominava Bartolomeo Martinelli proprio procuratore ad accettare la “tenuta” di quel castello. L’atto fu rogato a Croce di Marmo, nel palazzo del podestà, che era il riminese Carlo Maschi, alla presenza appunto di quest’ultimo, di Antonio Forti e del riminese Andrea

150

ASCe, notarile, Antonio Forti, 172, 19 novembre 1481.

ASCe, notarile, Gaspare Marri, 104, 29 gennaio 1484, 30 giugno 1484. Sono atti di procura rogati dalle due sorelle Leopardi davanti al podestà di Cesena. Come abbiamo visto in ASCe, notarile, Gaspare Marri, 100, 10 febbraio 1481, in questa data Lucrezia Martinelli era già morta. 151

152 Probabilmente si intendeva la nomina a vicario, ASCe, notarile, Gaspare Marri, 104, 29 gennaio 1487. 153 Ibidem. In un documento già incontrato in precedenza, il dottore in legge Andrea Allegri appare curatore degli interessi di Caterina Eburnioli, figlia di Pier Antonio (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 100, 10 febbraio 1481).


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Le storie

Allegri153. Era il 1487, a Sisto IV era successo alla fine del 1484 Innocenzo VIII, che evidentemente aveva mutato atteggiamento verso gli uomini di quel clan, addirittura accettando la richiesta di perdono avanzata nel 1486 da Eburniolo Eburnioli. Il papa gli concesse di ritornare a Cesena e cancellò le condanne, facendo però salvi i diritti di coloro che avevano acquistato le sue proprietà confiscate154. Gli atti notarili, che certificavano il ritorno di Eburniolo al godimento dei diritti civili, ricordavano che egli era stato condannato alla confisca di tutti i beni, all’esilio, e che all’origine aveva ricevuto la condanna capitale155. Certamente la scomparsa di Sisto IV e la nuova politica inaugurata da Innocenzo VIII avevano deciso il cambiamento della sorte di Eburniolo, ma la saldezza e la potenza del gruppo cittadino del quale questi faceva parte dovevano aver pesato molto. Lo stesso giorno in cui i fideiussori si espressero a sostegno di Eburniolo Eburnioli, davanti al notaio Gaspare Marri si pronunciarono anche a favore della buona fama dell’ebreo Dattilo di Leone accusato dal fratello Guglielmo. Il loro intervento convinse il governatore ed il podestà di Cesena156. Quel tipo di deposizione pubblica doveva far parte degli impegni ai quali quelle alte personalità, legate fra di loro da ragioni di parentela e di interessi economici, si sentivano obbligate. Quando Bartolo Pasolini e l’oriundo riminese ser Roberto Bianchelli misero ordine nell’intricato loro rapporto d’affari, dichiararono di voler avere a sostegno di quanto scriveva il notaio la “grande autorità degli amici comuni”, i quali furono Bartolomeo Martinelli, Ga154 Eburniolo si impegnava, dal canto suo, a non molestarli, sotto pena di cento ducati d’oro, ASCe, notarile, Lodovico Magi, 178, 6 settembre 1486. 155

ASCe, notarile, Lodovico Magi, 178, 5 febbraio 1486, 6 settembre 1486.

ASCe, notarile, Gaspare Marri, 102, 31 ottobre 1483. Erano Pier Antonio Eburnioli, il conte Agusello Aguselli, Annibale Lapi, Malatesta Martinelli, Pietro Zanolini. Il nome di Francesco di Gaspare Fantaguzzi fu poi depennato. 156

157 “Magne auctoritatis comunium amicorum” (ASCe, notarile, Gaspare Marri, 101, 18 dicembre 1484). L’atto fu rogato a Talamello, nella casa di Bartolomeo Martinelli “que fuit Eburnioli de Eburniolis”. Interessante in questo documento, dove si parla di traffico di guado, di grano, di vino, l’espressione “vinum peciolum sive aquaticium”, a proposito del quale si veda FABBRI, Storie di Cesena, cit., pp. 30, n. 129; 50, n. 236; 89.


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spare Ugolini, Pietro Fattiboni, Gaspare Bertuzzoli157, uomini d’affari che si rendevano così garanti della bontà dell’operazione. Ai livelli sociali più bassi poteva bastare l’autorità del notaio, come dimostra il caso del longianese che a Cesena faceva il mestiere del servitore domestico (“famulus”). Era andato a cercare verrettoni e frecce durante il palio che si giocava il giorno di San Severo ed era rimasto colpito alla testa da uno di quei proiettili. Il notaio andò a ricevere la sua deposizione mentre quell’uomo era a letto e così verbalizzò le sue parole: Ser Gasparo, io ve dico che el dì de la festa de Sancto Severo, per vollere io andare nanze a la rodella, in la quale traxeva li balestreri con le balestre in vertoni e sagette, zoè al palio al modo uxado in su la piaza de Cesena, per ingordicia e importunità de volere de quelli vertoni, più e più volte andai e cursi nanze a quella rodella, et più volte me fo dicto che io non ghe andasse che saria ferito da uno qualche balestrere158.

Infine, mentre tirarono contemporaneamente tre balestrieri, uno di loro lo colpì. “Chi se fosse io non lo vidi”, dichiarò al notaio, ma nel momento in cui era stato ferito aveva accusato i “figlioli di Mambrino”, rivolgendo loro parole “ingiuriose”. Poi ritrattò tutto davanti al notaio e questi depennò il nome dei probabili feritori in modo da non lasciar traccia - se non per la ricostruzione storica dei destinatari della primitiva contestazione. Di fronte ad una famiglia di maggior peso sociale il ferito disse: “Io glie perdono” e fece pace e dichiarazione di concordia con il suo feritore159. Il fabbro Giovan Battista, detto Mambrino, nel 1482, era conduttore del dazio delle gabelle insieme con Nicolò Martinelli, Antonio di Angelo Bucci e con il notaio Pietro Zanolini160. Erano i nomi di personalità appartenenti a famiglie contro le quali ad un servitore non conveniva in nessun modo opporsi, a meno di non

158

ASCe, notarile, Gaspare Antonini, 254, 10 luglio 1483.

159

Ibidem.

ASCe, notarile, Gaspare Marri, 98, 28 marzo 1482. Antonio di Angelo Bucci fu nel 1470 “depositario per la camera apostolica e deputato dal tesoriere a tenere i conti della distribuzione del sale a Cesena” (ABATI, FABBRI, MONTALTI, La rocca Nuova di Cesena cit., p. 48). 160


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essere “raccomandato” ad un forte gruppo parentale che potesse sostenere la causa di chi era stato offeso e reclamasse giustizia. Evidentemente quell’uomo, proveniente da Longiano, non era riuscito a mettere quel genere di radici a Cesena.

La Coppa Renato Serra (giugno 1962)

Pier Giovanni Fabbri

Ero mescolato fra i ciclisti, alla partenza in Via Dandini, e sulla linea del traguardo, accanto al fiume Savio. La memoria ha resistito all’ingiuria del tempo e rimane passiva. Non ho parlato con nessuno, semplicemente ascoltavo e guardavo. Le parole fra virgolette dovrebbero essere autentiche. Il resto viene da informazioni e congetture. Sono frutti di un amore da me non bene ricambiato verso quello sport. Campane dentro campane chiamano accanto al duomo ombre fulminee che hanno risvegliato il profilo aguzzo dei ciottoli. Il lampo dei cerchi e dei pedali si fonde con il fantasma del suono di bronzo che va a morire chissà dove. Nell’ombelico del centro storico si inseguono maglie e ruote non abituate a vivere tra la penombra di antichi palazzi. Adesso gli androni profumano di olio canforato. Dal vicolo stretto uscirà come una vena azzurra la processione della partenza della Coppa Renato Serra. La città dorme, felice come una nuvola rovesciata che lentamente si dissolve. Non attende e non si protende verso il ronzio dei pedali. Passano e si fermano biciclette. Il maestro domanda (Csa dis, Trincossi?) e la risposta non si intende se non dal muoversi delle ciglia scure che sognano il ritorno nel podere matematico dell’imolese, insieme con il compagno Tampieri, piccolo e delicato, buon velocista. Il gruppo di esperti si muove verso uno scooter che ospita, seduto di traverso, Giampaolo Senni. Sopra la maglia blu con la scritta “Juvenes R.S.M.”, indossata da un ciclista della campagna cesenate, il viso si colora di vermiglio e le parole non sanno dire. Alla nuova domanda (Csa dis, Senni?), risponderà con l’andare in fuga prima del dovuto. La fatica esclude la tattica. Esce dalla porta della “Renato Serra” un ciclista che ha riempito


La Coppa Renato Serra

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due borracce con l’acqua che in corsa diventerà un sogno febbrile. Costretto dai tacchetti delle scarpe, cammina sui talloni. I capelli a spazzola con gli occhi neri e vividi rendono sopra la maglia arancione di Faenza una espressione gentilmente quieta e dolcemente curiosa. Forse vorrebbe parlare ma come si fa? Parlerà alla fine della corsa. Si ripara dal sole, appoggiato allo stelo di un segnale stradale, un ciclista venuto da Adria e parrebbe già pronto a partire. Come un grande coleottero, abbraccia quel segnale, il suo unico amico. Passa fra altri compagni della “Juvenes” Mario Pierini con la muscolatura evidente dei ginocchi, ma dovrebbe essere uno scalatore. Temibile nel momento favorevole – “è un birichino” –, conferma il maestro, quindi dovrebbe vivere dall’altra parte rispetto ai generosi. Si fa vedere Renzo Evangelisti che sarà direttore di corsa, ospitato su una verde Fiat 1400 cabriolet (il pilota, cotto dal sole, è “Babula”, l’unico capace di portare i ciclisti di Cesena a essere sempre educati), e si guadagna qualche lazzo per essere andato al Giro d’Italia per fare il meccanico della “Salvarani”. Sotto i capelli biondastri gli occhi volpini di Renzo restano socchiusi. Sicuramente non eviterà di bestemmiare quando i ciclisti della “Renato Serra” fossero staccati o volessero tornare indietro. Nel chiuso della sua bottega di Porta Trova, invasa dal balsamo delle gomme e dagli sbuffi del mastice, aveva già rinnovato il suo insegnamento. Tentare la fuga nei momenti di quiete, quando il gruppo viaggia ai venti all’ora. E se arriva un ciclista di un’altra squadra? Allora la lezione non ammette indugi: “Fal tirè, e s’un tira, stàcal”. Oramai devono allinearsi i ciclisti dopo che è giunto, alto e signorile, il presidente della “Renato Serra”. Con la sua ritegnosa bontà ha pensato per ognuno anche se rimpiange il suo passato vorticoso della velocità su pista. Non riesce a scacciare l’impressione che il ciclismo su strada sia divenuto un ambientaccio. Comincia la chiamata dei partenti, i primi numeri sono della “Renato Serra”. Spingono dolcemente avanti Loredano Baraghini, con viso glabro e assorto, reso delicato da una cicatrice sopra il labbro, sempre secondo nei Circuiti di primavera. Tra gli occhi intagliati di Gino Berti, esile di statura e resisten-


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tissimo, si accendono i colori dorati delle colline cesenati che più non si distinguono dalla scala verso il cielo della corsa. Non vincerà, non vince quasi mai, e non resterà indietro. Vittorio Fiuzzi, migliore velocista, riflette sul vantaggio di essere andato a vincere oltre le curve di Madonna delle Rose, tra ville smemorate e alberi abitati da tifosi. Il timore del caldo ha indotto Graziano Maraldi a inserire una piccola spugna sotto il casco. Ma i suoi avversari sono i battiti del cuore. Sfilano gli altri, nessuno parla se non il commissario di partenza. Passano colorati di blu i ciclisti di Fusignano. Il loro capitano, Giancarlo Massari, ha già dimenticato il tempo presente e insegue la corsa. Nel viso assorto e malinconico non muterà il profilo bruno quando l’esplosione in salita lo renderà invisibile. Del “Pedale Ravennate” si presenta Renato Ranucci, alto e bene impostato, con il labbro inferiore sporgente, forse a pregustare la linea azzurra delle salite che si intuiscono dai canali della sua pianura; e Matteo Ravaioli. Solamente da quegli occhi buoni e indifesi poteva essere uscito nell’ultima corsa l’impulso di fare uno scatto e passare a braccia alzate sul traguardo: era il penultimo giro. Viene sospinto avanti, come se uno scalatore naturale disceso da Sogliano avesse sdegnato la pianura, Luciano Sambi. Nel viso tondo si legge la sete del sogno altimetrico della corsa. Primo ad apparire per la “Rinascita” di Ravenna è Umberto Antoniacci (Macio per i tifosi della sua Cesena). Forse l’unico a possedere un diploma, è tra i favoriti. Non dice l’aspetto fisico quello che dicono la fronte spaziosa e gli occhi ben tagliati. O vincerà o non sarà al traguardo. È seguito da Domenico Muccioli (Melo), apparentemente magro e delicato. Ma è un errore di valutazione, subito smentita dalla muscolatura delle braccia e delle gambe. Non è un malinteso quel sorriso degli occhi neri liquidi che illuminano la corsa come un messaggio di pace. Per gli “Aquilotti” di Cervia passano Giuseppe Maroncelli, leggero ed elastico, molto regolare, e Lauro Sforzini, triste sotto il ciuffo che cade nella fronte, non ancora del tutto sicuro della sua buona qualità in salita. Andrea Gianfanti è un valido passista e secondo l’esperto Eraldo Fornari vale da solo i 45 km/h sul piano ma non gli sono confacenti gli acclivi. Sono le 13 di una domenica estiva, la città è felice e ha dimentica-


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to i ciclisti, non c’è una bandiera per il via e nemmeno un microfono, la partenza è seria e compunta come una parola che non fa rumore. Arriveranno dolcemente in leggera discesa al ponte sul Savio finché qualcuno comincerà a scattare. Si andrà veloci per vie non piane, perdersi dentro una curva richiederà uno sforzo eccessivo per rientrare. La luce che non ammette obiezioni è l’unica verità, il caldo è il suo vestito, il respiro diventa una fisarmonica triste, una sola musica sale dal ronzio regolare delle catene. Quando la valle diventerà alta, gli occhi cominceranno a incrociarsi, non potranno godere i frutti di luce. Prima di San Piero la svolta a destra è acuta quanto la salita del Carnaio. Dopo il valico bisogna gettarsi in discesa, gli occhi tormentati dal profilo delle curve non incontrano il viso triste della Falterona e il verde regnante nell’alpe di Camaldoli. Quegli occhi non sanno che tra i faggi e il galestro si nascondono esigui fratelli di fatica quotidiana, prima di abbandonare per sempre la montagna. In Val Bidente, dopo Santa Sofia, si deve assolutamente mangiare e dosare la sete. Attraverso i dolci declivi di Meldola, i rettifili di Selbagnone e la via consolare si ritorna verso Cesena. Non servirebbe la bandierina di segnalazione che obbliga a curvare nuovamente verso la valle del Savio, i ciclisti non sbaglieranno ma non tutti vorranno proseguire. Dai gruppetti che sono in ritardo qualcuno si stacca per sostare all’ombra di un albero, altri si sperdono verso la campagna. Ora si ritorna verso l’alto, il paesaggio è dolcemente immoto. Pedalare è una felicità travagliata e sarebbe assoluta qualora fosse lecito sognare l’arrivo a Mercato Saraceno. Sotto la pieve di San Damiano saranno giunti, ancora insieme, quindici, forse venti ciclisti. Come per un tacito accordo, chiusi a testuggine, avranno forzato l’andatura nella breve discesa verso la piazzetta di Mercato, un’ultima spinta verso l’alto, la salita del Barbotto. Il primo tornante è ripido come il tetto di un campanile. Non si contano gli scatti e gli arretramenti. Il filo della corsa diventa sinuoso. Sopra Colonnata un falsopiano è presto sbugiardato dalla oppressione dei tornanti dell’ultimo chilometro. L’uscita finale è vertiginosa e offusca la visione azzurra del Montefeltro e del suo profilo alpestre. C’è ancora da salire verso


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Le storie

Rontagnano inchiodato nella roccia e verso il valico della Croce. Poi seguiranno trenta chilometri di discesa che a quel punto diventa insidiosa. Non tolgono la sete Montegelli, il bivio di Riopetra, Strigara, la visione fulminante della costa arida di Montecodruzzo. Festa e grida a Sogliano non inducono ad alzare la testa, a contemplare il disegno sinuoso della Marecchia. Senza più cambiare il rapporto, si vola, non si contano case e borghi, nessuno è quieto, nessuno sa. Al traguardo di Cesena, lungo il viale alberato che accompagna il Savio, si attende finché arriva un motociclista che annuncia – “Massari su Ranucci e Pierini” – ma non si capisce dove. Sul Barbotto, a Sogliano o nel passaggio di Savignano? Verso le 18, preceduto dalle staffette e dalle trombe bitonali non indiscrete di una macchina, arriva solo Giancarlo Massari. Passa veloce sul traguardo, non rallenta, non alza le braccia e non sorride. Sotto il gioco delle ombre carezzate dagli alberi il suo viso è quello di un uomo che sogna. Non arrivano Ranucci e Pierini; una foratura, una caduta? Dopo due minuti e qualcosa, una breve volata consente a Giovanni Fabbri – il corridore faentino conosciuto alla partenza – di superare Luciano Sambi che porta i segni di una prova difficile. Verso i quattro minuti di distacco arriva solitario un ciclista della “Renato Serra”, il numero 2, Gino Berti, costretto a frenare bruscamente per evitare il pubblico ormai diffuso sulla strada. Spaventato, urla – “fàt d’in là” – ma è la voce di un naufrago e viene da un corpo celeste. Seguiranno corridori in forte ritardo e fra gli ultimi, forse undicesimo, Graziano Maraldi, al quale la fatica non impedisce la sorpresa di essere arrivato sul traguardo. Ora si chiude. Tra un gruppetto di persone qualcuno riferisce che Sambi ha patito una grande sfortuna, una sbornia – si sente dire così – nelle ruote. A parlare è un uomo anziano con il cappello e le lenti cerchiate degli occhiali, pare un maestro elementare. Si avvicina un uomo con la maglia della squadra di Fusignano, che ha il vincitore, e accompagnando le parole con un gesto volgare sopra il ginocchio, dichiara “Sambi l’aveva a què la sbornia ”. Contrariato, l’anziano signore ribatte con durezza: “Sambi ha forato due gomme”. Il dissidio finisce. Qualcuno cerca il vincitore che non appare ma si sente rispondere che Massari sarebbe già ripartito da solo verso la sua Santarcangelo.


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“Non c’è stato niente da fare”, dice Giovanni Fabbri, tranquillo e sereno com’era alla partenza, ora fermo davanti a un uomo anziano e ad una ragazzina gentile. Si alza sui pedali per raggiungere la vettura della sua squadra e ancora non sa che nulla comincia se non l’indomani. Carlo Dolcini I LIBRI D. PIERI, La squadra di Porta Romana. La Romagna del coltello e del revolver, Imola, La Mandragora, 1989, inaugura questa sezione di libri che hanno significato qualcosa nella storiografia cesenate. Qui si propone, con qualche taglio, la presentazione che ne fu fatta nell’Aula Magna del Liceo Classico di Cesena il 21 febbraio 1990.

L’argomento principale di questo libro è costituito da due delitti avvenuti a Cesena. Il conte Filippo Neri fu ucciso il 20 marzo 1889 e Pio Battistini fu assassinato il 7 settembre 1891, a due anni di distanza. Dino Pieri ha pazientemente studiato i verbali delle indagini condotte dalle varie autorità inquirenti, gli atti delle istruttorie giudiziarie e dei dibattimenti processuali (il processo a carico degli assassini di Pio Battistini si tenne a Treviso nel 1893, e quello a carico degli assassini di Filippo Neri nel 1899 a Forlì) e ha ricostruito in questo libro le vicende. Bisogna subito dire che proprio la natura delle fonti ha influenzato il carattere della trattazione. Quando lo storico vuole capire il passato, raccoglie tutto quello che può trovare e quando si dispone ad indagarlo cerca tutti i messaggi che le fonti gli mandano. Le fonti di un caso giudiziario sono necessariamente ricche, soprattutto se gli inquirenti vogliono scoprire quello che a loro preme. L’autore del libro si è subito impossessato del metodo degli inquirenti e lo ha trasmesso ai lettori. Sapere ad esempio che il coltello con cui fu dato il colpo mortale alla gamba del conte Neri era dello stesso genere di quello che usavano i chirurghi per la “disarticolazione della coscia” (è la perizia tecnica resa da un illustre medico cesenate del tempo, p. 10), cioè molto forte e resistente, significa essere introdotti ai metodi con i quali si cercò di fare luce attraverso gli indizi, ma non solo. Il lettore è già obbligato a fare i conti con quella realtà del passato, dove i diversi tipi di armi da taglio contavano e facevano parte di un certo paesaggio. Proprio le numerose ferite al volto, che l’autore mette quasi in epigrafe al libro, furono alla base sia della pietà collettiva per il morto che alla base della ricostruzione del delitto. Qualcuno aveva tenuto fermo il conte Neri, ponendosi alle sue spalle,


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mentre altri lo accoltellavano nelle parti del corpo più scoperte (il volto, l’addome, le cosce), cercando di non colpire il complice. Questo metodo di esposizione, consistente nel far vedere i fatti attraverso tutti i procedimenti degli investigatori, consente una narrazione che dà conto man mano di tutto: quanto più le indagini procedono e si interrogano i testimoni e si ascoltano i confidenti, si conoscono luoghi, personaggi, situazioni. La gente si era fatta subito un’opinione sulle ragioni dell’omicidio e sugli assassini, che non era lontana dalla verità ricostruita dai procedimenti della giustizia. Il delitto del conte Neri non aveva in sé niente di misterioso, così come la morte di Pio Battistini. Gli assassini furono subito individuati dalla popolazione e semmai la loro impunità costituì una ragione di disagio collettivo. Il libro comincia ad assassinio avvenuto e cerca di ricostruire la dinamica degli avvenimenti, mescolando abilmente fra le varie deposizioni anche quella che, nel contesto finale, si rivelerà determinante. Il quadro è così ampio, così ricco, che noi ascoltiamo le voci di tutti i testimoni e un po’ alla volta comprendiamo che vi erano coloro che sapevano, o immaginavano e non volevano parlare, perché temevano le conseguenze. Sono i veri protagonisti del libro, perché quella qui narrata è una storia dove le vicende private si mescolano con quelle pubbliche, assecondando le inclinazioni dell’autore. Infatti l’analisi dei fatti storici è sempre ricondotta da Dino Pieri ai singoli uomini, che sembra gli interessino di più dei tentativi che la storia compie di generalizzazioni. Basta guardare la cura con cui abbozza i suoi personaggi, li segue, ne puntualizza le azioni e ricostruisce l’ambiente nel quale si muovono, che piano piano si dilata e compone il ritratto di una più ampia società. Il genere di scrittura che appartiene alle opere di narrazione in Dino Pieri è messa a disposizione del ritratto storico d’ambiente. Si prenda (a p. 48) la passeggiata fatta da Pio Battistini la sera, poco prima di essere ucciso: “Dai negozi ancora aperti guizzi di luce rischiarano le prime ombre che si addensano sotto il porticato”, o laddove descrive l’interesse del pubblico trevigiano per il dibattimento del processo dell’omicidio Battistini. La descrizione del comportamento del pubblico rimanda all’interesse dei cesenati, soddisfatto da quei bollettini, che avevano il pregio di riportare informazioni molto ricche, come il testo completo degli interrogatori. L’interesse per i singoli, unito alla pittura d’ambiente, può spiegare le ampie articolazioni delle figure, che qui campeggiano, dei componenti della squadra di Porta Romana. Porta Romana è quella che ancora oggi, come all’epoca della sua nascita in età medievale, si chiama Porta Santi. Alcuni dei suoi abitanti furono accusati di avere organizzato l’assassinio di Pio Battistini. Alla figura dell’accusato principale il libro dedica l’atten-


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zione maggiore. Il racconto si dipana nella ricostruzione delle vicende di quel 7 settembre 1891, quando Pio Battistini fu assassinato da un’arma da fuoco sotto il portico di via Zeffirino Re. Gli inquirenti risalirono alle responsabilità materiali e all’organizzazione dell’omicidio. Dino Pieri insiste a caratterizzare il personaggio principale, la mente del piano, che quando vide smontato il castello della propria difesa, cercò di adattare le frasi che lo incriminavano ad una situazione diversa. Dietro a quel personaggio c’era quello che i contemporanei chiamavano il carattere del romagnolo, pronto ad offendersi per un niente e a tirare fuori il coltello o la pistola. Prima ancora di essere abbattuto, quel cliché doveva essere raccontato e soprattutto doveva essere preso per quello che rappresentava: un residuo di avversione verso il diritto di esistenza dei partiti di massa. Nel caso descritto dal libro, si trattava dei contrasti fra i partiti socialista e repubblicano, degenerati nello scontro armato, in particolare dopo la preminenza conquistata da alcuni membri del partito repubblicano, che con la violenza condizionavano la dirigenza cesenate del loro partito. Era una specie di trappola gigantesca, che imprigionava con le sue contraddizioni ogni sviluppo in atto dei partiti popolari. Il libro ci guida attraverso questo percorso e fissa l’inizio del viaggio in occasione della morte dell’eroe garibaldino Eugenio Valzania, leader della Consociazione repubblicana cesenate, avvenuta nel febbraio 1889. I figli Giovanni ed Egisto ed il nipote Urbano raccolsero l’eredità, senza dimostrarsene all’altezza. Nell’ottobre di quell’anno a Cesena repubblicani e socialisti alleati vinsero le elezioni amministrative, spartendosi gli incarichi di governo, in modo tale però che i socialisti si sentirono defraudati, tanto che il 23 novembre i repubblicani spararono contro Pio Battistini, che aveva contestato lo scrutinio dei voti in un seggio elettorale. Battistini replicò al fuoco e ferì al volto Giuseppe Brandolini, detto Limòn, e dopo dichiarò di non avere rimorso, perché Limòn era uno degli assassini del conte Neri. Come poteva Pio Battistini pronunciarsi con tanta sicurezza? Ad una riunione tenutasi a Porta Santa Maria nell’aprile 1891, nell’osteria della Mora, parteciparono alcuni componenti della squadra repubblicana di Porta Romana. Lì, secondo il Pubblico Ministero del processo del 1899, fu deciso l’assassinio di Pio Battistini. A fare scattare la decisione sarebbe stata la morte di due repubblicani, uccisi dai socialisti a Ponte Cucco alla fine d’agosto del 1891. Uno stretto intrico avviluppa sempre più la responsabilità dei dirigenti repubblicani, accusati di essere i mandanti del delitto Battistini. Ne fu convinto il Pubblico Ministero al processo del 1899 (p. 140), mentre Andrea Costa, il giorno del funerale di Pio


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I libri

Battistini, respinse pubblicamente quella tesi. Ad essa l’Autore dedica le riflessioni conclusive (pp. 220-223): è il filo rosso che percorre l’opera, alla ricerca attenta delle coperture offerte dalle forze politiche, in questo caso il partito repubblicano, a chi, non meritandole, screditava così presso l’opinione pubblica l’immagine stessa di quella formazione e poi dell’intero sistema politico. Con puntualizzazione Dino Pieri ci racconta i particolari dei criminali che si dichiararono perseguitati politici o il funerale di un complice di un delitto onorato dalle bandiere di partito. Nei caffè, nelle osterie, nelle strade si svolgono le azioni determinanti: nell’osteria di Porta Romana per il delitto Neri e nel caffè della Speranza per il delitto Battistini. Il libro fa rivivere il dramma dei personaggi, sia degli assassinati che degli assassini. Questi ultimi si credono invincibili perché confidano nel sostegno politico, e quando ordiscono i loro piani, credendosi non visti, sono a complottare sotto gli occhi di tutti; e quando uccidono, il buio della notte e la pioggia non riescono a tenere lontani i testimoni. Con l’imprigionamento e la condanna, la loro sorte si assimila a quella delle vittime: la vita si sgonfia un po’ per volta, con in più sulle spalle la colpa della sorte dei loro famigliari privi di aiuto, come quel ragazzo rimasto solo a lavorare nei campi, “spento non ancora ventenne, distrutto dalla fatica”. La condanna morale del loro comportamento è affidata dall’Autore alle parole pronunciate dal rappresentante di parte civile e dal Pubblico Ministero dei due processi, le quali fanno risaltare il cinismo di personaggi colti sempre accuratamente nel loro isolamento, come nel sopralluogo fatto sui posti del delitto Neri, nel 1899, mentre la gente circondava in silenzio. Era finito il tempo della paura, dei segreti che pesavano, che si tramandavano e si trasmettevano dopo la morte, delle confidenze terribili colte di nascosto, origliando dietro la porta. In una conferenza tenuta sette anni fa a Cesena, nell’ambito di “Dimensione scienza”, ed intitolata Storia locale, storia generale, Marino Berengo si compiaceva della rinascita degli studi locali, che prosperavano al di fuori dell’area accademica investendo tutta la società civile, e ricordava il caso dei sindaci dei piccoli comuni veneti, che andavano da lui a chiedere consiglio e aiuto per dotare la loro comunità di una storia. A sette anni di distanza, vediamo oggi confermato e rafforzato quest’orientamento di studi e di ricerche, e vale la pena di ricordare quanto diceva Berengo e cioè che l’opinione invalsa di considerare la storia locale un genere storiografico minore era uno dei gravi fenomeni di dispersione di energie storiografiche, mentre attraverso essa erano passati i percorsi fondamentali della ricerca storica.


INDICE DEI NOMI

Abati, Cecchino, notaio, 183n Abati, Maurizio, 181n, 190n, 213n Abbadone di ser Francesco, 184n Abbazia di Santa Maria del Monte, 43, 121, 126, 133, 134, 135, 139, 141 Abramo da Modena, fornaio e panvendolo, 188n, 189n, 191n Accademia d’Igiene, Francia, 53 Accademia degli Immobili, Firenze, 41 Accademia dei Filomati, 31 Accademia Filarmonica, Bologna, 158 Acquarola, 43, 121, 142 Adelia, 166 e n Ademollo, Alessandro, 42 Adorni, Giuliana, 4 Adria, 154, 155, 215 Adriatico, mare, 185 Agostino da Sogliano, 183, 184 e n, 185n, 186n, 196n Agostino di Allegrino, fornaio e panvendolo, 187n, 189n, 192n Agostino, pittore, 200 Aguselli, Agusello, 196n, 204n, 208, 212n Aguselli, Caterina, 27 Aguselli, Marco, 15 Albani, Giuseppe, cardinale, 161 Albertarelli, Alessandro, 77 Alberti, Alberto (Battaglia), 109 Albino, medico, 153n Albizzi, famiglia originaria di Firenze, 203, 206

Albizzi, Francesco di Masio, 203, 204 e n, 205 e n, 206 e n, 208 Albizzi, Masio di Rinaldo, 205 e n Albizzi, Nicolò di Masio, 205 e n Albizzi, Pier Antonio di Masio, 205n, 206 Albizzi, Rinaldo, 205n, 206 Albornoz, Gil Alvarez Carrillo d’, cardinale, 101 Aldini, Lucrezia, 21 Alessandri, Antonio, 210n Alessandri, Dante, notaio, 201n Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 17, 18 Alessi, Marzia, 4 Alfredo (Quinto Bucci), 110 Alighieri, Bice, 169 e n Alighieri, Dante, 74, 192n Allegri, Andrea, dottore in legge, Rimini, 205n, 211 e n Allegrino, fornaio, 192 Almerici Carli, Rosa, 27, 28, 31, 33 Almerici, Antonio, 27 Almerici, Catalina di Giovan Antonio, 204 e n Almerici, famiglia, 27, 31 Almerici, Gherardo, 204n Almerici, Giovan Antonio, 204 e n Almerici-Montevecchio, fondazione, 102 Aloisio di Graziano, speziale, 183n, 184n, 193 e n, 206, 211 Altopascio, 41 Amadori, Filippo, 86 Amadori, Lorenzo, 32


224 Amaducci, Giovanni, 108 Amaducci, Urbano, 96 Amico, Gianni, 115 Anacreonte, 156 Ancona, 53, 143, 148, 149 Andrea alias Drago, vedi Drago Andrea di Allegrino, fornaio e panvendolo, 191n Andreini, don Carlo Antonio, 26, 30, 34, 45, 50, 51, 129 e n Angeli, Davide, 72 Angeli, Vincenzo, sindaco, 77, 84, 85 Angelini, Carlotta, 171 Angelini, Daniele, 89 Angelo da Recanati, 201n Angelo di Angelo, banchiere, 184n Angelo di Tomaso, de Monte Boagino, 192n Angelo, ortolano dei frati di San Francesco, 191n Anselmi, Gian Mario, 21 Antoniacci, Umberto, detto Macio, 216 Antonina, di Pesaro, 39 Antonini, Gaspare, 213 Antonio di Bartolomeo, da Arezzo, fornaio, 192n Antonio di Federico, sarto e panvendolo, 187, 188 e n, 191n Antonio di Perondo, maestro, 193n Antonio, detto Tamberlano, vedi Tamberlano Antonioni, Michelangelo, 113 Apollo, 41 Aquilotti, società sportiva, Cervia, 216 Aragona, Alfonso d’, re di Napoli, 183n Archivio Curia Vescovile, 122 Archivio di Stato di Bologna, 82 Archivio Segreto Vaticano, 104 Arcù, Tardivo, 108 Ardizzoni, Teodoro, maestro, 72, 87

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Arezzo, 39 Arieti, Stefano, 61 Arnaud, abate, 153n Arrigoni, società, 107, 109, 111 Asburgo, dinastia, 63 Ascheri, Mario, 200n Asia, 9n Asioli, Bonifacio, Correggio, 170 Astarte, contessa di Caserta, 170, 172 Atene, 9n Atlantico, oceano, 37 Augusto di Allegrino, 191n Aulo, 152n Aurelia, vedi Moratini, Elena Aurelio Prudenzio Clemente, Saragozza, 151, 153 e n, 155 Aurigemma, Salvatore, 99, 102, 103 Austria, 69, 138 Avanti!, giornale, 112 Ave Maria, 166 e n, 172 Aventi, Carlo, 78 Avesani, Rino, 21 Babula, 215 Bagioli Da Ponte, Teresa, 168, 169 Bagioli, Adelaide, 157 Bagioli, Alessandro, pittore e scenografo, 90 Bagioli, Antonio, di Luigi, 157, 159 Bagioli, famiglia, 27 Bagioli, Giuseppe Antonio, di Mauro, 157-173 Bagioli, Maria, 157 Bagioli, Mauro, 157, 158 Bagnoli, Leo, 111, 129n Bajetti Babbi, Orsola, 31 Bajetti, Antonio, 31 Bajetti, Margherita, 31, 32 Baker, B. F., 165n Baldacchini, Lorenzo, 51 Baldassarre di mastro Bartolo del Zavatero, panvendolo, 188n, 189n


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Baldassarre di ser Bencino, 183n, 194 Baldassarre di ser Giovanni da Lizzano, dottore in legge, 197n, 205n Baldelli Boni, Giovan Battista, 153n Balestra, Maurizio, 111 Ballardini, Romeo, 60 Ballardini, Rosa, 124n Balzani, Roberto, 70, 91, 123n Banca Popolare Cooperativa, 84 Bandi Beccari, Letizia, 26, 27 Bandi, famiglia, 26 Bandi, Francesca, 26 Bandi, Giuliano, 26 Bandini, Domenico, 152n Bandini, Luigi, 153n Banzo, Luigi, 137 Baraghini, Loredano, 215 Barateau, Emile, 166n Barbieri, Giovanni Francesco detto il Guercino, 88 Barbotto, 217, 218 Bargellini, Ippolito, 21 Bargellini, Leonida, 21, 22, 23, 27 Bargellini, Simone di mastro Giovanni, fornaio, 191n Barignano, Antonia, madre di Sigismondo e di Malatesta Novello, 205 Barignano, Golfino, 205 e n, 206n Baronio, don Luigi, 141 Bartoletti, Bianca, 91 Bartoletti, Pietro, 91 Bartolomeo di Cristoforo, da Arezzo, fornaio, 191n Bartolomeo di mastro Giacomo dai Puci, 198n Bartolomeo di ser Giovanni, da Rubera, panvendolo, 187n Bartolomeo, 200 Basilea, 19 Basilica di Loreto, 43, 121 Bassano, oste e fornaio, Cesenatico, 191n

225 Battaglia, Fernando, 42 Battiato, Giacomo, 115, 116 Battistelli, Franco, 42 Battistini, Carla, 92 Battistini, Pio, 80, 82, 219-222 Bazzocchi, Caterina, 29, 31 Bazzocchi, Dino, 34, 81, 88 Beccadelli, Luigi, 152n Beccari, famiglia, 34 Behrand, Henrietta, 166 e n, 172 Belgio, 106, 107 Belgrave Street, Londra, 62 Bellagamba, Elena, 89 Bellandi, Alfredo, 89 Bellegarde, Heinrich Johann, 139 Belletti, medico, 141 Belletti, Uniade, ingegnere, 75 Bellettini, Piero, 30 Bellini, Vincenzo, 35, 37, 38, 163n, 165n e 166 Beltrami, Alfredo, 20 Benassati, Giuseppina, 92 Benintendi, Simone, calzolaio, 183n Benotti, F., conte, 153 Bentini, don Paolo, 149 Berengo, Marino, 7 e n, 222 Bergman, Ingrid, 114 Bernabei, Ettore, 114-115 Bernabini, Roberto, 4 Bernabò di Cenne, da Calisese, fornaio e panvendolo, 188n Bersani, Valerio, 140 Berti, Gino, 215, 218 Bertolucci, Bernardo, 115 Bertoni, Luigi, ingegnere, 83 Bertoni, Orsola, Faenza, 123n, 140, 149 Bertuzzoli, mastro Gaspare, 183n, 212 Bessarione, Giovanni, cardinale, 156 Betlemme, 153n Betri, Maria Luisa, 61 Betti, Agata, 52


226 Betti, Leopoldo, 59 Biagi, Enzo, 113 Biagini, Attilio, podestà, 98, 99 Biagini, Mariano, 142 Bianchelli, Roberto, notaio, da Rimini, 212 Bianchi, parroco della cattedrale, 146, 147, 148 Bianchi, Pietro, 113 Biblioteca Capitolare, Cattedrale di Vicenza, 159 Biblioteca Comunale, Correggio, 170 Biblioteca Gambalunga, Rimini, 105106 Biblioteca Malatestiana, 4, 46-51, 81, 89, 91, 93, 94, 96-98, 100, 102, 104, 119, 121n, 123n, 125, 126 e n, 156, 157, 169, 179, 196, 197 e n Biblioteca Querini Stampalia, Venezia, 97 Bimard de la Bastie, Giuseppe, 153n Biolchi, Carlo, 153n Biondi, Castora, 205 e n Biondi, Gaspare, segretario apostolico, 205, 206n, 208 Biondi, Giorgio, 88 Biondi, Marino, 9n, 89, 156 Biondo Flavio, 205, 208 e n Biscioni, Pietro, 49 Blason, Mario, 108 Bocchini, Renato, 99 Bologna, 43, 53, 61, 81, 110, 122, 129n, 139, 145, 157, 158, 159, 161, 163, 181n, 190n Bologna, Gioia, 4 Bolognesi, Giorgio, 89 Bonaccorsi, Alfredo, 42 Bonandi, Settimio, Monteleone, 73 Bonaparte, Napoleone, 8, 32, 41, 46, 51, 67, 125, 127, 138 Bonaventura, A., 42 Bondarciuk, Sergej, 114, 116 Bongi, Orsino, architetto, Milano, 94

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Boni, Gessica, 92 Boni, Margherita, 21, 27 Bonicelli, Mario, podestà, 103 Bonicelli, Silvana, 4 Bonicelli, Vittorio, 112-116 Bonzanini, Francesco, fornaio, 191n Bonzanini, Giovanni di Gasparino, da Arezzo, fornaio, 192n Boraini, famiglia, 23 Boraini, Giustina, 23 Borelli, Borello, 16 Borghetti, Caterina, 29, 31 Borghezio, Gino, 208n Borgia, Cesare, 8, 18, 20, 105, 115, 116, 129n, 180n, 181n Bounty, vascello, 167 Bracciano, 151 Braccio Malatestiano, 97, 98, 99, 100, 101, 103 Bracciolini, Poggio, 75, 86 Bramante, Luigi, 42, 158n Branca, Gaetano, 73 Brandi, Cesare, 100, 103 Brandolini, Giuseppe, detto Limòn, 221 Brasa, Gaetano, 90 Braschi, Matteo, parroco, 22 Bravetti Magnoni, Grazia, 20 Bretoni, 129n Breveglieri, Odoardo, 93 Brighenti, Pietro, viceprefetto, 151 Brighi Fanzaresi, famiglia, 43, 122, 145 Brighi Fanzaresi, Paolo, 145 Brighi, Primo, 108 Brogi, Mario, 194n Bruni, Leonardo, 152n Bruno di Matteo, da San Severo, panvendolo, 189n, 191n Bucci, Antonio di Angelo, 213 e n Bucci, Augusto, 111 Bucci, Ettore, 26, 30, 50 Bucci, Iacopo di Angelo, 182, 183, 184, 187, 188n, 192, 194, 196n


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Bucci, Quinto, 106-111 Buda, arciprete, 147 Buda, Santa, 151 Budapest, 62, 68, 69 Bufalini, Maurizio, medico, 38, 52, 53, 55, 56, 58-60, 75, 85 Bulgaria, frazione di Cesena, 136, 149 Burresi, Pietro, 52 Burrièl, Antonio, 129n Buschi, Agostino, 22 Buschi, famiglia, 22 Busignani, Tullo, 97, 104 Busnelli, Giovanni, 192n Buti di Montenovo, famiglia, 33 Butkiewiecz, Bruno, 76 Byron, George Gordon, 77, 86 Cacciaguerra, Giovanni Domenico, 48 Cadolini, Antonio Maria, vescovo di Cesena, 43, 121 e n, 122, 142 Caffè della Speranza, 222 Caffè Forti, 79 Caiano, Mario, 116 Caimmi, Caio, 94 Calderone, Gianluigi, 116 Calle della Chiesa di San Biagio, Venezia, 25 Calzecchi Onesti, Carlo, 102 Camaeti, Giovanni, 61 Camaldoli, 217 Camera del Lavoro di Ancona e delle Marche, 110, 111 Camera del Lavoro di Forlì, 110 Camerani, Sergio, 79, 88 Camerani, Umberto, 85 Campana, Augusto, 20, 98, 104, 105, 156 Campidoglio, Nashville, 167 Camporesi, Piero, 4 Canale dei mulini, 104 Candoli, Annunziata, 35 Canfora, Luciano, 9n, 10n

227 Cannes, 113 Cantelmo, Giulio Cesare, governatore di Cesena, 19 Cantelmo, Sigismondo, 19 Cantimori, Delio, 7 Cantoni, Antonio, 34 Cantoni, Domenico, 137 Cantori, Tommaso, 60 Capodargine, 190 Caporali, Pietro, 87 Capponi, Gino, 75 Caravoglia, Luigia, 39 Carducci, Giosuè, 54, 61, 74, 80, 88 Carletto, 169 Carli, Adamo di Giovanni Battista, 22, 26, 27 Carli, Adamo di Giovanni, 22, 23, 27 Carli, Anna Maria di Domenico, 32 Carli, Anna Maria di Giovanni Gaetano, 28, 29 Carli, Antonia, di Giulia Casacci, 21, 22 Carli, Antonia, di Leonida Bargellini, 22 Carli, Carlo di Adamo, 27, 28 Carli, Carlo di Domenico, 32 Carli, Carlo Maria di Giovanni Gaetano, 28, 31, 34 Carli, Caterina di Giovanni Gaetano, 28 Carli, Caterina di Giovanni Pietro, 22 Carli, Chiara di Prospero, 33 Carli, conti “del Duomo”, 29 Carli, Domenico di Giovanni Gaetano, 28, 29, 31-35 Carli, famiglia, 21-23, 26-29, 33, 34 Carli, Francesco di Giovanni Gaetano, 28, 29, 31, 33 Carli, Francesco Maria di Giovanni, 21-26, 27, 28 Carli, Giacoma, 22 Carli, Giovanna Giustina Francesca, 31


228 Carli, Giovanni Battista di Adamo, 23, 24, 25, 27 Carli, Giovanni Battista, 23 Carli, Giovanni di Domenico, 32 Carli, Giovanni di Giovanni Battista, 21, 23, 27 Carli, Giovanni Gaetano Antonio di Carlo, 26-31, 33 Carli, Giovanni Pietro di Giovanni Battista, 22, 27 Carli, Giovanni, conte, bibliotecario della Malatestiana, 34 Carli, Giuseppe di Giovanni Gaetano, 28, 31, 32, 33 Carli, Lucrezia, 22 Carli, Margherita, 21 Carli, Matilde di Prospero, 33 Carli, Pietro di Giovanni Gaetano, 28, 29 Carli, Prospero di Domenico, 32 Carli, Tommaso di Giovanni Battista, Santarcangelo, 24, 25 Carli, Traiano di Domenico, 32 Carlo I, detto Magno, re dei Franchi, imperatore, 116 Carlo X di Borbone, re di Francia, 37 Carminati, Giuseppe, preside, 74 Carnaio, 217 Carnevali, vedova, 76 Casa Bianca, Stati Uniti, 168 Casa Carducci, 61, 81 Casa di Loreto, santuario, 46, 121n, 125, 136, 142 Casacci, famiglia, 21, 27 Casacci, Giulia, 21, 27 Casadei, Enrichetta, 92 Casalboni, Augusto, fotografo, 90 Casanova, Achille, 93 Casanova, Giacomo, 39 Casazzi, vedi Casacci Casini, Antonio, 15 Casini, Marco, 204n, 208

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Casiraghi, Ugo, 113 Cassa di Risparmio, 71 Cassiano di ser Francesco, speziale e panvendolo, 189 e n, 191n Cassini, Gian Domenico, 75 Castagnoli, Geltrude, 147 Castellamare di Stabia, 68 Castellini, Antonia, 27 Castelvetro, Maurizio, 61 Castiglioni, Francesco Saverio, vescovo e cardinale, vedi Pio VIII Catanusi, Placido, 153n Cattani, Rosa, 40 Cattolica, 54, 60, 61 Catullo, Gaio Valerio, 151 Cavani, Liliana, 115 Cavour, Camillo Benso, 63, 68 Cavriani, Federico, 153n Ceccaroni, Arnaldo, 156 Ceccuti, Cosimo, 123n Cecilia, santa, 158 Celani, Enrico, 41 Cellini, Benvenuto, 115, 116 Centro Cinema Città di Cesena, 116 Cerasoli, Giancarlo, 61 Cerboni, Annibale, 210 Cerboni, famiglia, da Città di Castello, 210 Certosa di Bologna, 145 Cervia, 124n, 144 Cesare, Caio Giulio, 105 Cesena Sulphur Company, 63, 66, 70 Cesenatico, 43, 93, 94, 95, 102, 121, 142, 144, 184 e n, 185, 189n, 191 Charleroi, Belgio, 106 Chateaubriand, François-René de, 138 Checcherini, Giuseppe, 159 Chiara di Rosemberg, 166 e n Chiaramonti, famiglia, 29 Chiaramonti, Scipione, 33 Chiaramonti, U., 60 Chiesa / convento di San Filippo, 48


Indice dei nomi

Chiesa / convento di San Francesco, 17, 48, 50, 94, 96, 179, 180, 197 en Chiesa / parrocchia della Cattedrale, 29, 43, 72, 199n Chiesa / parrocchia di San Demetrio, 43, 121, 122, 141, 143, 144, 145 Chiesa / parrocchia di San Zenone, 136, 142, 144, 146 Chiesa / parrocchia di Sant’Agostino, 29, 143 Chiesa / parrocchia di Santa Cristina, 32 Chiesa / parrocchia di Santa Maria delle Grazie, detta Ponte Abbadesse, 43, 121, 141, 145 Chiesa / parrocchia di Santa Maria di Boccaquattro, 22, 146 Chiesa dei Servi, 78 Chiesa dell’Osservanza, 145 Chiesa di Polenta, 81 Chiesa di san Bartolomeo, 96, 105 Chiesa di San Domenico, 72, 105 Chiesa di San Martino in Fiume, 103 Chiesa di San Petronio, Bologna, 43, 122, 145 Chiesa di San Pietro, 143, 143 Chiesa di San Severo, 24 Chiesa di San Tommaso, 145 Church Street, New York, 164 Cicognani, Ludovico, 75 Cimitero luterano degli Allori, Firenze, 67 Cinema Nuovo, periodico, 113 Cingoli, 151 Ciola di Mercato Saraceno, 106 Circolo degli Strambi, 79, 80 Circolo Filologico, 79 Civiltà delle macchine, periodico, 114 Civita Castellana, 123n, 131, 140 Clinica medica, Siena, 52 Club cesenate, 77, 79 Cola di Rienzo, 151 e n, 152, 155

229 Collegio S. Carlo, Modena, 90 Colonna, Stefano, 152 Colonnata, 217 Comacchio, 98 Comandini, Antonio Alfredo, 76, 77, 82, 88, 89 Comandini, famiglia, 102 Comandini, P., 61 Comandini, Ubaldo, 84, 85 Comencini, Luigi, 113 Comitato di Liberazione Nazionale, 110 Compagnia del SS. Crocifisso, Longiano, 158 Compagnia del SS. Crocifisso, San Zenone, 46, 127, 136, 142 Comucci, Ettore, medico, 59 Concato, Luigi, 53 Confederazione Generale Italiana del Lavoro, 110 Consalvi, Ercole, 138 Conservatorio di musica “B. Maderna”, 24, 28 Conservatorio Musicale, Napoli, 158 e n, 164 Consiglio superiore di antichità e belle arti, 98 Consociazione repubblicana, 221 Consorzi idraulici Arla e Savio, 92 Conti, Bartolomeo, Forlì, 29 Conti, Elio, 207n Cooke, John, bibliotecario della Malatestiana, 36, 178 Cooke, Maria / Eliza, 168 Cordara, Carlo, 42 Correggio, 170 Corriere della Sera, giornale, 113 Corsini, Luigi, 98, 99, 100, 101, 102 Cosmacini, Giorgio, 58, 61 Costa, Andrea, 221 Costaing de Pusignan, abate, 153n Costanzi, Antonio, 19 Crepazio, don, 170


230 Crispi, Francesco, 84 Cristoforo de madonna Albura, 198n Croce di Marmo, contrada, 205n, 211 Croce Rossa, 54, 91, 108 Croce, Benedetto, 81 Csorba, Laslo, 68, 69, 70 Cugniolio, Eugenio, 66 Curtatone, 55 Da Ponte, Lorenzo, 162 e n, 163, 164, 165, 166, 168, 173 Da Tempo, Antonio, 152n Dal Dito, Nicolò, medico, 210n Dal Pane, Guido di mastro Bartolomeo, panvendolo, 188 e n, 189n, 191n Dal Pane, mastro Bartolomeo, panvendolo, 188, 189n Dal Sale, Andrea di mastro Gabriele, 183n Dall’Ara, Giordano, 108 Dall’Arme, Andrea, 193 Dalmazia, 183n Daltri, Andrea, 4, 104, 122n Damiani, Damiano, regista, 115 Daniello, Bernardino, 152n Das Gupta, Sonali, 114 Dattilo di Leone, ebreo, 212 Dazzi, Manlio Torquato, direttore della Biblioteca Malatestiana, 96, 97, 98 De Angelis, Marcello, 42 De Beauplan, A., 166 e n De Bosio, Gianfranco, 115, 116 De Gubernatis, Angelo, 81 De Laurentiis, Dino, 114 De Minicis, Raffaele, 154 De Nicolò, Maria Lucia, 60, 61 De Sica, Vittorio, 115, 116 De Sisti, Vittorio, 116 De Tournes, Giovanni, 152n De Vincentiis, Domenico, 26, 30, 34 De’ Lelli, Lelio, 152n

Indice dei nomi

Dean, Kate, 167, 173 Dell’Amore, Franco, 42, 173, 158n, 173 Della Massa Masini, Giulio, vedi Masini, Giulio Della Massa Masini, Niccolò, 49, 123n Della Massa, Giulio Cesare, 123n Della Pergola, Pergolina di Angelo, 15 Della Peruta, Franco, 58, 61 Delucca, Oreste, 203n Deputazione di Storia Patria, 84 Detti, Francesco, maestro, 73, 87 Devon, contea, 63 Di Attanasio, Costantino, 42 Dogget, Charles, 167 Dolcini, Carlo, 10, 218 Dolcini, Dorotea, 92 Domenico Aretino, vedi Bandini, Domenico Domenico di Bartolomeo, da Modena, fornaio e panvendolo, 187n, 191n Domeniconi, Antonio, 51 Dominici, Angela, 121n, 143 Donato, Maria Monica, 200n Donizetti, Gaetano, 166 e n Donner, Clive, 116 Dradi Maraldi, Biagio, 9n, 21, 30, 34, 47, 51, 60, 70, 89, 111, 123n, 129n, 156 Drago, barbiere e panvendolo, 187n, 189n, 191n Driver, William, 167 Duca di Modena, vedi Este, Ercole d’ Duca di Parma, vedi Farnese, Ferdinando Duca di Urbino, 146, 185, 194 Dunlap, John, 167 Duomo di Ferrara, 160 Duomo di Urbino, 42, 158n Durante, Francesco, 165n


Indice dei nomi

Eburnioli, Caterina di Pier Antonio, 209n, 210n, 211n Eburnioli, Eburniolo, 207 e n, 208, 209 e n, 210 e n, 211, 212 e n Eburnioli, famiglia, da Rimini, 204, 209, 210 Eburnioli, Pier Antonio, 203n, 208, 209, 210 e n, 211, 212n Eburnioli, Pier Giovanni, 209n Edison, Thomas A., Collection, 170 Egidio, padre guardiano del convento dei Cappuccini, 141 Elena, moglie di Dario Tiberti, 15, 17 Eleni, Maria, 92 Elisa e Claudio, 165 e n Emiliani, Andrea, 60, 123n Emporium, 83 Ercole, nipote di Geltrude Pizzoccheri, 148 Eremo Nuovo, Camaldoli, 193n Erodoto, 9n Errani, Paola, 4, 30, 34, 47, 51, 104, 106, 129n, 130n, 150 Este, Ercole d’, 181n Este, Ippolito d’, 19 Euridice, 152n Europa, 62, 139 Evangelisti, Francesco, consigliere comunale, 84 Evangelisti, Renzo, 215 Fabbri, Eduardo, 71, 73, 78, 84, 87, 130, 151, 156 Fabbri, Giovanni, 218 Fabbri, Mario Antonio, 26 Fabbri, Pier Giovanni, 10, 20, 21, 26, 47, 89, 129n, 131n, 178n, 180n, 181n, 182n, 184n, 187n, 190n, 192n, 195n, 197n, 201n, 203n, 205n, 210n, 212n, 213 e n, 222 Fabri, Lucrezia, 23 Faccioli, Raffaele, 88 Faedi, Adriana, 47, 129n, 130n

231 Faenza, 146, 151, 179, 181n, 208n Falcioni, Anna, 20, 21, 178n Faletti, Luigi, 49 Falterona, monte, 217 Fano, 15, 143 Fantaguzzi, famiglia, 209 Fantaguzzi, Francesco di Gaspare, 208, 209 e n, 212n Fantaguzzi, Francesco di Stefano, 209n Fantaguzzi, Gaspare, 183n, 193 e n Fantaguzzi, Giuliano, 10, 16, 17, 18, 19, 20, 177, 179, 180 e n, 181n, 194n, 199 e n, 204n, 207n, 209 e n, 211 Fantaguzzi, il Rosso, 209n Fantaguzzi, Marco Antonio, 32 Fantaguzzi, Orsina, 209n Fantaguzzi, Stefano, 209n Faraday, Michael, fisico, 72 Farini, Luigi Carlo, 60 Farmacia Giorgi, 105 Farnese, Ferdinando, duca di Parma, 29 Fattiboni, Ettore, 182n, 193n, 203 e n Fattiboni, Gian Francesco, 160 Fattiboni, Pietro, 212 Fattiboni, Zellide, 81, 86 Fausto da Longiano, 152n Favart, compagnia teatrale, 36 Federazione Comunista di Forlì, 110, 111 Federico, fornaio, 183n, 188 e n, 191 en Federico, pellicciaio, 183n Fejérvary, feldmaresciallo, 68 Fellini, Federico, 113 Ferlotti, Santina, 159 Fermo, 9, 152 Ferrara, 19, 160, 161 Ferrari, Filippo, 159 Ferrari, Luigi, deputato, 54 Ferri, Angelo, 81


232 Ferri, Francesco Maria, 158 Filadelfia, 163, 164 Filelfo, Francesco, 152n Filippini, Francesco, 101 Filottrano, 151 Finali, Gaspare, 156 Finzi Contini, famiglia, 115, 116 Fioravanti, Franco, 156 Fiorillo, Federico, 35 Firenze, 40, 44, 52, 67, 90, 98, 101, 124, 148, 151n, 181n Fiumana, Antonio, 144 Fiumana, Paolo, 124n Fiuzzi, Vittorio, 215 Flamigni, Sergio, 111 Ford, John, 113 Forgiarini, Giovanni, 96 Forlì, 41, 42, 57, 108, 122, 151, 164, 179, 181n, 195, 208n, 219 Forlimpopoli, 71 Fornari, Eraldo, 216 Forti, Antonio, notaio, 211 Foscolo, Ugo, 82, 86 Francesco da Canipa, notaio, 183n Francesco di Cristoforo, da Arezzo, fornaio, 191n, 192n Francesco di Francesco di Severo, 189n Francesco di Piero, beccaio, 183n Francesco di ser Zono, 185n, 193n, 201n Francesco Giuseppe I d’Asburgo Lorena, imperatore d’Austria, 68 Francesco, detto Boso, calzolaio e panvendolo, 188n, 189n, 191n Franchini, Tina, 20 Francia, 19, 62, 113 Franciosi, Ario, 4 Friend [Nazzareno Trovanelli], 77, 88 Frugoni, Chiara, 200n Fubini, Riccardo, 208n Fuitéstero [Nazzareno Trovanelli], 74 Fusai, don Alberto, 4 Fusignano, 216, 218

Indice dei nomi

Gabriele, arcangelo, 153n Gaeta, 123n, 148 Gajani, Guglielmo, 72, 88 Galbucci, Piero, 34 Galli, Mario, 108 Galli, medico chirurgo, 141 Gandin, Pietro, commissario governativo, 82 Gandolfi, Riccardo, 42 Garampo, colle, 179 Garaudé, Alexis de, 165 e n Garavini, Brunella, 4 Gardenghi, L., 164 Garibaldi, Giuseppe, 78 Gaspare da Urbino, 193 Gaspare del Giovane, fabbro, 183n, 192, 198n Gaspare di ser Giuliano, 183n Gaspare di Ugolino, 183n Gaspari, Gaetano, 140 Gasperoni, famiglia, 93 Gasperoni, Gaetano, 84, 88 Gatteo, 93 Gatti, famiglia, 123n Gattolino, 210 Gaugerico, santo, 154 Gazzetta medica italiana federativa toscana, 55 Gazzoni, don Agostino, 143 Gazzoni, Luigi, 157 Geisser, Ulrico, banchiere, 66 Gennarini, Pier Emilio, 115 Gessi, Tommaso, 87 Gesù Cristo, 19, 115, 116, 142, 143, 153n Gesualdo, Giovanni Andrea, 152n Ghini, Carlotta, 44, 124 e n Ghini, Francesco, arcidiacono, 45, 129 e n Ghini, Pietro, 124n Giacomo da Lodi, Cesenatico, fornaio e panvendolo, 188n, 189n, 191 e n Giacomo di Dalfino, 183n


233

Indice dei nomi

Giacomo di mastro Perino, fabbro, 183n Gianfanti, Andrea, 216 Gianfanti, Anselmo, 83, 84, 89 Giani, Felice, architetto, 29 Giannini, Crescentino, 151, 153, 156 Gigli Marchetti, Ada, 61 Ginguené, Pierre-Louis, 153n Ginnasio comunitativo, 73, 80 Ginzburg, Carlo, 5, 10n Gioacchino da Verucchio, 140 Giocondo, 170 Giolitti, Giovanni, 84 Giordani, Pietro, 151 Giordano, fiume, 153n Giovan Battista, detto Mambrino, fabbro, 213 Giovanni di Marco, medico, Rimini, 197 e n Giovanni di Maso, ecclesiastico, 189n, 191 e n Giovanni di Nicolò, pellicciaio, 183n Giovanni di Pedrino, Forlì, pittore e cronista, 208n Giovanni di Ramberto, 183n Giovanni il Guascone, 201n Giovanni, Battista, 153n Giovanni, pittore, 200, 201 Giovanni, San Giovanni in Valdarno, 154, 155 Giovannini, Carla, 58, 61 Giovannoni, Gustavo, 98, 99, 101 Giovenale, Decimo Giunio, 151, 155 Giuli, Camillo, consigliere comunale, 82 Giuliano, don, fattore, 184n Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, 20, 180n Giuliucci, Nando, 108 Giulj, Domenico, 41 Gnetti, C., 111 Gobbi, Vincenzo, medico, 53, 60 Godard, Jean-Luc, 114

Goldoni, Carlo, 74 Goldthwaite, Richard A., 181n Golfarelli, Tullo, 55 Gommi, medico, 149 Gonzaga, Elisabetta, 19 Gori, Mariacristina, 26, 130n Gotta, Salvatore, 98, 99 Gradara, Mario, 42 Gran Bretagna, 64 Grasso, Aldo, 116 Graziella, 169 e n Greci, Roberto, 193n Gregorio di Pietro, fornaio, 191n Gregorio IX (Ugo dei conti di Segni), papa, 129n Gregorio XVI (Bartolomeo Alberto Cappellari), papa, 134 Gualaghini, Marco, 183n Gualdi, Daniele, 6, 9 Gubbio, 185 Guenzi, Alberto, 181n, 190n, 192n Guercino, vedi Barbieri, Giovanni Francesco Guerrazzi, Francesco, 75 Guerrini, Pietro, conte, Forlì, 148 Guglielmo di Leone, ebreo, 212 Guidi, Costantino, 29 Guidi, Giacomo, 60 Guidi, marchesi di Montiano, 24, 28 Guidi, Mauro, 45, 130 e n Guidi, Vincenzo, 142 Guizzetti, Pasinio, 66 Heksher, fratelli, 163 Herlihy, David, 20 Hoggins, Emily, 67 Hollywood, 114 Huston, John, 114, 116 Iacopo di Antonio di Federico, panvendolo, 188 e n, 191n Iacopo di Nardo di mastro Gaudenzo, panvendolo, 191n


234 Iacopo di Paolo, fornaio, 191n Iesi, 185n Il Cittadino, periodico, 76, 81-84 Ilario da Parma, panvendolo, 188n, 189n, 191n Imola, 179, 181n, 208 Imolesi, Maria Luisa, 42 Impero Austro Ungarico, 68 Impresa Industria Italiana, 68 Inghilterra, 19, 62, 63, 72 Innocenzo VIII (Giovan Battista Cybo), papa, 17, 20, 206, 211, 212 Irlanda, 178 Isei, Camillo, 204n Isei, Gottifredo, 204, 211 Iseppi, Cristoforo, 187, 188n, 194 Iseppi, Francesco, 191 e n, 201n Iseppi, Giovan Francesco di Giovanni, 206 e n Iseppi, Lodovico, 206n Ismeno, 152n Istituto Artigianelli Lugaresi, 107 Istituto Barbès, Parigi, 63 Istituto di Belle Arti, Firenze, 90 Istituto Musicale “A. Corelli”, 42 Istituto Studi Superiori, Firenze, 52 Istituto Tecnico Industriale “B. Pascal”, 92 Italia, 63, 68, 100, 163 Jenner, Edward, 57 Julien, Giuseppina, 40 Juvenes, società sportiva, 214, 215 Keneally, Thomas, 168n Kenelm [Nazzareno Trovanelli], 77 Kewelin [Nazzareno Trovanelli], 77 Key, Philip Barton, 168 Kind, Johann Friedrich, 169 e n Klapisch-Zuber, Christiane, 20 Kossuth, famiglia, 62, 67, 69 Kossuth, Ferenc Ákos, 62-70 Kossuth, Lajos Tódor, 62, 67, 69

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Kossuth, Lajos, 62, 68, 69, 70 Kossuth, Wilma, 62 Kutahia, Turchia, 62 L’Avana, Cuba, 165 L’Illustrazione italiana, periodico, 113 L’Iride, periodico, 78 L’Unità, giornale, 113 La Gazzetta degli studenti, periodico, 75 La notte, giornale, 113 La rivista europea, periodico, 75 La Romagna, periodico, 84 La Settimana, periodico, 77 La Spezia, 63 Labbe, Philippe, 20 Lama, Luciano, 110 Lancetti, ser Lancillotto, 183n Lanocita, Arturo, 113 Lapi, Annibale di Taddeo, 204, 208, 209 e n, 211, 212n Lapi, Azzo, 208, 211 Lapi, Camillo di Taddeo, 208, 209 e n, 211 Lapi, Carlo, 157 Lapi, famiglia, 209 Lapi, Flaminio, 209n Lapi, Gaspare, 16 Lapi, Taddeo, 209 e n Lapi, Violante di Taddeo, 209 e n Lapi, Virginia di Taddeo, 209 e n Laporte, 37 Lattanzio, Lucio Celio Firmiano, 152, 155 Laura, 152, 155 Laurina, 170 Lazaro, 153n Lazzarino di Antonio, fornaio, 191n Le Monnier, editore, 151n Lelli Mami, Guia, 4, 92 Lelli, Caterina, 48 Lelli-Mami, Agostino, 90-92


Indice dei nomi

Leonard Street, New York, 164 Leonhardt, Andrea, 159 Leoni, Carlo, 153n Leopardi, Giacomo, 38 Leopardi, Graziosa di Antonio, Rimini, 211 e n Leopardi, Margherita di Antonio, Rimini, 211 e n Levati, Ambrogio, abate, 153n Libia, 5, 84 Liceo classico “V. Monti”, 73, 74, 88, 95, 219 Liceo Musicale, Bologna, 158, 170, 171 Lippici, Domenico, 129n Lipsia, 138, 139 Litta, Pompeo, 205n Liverani, Nina Maria, 4 Livorno, 148, 163 Lizzano, 80 Lo Specchio, periodico, 77, 83 Lo Sperimentale, periodico, 52, 55, 59 Locatelli, famiglia, 137 Locatelli, Giangiorgio, 49 Loggetta veneziana, 97 Loli Piccolomini, Adriano, direttore della Biblioteca Malatestiana, 79, 84, 93, 126 Lolletti, Sergio, 70 Lollini, Fabrizio, 156 Lombardia, 21, 26, 54 Londideo, da Lassano, 191n Londra, 62, 63, 74 Longfellow, Henry Wadsworth, 75, 81, 86 Longhi, Pier Paolo, da Milano, fornaio e panvendolo, 188n, 192n Longiano, 123n, 147, 158 e n Lorenzetti, Ambrogio, 200n Lorenzetti, Pietro, 200n Loreto, 127, 128, 136, 143, 151 Lotti, Luigi, 30, 34, 47, 51, 123n, 156

235 Lower West Side, New York Lucca, 194n Lucchi, Luigia, 92, 94 Lucchi, Piero, 21, 26, 51, 156 Lugaresi, consigliere comunale, 84 Lugaresi, Erardo, 90 Lughi, don Pietro, 141 Luigi Filippo, re di Francia, 37 Lumaca, vedi Piero di Cecchino Lupini, Bernardo, 152n Madonna del Popolo e del Monte, 123n, 132n, 137, 140, 148 Madonna delle Rose, 215 Madonna di Piedigrotta, 148 Maffei, R., 159 Magalotti, Oliviero, 108 Magalotti, Pier Paolo, 70 Magalotti, Pietro, 108 Maggiori, Mattea, 71 Magi, 153n Maiano, Anton Giulio, 115 Malagola, Carlo, 82 Malatesta, don Pietro, 43, 121, 122, 141, 143, 144, 145 Malatesti, dinastia, 15, 20, 180n, 181n, 197n, 201, 207 Malatesti, Domenico, detto Malatesta Novello, signore di Cesena, 8, 15, 16, 20, 21, 23, 50, 51, 123n, 177, 178n, 179, 180n, 184n, 193, 194 e n, 195 e n, 196, 201, 204, 205 e n, 207, 210 Malatesti, Lucrezia, 206n Malatesti, Malatesta, detto Andrea, signore di Cesena, 178n, 179, 195 en Malatesti, Roberto, signore di Rimini, 211 Maldeghen, Filippo, 152n Maldenti, Masio, Forlì, 207 Maldenti, Paola di Iacopo, 208 Malibran, Maria, 43, 122, 145


236 Malusi, Lauro, 42 Mambelli, Antonio, 41, 88 Mambrino, vedi Giovan Battista Mami, Francesco, 72, 82, 86 Mami, Pietro, sindaco, 73, 80, 90 Manaresi, Euclide, avvocato, 77, 79, 86 Mandroni e Fornaciari, Bologna e Cesenatico, 94 Manetti, Giannozzo, 152n, 153n Manfredi, re di Sicilia, 170, 172 Manfron, Anna, 197n Manzoni, Alessandro, 86, 138 Maraldi, Antonio, 116 Maraldi, Graziano, 216, 218 Maranino, 145 Marche, 40, 179, 183, 184 e n, 187, 195 Marchese di Ferrara, 146 Marchiani, Aurelio, 108 Marconi, Guglielmo, 110 Marecchia, fiume, 217 Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, imperatrice dei francesi, 67 Maria Vergine, 19, 122, 137, 153n, 201 Mariani, Domenico Antonio di Pietro, 43, 121n, 145 Mariani, Luigi, 148 Mariani, Mattia Girolamo Gioacchino, 10, 34, 43-47, 119-150 Mariani, Pietro, 145 Mariano, fiorentino, fornaio e panvendolo, 189n, 190 e n, 191n Maroncelli, Giuseppe, 216 Maroncelli, Piero, 164 Maroni, Giovanni, 111 Marri, Gaspare, notaio, 212 Marsand, Antonio, abate, 153n Marsigli, Giuseppe, 33 Marsilio di mastro Carlo, Rimini, 184, 185 e n Martinelli, Bartolomeo di Bonifacio, 204, 205n, 208, 209 e n, 210n, 211, 212 e n

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Martinelli, Bonifacio, 16, 193, 204, 208, 210 Martinelli, famiglia, da Pesaro, 17, 177, 178, 180, 204, 210 Martinelli, Lucrezia di Bonifacio, 209n, 210, 211 e n Martinelli, Malatesta di Bonifacio, 193, 204, 205n, 208, 210 e n, 212n Martinelli, Melchiorre / Marchionne, 184n, 210 Martinelli, Nicolò, 194 e n, 213 Martinelli, Pantasilea di Bonifacio, 210 Martinelli, Pietro di Melchiorre, 210 en Martinelli, Tomaso di Melchiorre, 210 e n Martines, Lauro, 205n, 208n Martini, A., 181n, 192n, 198n Martini, Simone, 200n Martinotti, Sergio, 42 Martorelli, famiglia, 137 Marzocchi, Luciano, 111 Marzocchi, Matteo, 4, 92 Masacci, Tito, 49 Maschi, Carlo, Rimini, 211 Mascilli Migliorini, Luigi, 47 Masini, Cesare, 123n Masini, Elisabetta Maria Teresa Clarice, 123, 147, 148 Masini, Fabrizio, 146 Masini, famiglia, 44, 45, 47, 123 e n, 124, 125n, 126, 129, 140, 146 Masini, Filos, 146 Masini, Francesco (XV sec.), 191 e n Masini, Francesco (XVI sec.), 123n Masini, Giacomo II, 146 Masini, Giovanna Adele Maria Caterina, 123, 147, 148, 149 Masini, Giulio Cesare, conte, 44, 46, 47, 120, 123 e n, 124, 125 e n, 127, 131, 134, 137, 139, 140, 146, 148, 149, 150


Indice dei nomi

Masini, Nardo, 146 Masini, Niccolò II, 8, 123n Masini, Orsola Carolina Maria, 123, 147, 148, 149 Masini, Pietro di Giulio, 146 Masini, Pietro, 123n, 140, 149 Masini, Vincenzo, 20, 123n, 140 Masini, Virginia Maria Adele Luigia, 123, 148, 149 Massari, Giancarlo, 216, 218 Masseangeli, Masseangelo, 168 e n Massi, Carlo, 72, 74, 86 Massi, Geltrude, 71 Massi, Pietro, notaio, 71, 73 Massingberd, lord, 62 Mattei, Stanislao, 158, 170 Matteo di Giacomo Binello da Casalbono, mondatore, fornaio e panvendolo, 187 e n, 188n, 189n, 191n Maturanzio, Francesco, 19 Mayr, Simone, 158 Mazzoli, Antonio, 146 Mazzoli, Emanuele, 122, 144, 145 Mazzoli, famiglia, 43, 145, 146 Mazzoli, Giuseppe Pietro Paolo, 146 Mazzoli, Giuseppe, 43, 122, 144 Medas, Stefano, 61 Medici, dinastia, 205, 206 Medici, Lorenzo de’, 205n, 208n Medini, conte, 63 Medri, Silvestro, 142 Meldola, 217 Memmo di Filippuccio, pittore, 152 Mengarino di Lapo, calzolaio e panvendolo, 188n, 189n, 191n Mengozzi, Dino, 111 Mengozzi, Marino, 21, 47, 111, 130n, 199n Mercadante, Saverio, 166, 168 Mercatino di Talamello, 71 Mercato Saraceno, 71, 81, 91, 99, 106, 217

237 Merlo, Pietro, professore, 74 Meslény, Terézia, 62 Metilde, 170 Michel, Ersilio, 88 Milani, Giuseppe, 29, 33 Milano, 37, 83, 98, 112, 169 Milton, John, 74 Mineccia, Francesco, 30, 156 Miniera di Boratella I, 64, 65, 66 Miniera di Borello-Tana, 64 Miniera di Cà di Guido, 64 Miniera di Monte Aguzzo, 64 Miniera di Polenta, 64 Ministero dell’Educazione Nazionale, 100 Ministero della Pubblica Istruzione, 80 Mischi, Archimede, medico, 33 Mischi, Ernesto, avvocato, 77, 78, 84 Mississipi, nave da guerra statunitense, 62 Mommsen, Theodor, 81 Monaldi, Gino, 41 Moncenisio-Frejus, tunnel ferroviario, 63 Mondadori, Arnoldo, 112 Mondaino, castello, 211 Monsagrati, Giuseppe, 70, 89 Montalti, Alberto, 108 Montalti, Cesare, 49, 71, 79, 88, 151, 153, 155 Montalti, Pino, 181n, 190n, 213n Montalti, Valente, 146 Montanara, 55 Montanari, Leonida, 86 Monte Berico, 71 Monte di Pietà, 92 Monte Iottone, 15, 17, 18, 19, 20 Montecodruzzo, 217 Montefeltro, 18, 217 Montefeltro, Guidubaldo da, duca di Urbino, 17, 18, 19 Montegelli, 217


238 Montresor, Giacomo, 162 e n, 163, 164, 165 Mor, Carlo Guido, 196n Morani, Morano, notaio, 183n Moratini, Elena, 17 Morelli, Giovanni di Paolo, 207 Morelli, Pietro, professore, 74 Moretti, Marino, 98 Morgagni, Giovanni Battista, 53 Morghen, Raffaele, 152 Mori, Giuseppe, 52 Mori, Robusto, 52-61 Morini, Ugo, 41 Morris, George P., 167, 173 Morro di Jesi, 39 Mosca, 41 Mosè, 115, 116 Muccioli, Domenico, detto Melo, 216 Muccioli, Giuseppe Maria, 20 Municipio di Cesena, 98 Murano, 97 Muratori, Lodovico Antonio, 129n, 151, 153n Murri, Augusto, 53, 60 Museo di Sarsina, 105 Mussolini, Benito, 95 Mussoni, Giuseppe, 106 Nada Patrone, Anna Maria, 190n, 192n Napoli, 67, 68, 98, 148, 158, 159, 209 Nardo di mastro Gaudenzo, panvendolo, 186n, 188n, 189n, 191n Narducci Boccaccio, Laura, 154, 155 Nashville, Stati Uniti, 167 Neglie P., 111 Neri di Donato, 129n Neri, Filippo, conte, 219, 220, 222 Nervi, Genova, 62, 63 Nevano, Vittorio, 116 New York, 157, 163 e n, 164, 165, 166

Indice dei nomi

Nicola da Tolentino, santo, 129n Nicoletti, Francesco, 133 Nicolino da Rimini, notaio, vedi Tabellioni, Nicolino Nocita, Salvatore, 116 Nori, don Domenico Pasquale, 45, 130 Nori, Ermete, avvocato, 80 Nouvelle Vague, 114 Nuti, Matteo, 97 Obulacco, mausoleo, Sarsina, 102 Odda e Polusko, 158, 159, 171, 172 Ognibeni, Giovanna, 58, 61 Ojetti, Ugo, 98 Old Glory, 167 Olinda, 40 Oliveto, monte, 153n Onorati Romagnoli, Clelia, 54 Oratorio di San Martiniano, 103 Orfanotrofio dei Mendicanti, Ferrara, 160, 161 Orfeo, 152n Oriani, Alfredo, 82 Orlandi, Ernesto, 163, 164 Ormay, Ungheria, 62 Orsini, famiglia, 137 Orsini, Luigi, 88 Ortalli, Gherardo, 20 Osimo, 143 Ospedale del Crocifisso, 196n Ospedale di San Tobia, 48, 49 Ospedale di Sant’Antonio, 200 Ospedale Istituzioni Riunite, 110 Osteria della Campana, 199 e n Osteria della Mora, 221 Ottardi, Poltrone, 16 Ottava Brigata Garibaldi, 110, 111 Pacchioni, Pietro, professore, 73, 74 Pacini, Giovanni, 166 e n Päer, Ferdinando, 165 e n Pagliani, Luigi, 53


Indice dei nomi

Palazzo Albornoz, 104 Palazzo Altemps, Roma, 71 Palazzo Beccari, 29 Palazzo Carli, 28, 33 Palazzo comunale, 48, 101, 103, 105 Palazzo dei conservatori, 199 e n, 201 Palazzo dei conti di Bagno, 78 Palazzo del podestà, Croce di Marmo, 211 Palazzo del Ridotto, 79 Palazzo Ghini, 28 Palazzo Guidi, 67 Palazzo Láslo, Budapest, 62 Palazzo Pubblico, Siena, 200n Palazzo Venturelli-Mori, 52, 60 Pandolfo, 170 Panseri, Guido, 58, 61 Panseron, Auguste-Mathieu, 165 e n Pantalone, 163 Panzini, Alfredo, 82, 88 Paolo I (Pavel Petrovic), imperatore di Russia, 87 Paolo II (Pietro Barbo), papa, 180 Paolucci, Renato, 108 Papini, Roberto, 98 Parigi, 37, 114, 115, 138, 139, 164 Parise, Goffredo, 114 Parisini, Ignazio, 159 Parolari, Giulio Cesare, abate, 153n Parrocchia di San Giovanni Evangelista, 143 Parrocchia di Sant’Agostino, Roma, 71 Parrocchia di Santa Maria Nuova, Mercato Saraceno, 71 Parti, Stefano, 50 Partito Comunista Italiano, 108, 109, 110 Pascoli, Giovanni, 81, 82 Pasi, Romano, 4, 60 Pasinati, famiglia, 76 Pasini, Adamo, 208n

239 Pasini, Pier Giorgio, 26 Pasini, Pietro, detto Capotto, 144, 146 Pasini, Pio, maestro, 72, 87 Pasolini Zanelli, conti, 80 Pasolini Zanelli, Pietro, 77 Pasolini, Bartolo, 212 Pasquale, 152n Pasquali, Gustavo, 75 Passerini, famiglia, 102 Pasta, Giuditta Maria Costanza, soprano, 37 Pavia, 169 Pazzi, famiglia fiorentina, 205n, 208n Pecci, Giuseppe, 47, 123n, 125 e n Pedale Ravennate, società sportiva, 216 Pedrotti, A. cantante Pellegrini, Marco, 208n Pellico, Silvio, 164 Pepe, cantante, 159 Persichini, Pietro, 161 Pertici, Roberto, 7n Pertini, Sandro, 115 Perugia, 40 Pesaro, 143, 145, 184n, 185n Pescia, 52 Pest, Ungheria, 62 Petrarca, Francesco, 151, 152 e n, 155 Petrini Zamboni, Angelina, 39 Petrini Zamboni, Lorenzo, 39 Petrini Zamboni, Nicola, 35-42 Petrini, Giambuono, 35, 38, 40 Petrone, Lietto, 151 Petroschi, Giovanni, 133 Petrucci, Brizio, 160 Pezzi, Oddone, 60 Pian di Bezzo, 102 Piancastelli, raccolte, Biblioteca Comunale di Forlì, 54 Piazza del Popolo, 97, 123n Piazza di Spagna, Roma, 76 Piazza Giovanni Paolo II, 34, 97 Piazza Pisacane, Cesenatico, 94, 95


240 Piazza Vittorio Emanuele II (ora piazza del Popolo), 103 Piccioni, Luigi, 20 Piemonte, 146 Pier Paolo, boratino, 183n, 189n Pieri, Dino, 219, 220, 221, 222 Pierini, Mario, 218 Piero di Bordino, calzolaio, 183n Piero di Cecchino, alias Lumaca, panvendolo, 183n, 188n, 189n, 190, 191n Piero Levorino, 183n Pietro Aretino, 154, 155 Pietro da Verona, santo, martire, 105 Pietro di Antonio, da Milano, 192n Pietro, santo, apostolo, 153n Pietro, tintore, 202n Pieve di Rivoschio, 110 Pignani, 39 Pignatti Morano, Barberina, 87 Pignocchi, Francesca, 82 Pinacoteca pubblica, 79 Pini, Antonio Ivan, 181n, 186n, 192n Pinto, Giuliano, 181n, 193n Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 179, 180 Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 46, 75, 123n, 124, 125, 126, 127, 139, 148, 154, 155 Pio VI (Gianangelo Braschi), papa, 8, 46, 125, 127, 137, 138 Pio VII (Barnaba Chiaramonti), papa, 8, 33, 46, 87, 96, 125, 127, 137, 138, 151 Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni), papa, 43, 46, 121 e n, 125, 127, 137, 138, 142 Pio, Elisabetta, 25 Pio, Matteo, Venezia, 24, 25 Piraccini, Orlando, 89 Pisa, 52, 54 Pisciatello, torrente, 105, 202 Pistocchi, Michele, 26, 30, 34

Indice dei nomi

Pittaro, Amalia, 4 Pizzi, Ludovico, 35 Pizzi, Marianna, 48 Pizzi, Tommaso, 44, 124, 147 Pizzoccheri, Geltrude, 148 Platina, Bartolomeo, 129n Plutarco, 7 e n, 19, 20 Po, fiume, 113 Polenta, 81 Polenton, Sicco, 152n Pollini, Maddalena, 145 Pollini, Valentina, 92 Pomata, Gianna, 7n Ponte Cucco, 221 Ponte Pietra, 184n Porlezza, Milano, 23 Porta Cervese / contrada, 29 Porta Figarola, 196n Porta Fiume, 196n Porta Pia, Roma, 76 Porta Ravegnana, contrada, 27 Porta Romana, vedi Porta Santi Porta Santa Maria, contrada, 221 Porta Santi / Romana, contrada, 23, 28, 78, 143, 219, 220, 222 Porta Trova, contrada, 196n, 215 Portici, 148 Pozsony, Slovacchia, 62 Pozziambi, Tommaso, 143 Predazzo, Trentino, 106 Premio Flaiano, 116 Preston, K. K., 163n Preti, Alberto, 70 Prognola, Domenico, panvendolo, 188n, 189n, 191n Prosperi, Adriano, 9n, 26, 30, 34 Prussia, 139 Puglia, 184 Puglioli, Teresa, 157 Pulazzini, Domenico, 50 Quarenghi, famiglia, 21 Quasimodo, Salvatore, 113 Queen Street, Cheapside, 63


Indice dei nomi

Raffaelli, F., 156 Raffaelli, Michele, 42 Raffaello Sanzio, 88 Ragazzini Campadelli, Marta, 146 Ragazzini, Maddalena, 144, 145 Raggi, Alessandro, 41 Raggi, Luigi, 41 RAI, 112, 114 Rambelli, Vittorio, 53 Ransart, Belgio, 106 Ranucci, Renato, 216, 218 Rasponi delle Teste, Caterina, Ravenna, 28 Rasponi delle Teste, famiglia, Ravenna, 33 Ravaglia, Mauro, fattore, 147 Ravaglini, Francesco, calzolaio e panvendolo, 189 e n, 191n Ravaioli, Matteo, 216 Ravenna, 39, 43, 121, 133, 144, 185 e n, 210 Re, Zeffirino, 8, 151-156 Reggio Emilia, 123n Regina Coeli, Roma, 108 Renato Serra, società sportiva, 214-219 Resnais, Alain, 114 Resta, Gianvito, 19, 20 Riario, Girolamo, vicario pontificio di Imola e Forlì, 208 e n Ricchi, direttore didattico, 106, 107 Ricchi, Elisabetta, 72 Ricchi, Maria, 71 Ricchi, Werter, 109 Ricci Signorini, Giacinto, 82 Ricci, Luigi, 166 e n Ricci, Raffaello, 63, 70 Ridolfi, Giovanni Battista, 139 Ridolfi, Giovanni, canonico, 27 Ridolfi, Maurizio, 9n, 89, 156 Righetti, Loretta, 21, 51 Righetti, Pier Carlo, 60 Righi, Giorgio, de Alemania, fornaio, 191n

241 Rigonat, Desiderio, 108 Rigoni, Carlo, 60 Rimini, 133, 143, 148, 155, 179, 184 e n, 197 e n, 203n, 211 Rinaldi, Francesco, 50 Rinascita, società sportiva, Ravenna, 216 Rione rosso, 72 Rione verde, 157 Riopetra, 217 Riva, Claudio, 4, 21, 61, 158n Rivafinoli, compagnia teatrale, 164 Rivalta, Fabio, medico, 52 Rivista romana di scienze e lettere, periodico, 75 Rocca Nuova, 181n, 189, 190 e n, 213n Rocchetta di Piazza, 97, 98, 99, 101, 105 Rodolfo da Formignano, 202n Rogers, Delmer D., 163n Roma, 31, 42, 54, 75, 94, 95, 99, 104, 108, 110, 114, 116, 129n, 139, 148, 149, 151, 181n, 208n Romagna, 21, 23, 42, 64, 70, 88, 111, 115, 133, 179, 195, 219 Romagnoli, Camillo, 60 Romagnoli, Gaetano, Bologna, 54 Romagnoli, marchesi, 28 Romagnoli, Orsola, 90 Romagnoli, Sempronio, 140 Romani, Romano di Bartolo, fornaio, 191n Romanini, Bartolomeo, 183, 184 e n, 193, 196n Romanini, Biagio, speziale, 186n Rondoni, canonico, 72 Rontagnano, 217 Rosa, perpetua, 72 Rosata, madre di Eburniolo Eburnioli, 210 Rosetta, 169, 170 Rosetti, Carla, 4


242 Rossellini, Roberto, 113, 114, 116 Rossi Vendemini, Giovan Battista, 34 Rossi, Bruno, 193 Rossi, Franco, regista, 115, 116 Rossi, Luigi, podestà, 101 Rossi, Silvio, 23 Rossi, Violante Francesca, 23, 24, 25 Rossini, Gioacchino, 35, 36, 37, 156 Rouzad, Giuseppe, ufficiale napoleonico, 32 Roversano, 90, 91, 151, 201n Rovillio, Guglielmo, 152n Rubbiani, Alfonso, 98 Rubicone, fiume, 105, 133 Ruffio, 209 Russia, 139 Sade, Donatien Alphonse François, 153n Sala di Cesenatico, 94 Sala, Alessandro, 169 Saladini, Saladino, 84 Salomone, fornaio, 189n, 191n Salutati, Coluccio, 152n Salvarani, 215 Salvolini, Urbano, 61 Sambi, Luciano, 216, 218 Samperi, Salvatore, 116 San Biagio, convento, 101, 105 San Damiano, 217 San Giovanni in Marignano, 54 San Giovanni in Valdarno, 154, 155 San Giovanni, contrada, 210n San Lazzaro, 202 San Mamante, 29 San Marino, repubblica, 39, 43, 121, 142, 184 San Piero in Bagno, 217 San Severo, contrada, 192, 210n San Valentino, Abruzzo, 112 San Zenone Dentro, contrada, 192 San Zenone, contrada, 209n Sant’Andrea delle Fratte, Roma, 76 Sant’Angelo in Vado, 44, 124, 147

Indice dei nomi

Sant’Elena, isola, 138 Santa Caterina, contrada, 23, 27, 28, 33, 40 Santa Caterina, stabilimento penale, Fossano, 108 Santa Sofia, 110, 217 Santarcangelo, 24, 151 Sante di Molduccio, speziale, 199n Santerini, Alberto, 108 Santerini, Eugenio, 108 Santini, Chiara, 92 Santuario di Santa Maria del Monte, vedi Abbazia di Santa Maria del Monte Santucci, Simonetta, 4, 61 Santucci, Teodora, vedi Sintucci, Teodora Sarsina, 20, 44, 80, 102, 124, 148 Sartori, Federico, 136 Sasselli, Elmo, 108 Sassi, Gioacchino, 26, 30, 34, 41, 51, 53, 60, 137 Sassi, Sebastiano, 133 Satana, 74 Savignano, 99, 218 Savini, Giampiero, 4, 92 Savio, fiume, 43, 121, 142, 214, 216, 218 Savio, Olimpia, 63, 70 Savoia, Daniela, 21, 51, 130n Savoia, dinastia, 81 Scariotti, Antonio, 211 Schiavino da Loreto, 185n Schneider, Amalia, cantante, 164 Schröder, Andreas, 152n Schwartz, Eduard, 9n Scorsone, Rosanna, 4 Scuola Industriale e Professionale, 84, 93, 95 Scuola tecnica “E. Fabbri”, 95 Scuola Tecnica Comunale, 73, 80 Selbagnone, 217 Senigallia, 143, 184 e n, 185 e n


Indice dei nomi

Senni, Giampaolo, 214 Serafini, Margherita, 32 Serassi, Pier Antonio, 153n Serra, Pio, medico, 60, 61, 77, 78, 79, 80 Serra, Renato, 5, 9, 78, 84, 86, 88, 105, 177 Servanzi Collio, Giuseppe, 155 Servanzi Collio, Severino, 154, 155 Severi, Alberto, 106 Severi, Francesco, 182n, 185, 203n, 205n Severini, 37 Severo, santo, 129n, 212, 213 Sforza Riario, Caterina, 129n, 208 Sforza, Galeazzo Maria, duca di Milano, 208 Sforzini, Lauro, 216 Sickles, Daniel Edgar, 168 e n, 169 Siena, 129n, 200 Siloe, piscina sacra, 153n Silvano da Venafro, 152n Simone da Parma, fornaio, 191n Sintucci, Annunziata, 142 Sintucci, Maria, 143 Sintucci, Teodora, 43, 121n, 145 Sirotti, Silvana, 112, 116 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 194n, 195, 204, 205n, 207 e n, 208, 211, 212 Sobborgo Federico Comandini, 96, 102 Società Amici dell’Arte, 97 Società Cooperativa Braccianti, 96 Società Dante Alighieri, 84 Società Fotografica Italiana, Firenze, 90 Società Italiana d’Igiene, 53 Società medico fisica, Firenze, 52 Soffredini, Alfredo, 169 e n Sogliano al Rubicone, 99 Sogliano, 216, 218 Solfrini, Domenico, 108 Soncini, tipografi, 154, 155

243 Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna dell’Emilia Romagna, 99 Soprintendenza alle Antichità dell’Emilia Romagna, 99 Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari dell’Emilia Romagna, 91 Sorrivoli, 18 Southard, L. H., 165n Sozzi, Sigfrido, 26, 30, 110 Spagnoletto, 37 Spalletti, Francesco, 136, 143 Spielberg, 164 Spinelli, Cesare, avvocato, 78 Spoleto, 55, 137 Squarciafico, Girolamo, 152n Stati Uniti d’America, 62, 72, 114, 162, 163 e n, 165 e n, 166, 168, 169 Stato pontificio, 130, 138, 139, 140, 146, 179, 195 Stefani, Stefano di ser Maso, notaio, 183n, 203n Stefano, santo, protomartire, 153n Steffanini, J., barone, 138 Stendhal (Henri Beyle), 114 Strada dentro, contrada, 192 Strigara, 217 Successo, periodico, 114 Suzzi, Carlo, 121n, 143, 150 Suzzi, Giovanni, 146 Suzzi, Orsola, 43, 121, 143 Tabellioni, Nicolino, notaio, Rimini, 197n Tadolini, Giovanni, 159 Talamello, contrada, 157, 210 e n, 212n Tamberlano, panvendolo, 187n, 189, 191n Tamberlicchi, Filippo, 143 Tampieri, 214 Targhini, Angelo, 86


244 Tavernelle, contrada, 23, 184, 187, 188n, 192 Tavoleto, 18 Teatro alla Scala, Milano, 36, 37 Teatro Comunale, 73, 105 Teatro Comunale, Ferrara, 160 Teatro della Fortuna, Fano, 42 Teatro della Pergola, Firenze, 35, 40 Teatro Giardino (poi Verdi), 93 Teatro Italiano Favart, Parigi, 35, 36, 37 Teatro Italiano, Londra, 36 Teatro Nuovo, Napoli, 159 Teatro Ristori, Verona, 169 Tell, Guglielmo, 153 Tempio, Gerusalemme, 153n Tempo, periodico, 112, 114 Tennessee, 167 Tennyson, Alfred, 75, 81, 86 Teodorani, don Andrea, 141 Teodorani, Orio, 111 Terracina, 148 Théâtre Italien, Parigi, 36 Tiberti, Achille, 17, 178 Tiberti, Agamennone, 16 Tiberti, Ascanio, 207 Tiberti, Cornelio, 20 Tiberti, Dario, 7, 15-21, 180n, 196n, 203 e n Tiberti, Ercole, 18 Tiberti, famiglia, 15, 17, 18, 20, 177, 178n, 180 Tiberti, Monte, 198n Tiberti, Oddantonio, 18 Tiberti, Palmiero, 18 Tiberti, Pier Giovanni, 15 Tiberti, Polidonne di Ascanio, 207 e n Tiberti, Polidoro, 18, 185, 194, 204n Timotei, Mariagrazia, 40 Tiraboschi, Girolamo, 153n Tizi, Natalia, 4 Tizzoni, Lodovica, Ravenna, 28, 29 Todeschini, Giacomo, 193n

Indice dei nomi

Tofanelli, Arturo, 112 Tognetti, Sergio, 181n Toledo, Napoli, 159 Tomba, Pietro, architetto, 29 Tommaseo, Niccolò, 75 Tommasi, Tommaso, 129n Tommasini, Jacopo Filippo, 153n Tommaso di Guglielmo, da Borgo San Donnino, fornaio, 191n Tonini, Luigi, 155 Torelli, Giovanni Antonio, cancelliere, 19 Torino, 63, 68, 113 Torre Malatestiana, Cesenatico, 102 Tossani, Corrado, 60 Touring Club Ciclistico Italiano, 91 Tozzi Fontana, Massimo, 70 Treviri, 152 Treviso, 219 Trieste, 98 Trincossi, 214 Trova di Mezzo, contrada, 29, 33 Trovanelli, Anna, 85 Trovanelli, Audiface, 71, 88 Trovanelli, Benedetta, 71 Trovanelli, Benedetto di Girolamo, 71 Trovanelli, Benedetto, 71 Trovanelli, Erminia, 71, 85 Trovanelli, famiglia, 71, 72 Trovanelli, Girolamo, 71, 88 Trovanelli, Leonilde, 71, 85 Trovanelli, Luigi, 71, 88 Trovanelli, Maria, 71 Trovanelli, Nazzareno, 41, 47, 71-89, 123n, 124n, 126 e n, 130 e n, 131 e n, 156 Trovanelli, Pio, 71 Truffaut, François, 114 Tucidide, 7n Turchi, Pietro, avvocato, 77, 78, 79, 80 Turchia, 62


Indice dei nomi

Ubaldini, Antonio, 22 Uberti, Francesco, 20 Ugolini, Gaspare, 212 Ungheria, 62, 68, 69 Università di Bologna, 92 Università di Siena, 52 Università popolare, 93 Urbinati, Attilio, medico, 59 Urbino, 38, 42 Urceo, Antonio, 19 Urtoller, Giovanni, 79, 80 Vaenti, Pietro, 61, 106, 124n Vail, S. Anna, 166, 173 Val Bidente, 217 Valenti Gonzaga, Luigi, 137 Valentino, vedi Borgia, Cesare Valico della Croce, 217 Valla, Lorenzo, 75, 86 Valle del Marecchia, 72 Valle del Savio, 217 Valle Felici, 59 Valzania, Egisto, 221 Valzania, Erminio, 61 Valzania, Eugenio, 55, 78, 80, 221 Valzania, Giovanni, 221 Valzania, Urbano, 221 Vandelli, Giuseppe, 192n Vangelista da Faenza, fornaciaio, 193 Vantadori, Alfredo, direttore della Biblioteca Malatestiana, 98, 100 Varni, Angelo, 30, 34, 47, 51, 70, 89, 111, 123n, 156 Varo, Derno, 108 Varsavia, vascello, 163 Vasari, Giorgio, 88 Vasina, Augusto, 20, 181n Vattasso, Marco, 208n Vellutello, Alessandro, 152n Vendramin, Andrea, doge, 185, 195 Venezia, 17, 25, 97 Venezia, repubblica, 146, 185, 194, 195, 211

245 Venturelli, famiglia, 141 Venturi, Luigi, consigliere comunale, avvocato, 79, 82, 84 Verardi, Carlo, 129n Verardi, famiglia, 129n Verdoni, Mauro, 26, 50 Vergerio, Pier Paolo, 152n Verona, 163 Verucchio, 40, 183, 184 Via Cervese, 123n Via Chiaramonti, 29, 33 Via Dandini, 78, 214 Via dei Gigli d’oro, Roma, 71 Via del Babbuino, Roma, 76 Via del Bufalo, Roma, 76 Via del Corso, Roma, 76 Via del Suffragio, 144 Via del Tennis, Cesenatico, 94 Via delle Ortolane, 8 Via Garibaldi, 78 Via Milani, 29 Via Nuova, 203n Via Sacchi, 103 Via Saffi, Cesenatico, 95 Via Szèp, Budapest, 62 Via Tiberti, 99, 102 Via Zeffirino Re, 221 Viale Carducci, Cesenatico, 94 Viale De Amicis, Cesenatico, 94 Viale dei Mille, Cesenatico, 94 Viale Piave, Cesenatico, 94 Vicarelli, Giovanna, 58, 61 Vicenza, 71 Vicolo Cappuccini, Cesenatico, 95 Vicolo d’Alibert, Roma, 76 Vicolo dei Gatti, 44, 123 e n, 146, 147 Vicolo Talamello, 144 Vienna, 68, 69 Villa Ruffi, Rimini, 55 Villa Silvia, Lizzano, 80 Villani, Filippo, 152n Viollet Le Duc, Eugène Emmanuel, 100


246 Visdomini, Agapito, 210n Visto, periodico, 114 Vivarelli, chirurgo, 38 Vizzani, conte, Ravenna, 29 Vizzani, famiglia, Ravenna, 33 Voss, Gerhard Johann, 20 Waterloo, 116 Wekerle, Sandor, 69 Winter, Peter von, 165 e n Zaccaria, don Gaetano, 154, 155 Zane, Lorenzo, 178, 201 e n, 202 Zanelli, fratelli, conceria, 59 Zangheri, Urbano, 84 Zani, don Sante, 43, 121, 141 Zannetti, Raffaello, medico, 59 Zannoni, Antonio, 99 Zannoni, Giovanni, 17, 20 Zanolini, Andrea, 198 e n Zanolini, Antonio, notaio (XV sec.), 197 e n, 203n

Indice dei nomi

Zanolini, Pietro, notaio, 183n, 204, 208, 212n, 213 Zanotti, Luigi, 50 Zanotti, Sebastiano, 48 Zanotti, Serafino, 48-51 Zanotti, Walter, 111 Zauli, Anna, 140, 146, 149 Zavatti, Amilcare Guglielmo, 92-106 Zavatti, Carlo, 92, 93 Zavatti, Luigi, 96 Zavatti, Luigia, 96 Zavatti, Rosa, 96, 104 Zavatti, Silvio, 106 Zavatti, Walter, 104 Zazzeri, Raimondo, 20 Zignani, Valeria, 4 Zilioli, cantante, 159 Zingarelli, Nicola Antonio, 158n Zucchini, Guido, 101


Finito di stampare nella Stilgraf di Cesena nel mese di settembre 2007


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