JUST KIDS #12 - 2014

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JUST KIDS

#12 4,50 euro

con CD 6,50 euro

Anno II - n. 07

Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM - RIVISTA Con CD cellofanato 6,50euro

[RICCARDO SINIGALLIA] [EUGENIO FINARDI] [JULIE’S HAIRCUT] [BUD SPENCER BLUES EXPLOSION] [MaDeDoPo] [UNDERDOG] [DIODATO] [THE NIRO] [VALERIO PICCOLO] [ROBERTA CARTISANO]

Sinigallia . Eugenio Finardi . Julie’s Haircut . Bud Spencer Blues Explosion . Management Del Dolore Post Operatorio Underdog . Diodato . The Niro . Valerio Piccolo . Roberta Cartisano . Compilation By V 4 V . 1985, Manchester . Luca Ward . Come On, Pilgrim! . Ce N’era Ancora Bisogno Di Questi Annni ‘90? . 10 Film Da Vedere Se Vi È Piaciuto La Grande Bellezza . How Do You DIY? ILVOCIFERO . Nel Giorno Del Tuo Amore . Il Guardiano . La Madonna Dei Filosofi . A Matita . Come Kim Gordon . L’orientale . Il Tema In agguato . Capitolo 3. Centuria di Giorgio Manganelli . Le 6.43 del mattino esistono . E’ andata così . Le ultime notizie dalle stelle.


JUST KIDS “

Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.” da “Just Kids”, Patti Smith

JUST KIDS KIDS è una rivista di musica, illustrazioni, poesia, cinema, libri, storie e suggestioni. Direttore Editoriale Anurb Botwin | justkids.redazione@gmail.com Responsabile Musica Valentina Oliverio | justkids.musica@gmail.com Responsabile Rubriche Giorgio Calabresi | justkids.rubriche@gmail.com Responsabile distribuzione cartaceo Catherine | justkids.distribuzione@gmail.com Responsabile Web Claudio Delicato - www.webzinejustkids.wordpress.com Social Network facebook.com/justkidswebzine twitter.com/justkidswebzine Scrivono Aldo Romano, Alessandro Barbaglia, Alina Dambrosio, Angela Giorgi, Anurb Botwin, Carlo Emilio Gadda, Carlo Martinelli, Catherine, Claudio Avella, Claudio Delicato, Daniele Aureli, Edoardo Vitale, Fabio Capalbo, Fabrizio Morando, Flavia Sciolette, Francesca Amodio, Francesca Gatti Rodorigo, Francesca Vantaggiato, Francesco Capocci, Francesco Liberatore, Franco Culumbu/LoScuro, Giò Rabuffetti, Giorgio Calabresi, Giovanni Romano, Gaia Caffio, Giulia Blasi, Graziano Giacò, Luca Palladino, Marco Taddei, Maura Esposito, Nicholas David Altea, Orazio Martino, Paolo Battista, Sara Fusani, Skandergeb, Valentina Oliverio, Viviana Boccardi, Walter Somà. Fotografi Alessio Jacona, Luca Carlino, Enrico Ocirne Piccirillo, Francesca Sara Cauli, Ilaria Magliocchetti Lombi

JUST KIDS

Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538 Editore: Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ) 0975/841077 Stampa: DM Services S.r.l. Via di Valle Caia Km 9.900 00040 Pomezia (RM) Distribuzione: Eagle Press via Galla Placidia, 184 00159 Roma (RM)

Cover: Luca Carlino Back: Zak Milofsky


SOMMARIO 04 | EDITORIALE di Diego Mancino [Musica] 08| sinigallia di Catherine e Valentina Oliverio 16| EUGENIO FINARDI di Francesca Amodio 22 | julie’s haircut di Giovanni Romano 28 | BUD SPENCER BLUES EXPLOSION di Alina Dambrosio 33 | MANAGEMENT DEL DOLORE POST OPERATORIO di Francesco Liberatore 39 | underdog di Skanderbeg 48 | diodato di Valentina Oliverio 56 | the niro di Francesca Vantaggiato 60 | valERIO PICCOLO di Fabrizio Morando 66 | roberta CARTISANO di Flavia Sciolette 71 | JUST KIDS COMPILATION by v 4 v 72 | novecento di Gaia Caffio|1985, Manchester 74 | L’ANTIPASTO NUDO di Giovanni Romano e Graziano Giacò|Luca Ward 78 | webziners di Angela Giorgi per STORDISCO|Come on, pilgrim! 79 | webziners di Nicholas David Altea per PAPER STREET|Ce n’era ancora bisogno di questi annni ‘90? 80 | webziners di Orazio Martino per OSSERVATORI ESTERNI|5 film da vedere se vi è piaciuto la Grande Bellezza 81 | webziners di Carlo Emilio Gadda per BREAKFAST JUMPERS|How do you DIY?

[ILLUSTRAZIONI] 82 | fumetti di Walter Somà, Fabio Capalbo, Aldo Romano, Giò Rabuffetti | ILVOCIFERO 86 | LA DIMENSIONE EROICA DEL MICROBO di Maura Esposito| Nel giorno del tuo amore 88 | punto focale di Giulia Blasi|Il guardiano [immaginario] 90 | sommacco di Luca Palladino|La madonna dei filosofi 92 | sommacco di Giorgio Calabresi | A matita 93 | sommacco di Francesca Gatti Rodorigo | Come Kim Gordon 94 | troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci | L’orientale 96 | interviste impossibili di Alessandro Barbaglia | Il Tema [storie] 98| sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista | In agguato 100 | suonatore d'autobus di Carlo Martinelli | Capitolo 3 [teatro - libri] 102| ruba questo libro di Marco Taddei | Centuria di Giorgio Manganelli [STERILITA’ DEL BENPENSARE] 103 | PARODIA DELLA VOLOTA’ di Edoardo Vitale |Le 6.43 del mattino esistono 104 | sex on di Catherine | E’ andata così [CRONACA NERA] 106 | oracoloscopo di Franco LoScuro | Le ultime notizie dalle stelle

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editoriale

di Diego Mancino

ROMA (vagabondaggio casuale)

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eri lampioni sostenevano il mio tacere sul ponte che ardeva nel sole che ospitava quest’esule questo rotolante cuore. Preda di sovrumani incanti ho sostato col cuore che batteva come quando s’incontra l’innamorata.

Massacrano per sete. Persino gli alberi di questa città smettono le ombre fresche, si fanno muraglia, baluardo nell’assalto di un esercito casuale di inconsapevoli eremiti. I presagi del domani che non esiste mi risvegliano stamane, insieme alla lettera di chi fugge a me per saggia impresa.

Di pietra ero io, e la pietra veneravo.

l’amore non esiste l’estate non esiste domani non esiste.

la Pietà di pietra il silenzio di pietra le carezze di pietra. Avrei voluto baciare quella madonna che compete per bellezza con l’intera storia degli uomini farmi abbracciare nel marmoreo velluto sdraiarmi come figlio in un amore non più orticante. Una nera quiete mi ha raggiunto. Un ostacolo vischioso per chi vorrebbe il mio cuore. Di quale futuro saremo padroni? Di quali quote capaci? L’armonico mondo che si vorrebbe risuonante come Lira, intona dei canti dei sabba salmi che al cielo salgono furiosi e gementi. Ma canzoni di guerra io sento. Dispotici angeli dirigono il coro. Adorano le spade.

Qualcosa mi apparve forse Dio stesso con una delle sue incomprensibili trovate “Ritorna al tuo seme respira come un feto adora per istinto comprendi l’evidente Di tutte le conquiste e tutte le sconfitte distribuisci il peso poi studia crea e distruggi.” L’estate non esiste Domani non esiste. []

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| ph Luca Carlino


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PRESENTA

in allegato all’edizione cartacea di JUST KIDS #12

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ROSETTA l’irriverente disco di

BANANALONGA

frontato, mai scontato, irriverente. Questo è Bananalonga, combo di quattro musicisti da Marsala (TP) nato dalla passione comune verso la musica surf e creato per dare alle stampe Rosetta, un folgorante ep che passa da sonorità californiane per poi sconfinare nel beat, nel liscio e in emozioni da balera. Corone di fiori hawaiiane che si fondono coi vitigni siciliani, doppi sensi a combattere la noia da paese, colonne sonore che sembrano trasportare Super Mario e Luigi su onde incalzanti, Garibaldi che strizza l’occhiolino ad anita mentre ascolta Don Caballero, Dick Dale e Beach Boys. “Una band liscio-surf” li ha definiti Massimo Martellotta (Calibro 35). Se tutto va liscio, ne sentirete parlare molto presto. Rosetta, primo ep di Bananalonga, è un mix di freschezza e genuinità, cura maniacale dei particolari e leggerezza. Con collaborazioni illustri dallo stesso Massimo Martellotta a Giovanni Gulino e Carmelo Pipitone (Marta Sui Tubi) fino al Sax di Carpa Koi, Rosetta è quanto di più divertente possiate ascoltare!

Bananalonga: Fabio Genco, Leonardo Sammartano, Fausto Giacomarro, Salvo Casano. Credits: Tutti i brani sono stati scritti da Bananalonga, tranne The Mexican Cactus, scritta da Eileen Davis e Jean-Jacques Perrey.

WW W.LAVIGNADISCHI.IT


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2 P I G E O N S

M AT T E O

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( Ser en a Gan c i e Mauriz io Fila rdo)

ROS T E R

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2014

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BOOKING

G I O VA N N I GIGANTINO

ANDREA B R O G G I

GIOVANNI@LA-FABBRICA.ORG

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[Musica] INTERviste

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Riccardo Sinigallia

[Musica] INTERviste

di Catherine e Valentina Oliverio | ph Luca Carlino

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[Musica] INTERviste

Cosa chiedere a un artista che ha suggestionato in modo autentico e profondo la scena musicale italiana degli ultimi 20 anni? Cosa chiedere a un produttore che ha provato con competenza e una giusta dose di sperimentazione a indirizzare verso alti livelli di raffinatezza la canzone d’autore? Cosa chiedere a un musicista che ha contagiato con la sua particolare idea di relazione tra linguaggio musicale e testo il lavoro artistico di molti? Capita di sedersi al tavolo di un bar e cercare le domande giuste da fare a un uomo che non ha mai scisso la dedizione alla musica dalla propria personale crescita emotiva e spirituale.

Riccardo Sinigallia il cui ultimo Lui

è

disco Per Tutti uscito il 20 febbraio per l’etichetta Sugar, ha riconsegnato al termine POP quell’aura d’intrinseca qualità di cui abbiamo sentito la mancanza.

A

lla trasmissione radiofonica Stereonotte nel 2006, parlando dei Talk Talk, hai detto: “Mi piacerebbe un giorno essere definito popolare”. Oggi il tuo terzo lavoro è stato definito dalla critica l’album più “pop” tra quelli che hai realizzato. Questo termine è usato spesso con un’accezione superficiale, senza considerarne davvero il significato. È come se l’essere pop togliesse un po’ di qualità all’artista. Cosa significa essere popolare per te? È ancora valida quell’affermazione. Per me sarebbe un grande traguardo riuscire a essere popolare mantenendo intatta la radice di quello che faccio. Sarebbe un sogno e faccio fatica a capire i motivi per cui questo sogno sembra così lontano dalla possibilità

di concretizzarsi, sembra quasi un’utopia per quelli come me anche se fanno canzoni essenzialmente pop. Io non vorrei mai essere un artista di nicchia e penso che il modo in cui scrivo sia esattamente il modo in cui oggi le persone si parlano, per lo meno le persone della nostra età. Poi può essere ci siano persone che vivono in zone più difficili del nostro Paese, per le quali il linguaggio metropolitano può risultare troppo raffinato forse, ma io amo quel tipo di approfondimento poetico e letterario di chi oggi vive in una grande città europea con tutto quello che significa. Non vedo troppe differenze in questo senso tra i miei album. È senza dubbio vero che l’ultimo è il disco con cui ho cercato di avvicinarmi di più a tutti, non so nemmeno se ci sono riuscito, ma sicuramente ci ho provato mantenendo le canzoni quelle di sempre. Le mie produzioni sono le stesse di quando ero adolescente, non sono mai cambiate, questo per certi versi è un limite ma è anche una prova del fatto che non ho cambiato natura e non ho copiato qualcun altro. Facendo un parallelismo tra gli album Incontri a metà strada e Per tutti, si nota una sorta di evoluzione nei contenuti e nelle liriche: gli stessi temi sono affrontati con maggiore consapevolezza e maturità emotiva. Consideriamo i rispettivi primi brani: in Finora dici “non mi do pace ancora fino a che la mia anima non torna”, in E Invece io balli il tempo dell’anima tua. Tu e la tua anima vi siete ritrovati? Avete colto un nodo fondamentale, è bello quando succede che qualcuno ti ascolta davvero. Cercare corrispondenze e significati tra i brani è una cosa che faccio anch’io con i dischi che mi piacciono, quindi sono lusingato. La differenza tra i due primi album e Per Tutti, facendo riferimento a me come persona, è proprio il tipo di conforto e consapevolezza che ho approfondito nel corso degli anni. Io vado spesso a Paros con la mia famiglia anche per tre o quattro mesi d’estate, è un’isola che mi ha totalmente rapito e mi sento ormai quasi più di Paros che romano. Proprio a Paros ho incontrato Amit Carmeli, un produttore israeliano che organizza seminari in cui si lavora sulle radici della voce come strumento primario per la meditazione, per raggiungere uno stato di distacco rispetto all’ordinario e ai meccanismi razionali del cervello. Non è un vero e proprio stato di trance, ma ci si può pure arrivare.

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[Musica] INTERviste

I seminari che fa nascono da un suo grande approfondimento rispetto a tutto il misticismo orientale e anche da una grandissima competenza musicale, enorme, forse è il musicista più straordinario che io abbia mai conosciuto. Partecipando a questi seminari, cantando insieme ad altre persone e soprattutto facendo un’esperienza significativa direttamente con lui mi sono reso conto che molte delle cose che negli anni avevo tenuto dentro, come essere umano e come musicista, non erano solo mie stranezze. Lui mi ha detto col sorriso: “Stai sereno perché è proprio così, va benissimo così. Questa è la voce, questa è la musica, questa è la vita”. Quando in Finora dicevo “non mi do pace ancora” era prima di conoscerlo. C’era qualcosa che non mi tornava, non trovavo un riscontro esterno. La fede non la capivo e anche adesso ho grande ammirazione per chi ci riesce ma non mi riguarda. L’amore era, ed è, una cosa altrettanto misteriosa. Da quando ho incontrato Amit ballo al tempo della mia anima. E so che canto la mia anima da prima di me, quindi prima di me stesso posso anche ascoltarla. Ascoltare “prima di me” significa eliminare l’io razionale dal canto dell’anima. La chiave è non considerare la parte analitica nel

momento della liberazione e del flusso, poi dopo la si può anche recuperare per mettere a posto. Il cervello è sicuramente molto utile, ma spesso è un limite. Hai vissuto con un po’ d’insofferenza il fatto di non avere avuto un completo riconoscimento della tua carriera artistica. Adesso che è arrivata qualche soddisfazione, come vivi il passaggio dall’Ombra della luce alla luce? Sofferenza proprio, più che insofferenza. C’è stato anche questo, per un lungo periodo. Penso sia abbastanza fisiologico per qualunque artista. Vedi le cose girare intorno a te in modo totalmente meccanico, tu magari intanto ce la metti tutta quindi vivi con sofferenza il fatto che il tuo lavoro non sia riconosciuto come vorresti. Nel mio caso parliamo di un riconoscimento del linguaggio, del rapporto tra musica e testi. Non solo mi ha procurato sofferenza che non sia stato capito, ma anche che sia stato riconosciuto a chi invece lo banalizzava. Io facevo un gran lavoro ma poi magari arrivava Mister X, interpretava una canzone delle mie in una maniera molto meno autentica e veniva presentato a tutti come il nuovo genio.

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[Musica] INTERviste

Può esserci un potenziamento di tutti i sensi nel momento in cui ci si rende disponibili a percepire in un modo diverso da quello che viene imposto dal pur utile approccio razionale occidentale, che ha impostato tutto sullo sfruttamento dei programmi. Abbiamo bisogno di riequilibrare questo aspetto, ci dobbiamo staccare un po’. In questo senso la meraviglia è tutto, è quello che ti dà la felicità. ”

Conosco anche i motivi per cui succedeva, ma in ogni caso non farei mai cambio con le soddisfazioni e le gratificazioni che comunque ho avuto. Chi fa questo lavoro non può non essere almeno un po’ egocentrico. Un conto è che la gratificazione dell’ego sia l’unica modulazione di ciò che fai, l’unico criterio di scelta nei tuoi comportamenti, un conto è che sia un bisogno di riconoscimento sano. Tu hai conosciuto profondamente l’ambiente musicale italiano occupandoti di cose diverse: sei un musicista, produttore, arrangiatore, cantautore e un tempo sei stato anche un discografico. Si ha come l’impressione che tu sappia esattamente cosa funziona, cosa non funziona e come dovrebbe funzionare. E’ così? Ok, in pratica vuoi che ti parli del sistema musicale italiano ma la domanda l’hai posta molto meglio. Penso che in realtà ormai lo sappiamo tutti come dovrebbe funzionare. Lo sanno benissimo anche i discografici che fanno le scelte. Il punto è che spesso si sceglie la via più facile. Lo sapete bene anche voi che facendo questo giornale avete gli stessi problemi che ho io ad amare artisti come Francesco Di Bella e Filippo Gatti.

Mio fratello produce Di Bella e si chiede ancora come sia possibile che il disco meraviglioso di un artista fantastico sia così difficile da proporre anche a mia cugina, non dico a radio Deejay. Forse alcuni dischi sono difficili in relazione a quella che è l’omologazione del prodotto discografico pop italiano di oggi. Sembrano quasi dischi “rotti”, come diciamo io e Filippo. Quando facciamo una canzone, ci piace, la registriamo, poi la portiamo a qualcuno per fargliela ascoltare e ci dice “Ma che è rotto ‘sto disco? È guasto?” L’omologato funziona perché usa sistemi e linguaggi sotto torchio: 3 minuti e 50, tutto perfettamente a tempo, tutto perfettamente a posto. Come usare Photoshop a cannone: una foto meravigliosa, naturale perché mostra i difetti, non può funzionare. Oppure è come nei supermercati: anche se fai il formaggio più buono e sano del mondo mettendoci passione e non additivi chimici succede che nel supermercato non ci vai. Poi ogni tanto capita il colpo di fortuna che ti devi anche procurare. Io ho aspettato sette anni per uscire con questo nuovo disco perché volevo avesse la funzione di “rapina nel supermercato”. Non mi andava di fare l’ennesimo disco straordinario da tenere per gli amici, volevo l’occasione di farlo sentire a più persone e allora ho deciso di aspettare per provare a entrare nel supermercato. Ci sono entrato... e poi ovviamente mi hanno “squalificato”, lo dico con ironia. La mia missione non era tanto fare un bel disco, ma trovare l’occasione giusta per esporlo. Ormai di dischi belli e meno belli ne abbiamo fatti, il problema è che non li sente nessuno. Continua a essere un momento difficile, ma mi pare si stia determinando una fase di passaggio e secondo me è abbastanza evidente che da qui in poi abbiamo la possibilità di intervenire. Il problema fondamentale è l’opinione, in Italia soprattutto. Non è il solito discorso sull’Italia che non va, è un dato di fatto. Non c’è nessuno negli organi di diffusione e comunicazione che gestiscono la mediazione tra l’arte e il pubblico che ha un’opinione personale autentica, nelle case discografiche le persone vengono assunte per non averne. Su questo tema ho letto un libro di Frédéric Beigbeder che si intitola Lire 26.900: è la storia autobiografica di un pubblicitario che racconta come viene costruito l’organigramma di una multinazionale della grande comunicazione di massa. Il libro comincia con la frase “io sono la rovina del pianeta” e 26.900 Lire è il prezzo

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[Musica] INTERviste

stupore”, per citare il disco di Vittorio Cosma, la possibilità di incantarsi e non vivere per delega. Tutto questo è fare l’amore, ecco cos’è l’amore. Quando Approfondiamo il discorso sulla barra del fai l’amore te ne vai, sei un’unica entità con un’altra tempo. Da come lo descrivi in Tu che non persona, lo spazio e il tempo si annullano. conosci sembra che il tempo sia qualcosa da cui salvarsi e che forse il modo per capirlo senza Cosa ha significato avere accanto la tua subirlo sia meravigliarsi anche di fronte a ciò compagna Laura Arzilli nella vita come nella che è convenzionalmente ritenuto scontato. Tu musica? Non è abbastanza definirla una “musa” hai una tua personale e particolare concezione per la tua arte, probabilmente è molto di più... del tempo? Laura non è solo una musa, è la persona verso cui mi giro La percezione del tempo mi ha segnato la vita. sempre quando cerco un riscontro, una condivisione. È capitato a tutti da bambini di trovarsi da soli su un Anche quando suono mi viene automatico girarmi verso tappeto, in un salotto e iniziare a canticchiare una di lei per avere una risposta, non c’è bisogno che dica melodia sconosciuta. In quella situazione un minuto, niente perché lo sento ma mi giro per sentire più forte. mezz’ora o dieci ore sono un po’ la stessa cosa. È la E poi è un’artista straordinaria. mediazione, è il distacco dalla convenzione che Carlos Ho lavorato con tanti musicisti, con alcuni c’è stato Castaneda chiama la “follia controllata della realtà uno scambio molto profondo a livello cerebrale e di ordinaria”. Che chiaramente non va totalmente buttata analisi, per esempio con Filippo Gatti, ma lo scambio nel cesso, perché ci serve. artistico che mi ha coinvolto totalmente, dal perineo alla Il pianoforte occidentale austriaco è diviso in semitoni corteccia, è stato quello con Laura. e per suonare insieme serve accordarci: 4.40 è la Infatti mi sono innamorato. Non credo che avrei avuto convenzione attraverso la quale io accordo la mia la possibilità di costruire una famiglia con un’altra chitarra, tu accordi il tuo basso, lui accorda un altro persona, è impegnativo fare dei figli con me... sono strumento e possiamo suonare insieme in maniera uno che si sveglia tardi. armonica. In Oriente nello spazio di suono tra un semitono e un altro, tra un do e do diesis, ci sono In una primissima fase i tuoi punti di partenza anche i quarti di tono. È uno spazio di suono che strumentali sono stati il campionatore, il con il pianoforte non si può suonare, ma che si può synth e la chitarra, successivamente ti sei sperimentare con i sintetizzatori perché non c’è questa appassionato allo studio del pianoforte. Qual è divisione netta e scandita in semitoni. la chiave compositiva del tuo nuovo lavoro? Si tratta solo di convenzioni e il tempo è la principale In Per tutti non c’è quel meccanismo presente nel primo convenzione che subiamo nella vita di tutti i giorni. disco, che consisteva nel partire da un mood elettronico Con Amit Carmeli io me ne sono andato da un’altra e stabilire a priori delle atmosfere sonore dentro cui mi parte senza assumere nessun tipo di sostanza, buttavo con la voce. semplicemente respirando e cantando insieme. In questo lavoro lascio aperte le canzoni per più tempo Ho capito che abbiamo la possibilità di vivere il tempo e lo con lo strumento, non le metto su un registratore per spazio in molti modi diversi. Per esempio noi cantavamo poi scriverci sopra, avendo come una gabbia. Tengo le stesse note all’unisono non programmandole, come aperte le canzoni soprattutto con la chitarra e le parole i pesci e gli stormi di uccelli che si muovono in sincrono vengono fuori in momenti di disponibilità alla scrittura. senza alcun tipo di accordo programmato. Sono Sono composizioni aperte che cambiano fino a quando naturalmente connessi tra loro. non penso di aver fatto qualcosa che vale la pena di Può esserci un potenziamento di tutti i sensi nel provare a incidere. momento in cui ci si rende disponibili a percepire in un Ho questa chitarra piccola che porto sempre con me modo diverso da quello che viene imposto dal pur utile con leggerezza e che estraggo dalla custodia con più approccio razionale occidentale, che ha impostato tutto entusiasmo rispetto al chitarrone. Inoltre ho recuperato sullo sfruttamento dei programmi. la passione viscerale che ho per la roba sintetica. Ce l’ho Abbiamo bisogno di riequilibrare questo aspetto, ci dentro, fa parte di me da quando ero piccolo. dobbiamo staccare un po’. In questo senso la meraviglia Mia madre era una discografica e mi ricorderò sempre è tutto, è quello che ti dà la felicità. È la “facoltà dello di quando mi portò a un soundcheck di Donna Summer con cui il protagonista vuole ricomprare la sua anima. È un libro bellissimo, prendetene spunto.

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[Musica] INTERviste

al Teatro delle Vittorie: io ero lì e a un certo punto partì una sequenza con un volume incredibile e Donna Summer, che sembrava uno stregone di un erotismo sconvolgente, iniziò a cantare I Feel Love. Avevo otto anni e quell’episodio mi ha segnato. Negli anni venuti dopo ho sempre sentito la sintesi ovunque: nei programmi televisivi, nelle sigle dei telegiornali e dei cartoni animati. In situazioni inaspettate trovavo sintetizzatori analogici, non li analizzavo all’epoca, ma li sentivo e mi piaceva. Poi ho scoperto il mondo dei campionatori, dei sintetizzatori e infine quello dell’hard disk recording che è ancora tutto da sperimentare. Potremmo fare cose veramente nuove invece di utilizzarlo ancora solo come copia e incolla, editing ed emulazione di strumenti veri. In realtà c’è da fare ancora tutto. Nella tua canzone E invece io c’è un implicito e pacifico confronto con l’altro e con il contesto. Hai scritto un testo con i puntini sospensivi che ci ha fatto venire in mente una frase letta ultimamente in un libro: “Tutti sono identici nella segreta tacita convinzione di essere, in fondo, diversi dagli altri”. E invece tu? Ci potrei stare dentro anch’io in questa frase. Castaneda divide l’esistenza in due grandi dimensioni: la prima, a cui accennavo, la chiama “follia controllata” ed è la realtà di tutti giorni. La seconda è quella di cui non si può nemmeno parlare perché nasconde universi giganteschi, sconfinati, profondissimi e spesso poco socialmente corretti. L’opera musicale che provo a produrre vuole essere un po’ il confine tra queste due dimensioni. E invece io, in particolare, rappresenta benissimo questo confine. Non vorrei fare l’errore, e non vorrei lo facessi tu, di pensare che io sia l’autore di questa canzone. Le canzoni che faccio mi vedono come ascoltatore nello stesso modo in cui lo sei tu. Il testo di questa canzone prima era molto più lungo ed è nato in due momenti diversi: una parte è venuta fuori durante il seminario con Amit in Grecia, ma una prima parte l’avevo scritta durante un workshop che ho tenuto io sul Gargano per un gruppo di ragazzi. Era un momento abbastanza difficile per me, uno di quei momenti in cui ti chiedi se sei veramente all’altezza di fare quello che fai. Avevo dato a ogni ragazzo due ore di tempo per scrivere una canzone e ho deciso di farlo anch’io insieme a loro, di provare a scrivere una canzone. Ero a San Menaio, sull’Adriatico, ospite all’Hotel Mare Chiaro. Queste due esperienze rappresentano per me

le due dimensioni di cui parlavo: il Gargano è la realtà, il lavoro, la “follia controllata”, la Grecia è la dimensione mistica. La fusione di queste due esperienze e dimensioni ha innescato la mia canzone e io stesso adesso quando l’ascolto rimango come sospeso... proprio così è un testo con i puntini sospensivi, ma dice tutto. A volte sento la mancanza della sospensione. Nei film, nei libri, nelle canzoni, nelle sceneggiature sento la mancanza delle pause e degli spazi. Tutti stanno lì a tagliare, invece è fondamentale rimanere sospesi. Hai assistito alla nascita, al consolidamento e

all’evoluzione della Scuola Romana. Se qualcosa è cambiato, cosa è cambiato negli anni? Credi ci sia stato un ricambio generazionale? Ma quali sono gli artisti della Scuola Romana? Secondo me la Scuola Romana è quella di De Gregori, Venditti, Stefano Rosso, Rino Gaetano di adozione, Edoardo De Angelis. Quella è la Scuola Romana, quella successiva è un’altra cosa di cui mi sento molto responsabile. Tutto è scaturito da una concatenazione di eventi, sicuramente un fattore fondamentale è stato ritrovarsi al

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Locale, un po’ di persone di quella generazione si sono incontrate lì e ne hanno fatto un luogo di scambio. Però nulla sarebbe successo se non ci fosse stato Riccardo Clary e la Virgin che hanno investito centinaia di migliaia di euro su alcuni artisti che avevano le caratteristiche per entrare nel mercato di quegli anni. Ecco com’è nato il fenomeno Silvestri, Fabi, Gazzè, Tiromancino, Britti, è stata un’iniziativa delle case discografiche. Probabilmente senza quei soldi e quella promozione questi artisti avrebbero avuto un altro tipo di percorso, questa è la differenza con la prima Scuola

Il contesto, sommato al loro talento, ha generato questa nuova “scena” che se si vuole si può chiamare scuola. La loro visibilità comunque è partita da un incoraggiamento, parallelamente c’erano già tanti artisti interessanti, non voglio dire più di loro ma senz’altro quanto loro, che non hanno avuto questa fortuna. Negli anni dopo ci sono stati ancora altri artisti che continuano ad andare avanti duramente perché sono rimasti fuori da quell’operazione discografica. Il ricambio generazionale però un po’ si sente, forse finalmente avremo anche altre voci da Roma. Con alcune tue scelte hai in parte deciso di non trattare la musica come un semplice mestiere. Può esistere un conflitto intimo tra tenere in considerazione le logiche di mercato e vivere la musica come catarsi e percorso personale mantenendo inalterata la gioia di farla. Tu l’hai superato? Non credo di averlo superato, ci convivo ed è anche uno stimolo. Se non ci fosse questa tensione, farei dischi diversi da quelli che faccio. I miei tre album sono esattamente la storia di questo conflitto: il primo era solo per me stesso, poi ho chiesto agli altri un incontro, infine ho detto a tutti “eccomi qua”. Il conflitto non deve essere per forza superato, ma penso di averlo esaurito e raccontato completamente attraverso il mio percorso. Quello che potevo fare adesso l’ho fatto. [ ]

Romana. È vero che i primi protagonisti usufruivano di un momento politico favorevole in cui il cantautorato italiano aveva le strade aperte nella diffusione, però in quel caso la storia nasceva veramente da loro al Folkstudio. Sicuramente poi c’entro anch’io, nel senso che quegli artisti a Clary li ho presentati io e con quegli artisti ho fatto anche un lavoro di un certo tipo sul linguaggio musicale.

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EUGENIO FINARDI

di Francesca Amodio | ph Luca Carlino

Dopo anni di “viaggi sonori” attraverso il fado e il blues, la partecipazione a Sanremo, un lavoro da produttore al servizio di Roberta Di Lorenzo e molti concerti, il ritorno con un disco prodotto da Max Casacci dei Subsonica – che più di qualcuno ha paragonato ai primi, leggendari lavori sotto l’etichetta CRAMPS (Area, Skiantos, Lucio

Eugenio Finardi

Fabbri) – torna con un tour nei piccoli club, un disco sfacciatamente rock che ha lasciato a bocca aperta più di qualche critico blasonato.

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on questo disco, è uscita di nuovo fuori l’anima rock di Finardi? Assolutamente sì, anzi, questo è un vero e proprio ritorno “a Finardi”; diventare un cantautore è senza dubbio un grande onore e un’immensa soddisfazione, ma a volte è limitante. La spinta me l’ha data il mio giovane chitarrista, Giovanni Maggiore, insieme al suo “complice” Casacci: il rock in realtà non mi ha mai lasciato, è la mia natura, ma loro hanno saputo cogliere il momento giusto per risvegliarla e per inciderla su un disco, quindici anni dopo l’abbandono del vecchio Finardi. Ma c’è anche una rabbia di fondo, dovuta alle ingiustizie politiche e soprattutto sociali di questi ultimi anni, che mi ha dato anch’essa la spinta per suonare e per cantare certi accadimenti, che nell’ultimo ventennio non ho ritenuto degni di essere cantati. Nel disco possiamo ascoltare la voce di Manuel Agnelli, e lei ha interpretato una toccante versione di Lasciami leccare l’adrenalina, per la nuova versione di Hai paura del buio; Pierpaolo Capovilla e Nadàr Solo scelgono di reinterpretare l’attualissima Musica ribelle: sente il peso di quest’influenza che ha sulla nuova musica italiana? Guardi, tecnicamente sono un cantautore, ma in realtà io mi sento il primo degli “indie”: per i miei storici lavori alla Cramps, per il mio modo di suonare, per l’atteggiamento mentale che è molto vicino in realtà agli Afterhours, che è poi la musica che ascolto, insieme ai Led Zeppelin, a Bob Dylan. Il mio modo di scrivere testi è diverso dagli altri miei colleghi cantautori proprio perché sono stato sempre legato a quella che è stata la musica di protesta americana. Mi sento un po’ “il papà” degli Afterhours, dei Subsonica, dei Ministri, del Teatro degli Orrori. Tra i primi concerti della vita di Agnelli e Casacci c’è stato proprio il mio, quindi sono assolutamente consapevole, onorato e felice, per niente stupito, dell’influenza di cui parlava. Parliamo del suo ultimo disco, Fibrillante: nei testi torna più di una volta la parola “futuro”, che idea si è fatto del futuro della musica italiana? Bah, in realtà la musica italiana ormai è molto

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“globalizzata”, basti pensare che in questo momento in cima alle classifiche c’è un disco francese. Pensi anche all’ultimo disco degli stessi Afterhours, in cui figurano moltissimi artisti americani. Io sto ancora aspettando che arrivi il “nuovo”: quello che una volta è stato il rock, poi il rap. Ma anche il rap comincia a invecchiare, ormai. Onestamente non credo che questo “nuovo” uscirà fuori dall’Italia: io scommetterei sulla Cina e sull’India, posti che pullulano di giovani creativi e di industrie musicali ferventi. Se e quando arriverà qualcosa che sostituirà il rock, sono quasi certo che non sarà un prodotto del belpaese.

molto concreta, è legata alla vita vissuta, a quella di tutti i giorni. Noi siamo esseri spirituali, e la nostra spiritualità consiste proprio nel coltivare la nostra anima; tendiamo alla grazia, alla pietas, alla trascendenza: il divino ce l’abbiamo dentro. Lei si illumina parla proprio delle donne che arrivano ad una certa età con grazia, con consapevolezza, sapendosi accettare, sapendo accettare soprattutto il fatto di abbandonare il gioco della seduzione come arma, nella maturità. Guardo mia moglie e penso che le rughe non la appesantiscono, la luce negli occhi è sempre la stessa, viva e bellissima. Le donne sono come i violini antichi: col passare del tempo suonano sempre meglio. Io In Lei si illumina canta la quotidianità dal senza mia moglie sarei completamente perduto, lei punto di vista femminile, di una donna probabilmente senza di me se la caverebbe benissimo. qualunque, ma il testo è anche molto, per così dire, “spirituale”. È d’accordo? Il suo approccio alla scrittura io lo definirei Non ci avevo mai pensato e in realtà è vero. “narrativo”, non solo in Lei si illumina, ma Io non sono credente, perciò la mia spiritualità è

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anche ne La storia di Franco, ad esempio. Si sente una sorta di cantastorie? In parte sì. Effettivamente in questo disco per la prima volta creo dei personaggi, racconto storie, racconto persone. In Fibrillante forse sì, sono un po’ cantastorie, ma in realtà è qualcosa che prima non ho mai fatto per il semplice fatto che ho sempre parlato di me, della mia vita, dei miei trascorsi. Nel mio ultimo lavoro però, in effetti, l’etichetta di cantastorie non mi sta poi così male, è la verità. In questo disco c’è molto di Finardi proprio perché parlo degli altri, perché filtro più esistenze. Il brano Fibrillante, che dà il titolo al disco, parla, come è noto, della sua recente malattia, ma musicalmente è un pezzo decisamente molto allegro. La rabbia si è tramutata in ispirazione ed energia positiva in questo caso? Più che la rabbia, la paura. Rendersi conto, a sessant’anni, che il tuo cuore batte fuori tempo e che non lo puoi neanche licenziare come faresti con un batterista, è una cosa che può essere molto inquietante, e personalmente mi inquietava parecchio. La fibrillazione al cuore è una cosa cer tamente fastidiosa, spiacevole, e si deve solo sperare che il cuore ritrovi il ritmo giusto. Nel mio caso, lo ha ritrovato. E la vita diventa di colpo più preziosa, più pregnante, più significativa, tutto quello che fai diventa più rilevante. Tutte queste cose hanno ispirato questa canzone. Un giorno, mentre ero in visita dal cardiologo, ho visto la mia cartella, che diceva:

“Eugenio Finardi, fibrillante”. Beh, ho avuto come un’illuminazione, e mi sono detto che il disco non avrebbe avuto altro nome all’infuori di questo! Fra le sue collaborazioni si annoverano quelle con Zibba e con i Perturbazione: c’è attualmente qualche nuova leva italiana che stima a livello di scrittura di testi? Ritengo che Dente scriva dei bellissimi testi. E poi stimo i rapper. Mi piace Salmo, stimo Fedez, che era compagno di scuola di mio figlio: adoro il loro modo di usare le parole, la scansione metrica, il ritmo. Infatti “Cadere, sognare”, forse la canzone più intensa del disco, ha un testo cantato però ha un modo di scrittura, con rime baciate, molto affine al rap. Rigorosamente nascosto, quando sono in macchina, spesso mi diverto a “freestyleggiare”! Sa che Jovanotti sostiene che il primo rap italiano fu “Extraterrestre”? So di un imminente progetto sul jazz. Può anticiparci qualcosa? Certo. Sono stato invitato a un festival jazz pugliese, il “Locomotive”, organizzato da Raffaele Casarano, un giovane sassofonista.’ È un progetto molto bello che svilupperemo alla fine del tour di “Fibrillante”. Del resto, ho sperimentato tutto, mi mancava solo quello! Nel disco abbiamo il piacere di ascoltare Patrizio Fariselli, storico pianista degli Area, gruppo che entra a pieno titolo in quella che definirei l’età dell’oro della musica italiana, gli anni settanta. Come a pieno titolo vi rientrano anche Francesco Di Giacomo e Claudio Rocchi. Ci lascia con un ricordo di questi due grandi musicisti? Mi fa strano pensare che Francesco non ci sia più. L’avevo sentito il giorno prima che ci lasciasse. Allegro e vivace come sempre. Mi manca moltissimo. Questo sicuramente è stato un anno assurdo: la sua, insieme alla morte di Claudio, a quella di mia madre, e anche a quella di Nelson Mandela, mi hanno distrutto parecchio. Come ha detto lei quella di Di Giacomo, Rocchi, e anche di Roberto Ciotti, è stata l’età dell’oro della musica italiana e la loro mancanza si sente. Io poi, che di mancanza sento in più quella personale, fisica, non faccio testo. Sarebbe bello riuscire ad organizzare un bel festival, un giorno, per ricordare questi tre giganti, e non solo loro, della musica italiana. Anzi, credo sia proprio un nostro dovere. La musica italiana è, e sarà sempre in debito, con quella gente là. [ ]

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Julie's haircuT di Giovanni Romano | ph Francesca Sara Cauli JK | 22


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Sembra ieri ma sono passati dieci anni e me lo ricordo benissimo. Avevo tredici anni, e allora, fan sfegatato del mai abbastanza rimpianto MTV Brand New, passavo ore ed ore a vedere i video delle band e, ovviamente, non mi facevo mai mancare l’angolo patriottico. Tra questi, uno di quelli che più mi colpì si presentava in maniera molto semplice (specialmente per un tredicenne): un tratto nero su sfondo bianco che racconta una storia. La caratteristica peculiare di quel pezzo era il campionamento di campane all’inizio. Mi rimase impresso sin da subito. Il pezzo si chiamava (Your life’s Highlights for the) Academy Awards, ed era tratto dal terzo

Julie’s Haircut

album dei , Adult Situations, concept sull’adolescenza, che mi permise di conoscere una delle band cardine dell’alternativa italiana a cavallo tra i due secoli. Di quelle band che, per quanto possano avere successo ed essere apprezzate, non è mai abbastanza. Dieci anni dopo io sono cresciuto, loro anche. Hanno sfornato un album bellissimo Ashram Equinox, in cui si sono fatti un bel viaggio nella sideralità. E siccome sono stati uno dei gruppi che mi hanno accompagnato nell’ultimo decennio, non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di intervistarli al Circolo degli Artisti in

Woodworm Festival

L

’evoluzione dei Julie’s Haircut dura, finora, sei album, come siete arrivati ad Ashram Equinox? Sono passati quasi 15 anni, con tutto quello che può succedere in un periodo così largo. E’ stata un’evoluzione graduale. Abbiamo capito bene, andando avanti col tempo, che fare un disco bello e riuscito significa fare una cosa che senti molto mentre la fai. L’ultimo disco è frutto di una crescita personale, come musicisti e come persone, che poi, al momento del lavoro, buttano dentro tutto quello che hanno. E’

occasione del , bellissima festa dell’etichetta aretina del cui roster i Julie’s fanno parte, per parlare un po’ di loro a 360° con l’occhio di chi pensa di capirci, ma che poi scopre di non capirci un cazzo.

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anche vero che se vediamo, durante la composizione, che andiamo a parare su cose già fatte, magari anche meglio, le accantoniamo. Poi ogni disco dei nostri ha un’identità ben precisa, all’interno di un percorso di crescita molto graduale, con suoni caratterizzanti, pur se composti da atmosfere anche diverse. Ashram è l’ultimo capitolo di questo discorso di crescita, che ha un filo conduttore evidente. Ci avete messo quattro anni per tirare fuori “Ashram Equinox”, come mai tutto questo tempo? Avete dovuto svilupparlo mentalmente o cos’altro? Per prima cosa in realtà abbiamo dovuto buttare via un sacco di roba che non ci portava da nessuna parte. Se

dovessimo fare il calcolo delle ore spese sulla musica finita poi sul disco, sarebbe veramente poco. La cosa principale è che è cambiato il metodo compositivo, non scriviamo più le cose come prima, non più pezzi con una struttura armonica precisa, andiamo in studio, improvvisiamo molto e lavoriamo sulle improvvisazioni. Un lavoro di produzione e composizione che non funziona come di norma succede. Non si va in studio a registrare e in dieci giorni hai il disco. Magari andiamo in studio e iniziamo due-tre pezzi sulla base di alcune idee, stiamo tre giorni e non ci torniamo magari per un bel po’. Poi torniamo e le finiamo o ne iniziamo altre. Alla fine così il percorso si delinea da solo. Molto importante è stata l’esperienza che ormai abbiamo maturato,

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Ashram Equinox? Noi però non l’abbiamo concepita così alla base. Semmai diremmo, a posteriori, che gli ultimi due sono molto più simili come sound ed atmosfere, anche perché l’EP The Wildlife Variations (2012, ndr) scaturisce dalle stesse session in cui stavamo Ashram Equinox è un punto di partenza o un lavorando all’album, mentre invece Our secret punto di arrivo? Ceremony (2009, ndr) aveva ancora dei pezzi con Ce la chiedono tutti questa cosa! Non sappiamo ancora delle strutture più precise e normali. dove andremo a parare. Ogni disco è un gradino in un percorso. Non lo In questo viaggio dal terreno al siderale, viviamo come una partenza o un arrivo. Semmai è un c’è anche un lavoro sull’idea musicale che passaggio, cristallizza un determinato periodo ed è si vuole trasmettere, oltre a quello sulle partenza ed arrivo allo stesso tempo. improvvisazioni? Questo discorso pensiamo che venga fuori a lavoro già Potrebbe essere considerata una trilogia inoltrato. Ci può essere un’idea musicale. “Facciamo quella che va da Our Secret Ceremony, passa un qualcosa che abbia un’idea di questo tipo”. attraverso The Wildlife Variations e arriva ad Ma andiamo molto sul concetto di suono, mescolando rispetto ad anni fa: allora era veramente impensabile accantonare una canzone. Adesso invece siamo brutali, e non ci interessa tenere un pezzo a tutti i costi, anche se magari ha un buon potenziale. Il rischio è sempre quello: andare a finire su cose già fatte.

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anche strumenti elettrici e strumenti acustici. Invece non riteniamo possibile cercare di trasmettere determinate sensazioni “a tavolino”, anche perché la soggettività con cui si ascolta la musica e trasmette emozioni, fa saltare a priori un discorso di questo tipo. Il discorso dei video è nato anch’esso a posteriori? Oppure un progetto legato all’aspetto visivo è nato in itinere? Anche questo è nato dopo, poco prima che uscisse il disco. Come idea promozionale e non. Il video inteso come videoclip classico è una forma un po’ passata. Questa è un’idea bella e semplice, dare una visualizzazione a pezzi con immagini che non c’entrano nulla e che assumono un senso tutto nuovo associata alla musica. La bellezza della musica strumentale è che ti permette di viaggiare molto di più, con la testa fai dei grandi viaggi. Viene molto più naturale associare immagini a pezzi. Il discorso dei social network lo vedete in positivo o in negativo per la musica? Ha aspetti ambivalenti. Sotto aspetti promozionali ha una sua utilità. Inoltre c’è un dialogo con i fan che prima non si poteva avere. Potevi parlare con una persona al termine di un concerto, ma non riuscivi ad avere una visione d’insieme. Poi, però, a parte questo, assume una centralità eccessiva. Quando non c’era inter net comunque la comunicazione nel campo musicale esisteva già.

tutta la fase dei social, ho avuto come la sensazione che voi, siccome l’ultimo lavoro è uscito quando l’era facebook-twitteriana era all’alba, abbiate avuto meno dai social rispetto ad altre band che valgono la metà, cosa che peraltro è successa anche ad altre band della vostra generazione, ad esempio gli Zu, o gli Yuppie Flu. Forse anche perché, magari, spiazzati da un nuovo modo di condividere contenuti musicali. Avete avuto la stessa sensazione? Ora che mi ci fai pensare, può essere che hai ragione. Ma, fondamentalmente, non ce ne frega niente (risate ndr). Adesso vedo che comunque le cose su facebook funzionano, all’incirca è tutti proporzionato. Anche se alla fine su internet noi siamo stati sempre presenti, abbiamo avuto lo storico my space, ora abbiamo facebook, twitter, instagram, troppa roba! Poi, insomma, sinceramente, curiamo l’aspetto social, perché sappiamo che è importante, ma abbiamo altre priorità. Cosa è cambiato secondo voi rispetto ai tempi dei vostri esordi? Sicuramente la qualità. Il numero di band, e anche il livello medio delle stesse. Adesso, rispetto agli anni passati, è più facile ascoltare qualcosa di interessante. Prima però per vedere una band dovevi per forza andare al concerto. Avevi quasi una tensione addosso già nei giorni prima perché sennò non li potevi vedere altrimenti. Lo vivevi di più, c’era una maggior partecipazione emotiva. Mentre invece, anche grazie al meccanismo di internet di cui parlavamo prima, c’è maggior freddezza. Ovviamente è un discorso generale, ci sono ancora gruppi i cui concerti sono molto aspettati. Adesso vediamo che più che il live, c’è la “caccia all’evento”. Se c’è una determinata serata a cui si DEVE andare perché è quella figa. La serata andrà bene, indipendentemente da chi ci suona. Prima la ricerca sui concerti era decisamente maggiore. [ ]

A proposito di questo: avendo vissuto in pieno

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Bud Spence Blues Expl di Alina D’ambrosio | ph Ilaria Magliocchetti Lombi

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iete alla quarta data di questo tour This is not a show. Raccontateci una prima impressione e come sta reagendo il pubblico? Cesare (C): Siamo sorpresi della reazione del pubblico ai pezzi nuovi, che è positiva. Questi nuovi pezzi vengono bene e ci divertiamo a suonarli prima di tutto e forse anche per questo che piacciono, quindi riusciamo a trasmetterli. Poi avevamo anche voglia di suonare i pezzi nuovi, anche perché avevamo fatto tante date con i dischi precedenti. La scelta di presentare i nuovi brani durante il tour, ancora prima della pubblicazione dell’album, è dovuta più a un’esigenza terapeutica o a un test? Adriano (A): Si tratta di una naturale prosecuzione del lavoro del disco per un gruppo che come noi si

Dopo un anno e mezzo di pausa, si fa per dire, i

Bud Spencer Blues Explosion

si riappropriano di ciò che gli spetta di diritto: il palco. Non è retorica. Il live è la loro dimensione, riescono non solo a trasmettere energia, ma vi colpiscono dritti allo stomaco. La ricetta è semplice: chitarra (Adriano Viterbini) e batteria (Cesare Petulicchio), il risultato è dei migliori. Energia pura, suoni secchi, diretti, senza filtro alternati da attacchi psych. Just Kids li ha incontrati in occasione del concerto al Locomotiv di Bologna. esprime forse al 100% dal vivo. La fase del nuovo disco è stata una fase molto delicata e di qui la ricerca di qualcosa che ci somigliasse veramente e che fosse veramente concreta e sincera con noi stessi. Per testare questo tipo di sincerità, dopo esser stati un anno e mezzo chiusi in sala noi due e il nostro produttore (Giacomo Fiorenza), ci s i a m o d e t t i c h e forse sarebbe stato meglio prima fare un giro per vedere se le nostre idee sarebbero state recepite con entusiasmo. Magari potrebbe apparire anche diversa la scaletta del disco, quindi perché non scegliere in base al gusto del pubblico

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Il primo album è stato registrato in studio con più strumenti, il secondo in presa diretta, poiché più improntato al live, questo come sarà? C: Questo ancora di più batteria e chitarra, ci sono solo dei synth in più. Abbiamo fatto un disco che possa essere riproducibile totalmente, mentre negli altri c’erano dei pezzi che abbiamo cambiato in fase di registrazione e poi ci siamo resi conto che nel live non venivano così bene, erano fattibili, ma stonavano. Questo è stato più costruito in saletta, come si dovrebbe fare sempre in realtà. Ci siamo concentrati per poterlo fare e in questi live facciamo quasi tutti i pezzi del disco, dico quasi tutti perché li cambiamo, non facciamo gli stessi pezzi in tutte le città.

Duel, il singolo appena uscito, rappresenta lo stile di quest’album ? A: Duel potrebbe essere la faccia di questo disco, perché è un pezzo che è riuscito bene ed era un passo successivo rispetto alle cose che avevamo fatto. Il pezzo è venuto da sé, naturalmente, senza alcuna forzatura. Il sincretismo tra musica e video, regia di Alex Infascelli, è di forte impatto, anche per la performance artistica dell’attrice Caterina Inesi. Com’è nata questa collaborazione? A: Cercavamo un artista che ci aiutasse a valorizzare quello che stavamo facendo noi e che lavorasse senza troppi filtri. Alex è un outsider, che sta nel giro, ma fa quello che si sente di fare. Abbiamo scelto lui proprio per questo fascino che suscita. Lui è un artista grezzo, diretto, non ha mezzi termini, forse come anche il brano. Duel è molto semplice: ci sono una chitarra e una batteria ed è molto grezzo, i suoni sono scarni. Vi siete ispirati al film Duel di Spielberg ? A: Lo vidi da ragazzino e mi impressionò proprio perché era un film in cui c’erano due personaggi : un uomo, Dean, e un camion in un deserto. È un film caratterizzato da poche parole e tanto pathos, un po’ come la musica che vogliamo fare noi e ci è sembrato adatto. Come siete cambiati musicalmente in questi

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anni? In che direzione si sta evolvendo il vostro sound? C: La direzione è difficile da stabilire prima, anche perché ascoltiamo tanta musica diversa e quando si compone viene fuori il background di quello che si ascolta. Due o tre anni fa, non avremmo immaginato di fare un disco così. A volte penso se potessi tornare indietro nel tempo, immaginerei la musica che avremmo fatto? Probabilmente no, però in senso positivo. Siamo cambiati, c’è più padronanza, riusciamo a entrare l’uno nelle cose che fa l’altro e viceversa, insomma riusciamo a seguirci di più.

della musica: le nozioni tecniche, strumentali, sonore, stilistiche ed esplorando dischi, musicisti del passato che hanno influenzato quello che c’è oggi. Si tenta di maturare i nostri gusti attraverso queste due entità, di farle vivere in maniera equilibrata e non grottesca, senza l’aspetto revival che tanto va di moda. Un nostro modello è stato Jack White, perché è riuscito a riunire il vecchio e il nuovo in maniera naturale, efficace e proiettata verso il futuro. Il singolo è disponibile solo in 7’’, il perché di questa scelta?

In interviste passate avete detto che il testo veniva costruito in un secondo momento in base a quello che veniva fuori a livello musicale. Oggi è ancora così o si sta evolvendo anche la forma canzone? A: C’è una forma canzone più strutturata, più consapevole. Abbiamo lavorato ai testi con un mio amico, con cui avevamo collaborato per gli altri dischi e sono venuti fuori dei testi che andavano bene per i pezzi che abbiamo fatto. Probabilmente c’è una forma canzone più riconoscibile e più massiccia. Un mio amico mi parlava dell’alchimia che si crea all’interno di una band che è difficile da trovare e raccontare. Voi come la spieghereste ai non addetti ai lavori? C: Dal punto di vista delle dinamiche è simile a un rapporto di coppia, si può andare d’accordo con una persona e non amarla, oppure viverci insieme e amarla. Sono comunque difficili da spiegare. Si capisce all’inizio se è un qualcosa che può andare avanti, non dal punto di vista della vendita dei dischi. Ci si chiede: “Il mio gruppo può esistere?”. Questo tipo di alchimia viene fuori all’inizio, si capisce durante i primi mesi, quando inizi a scrivere i pezzi, a provare, almeno per una band. A: Quando si ha in comune una cosa importante, si preserva. Si fa in modo che il tutto vada per il meglio e che questa cosa fuoriesca con saggezza, consapevolezza e umiltà. Sono delle caratteristiche che secondo me servono a un gruppo.

C: A noi è sempre piaciuto il vinile come formato e anche come oggetto. Poi volevo prima di tutto fare un video, attraverso questa collaborazione con Alex, quindi non metterlo in formato digitale, ma renderlo disponibile agli utenti soltanto tramite YouTube. Già da un po’ di tempo volevamo fare un 7”, avevamo fatto il vinile di A fuoco lento. Questo 45 giri ha b-side, che è una cover di Chris Whitley, Altitude, che non sarà nel cd.

Come unite innovazione e tradizione? A: Noi cerchiamo di fare un lavoro di contemporaneità, si tratta di essere aggiornati su come vanno le cose Non è la prima esperienze con le cover, come

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vi rapportate a una cover? Nel momento in cui decidete di registrarla non temete un confronto? A: Finora ci siamo rapportati con educazione rispetto all’artista che andavamo a coverizzare, nobilitando ciò che era stato fatto. Abbiamo cercato di fare nostra la canzone attraverso una versione completamente diversa, che potesse dare altri spunti all’ascoltatore. La cover di per sé è un ottimo veicolo d’espressione. Non vedo nulla di male nell’essere fan di un gruppo e prenderne l’essenza e personificarla.

Mai è cambiato, lo frequentavo anche quando era a Rione Monti, agli inizi. Penso che oggi sia un locale, io conosco gente che gestisce altri locali che magari non riesce a tenerli aperti, perché a fine mese deve pagare tasse e affitto. Non mi pare che si siano mobilitati i centri sociali romani per salvare l’Angelo Mai. Non va paragonato con il Teatro Valle, che è una questione diversa, perché ci volevano fare altro e gli attori l’hanno occupato. Centro Sociale significa facciamo una cosa tutti insieme, condividiamo e quando si fanno degli eventi è per sovvenzionare determinate cose. C’è un posto in cui non avete suonato e vorreste suonare? A: Allo stadio Olimpico. Progetti futuri? A: Un secondo disco solista. Per il resto aspetteremo l’uscita dell’album che sarà, indicativamente, prima dell’estate. [ ]

| ph Enrico Ocirne Piccirillo

Un vostro parere, invece, sulle ultime vicende dell’Angelo Mai e sul ruolo che secondo voi ha per Roma. C: Per l’approccio che ho avuto io, l’Angelo Mai è un locale e non un centro sociale, un posto in cui si paga 10 euro fino all’ultimo pezzo del dj set per entrare. Io frequento molto i centri sociali, tipo il Forte Prenestino o Snia, trascorro le serate lì, pagando a sottoscrizione e so che quei soldi vengono reinvestiti sempre. Non ne faccio una ragione politica. Sta di fatto che l’Angelo

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managemen del dolore post-opera di Francesco Liberatore | ph Alessio Jacona

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Per i detrattori la loro attitudine è solo esibizionismo, la loro musica una mera provocazione. Per molti, invece, quelle canzoni e quei concerti sono una rivelazione e un modo per restare “maudit” divertendosi. Che piaccia o no,

Management Del Dolore Post Operatorio è una

realtà concreta di questi giorni indie «sempre in bilico tra gloria e pattumiera» (prendendo in prestito un loro verso). Al di là delle fazioni e dei gusti che dividono, una cosa è certa: siamo di fronte ad una band che ha fatto della propria arte una questione importante. Rivoluzione, lotta, dolore, bellezza, ne parliamo con Luca Romagnoli, penna e voce del gruppo di Lanciano che alle 02:00 del mattino ci apre le porte del loro piccolo tour bus proprio in Abruzzo, subito dopo il live a Teramo a supporto del nuovo disco “McMao”.

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orrei iniziare dalla parola “dolore”. Non l’avete solo impressa nel vostro nome ma ne avete fatto anche un tema forte delle vostre storie. Perché torna così spesso? Siccome nella mia vita ho sofferto molto, l’unico atto di superbia da persona umile che a volte mi capita di fare è pensare di saperne quasi qualcosa di più degli altri del dolore, anche se so che tutti lo proviamo. Mi sembra quasi che il dolore sia una cosa che ti insegna molto mentre il piacere è una cosa stupenda ma molto effimera. Il dolore è una cosa che ti rimane dentro, ti cambia e ti fa crescere pure. E quando parlo del Management Del Dolore Post Operatorio io lo intendo come un modo per sfogarsi, per esorcizzarlo. Anche lo stesso salire sul palco è la cura. Oppure può essere la cura vedere il dolore in un altro modo. È la nostra idea del giullare, dell’ironia, come quando diciamo, scherzosamente, che non abbiamo il mal di

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vivere ma la gioia di vivere male, il vero pazzo ride anche nelle situazioni più difficili. La cosa che più mi commuove è il sorriso che nasconde il dolore e forse è per questo che molte volte ritorna il tema. In un periodo dove da una parte il rap descrive la realtà con autocompiacimento, mentre dall’altra i cantautori si rifugiano nel loro mondo intimista, quasi remissivi, voi puntate nettamente il dito contro il potere deridendolo. Sentite di appartenere a questa visione di mezzo? Quando ti poni in questa modalità in cui mi riconosco, o meglio, mi piacerebbe riconoscermi, ti poni in una situazione in cui puntare il dito significa fare una scelta, una scelta anche di pubblico. Significa dividerlo e creare una frattura e per una metà sei visto come un idiota. Ma l’idiota, stando all’etimologia della parola, è una persona che non ha filtri quindi è l’unica che può dirti la verità. Anche il giullare, che era considerato come una specie di cronista del suo tempo, puntando il dito contro il potere (che sia rappresentato da un re, dalla politica o dalla religione) è costretto a essere forte e volgare e spesso in quel suo modo di fare attira anche l’antipatia del popolo. Un po’ come noi. Ma noi vogliamo stimolare il dubbio. Gesù Cristo in croce che chiede: «Dio perché mi hai abbandonato?»… è quel momento di dubbio che lo rende umano ed è la cosa più bella del mondo! Vogliamo stimolare una discussione, il dialogo, il pensiero a costo di prenderci le bastonate piuttosto che dare delle risposte. È vero che spesso prendiamo delle posizioni molto forti, però sono delle posizioni un po’ con il punto interrogativo, a volte anche contro noi stessi, allo specchio. Non è facile guardarsi allo specchio. Intendo, essere critica e al tempo stesso oggetto di critica… Il poeta e amico Paolo Maria Cristalli dice sempre: «Lo dico a te per dirlo a me». Questa cosa è meravigliosa. Perché poi sarà banale retorica, ma portiamo avanti da troppo tempo questa coglionata della lotta contro la società. La società siamo noi dio santo! Quindi l’unica grande rivolta sociale che si può fare è contro se stessi. Io ho abbandonato l’università quando dovevo fare l’esame di diritto privato. Il grande libro di Galgano mi rompeva i coglioni da morire ma ho provato più volte a iniziarlo e la prima

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pagina mi piaceva moltissimo, quasi me la ricordo a memoria: la cosa più bella che c’è scritta è che il diritto vige solo se c’è il consenso. E’ come quando le persone parlano di rivoluzione di ‘sto cazzo, così come i gruppi rock con la loro retorica: se quelle cose non le dici allo specchio sei uno stronzo e anche un bugiardo. Perché, appunto, solo col tuo consenso quelle leggi valgono, altrimenti non sono niente. Porca puttana, la prima pagina di un libro di legge ti dice: decidi tu. E allora smettiamola di parlare di rivoluzione! Basta dire io non sono d’accordo. Purtroppo poi la società capitalistica del talent show esistenziale ci pone sempre uno contro l’altro.

di Morrison che ho fatto mia: «Io voglio essere causa di un qualunque disagio, di un disordine qualsiasi». Quindi a volte non è importante dire contro chi sto lottando, ma è importante lottare e basta, anche contro me stesso. Sarà per questo che i vostri live sono spesso criticati. Forse a volte sfugge la dimensione simbolica del tuo modo di esibirti che invece viene percepita come provocazione fine a se stessa… Vale un po’ il discorso di prima. Alcuni credono sia un genio e sbagliano, perché la genialità è tutt’altro. Altri dicono che sei un coglione, un idiota, ma queste persone non sanno che travestirti da idiota per dirgli proprio quella cosa là, è il tuo obiettivo. Per esempio, quando analizzo quello che è successo al concerto del Primo Maggio mi piace pensare alla parola “provocare”. Provocazione non significa niente per me. Invece il verbo provocare è bellissimo, provocare un qualcosa, una discussione. E quando uno s’incazza l’hai toccato di più di quello che sta dalla tua parte perché gli hai preso proprio l’intestino. Poi dirà che sei sempre un idiota, ma magari ci ragiona. Tornando a quel gesto lì, è chiaro che il preservativo è la punta dell’iceberg. Ti posso anche dire che il preservativo non me lo metto mai. La chiave di volta è che il gesto è performance teatrale, ovvero, teatralmente, quando prendi qualcosa la svuoti del suo significato e la riempi d’altro. Sul palco del Primo Maggio c’era un preservativo. L’ostia se la sono inventata. Poi chiaramente c’era la ritualità della presa per il culo in stile giullaresco, cosa che nel medioevo era concesso, nel 2013 no.

Quando vi ho visti per la prima volta in concerto mi è venuta in mente una frase di Jim Morrison: «Sono interessato a qualsiasi cosa riguardi la rivolta, il disordine, il caos, specie l’attività senza un significato apparente» . Una ricerca che somiglia in qualche modo al tuo modo di porti dal vivo. Quanto è consapevole la tua teatralità? Credo che la verità stia sempre nella scintilla scatenante, che è la più sincera. Ricordo i miei primi live come super puri, spontanei. Poi magari fai 400 concerti e una sera che non ti va ti basta mantenere quelle quattro variabili sceniche. C’è sempre una piccola metodica ma noi cerchiamo di essere sempre nuovi e questo va a nostro svantaggio. Però i miei movimenti dal vivo sono totalmente sconnessi apposta. È un gesto di libertà. Il fatto di non sapere cosa farò è un modo per stupire me stesso, per non stare sempre su un cliché. In quei gesti sconnessi sta forse tutto il mio concetto di rivolta, proprio nella loro bruttezza. Perché in quel momento ho un’idea precisa nel farlo. Nel nuovo disco “mcmao” mi ha colpito il E qui si allaccia alla tua citazione, un’altra citazione modo in cui affronti il tema del mito, proprio con Jim Morrison. Dietro l’apparente presa in giro c’è un tentativo di umanizzarlo. È così? La canzone porta il suo nome di battesimo, James Douglas, il nome con il quale firmava le sue poesie, probabilmente la cosa a cui teneva di più. Noi abbiamo cercato di scindere Jim il mito da James Douglas la persona, noi parlavamo con James seduti a un tavolo di un bar, una chiacchierata tra persone. Volevamo uccidere un tipo di visione semplicemente per chiederci se siamo capaci di ragionare in un altro modo. Siamo capaci di prendere la religione e dire non mi fermo ai quattro vangeli e vado oltre? Io penso che

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le cose abbiano uno sviluppo meraviglioso quando uno lancia la pietra al di là dell’educazione che riceve, perché altrimenti ci fermiamo a quei quattro concetti che ci insegnano a scuola. Come diceva Albert Einstein: «Colui che segue la folla non andrà mai più lontano della folla. Colui che va da solo sarà più probabile che si troverà in luoghi dove nessuno è mai arrivato». E allora cazzo ragioniamo in un altro modo! Non dimentichiamoci poi che il mito è un’invenzione dell’industria: Morrison, Hendrix, James Dean, Marilyn Monroe tutte persone che non hanno retto il peso di quel successo, che non riuscivano più a sopportare quell’eccessiva distanza che c’era tra il loro personaggio e se stessi, ed è questa la bellezza dell’uomo! Marilyn si è ammazzata per questo, non per altro. Noi lo affrontiamo molto spesso questo problema perché è difficile scindere l’artista dal prodotto, perché alle fine quando sali sul palco sei sempre un prodotto. Prendi dei soldi, hai un tempo, fai uno spettacolo. Bisogna essere sinceri e non nascondere questa malinconia dietro una finta lotta. Certo, una presa di posizione ci deve stare, ma ci deve essere anche la sincerità. Non a caso Cobain s’è sparato. È un disco che, rispetto ad Auff, sembra più un guardarsi dentro che un puntare il dito, proprio la rivoluzione di cui parlavamo prima. Si è così. Ma non è stata una scelta ragionata. Parlo molto con gli amici musicisti e loro ragionano su ogni mossa, ogni frase. Io proprio vado a cazzo totale. Credo che le parole non sempre le trovi tu, ti trovano loro, quindi mi lascio anche un po’ andare. Ultimamente avevo detto più volte che questo è un disco malinconico ma un mio amico sosteneva di no così me lo sono risentito, cosa che non faccio mai dopo che abbiamo registrato, e in realtà c’è della malinconia. Però quando penso alla malinconia penso alla distruzione totale di qualcuno che ci crede ancora, qualcuno senza speranze che però se ne fotte. Io credo che, alla fine, quando uno dice quello che pensa, in realtà anche se parla strettamente di se stesso, quello è l’unico momento in cui parla di tutto il mondo. La cosa bella è che ognuno ha la sua visione e quando tu parli della tua parli un po’ della visione di tutti, nel senso della libertà che tutti hanno di vederla a proprio modo.

Tra le nuove canzoni c’è “Requiem per una madre”, un atto di amore ma anche una resa all’impossibilità di afferrare la bellezza se non condivisa. Quasi a chiudere un cerchio… Tutte le cose non sono mai belle o brutte ma sono o non sono. Non esistono se noi non le guardiamo. Ed è drammatico quando ti viene a mancare una persona a cui tieni, la vita può perdere totalmente il senso. Mia madre è morta l’anno scorso e… chiaramente svalvoli. E nella visione delle cose tu non puoi dire: ne è mancata una ci sono della altre, perché ti manca sempre una. Posso fare i miliardi, posso vincere l’oscar ma quel giorno non lo potrà vedere mia madre. Di conseguenza penso che se ti succede una cosa del genere non sarai mai più pienamente felice. Però io non voglio mai smettere di soffrire perché questo significa dimenticare. Il giorno che dimenticherò smetterò di soffrire. Allora sono arrivato alla conclusione che spero di soffrire per sempre, così in un certo modo terrò vivo quel ricordo. [ ]

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underdog di Skanderbeg | ph Enrico Ocirne Piccirillo

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ha ascoltato il disco ed sembrato decisamente più interessato. Quando abbiamo fatto le degli . Il front-man con lo sguardo pr ove gener ali sconvolgente e l’animo nobile ci ha concesso una d e l c o n c e r t o lunga chiacchierata, parlandoci degli ultimi all’Auditorium era progetti del gruppo e illustrandoci la sua personale così invaghito del visione della musica. progetto che ci ha richiamato mesi ’ da poco uscito il vostro ultimo prodotto dopo per suonare, invitando Basia a duettare con lui! discografico. Il dvd “Roundabout Rome” Addirittura alla fine del concerto ci ha detto: “Wow, con i due concerti romani all’Auditorium pensavo che gli Underdog fossero una band statica Parco della Musica (23 maggio 2013) e e impacchettata, ed invece siete fantastici!”. E sentire all’Angelo Mai Altrove Occupato (21 giugno queste parole dopo aver suonato insieme, ti riempie 2013). Perché avete pensato di lanciare un di orgoglio. dvd con questi due concerti? Sempre nello stesso concerto c’era anche Ben LaMar I concerti non si scelgono. O meglio, gli Underdog non Gay, trombettista di Chicago membro dell’ Association sono sempre nella condizione di poter scegliere. Le for the Advancement of Creative Musicians. cose succedono per caso, come per il dvd, e per caso Lui era in tour con il nostro batterista ed è stato i concerti di quel periodo erano stati Generazione XL - entusiasta di suonare con noi. Mettere una tromba tramite il nostro vecchio manager, Paolo Cobianchi - e jazz sulla musica degli Underdog e notare che due mesi dopo una serata all’Angelo Mai, interessato funzionava così bene è stata la ciliegina sulla torta. ad organizzare un concerto per la fine della stagione Insomma il jazz quello vero autentico e la musica primaverile. All’inizio doveva essere un semplice video italiana d’autore che si era spinta fino a Sanremo, era all’Auditoirum poi uno dei nostri co-produttori, Peppe Casa, e i ragazzi che hanno creato il DVD ci hanno proposto di fare un prodotto più completo. Dopo aver fatto l’ultimo album nel 2012, per una serie di varie vicissitudini dovute alla sfiga e a scelta di vita differenti, ci siamo trovati costretti a rimescolare gli Underdog. Per tutto l’anno, (dopo il tour per il secondo disco, in cui abbiamo suonato anche allo Sziget Festival) abbiamo rimesso in discussione la nostra discografia. Dentro di me pensavo che di questo gruppo non ci sarebbe rimasta nessuna traccia e quando ci hanno proposto di fare il dvd, mi sono detto: “Ottimo. Portiamo live i nostri dischi con la nuova formazione.” Il Dvd è già un’altra cosa rispetto al disco. Durante il concerto di Generazione XL, in cui bisognava portare alcuni ospiti che avevano stimolato “la tua musica”, eravamo riusciti ad incastrare Giovanni Gulino dei “Marta sui Tubi”. E la scelta dei Marta sui Tubi era ovvia per gli Underdog che hanno sempre cercato di sperimentare. Nel cuore di Via del Pigneto, una delle roccaforti artistiche della Roma “musica e aperitivo”, a b b i a m o scovato l’alcova di Diego Pandiscia

Underdog

E

Qual è la stata la sua reazione? Giovanni ha accettato con riserva all’inizio, poi però

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come avere l’amore sacro ed il profano accanto. Siete una delle band italiane più energiche dal vivo. Che cosa scatta in un live? Cosa c’è di così magico e differente rispetto al pezzo suonato in studio? Noi riportiamo fedelmente la musica del disco, ma un lavoro di trasposizione nella dimensione live, va fatta. E’ come studiare a casa e poi portare tutto ad un’interrogazione per spiegare cosa si è imparato. Le emozioni, il fomento, il pubblico che ti gasa, quelle non si studiano, ma si imparano a gestire. Ad esempio all’Angelo Mai, Alberto Vidmar con un piede ingessato diventa il pazzo che si muove e cammina su una sedia così, all’improvviso. Quando il tour va bene e il gruppo funziona, si riesce anche dal vivo a ritrovare l’armonia e l’intesa dello “studio”. Durante l’uscita del dvd ci hanno suggerito: “Facciamo questo dvd per far capire ai nostri fan che sul nostro disco non ci sono sovra-incisioni ma semplicemente sette pazzi che ormai stanno a loro agio insieme!” E’ vero che siete particolarmente conosciuti nel sud Italia? Come nasce e cresce questa empatia con le terre borboniche? Nel sud d’Italia ci sono stati fin dall’inizio locali più

attenti alla nostra musica. Ad esempio, abbiamo conosciuto, per caso, Ruggero del Blue Dahlia (a Marina di Gioiosa, ndr): “gli mandi ‘na mail, si sente il progetto e se gli piace ti chiama”. Andando in Calabria per il concerto abbiamo poi incontrato Paolo Mei, che è diventato il nostro agente di booking. Di conseguenza siamo entrati a far parte del giro di RockettaBooking che ha come sua piazzaforte il sud Italia in genere. I testi cantati per la prima volta in inglese li ho sentiti al sud, in Calabria piuttosto che in Germania! E poi non ci dimentichiamo che molti ragazzi del sud sono tornati dopo esperienze lavorative al nord, ad esempio a Bologna, portando con sé quella voglia e quegli interessi musicali particolari. Anche in Calabria e Sicilia c’è ormai quel substrato culturale di persone a cui piace il nostro sound ed in generale i gruppi fuori dagli schemi, pensa alla Catania degli anni ‘90, per dirne una. A proposito, a marzo avete fatto un nuovo breve tour, com’è andata? Molto bene. E’ stato un giro più ridimensionato perché obiettivo principale di marzo era promuovere il nuovo DVD. Abbiamo sfruttato questo mese, in cui eravamo tutti nella stessa città (cosa non facile per noi), per andare avanti con una nuova session “improvvisativa” in maniera tale da delineare le linee guida del terzo disco. Siete attivi ormai da molti anni nel panorama underground romano e italiano. Cos’è cambiato nel vostro sound dagli esordi ad oggi? Quale è stato il vostro “percorso”? Negli Underdog c’è sempre stata una forma di libertà, di anarchia musicale dove potevi e puoi portare più o meno qualunque cosa gli altri possano condividere. Siamo nati come amici di liceo e musicisti della provincia romana. Abbiamo cominciato a suonare insieme verso la fine del liceo prendendoci tutto il tempo per conoscerci. Poi con il passare del tempo ti addentri di più nel sottobosco musicale, conosci i produttori, dividi palchi e concerti con differenti musicisti e tutto ciò ti permette di crescere, sia umanamente che musicalmente. Siamo nati come “gruppo liceale” e attraverso vari cambi di formazione siamo arrivati ad oggi. Un progetto musicale che raccoglie artisti da diverse realtà territoriali con esperienze professionali differenti.

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Nel frattempo però sei stato in Germania? Sono arrivato in Germania più o meno 8 anni fa, quando gli Underdog già esistevano, e dentro di me già sapevo che la nostra musica poteva essere apprezzata, soprattutto lì. Portare il nostro sound da Roma ad Amburgo era un mio sogno. Ancora non era uscito nessun disco degli Underdog, e cercavo di fare il bassista anche in altri gruppi, e all’inizio pensavo che in Germania si trovassero le famose “porte del cosmo”, come canta Battiato. In realtà capitava spesso che con altri musicisti ascoltassimo tutta la demo degli Underdog piuttosto che provare pezzi nuovi! Per fortuna sono dovuto tornare per altri motivi in Italia, temporaneamente all’inizio, e allora ho detto agli altri: ”sono stato in Germania e mò me la sento calla! Prendiamoci sei mesi perché dopo torno ad Amburgo e vediamo che succede”. Alla fine di quei 6 mesi eravamo in finale al Martelive, dove abbiamo vinto il contratto discografico con Altipiani. E da li siamo arrivati dal 2007 fino ai giorni nostri. Abbiamo letto molte recensioni ed interviste in cui tutti hanno cercato di inquadrare la vostra musica sotto la classica etichetta di genere o sotto-genere. Secondo te per quale motivo il nostro mondo ha bisogno di categorie predefinite? Si categorizza perché la musica va venduta a persone che non hanno tempo di ascoltare. La musica non possiede ormai quell’aura elitaria a cui veniva dato un valore e così si tende a venderla in maniera massiva. Le persone si focalizzano su un genere, perché quello hanno deciso di ascoltare: basta leggere la descrizione dell’album sul retro del cd o leggere le riviste specializzate che dividono le recensioni per genere musicale. Sono cresciuto anch’io all’interno di questa trappola. Capisco che bisogna dare un denominazione a tutte le cose. Semplicizzi tutto, però poi, come fai a dare un nome ai Pink Floyd? Lo chiamano “psichedelia” però è anche tanto altro. Ci sono poi alcuni gruppi che fanno una tipologia di musica definita tipo il post-rock alla Mogwai o alla Giardino di Miro oppure il match-rock dei Battles. I giornalisti creano questi generi come hanno chiamato “grunge” la musica dei Nirvana. Molto spesso, quando proviamo, partiamo più dai gruppi che ci ispirano piuttosto che dal genere. Noi, ad esempio, giochiamo sul fatto di mischiare

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e far convergere una serie di stili perché in realtà non c’è un uno che include tutti. Nessuno di noi dice “facciamo una musica che suona così”. Semmai diciamo “parliamo di...” Nell’ultimo pezzo ad esempio il nostro batterista ci ha proposto: “Immagina di fare una passeggiata in questa foresta scura, mentre il protagonista trova un ostacolo...e lì ho capito che il nostro nuovo batterista aveva inteso immediatamente come componiamo i pezzi negli Underdog! Se non è un genere ma una “mescla” indistinta, come fate a far convergere così tanti suoni distanti verso un’armonia a tratti disarmante per spezzarla poi con improvvise frustate di rumore? Siete matti? Non c’è altra spiegazione! Si, esauriti! I nostri pezzi nascono durante lunghe jam in cui si cerca di improvvisare insieme. Per questo la nostra produttività è un pochino più bassa rispetto ad altri gruppi. Siamo dislocati per tutta Europa e abbiamo tutti altri lavori. Siamo a Roma, Bologna, Milano, Berlino. La band si è molto rinnovata Nel nuovo disco ci saranno anche altri strumenti mentre altri ci lasceranno. E’ difficile unire e presentare la musica dopo aver provato e riprovato. Spesso ci sono pezzi che nascono durante le jam, così, in un giorno e vengono registrati come la prima volta. Il nostro violinista, ad esempio, ribadisce sempre che Cuore Matto l’abbiamo provata una volta e andava bene così! La tua inconfondibile espressione incazzata va perfettamente in contrasto con l’angelica voce di Basia, la cantante. E’ qualcosa che avete cercato e provato oppure tu sei realmente incazzato col mondo e Basia un angelo incantevole? Basia è entrata 6 mesi dopo il concepimento di Circus e Mister Condom, due dei nostri pezzi più riusciti, portando semplicemente la sua voce. Nulla è stato studiato, è nato così, spontaneamente. Io strillo, sono cresciuto ascoltando Mike Patton e i Brainiac. e gioco con degli effetti trovati in sala prove, attaccati al microfono per creare una voce il più lontana possibile da quella di Bono Vox. E’ una scelta artistica, ma soprattutto politica. Basia viene da ascolti sia jazz che sperimentali. Io sono la parte più rock e lei la parte più jazzata. Anche se in realtà Basia ascolta cose più assurde

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delle mie: ad esempio, la devi assolutamente ascoltare, Matto. Cosa ci possiamo aspettare nel vostro Sajncho Namcylak, di origine mongola. Se la senti dici: prossimo lavoro? Una cover dei Rammstein o “Ma Bjork chi la ascolta più!”. Una voce assurda! delle Pussycatdolls? Sul dvd da poco uscito c’è “L’Abbandono” dei Nei vostri testi alcuni temi come paranoia, Marta sui Tubi cantata da Gulino con gli Underdog frenesia e malinconia prendono il sopravvento. al completo che lo accompagnano. Un suo pezzo E la città in cui vivi, viviamo, a renderci così, mischiato all’elettronica, l’ultima cover fatta da noi oppure qualcosa che ci portiamo da dentro durante Generazione XL. e che riuscite a tirare fuori così bene con la Recentemente, invece, i 2Pigeons, che abbiamo vostra musica e l’uso di più lingue e registri? conosciuto a Milano durante un live, hanno fatto un Abbiamo sempre cantato in inglese tedesco e polacco remix di Niko perché anche il cantante degli Underdog perché ci sono espressioni che hanno senso e sono ogni tanto vuole stare “sotto cassa”. Tornando a noi più immediate solo in una determinata lingua. posso dirti che le cover usciranno ancora, perché In Lundi Massacre, ad esempio, il titolo è in francese sono i pezzi che ascolti mentre fai un nuovo album. ed il testo in inglese. Poi c’è una frase “ich habe es Un testo ti prende, così all’improvviso, mentre sei in satt” che in italiano sarebbe tipo “ne ho le palle piene” però in tedesco suona più potente e soprattutto arriva subito. Il titolo della canzone (Lundì Massacre, ndr) viene da un gruppo che avremmo dovuto fare io e il bassista dei “Palcoscenico al Neon”, e gli ho chiesto di usarlo perché era perfetto per un testo in cui si parla di svegliarsi alle 6 del mattino per andare a lavorare, una “rottura di cazzo” che accomuna tanti di noi. Di base uso l’inglese perché ho sempre ascoltato tanta musica proveniente da quell’universo. Naturalmente amo la musica italiana ma dopo essere cresciuto con i Massimo Volume e i CCCP ho una sorta di distacco religioso che non mi permette di scrivere! Come fai a dire questo è un bel testo paragonato a quelli? L’unico pezzo fin ad ora in italiano è stato Macaronar, di cui è uscito il video a marzo. In quel caso il testo è uscito di getto perché il ritornello What’ America Maccaroni, ce l’avevo già in testa da anni, e poi un improvviso evento mi ha portato a sfogarmi ancora di più in saletta, portando il mio parto isterico fuori da me. Vorremmo provare a scrivere in italiano perché mi stimolerebbe la sfida. Intendiamoci: se devo cambiare perché c’è l’esigenza artistica personale è un conto, ma se lo devo fare semplicemente per avere un mercato più ampio qui in Italia, è fallimentare. Con la nostra lingua è facile fare cantautorato, adoro Guccini e De André, ma gli Underdog sono un gruppo che ama spaziare dal jazz al noise. Alla fine i cantati non sono semplicemente testi ma uno strumento in più che amplifica i nostri stati d’animo e gli strumenti. Avete realizzato due cover molti distanti tra loro ma altrettanto famose come Berlin e Cuore

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un particolare momento e rifare la cover di quel pezzo ti rende più facile comunicare le tue sensazioni. Non è un caso che Berlin è uscita mentre due di noi stavano a Berlino ad esempio. Cuore matto invece, è nata perché, dopo aver perso la finale per partecipare al Primo Maggio, ci avevano fatto esplicitamente delle critiche sui testi delle canzoni, solo in inglese piuttosto che in italiano. Quindi abbiamo pensato: “va bene, ti diamo la canzone madre allora, tiè!”.

produttiva e lunga session di improvvisazione. Le idee ci sono piaciute, avendo cambiato nuovamente line-up abbiamo energia e stimoli nuovi. E’ il terzo disco, io personalmente ho intenzione di continuare ad esplorare, anche, a maggior ragione, distaccandomi un po’ dagli ultimi due lavori. Mi sono sempre piaciuti gruppi come Radiohead e Einsturzende Neubauten, in cui, di disco in disco, c’è una crescita ed una continua voglia di esplorare e spiazzare. [ ]

Che cos’altro bolle in pentola per il prossimo nuovo cd. Che anticipazioni puoi dare ai lettori di Just kids? Come ti dicevo abbiamo appena terminato una

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di Valentina Oliverio | ph Luca Carlino

Diodato

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Diodato,

Essere tarantino ti porta ad avere, per certi versi, una maggiore sensibilità? L’attitudine tarantina la ritrovo probabilmente in una leggerezza con cui affronto certe cose perché poi il tarantino ha un’ironia pazzesca, è una persona molto solare, è abbastanza cinico e anche dissacrante, quindi tante volte l’essere tarantino mi aiuta a dare il giusto peso alle cose perché sai adesso faccio delle cose importanti, però ecco cerco di guardarle dal giusto punto di vista. Anche Sanremo l’ho affrontato come parte di un percorso e non come l’ultimo treno o l’occasione di una vita. Io sapevo che stavo facendo bene, che ero arrivato lì come volevo arrivare. Probabilmente l’essere tarantino mi aiutava più in questo che in una profondità di scrittura, è questo suo essere costantemente dissacrante che mi piace. Forse in questo c’è il gene che poi ha portato per tanti anni la popolazione di Taranto a sopportare cose che sono insopportabili, come il dover morire per lavorare, magari altrove avrebbero dato luogo a una rivoluzione immediata, chissà. Sono andato via da quella città anche un po’ arrabbiato non tanto per la questione dell’Ilva ma perché non mi ci riconoscevo più, mi ero stancato di certe cose, poi adesso invece ci torno volentieri perché ho la sensazione che ci sia una rivoluzione culturale e sociale in atto. Credo che attualmente sia uno dei più importanti centri culturali d’Italia e quindi ci torno con piacere.

con un solo album all’attivo, E forse sono pazzo, nonché reduce dal successo sanremese che lo ha consacrato tra i giovani talenti del cantautorato italiano, è il classico esempio di come la gavetta, una certa profondità e attitudine alla bellezza siano elementi che rendono un artista unico. Abbiamo parlato di rinunce inevitabili, dell’amore/odio per la sua città, del resistere al tempo senza accelerarlo con la smania di arrivare e dell’affrontare tutto come parte di un percorso. Un artista musicalmente e attualmente incollocabile, per questo speciale.

P

artiamo da Babilonia, pezzo che ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Un titolo di derivazione biblica con un’impronta decisamente pop. So che questo brano è stato composto tempo fa, cosa è cambiato in Antonio che ha scritto il pezzo rispetto a quello che poi è salito sul palco dell’Ariston? Non so se sono cambiato, di sicuro è cambiata un po’ la mia vita. Babilonia corrispondeva a un periodo particolare in cui stava per attuarsi un cambiamento e quindi parla delle difficoltà e della confusione che molto spesso riscontri quando stai per fare delle scelte che sai che porteranno anche a delle rinunce. Babilonia poi l’ho scritta in un periodo in cui ancora doveva uscire il disco e tutti i riscontri che ho avuto quest’anno non c’erano, quindi probabilmente c’è un Domenica 6 aprile ho assistito alla tua po’ più di consapevolezza; confido maggiormente nelle performance al Parco San Sebastiano a sostegno mie capacità, nei miei mezzi, però giusto questo… dell’Angelo Mai a seguito degli sgomberi avventi il 19 marzo. Mi ha molto colpito il fatto che tu E quindi non sei più imprigionato nella tua abbia detto che L’Angelo ti ha fatto crescere Babilonia personale? sia come musicista che come uomo. Cosa hai Quella è una condizione che ogni tanto torna, non penso imparato stando là dentro? E cosa, a tuo avviso, sia possibile liberarsi per sempre da questa cosa qui, ha di diverso l’Angelo rispetto ad altri luoghi però il fatto di essere riuscito comunque a scrivere propulsori di cultura? qualcosa è anche un modo per esorcizzarla e ogni volta All’Angelo mi sono sentito subito a casa, mi sono sentito che la canto ritorno in quello stato. coccolato e da quando sono arrivato lì si è pian piano Sei nato ad Aosta ma hai vissuto a Taranto, città formata la mia identità artistica. Abbino a esso molto per la quale non ti sei mai risparmiato e che hai spesso la parola magico, in realtà di magia c’è poco, appunto definito la Babilonia del nostro paese. c’è tanto lavoro dietro, ci sono delle personalità che

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lavorano per farti stare al meglio. L’Angelo Mai significa arrivare alla preparazione di uno spettacolo, crearlo lì dentro, scriverlo lì dentro, lavorare lì dentro, fare le prove lì dentro: cioè già tutto questo comporterebbe delle spese incredibili, tempo e risorse incredibili. Invece lì nasce tutto all’interno e quindi più che una vetrina per le produzioni artistiche, è proprio un centro di produzione artistica. Ho sempre avuto la sensazione che si cercasse quello che io cerco spesso nell’arte: cioè la bellezza. Io all’Angelo ho sempre vissuto in questa armonia non solo stando sul palco ma anche nel pubblico, non ho mai visto gente litigare. C’è un’armonia e un approccio che si addice molto alla mia persona. Si tratta di un luogo in cui nascono le cose, non passano. Tramite tutta quella bellezza oltre a diventare un artista migliore, sono diventato anche una persona migliore perché ho fatto pace con alcune cose mie, con un conflitto mio interiore perché lì finalmente potevo sentirmi compreso: questa è una cosa che non ti danno tutti i posti. La cosa drammatica che non si dice mai è che ci sono tante persone che lavoravano all’Angelo Mai e ora non hanno un lavoro e quindi è vero, siamo all’interno di un’illegalità, però quest’ultima va compresa sotto certi punti di vista. Credo sia un momento opportuno per aprire un dialogo con il Comune, il quale pare volerlo fare. L’evento di domenica è stato una cosa talmente grande, talmente importante che non poteva passare

inosservato, diciamoci la verità. Ora però bisogna vedere anche qualcosa di concreto perché altrimenti rimane solo politichese. Inoltre i capi d’imputazione sono pesantissimi e le accuse sono ridicole, concordi? Ci sono stato tanto tempo lì dentro e le cose che sento fanno veramente ridere. Si è creato questo collegamento con le case occupate: ovviamente lì il problema della casa è evidente, sotto gli occhi di tutti, non poteva essere risolto, li hanno fatti rientrare anche perché avevano lasciato per strada settanta bambini, è una cosa che fa veramente pensare a come a volte avvengano certe azioni. Nella realtà questi luoghi qui hanno sempre il compito di colmare tutte le lacune che questa città ha dal punto di vista culturale. Mi viene da pensare che ci sia una volontà dietro, spero di no perché, ripeto, sono positivo e fiducioso…

Patologia è un brano molto personale, sicuramente uno dei più belli dell’album. Al disordine interiore rimedi mettendo in ordine oggetti. La tua analisi consiste nell’avere intorno un ordine maniacale? In Patologia sono proprio io, quella è forse la canzone più autobiografica di tutto il disco, è un pezzo che è nato un po’ di tempo fa e che adoro: ti guardi anche un po’ allo specchio, certe volte, facendo musica.

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Patologia lo spiega bene, ci sono momenti di nervosismo, difficoltà e comunque anche di confusione, vedi la confusione di Babilonia. Mi capita davvero di mettere in ordine oggetti, da questo punto di vista sono un po’ un maniaco e quel rimettere a posto anche a livello visivo mi fa sentire come se davvero mettessi a posto alcune cose della mia vita. Ovviamente non è così. Però mi serve per creare un ordine mentale che poi, probabilmente, mi permette di affrontare quelle cose che magari ho rimandato mille volte. Non è un pezzo sulla soluzione del problema, è un pezzo sul problema che mi fa anche ridere ed è voler partire da quella cosa lì per sfiorare anche altri argomenti come, ad esempio, i rapporti umani. Daniele Tortora, tuo produttore, conosciuto ai più come ilMafio, ha fatto un grandissimo lavoro con te ma anche con le altre band prodotte. Quanto è stato importante lavorare con lui? E cosa ti ha insegnato? Io sono sempre stato un po’ riservato, mi vergognavo delle mie cose. Ad esempio prima di far ascoltare alla band un brano come Patologia, ci ho messo un sacco. Loro invece hanno detto che era bellissimo, nonostante io mi vergognassi perché mettevo in piazza me stesso. Anche quando lavoravo ai brani avevo difficoltà ad accettare che qualcuno ci potesse mettere le mani perché mi sembrava che toccasse proprio me personalmente. Con Daniele è successa una cosa un po’ diversa nel senso che questo disco è stato un percorso iniziato già con la band e quindi con lui mi sono proprio abbandonato. Ho detto: “Sai che c’è? È un produttore artistico vero, di quelli che stanno lì a lavorare sul suono, sull’intenzione, sulla forma e allora diamogli fiducia”. Quando qualcosa non gli piaceva, stavamo lì a parlare, ore a capire quale direzione prendere e provavamo anche a rivoluzionare dei brani del disco e poi ho sempre apprezzato questo approccio che lui ha, che è molto poco italiano. Cercavo proprio un produttore con quell’approccio internazionale. All’estero il produttore artistico è fondamentale: i grandi gruppi, le band, gli artisti si affidano a dei nomi che poi diventano grandissimi perché vengono riconosciuti. In Italia si usa fino a un certo punto, soprattutto poi a livelli molto alti non sai mai chi ha prodotto il disco di quella persona o di quell’artista. Con Daniele avevamo degli ascolti comuni, dei gusti molto molto vicini e poi più stavo in studio con lui, più lavoravamo insieme, più ho scoperto che ha una grande passione per la musica e che si dedica ai particolari in maniera ossessiva pur riuscendo a mettersi sempre in discussione. A volte sembra che non ti stia ascoltando, magari spesso ha bisogno di arrivare fino in fondo a una sua idea per poi poter tornare anche indietro. Per cui una volta che ci siamo incontrati e

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abbiamo capito l’incastro, abbiamo cominciato a tirar fuori cose belle che hanno dato soddisfazione a entrambi. Adesso è anche il mio manager perché siamo fratelli ormai, è stata una persona che ha creduto tanto in me sin dall’inizio. In E forse sono pazzo c’è un’attenzione particolare non solo ai testi ma anche alle parti sonore. Molti brani sono caratterizzati da lunghe code strumentali. Come se lasciassi l’ascoltatore a riflettere su quanto hai detto. E’ così? Dietro queste lunghe code strumentali ci sono io, ci siamo noi perché sono consapevole di avere una band di un certo spessore, quindi so che anche attraverso la musica che suoniamo insieme, riusciamo a esprimere dei concetti senza l’uso della parola. Pensa a Capello Bianco, la parte vocale finisce con questa illusione che il capello bianco sia l’illuminazione e quindi la saggezza, questa cosa un po’ teatrale del capello bianco che brilla ci ha portato a chiudere questo pezzo con una parte strumentale molto forte e probabilmente l’ascoltatore rimane là perché c’è un messaggio che deve cogliere. Tornando un attimo a Sanremo, Roy Paci in una conferenza stampa intervenne chiedendo ai giornalisti se avessero ascoltato il disco per intero e nessuno sapeva rispondere. Questa è un po’ la contropartita del festival? A volte hai la sensazione che Sanremo sia una macchina talmente grande che stanca anche facilmente. Pensa che quando ho finito di parlare alla prima conferenza stampa abbiamo chiesto ai giornalisti se ci fossero domande e in pratica nessuno o quasi le ha fatte. Appena sceso cinquanta giornalisti che mi chiedevano una serie di cose ed io a quel punto ho detto: “Scusate ma stavo là sopra, perché non me le avete fatte prima queste domande?”. E loro: “No, perché devono essere personali!”. Come per dire che fare quelle domandi davanti a tutti, significa che tutti sentono la tua risposta e tutti scrivono, un meccanismo assurdo! Sono arrivato a Sanremo dandogli il giusto peso, certo non ero il ragazzino con l’ansia, eccetto sopra il palco dove la tensione inevitabilmente l’ho avvertita, per il resto ero abbastanza sereno. La scelta di Rodrigo D’Erasmo, come direttore d’orchestra, com’è nata? Ovviamente sapevamo che stavamo presentando un brano al Festival, consapevoli che se fosse andato in porto avremmo avuto l’orchestra e appena abbiamo pensato agli archi ci è venuto in mente Rodrigo. Con lui c’è un rapporto di amicizia, perché c’è una stima musicale pazzesca e perché è un violinista incredibile. Ovviamente appena gli hanno proposto di registrare gli archi ha accettato ed è venuta fuori una roba incredibile. La forza di Rodrigo è proprio quella di essere molto incisivo nel senso che il brano senza quegli archi funzionava comunque, però con essi

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Tante volte parto da un concetto sociale, che può essere ad esempio la sensazione che hanno i giovani di non riuscire ad afferrare mai niente, di non avere mai niente di concreto. La mia sembra una generazione bruciata dalla crisi, dalla precarietà, dall’impossibilità di ottenere delle cose; magari parto da questa cosa però la analizzo sempre con i miei occhi, è ovvio che poi lo sguardo diventa interiore. Forse politica non significa per forza dover parlare di un politico ma guardarsi intorno, guardare soprattutto se stessi e mettere in luce i propri limiti, le proprie debolezze. Magari ammettere certe debolezze è anche un’azione quasi politica. Però hai colto il punto, sono un po’ questo ibrido.

è riuscito a dare veramente quel quid pluris che serviva. E allora a quel punto gli abbiamo detto che nel caso in cui avessero preso il brano, lui sarebbe stato il direttore d’orchestra. La cosa bella è stata proprio quella di vivere una condizione come quella sanremese con gli amici, con le persone che conosci. Girarti e vedere che hai un amico come direttore d’orchestra ti aiuta ad affrontare quella situazione in un modo giusto. Su quel palco sei alienato, con mille telecamere, non capisci nemmeno dove sei. Sei in un teatro ma sai che stai andando a casa di milioni di italiani, è una condizione un po’ particolare. La profondità e la ricercatezza delle tue composizioni ti tengono distante dal mondo più pop ma ti distacchi anche dai “giovani indipendenti” per contenuti. Nel tuo album non vi è alcuna citazione né alcun riferimento a lotte sociali. Sei un po’ un ibrido... Ovviamente mi guardo intorno però lo faccio con i miei occhi, quindi alla fine al centro del disco probabilmente ci sono sempre io. Il disco si chiama E forse sono pazzo anche per questo, perché è un’analisi mia personale.

Altro elemento quasi sempre presente è la donna vista con un’accezione particolare, come colei da cui scappare forse per timore, forse perché troppo ubriaco di te, l’esatto opposto del tuo rapporto con la musica. Sembra quasi che tu viva le due cose come due rette parallele... Probabilmente è stato così in passato. Quando ti dedichi tanto alla musica può accadere. E’ un percorso talmente precario, talmente difficile che porta a delle rinunce importanti. Succede che quando rinunci a delle cose tendi anche a punirti perché credi magari di non aver fatto abbastanza. Immagina un rapporto di coppia, ti privi di tante cose e non ti rendi conto che stai privando di quelle cose anche la persona che hai vicino. Probabilmente il rapporto con la donna e la musica è stato inversamente proporzionale. La musica è totalizzante in certi casi. Ho sempre pensato che il detto comune “la musica è un problema” fosse una cazzata, è un po’ una scusa in certi casi perché ci vuole un’attenzione all’interno di una storia che è veramente un lavoro giornaliero. Molte volte invece, quando l’artista scrive, si isola totalmente, si dimentica di mangiare, inaridisce probabilmente se stesso e questo nei rapporti può creare dei problemi. Per quanto riguarda il mio rapporto con le donne, credo di avere una parte femminile molto sviluppata, sono consapevole anche del male che ho fatto. Ubriaco parla di questa cosa qui, è una canzone sull’egoismo e sull’incapacità di vedere la bellezza che hai vicino perché sei ubriaco di te stesso, volgi lo sguardo altrove quando in realtà potresti nutrirti anche di quella bellezza che hai accanto quindi sì, è un argomento che

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mi interessa, non dico che scriverò un disco sull’amore però quasi. Indubbiamente è il motore di tutto quello che ci accade e non lo intendo solo come l’amore tra due persona ma come concetto universale: è una cosa che mi stimola tanto, poi mi piace anche guardare ai rapporti interpersonali e alla difficoltà che li caratterizza. E forse sono pazzo è il brano che parla proprio di questo, della sensazione di follia a cui ti può far arrivare una persona perché magari è specchio dei tuoi limiti. Ho citato inconsapevolmente Babilonia, come vedi ritorna. Hai sicuramente ascoltato molto britpop, rock inglese nonché cantautorato italiano. Se dovessi chiederti quali sono tre album imprescindibili sia dal punto di vista dell’estetica musicale che naturalmente dal tuo vissuto? Il White Album dei Beatles che ho anche avuto la fortuna di fare dal vivo, Ok Computer dei Radiohead e poi probabilmente un disco senza parole, ne metterei uno di musica italiana degli anni sessanta non so forse un Modugno o Morricone.

ti guardi allo specchio, ti dici che stai invecchiando, che non hai raggiunto un cazzo, puoi anche dirti che però sei riuscito a resistere a questa cosa qui e sono felice di averlo fatto anche se capisco magari chi cede a questo richiamo. Concludiamo la nostra chiacchierata parlando delle cose incredibili che ti stanno capitando: i complimenti di Mina, le domeniche da Fazio, il tour imminente. Forse non sei così pazzo... Non so se ho detto a mia madre di Mina, perché per mamma e papà è stato proprio Sanremo a costituire la consacrazione dell’essere cantante. Mio padre ha anche una grande voce ma in famiglia nessuno si è mai occupato di musica. Ascoltavamo molti dischi italiani in casa, niente d’internazionale. Comunque sì, non sono così pazzo, l’uso dell’avverbio “forse” serve proprio per dire questo. [ ]

Ai Just Kids Awards ti abbiamo assegnato il premo Simona Ventura perché sei il classico esempio di come la musica pop può nascere in una situazione diversa da quella dei talent pur preservando qualità sonora e testuale. Hai mai pensato di trovare una scorciatoia, stufandoti della gavetta? Penso che si sia creata una frattura tra gli artisti stessi: quelli che non si riconoscono nel talent show tendono a prendere delle strade obbligatoriamente alternative perché credono che quello sa l’unico circuito ormai in cui si può muovere. Sinceramente ho pensato di trovare delle scorciatoie, ma è soprattutto la paura che ti porta a fare certi pensieri. E’ chiaro che tu stai lì anni e anni a lavorare, a non avere mai dei riscontri e poi una sera te ne torni a casa e ti chiedi se sia giusto versare tutto questo sangue. Gli interpreti che fanno i talent show li capisco perché magari hanno una buona voce, una certa personalità e la mettono in mostra in quel programma. Certo poi non possono lamentarsi della struttura che sta dietro a essi. Loro sanno che il talent è una lavatrice che ti prende, ti spreme come una specie di asciugatrice poi tu devi avere la forza di rialzarti e continuare perché è arrivato il nuovo Alessandro, Giuseppe. Certo, qualcuno è riuscito a rimanere. Però la vita poi ti mette di fronte a delle scelte e quando

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the niro

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di Francesca Vantaggiato | ph Luca Carlino

Il 20 luglio 1969 l’uomo sbarcava sulla Luna.

The Niro

A distanza di 44 anni, alter ego di Davide Combusti - ricorda quel memorabile evento e gli vuole rendere omaggio, scegliendo proprio l’anno 1969 come nome del suo ultimo disco. Lo incontro alla Santeria di Milano in una piacevole serata quasi primaverile, poco prima del live in cui proverà la scaletta del suo nuovo tour. È un ragazzo imponente, alto e ben piazzato. Eppure ha un viso simpatico, uno sguardo vivace, un modo di fare estremamente semplice. Ci stringiamo la mano, ci sediamo al tavolino e lui inizia a raccontare.

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I

l 1969 è l’anno storico in cui, in teoria, c’è stato lo sbarco sulla Luna. Il tuo album è da intendere come l’augurio che accada ancora qualcosa del genere che unisca le persone, come un qualcosa di nostalgico, oppure è il tuo stesso disco che deve essere visto come uno sbarco sulla Luna, un evento che può creare una condivisione di emozioni? Ok, il mio album può essere considerato un nuovo sbarco sulla luna, sicuramente! C’è anche il lancio del disco! Lo sbarco sulla luna, come l’ho inteso io, è sicuramente legato al fatto che c’è stato un momento in cui l’umanità si è sentita unita nella realizzazione di un evento positivo, ma è anche il desiderio di un evento del genere. Siamo tutti in attesa, secondo me, di qualcosa che ci riunisca di nuovo. Potrebbe essere la tua musica, questo nuovo album? Sarebbe troppo ambizioso, però diciamo che già riunirne qualcuno non sarebbe male! È il tuo primo album in italiano - una svolta rispetto al tuo percorso precedente - in una lingua sicuramente più difficile. Come ti sei trovato? L’italiano ha molte asperità. Ti faccio un’analisi tecnica: a livello metrico è molto più complesso, per esprimere i concetti c’è bisogno di molte più sillabe - al di là dell’accento che è un po’ come la fetta biscottata con la marmellata che cade sempre dal lato sbagliato, cioè sempre dove non dovrebbe cascare. È stato più impegnativo, ma anche più stimolante. La cosa che mi ha spinto è stata la necessità di lasciare un disco in italiano nella discografia italiana. Volevi lasciare una traccia importante? Volevo lasciare una traccia. È un po’ come sullo sbarco sulla Luna: è la mia bandiera. Volevo lasciare qualcosa alla discografia italiana, visto che ci tengo, in un periodo in cui la musica è molto in crisi. Tutti mi dicevano “ma tanto tu hai il mercato estero”. E invece no: proprio in questo momento, un disco in italiano. Ma tu sei soddisfatto? Sì, infatti c’è un brano che si chiama Qualcosa resterà, in cui dico “non mi pento neanche un po’”. Non mi posso pentire adesso di aver fatto un album in italiano

che sono contento di rappresentare da oggi in poi nei palchi. Credi che il pubblico italiano comprenda, capisca e ti segua in questa scelta? Non hai paura che i tuoi fan restino affezionati all’inglese? Qualcuno sicuramente mi ha detto “ti preferisco in inglese”, però altri mi hanno detto “ti preferisco in italiano”, quindi c’è sicuramente qualcuno che sarà più contento e qualcuno meno. Io sono contento, per esempio. Il mio voto lo considero sempre il 51%, nel senso che non sarei felice se tutti mi amassero e io no: non mi sveglierei la mattina bene, non andrei a dormir sereno, non dormirei nemmeno, probabilmente. Invece così è stata una scelta che difenderò sempre, qualora ci sia bisogno di difenderla, perché è partita spontaneamente. Nessuno mi ha ma imposto di cantare in italiano e quando me lo hanno imposto ho sempre detto “no, ma siamo pazzi?”. E invece sono felice. In realtà non mi sento così diverso da prima: ho mischiato i brani nella scaletta del tour tra italiani e brani in inglese... è tutto The Niro insomma! Rispetto al mercato straniero, non hai paura di esserti precluso alcune strade? Intanto il 25 marzo viene presentato Caserta Palace Dream di James Mc Teigue, il regista di V per Vendetta, con Oscar Richard Dreyfuss come protagonista (ndr: The Niro ne ha curato la colonna sonora). Quindi diciamo che in ambito cinema le porte mi si sono aperte. Anche quando non voglio, comunque l’estero viene lì, mi prende per le orecchie, mi riporta fuori dai confini nazionali. Questa cosa mi fa piacere e poi io continuo a scrivere, attraverso le colonne sonore, in tutte le altre lingue: ho scritto anche brani in spagnolo, in francese, continuo a scrivere in inglese, ovviamente, perché mi piace. Tra l’altro, i brani di questo album erano stati scritti tutti in inglese per poi ripensarli in italiano, quindi niente: io continuo a scrivere in inglese... ma non lo diciamo a nessuno! Leggendo i testi di 1969 si nota una parola che ricorre frequentemente: instabile. In L’Evoluzione della specie parli di “lavoro instabile”, in Colpa mia affermi proprio “Come sai, già da un po’ sono instabile […] e tu come stai? mi sembri instabile”. Me lo sono sognato o, effettivamente, c’è un senso

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di instabilità? Nell’album racconto un periodo della mia vita molto tormentato e non essendo molto bravo a raccontare cose che non vivo, quelle sono state le emozioni che ho vissuto. Quindi, quando io canterò questi brani, rivivrò il momento d’instabilità che ho vissuto... e non è nemmeno facile uscirne!

pezzo potrebbe essere un buon singolo” e lui mi fa: “Sì eh? Boh...”. Faccio la versione in italiano, lui rimane sempre poco convinto e alla fine - disco realizzato con il primo pezzo che è stato appunto 1969 - mi ricordo che ci siamo guardati quando la Universal ha detto “ok, a noi 1969 va bene come singolo”. Lui subito dopo mi disse: “Guarda che mi ricordo che un anno e mezzo fa mi hai detto... “.

Dall’instabilità? Eh no! Però scrivere delle cose che non ti fanno stare bene è il primo passo per ammettere che non stai bene e poi - almeno per me - ha sempre funzionato così: scrivere una canzone è come incastonare un determinato momento, un’immagine, all’interno di tre minuti di canzone. E poi, nel momento in cui quella canzone era finita, basta, io a quelle cose non ci pensavo più, perché tanto le avrei rivissute ogni volta che le avrei cantate: riapro il cassetto e poi lo richiudo quando è finito il brano

Beh, avevi ragione tu! Vedi, bisogna essere lungimiranti ogni tanto.

Per il momento, il mio pezzo preferito è Qualcosa resterà. Ricorda un po’ My way di Frank Sinatra, un po’ Piazza Grande di Lucio Dalla, però meno goliardica e molto più delicata... Io adoro Lucio Dalla! Considera che il protagonista sono io. Non stavo bene e venivo da situazioni di ogni tipo molto precarie che non mi facevano stare bene. Lì è nato Qualcosa resterà, perché ho pensato: “vabbè, hai fatto le tue cazzate nella vita, hai fatto i tuoi errori, hai preso strade sbagliate. Tutto ciò che hai vissuto ti ha portato a essere ciò che sei? Sei contento di quello che sei? Più o meno sì, ok, e allora perché ti devi pentire? No?

L’ultima domanda: Sanremo serve solo per la visibilità o serve anche a qualcos’altro? Solo per la visibilità, ovviamente! L’importante è presentarti con un progetto che ti rappresenti: andare a Sanremo col pezzo di Sanremo io non lo farei mai, e chi lo fa poi si sveglia la mattina con la propria coscienza. Però tanti sono interpreti, quindi l’interprete dice: “Ma che è mio il pezzo? Me l’hanno scritto!”. Invece il cantautore se li fa questi problemi, io ho pensato “vabbè, sto andando con un pezzo che non c’entra niente con Sanremo”. Tant’è che prima di cantare uscivano articoli come su L’Unità che scrisse “un marziano sbarca a Sanremo” e altri di questo tipo. La stessa etichetta discografica disse: “Tu sei strano, perché dobbiamo presentarti con un pezzo normale? Prendiamone uno strano!” Sei pronto per questo tour? Sì: sono pronto, sono contento, è la band di sempre con cui ormai abbiamo macinato chilometri sia in Italia che all’estero. Sono felicissimo e non vedo l’ora di suonare questi brani davanti a tanta gente. [ ]

Mi racconti un aneddoto, un ricordo particolare legato a quest’album, al periodo in cui l’hai scritto o alla registrazione? Un aneddoto simpatico è stato la prima volta che sono entrato in studio per registrare, il primo giorno della registrazione. Incontro Roberto Procaccini, che è il produttore e che mi ha seguito a Sanremo - è stata la prima volta per entrambi, lui faceva il direttore d’orchestra e io cantavo, sembravamo tipo Totò e Peppino quando vengono a Milano - e io portai il primo brano 1978 in inglese (ndr: poi divenuto 1969). Lì è stata la prima volta in cui dissi “secondo me questo

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valerio piccolo

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di Fabrizio Morando | ph Fabrizio Morando

Valerio Piccolo

è un cantautore italiano con la doppia anima “artistica” che lo vede attivo in Italia e a New York dove ha lavorato come traduttore televisivo e cinematografico, adattando per il doppiaggio dialoghi di registi del calibro di David Lynch, Tim Burton e Quentin Tarantino. Il suo ultimo disco Poetry ci consegna in forma di musica nove poesie scritte per lui da poeti americani che ha incontrato nel suo percorso. Tra i nomi che hanno aderito al progetto, Rick Moody e Jonathan Lethem, e il romanziere e critico della rivista New Yorker Ben Greenman. Abbiamo incontrato Valerio durante il suo tour italiano, qualche ora prima che iniziasse la sua performance a metà tra letteratura e musica sul palco dell’Asino che vola, nel cuore della nostra capitale.

P

artiamo dall’origine di Poetry e quindi dal progetto, che è nato anni fa. Il tuo lavoro ti fa muovere spesso tra Roma e New York: e proprio dalla grande mela arrivano queste voci, questi frammenti di parole che diversi poeti ti hanno regalato e che tu poi hai tradotto in italiano. Come è nata questa collaborazione? Conoscevi già alcuni di loro oppure sei entrato in contatto con questi artisti sfruttando conoscenze o canali diversi? Tutte e due le cose. Alcuni già li conoscevo. Ovviamente Suzanne Vega, e un altro paio. Ad esempio avevo collaborato con Jonathan Lethem e Rick Moody, avendo

dato loro una mano nelle traduzioni più tecniche dall’inglese all’italiano di alcuni loro libri e poesie che sono poi entrati nella distribuzione italiana tramite Minimum Fax. Riguardo i restanti, ad esempio il gruppo di poetesse, poeti minori e i più giovani nella maggior parte, mi sono fatto fare segnalazioni da altri scrittori e poeti americani con i quali ero già in contatto, e ho lavorato di ricerca identificando lavori e poesie che più mi piacevano e che più andavano d’accordo con il progetto. Ogni volta che individuavo qualcosa di interessante scrivevo una e-mail con qualcosa del tipo “ti va di regalarmi una poesia inedita a titolo gratuito?”. Tengo a precisare che questo è un progetto indipendente quindi non prevede una ricompensa a parte le royalites. Hanno accettato tutti! La cosa più divertente è che con molti di loro abbiamo continuato a sentirci. Adesso quando vado a New York mi invitano a cena, vengono a vedere i mei concerti. Con Rick e Jonathan si è rinforzata l’amicizia, e nonostante siano artisti di livello assoluto (Lethem ha scritto un libro dell’anno per New York

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Times) rimangono persone di grande sostegno, di fatto due anni fa un film autobiografico (Being Flynn) grande supporto. Caratterizzati da quella semplicità che racconta la sua difficile adolescenza vissuta nelle americana che contraddistingue un po’ tutti. grinfie di un padre abusivo e violento interpretato addirittura da Robert De Niro. Ma in Italia i film cosi Ricordiamo che parte di questo progetto, con cupi, cosi crudi non li comprano. Quindi non è mai arrangiamenti diversi, è stato presentato nello stato distribuito nel nostro paese. spettacolo Love-Fly-Mood con Neri Marcorè, Maledizione è una lunga invettiva, una sorta di che tra l’altro canta in duetto con te nella anatema. Io non mi lancio mai nell’interpretazione, ma track “maledizione”. immagino sia un testo dovuto al rapporto difficile con Love-Fly-Mood è stato una specie di anticamera di il padre. Conoscendolo mi viene da pensare a questo, quello che sarà lo spettacolo vero e proprio che partirà una serie di invettive e malauguri. Oh... gli augura le a breve e si chiamerà Poetry \ Poesia, spettacolo sfortune peggiori! che nasce quindi dalle sue ceneri: Love-Fly-Mood lo Non vorrei davvero essere nei panni di questo padre considero ancora adesso una specie di prototipo, un (ndr, risata), sempre se di lui si tratta. Si parla di bere esperimento da laboratorio con un titolo provvisorio. acque contaminate, dormire vicino a un telefono, farsi Ciò non toglie che è stata per tutti un’esperienza trovare dal controllore senza biglietto… impagabile poterci interfacciare con un attore di così grande esperienza (Marcorè). L’ultima è bellissima! Invece il testo che ha Poetry \ Poesia ne sarà la naturale consacrazione, dato origine al singolo e al video tratto dal spettacolo che porterà a suonare “live” quasi tutto il disco, “Ordine”, è stato scritto da Suzanne disco, con in più le parole e i testi scritti da Francesca Vega, con la quale hai un rapporto di lavoro Zanni e recitati da un singolare personaggio, da tanti anni oramai, oltre ad aver fatto da interpretato questa volta dall’attore Ignazio Oliva. apripista a diversi suoi live in Italia. La scelta di utilizzare la sua poesia Command per il Rispetto allo spettacolo teatrale, il disco singolo è più un omaggio che fai a Suzanne presenta una rivisitazione degli arrangiamenti oppure la scelta ha altri motivi? e in linea generale tutta la struttura delle Nel momento in cui ho dovuto scegliere quale pezzo canzoni è stata rimodellata verso qualcosa eleggere a “singolo” mi sembrava giustissimo che di più strutturato. C’è stata una particolare fosse la sua poesia, sicuramente per via delle molteplici attenzione all’aspetto qualitativo? collaborazioni portate avanti nel passato. La difficoltà con cui questo progetto ha visto la luce Tra gli altri motivi, anche l’importante coinvolgimento in questi anni, e con alti e bassi che hanno ritardato il lancio, il lato positivo è stato che tornandoci più volte a mente fresca, migliorata dall’esperienza, ha fatto sì che i pezzi diventassero straordinariamente ricchi... Al momento rimane la cosa migliore che ho fatto, almeno a mio giudizio. “D’ora in poi camminerai in eterno, d’ora in poi, trascinandoti dietro tutto quello che hai e dormirai ai piedi di un telefono sognando una stanza” sono frasi tratte da Maledizione, una delle tracks più controverse del disco. Sembra una storia di rabbia - si parla di aprire breccie, di strappare alberi, parole molto forti - la conclusione di qualcosa, forse un trauma, che costringe a vagare senza una meta, senza una dimora. Tu che interpretazione hai dato? Il pezzo è stato scritto da Nick Flynn, un poeta saggista molto famoso in Francia, da un suo saggio è stato

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di Paola Turci durante la scrittura delle musiche. Paola aveva fatto la cover Mi chiamo Luka e così ho chiuso un cerchio, coinvolgendo sia lei che Suzanne. Per proprietà transitiva, mi sembrava che tutto avesse un senso logico. “Eppure vorresti che questo tuo insistere facesse nascere qualcosa che non è mai nato...”, chiaramente un brano contro ogni forma di violenza, in questo caso più verbale che fisica. “Vorresti” ma non so: credo che poi l’effetto di questo ordine sia controproducente, ottenga effetti opposti… Luka ha sicuramente molte analogie con Ordine che hanno a fattor comune proprio la violenza: la differenza è che mentre Luka narra di un evento immaginario, Command è invece un testo autobiografico. Luka canta dell’incontro di lei con un bambino in ascensore e Suzanne ha sempre dichiarato che fosse una storia immaginata, con tutti i retroscena. Command racconta di prepotenza, arroganza e manipolazione piuttosto che violenza fisica, subita nel passato durante una adolescenza non facile con il patrigno. Scritta almeno 20 anni fa rimane un testo di grandissima attualità: “la forza che non solleva niente” mi sembra una frase che si possa applicare quotidianamente.

contemporaneamente un amico e collaboratore e tutti e due sono entrati a far parte di questa avventura. Lei canta in un gruppo rock\progressive italiano (Karmamoi) e la sua voce è perfetta per l’impronta femminile che volevo dare a tutto il disco - Serena di fatto è presente in molte parti - e il singolo doveva comprendere un duetto, un “featuring”. Il compagno ha questa libreria storica di cinema, Altroquando, e ha una piccola casa editrice che ha marcato il disco insieme alla nostra etichetta e alla nostra distribuzione. Avendo un progetto a metà tra letteratura e musica volevamo avere un marchio che sottolineasse la presenza editoriale. In Ordine la distribuzione tra la mia voce e quella di Serena penso sia perfetta nel contesto. Inoltre Serena mi aiuta a migliorare le mie performance canore. Vorrei che questo processo fosse anche reversibile: spero di essere io a prestare parole e voce in suo progetto prima o poi.

Altro pezzo che mi è rimasto in testa, è “Sottozero”, con quell’arpeggio che potrebbe andare avanti all’infinito senza mai svanire, senza mai stancare, ma che lascia in bocca una sottile malinconia. “E’ come tornare a scuola, nella vita che c’è di là, dove posso ancora camminarti accanto ma non posso toccarti i La voce femminile? capelli ed ho paura di pensare che prima o poi La voce femminile porta il nome di Serena Ciacci. L’ho non me ne importerà niente”. Un viaggio nel scovata per questioni affettive: il suo compagno è passato, dove il protagonista sembra essere solo spettatore. Oppure un viaggio nella vita ultraterrena, in questo caso si tratterebbe della ricerca di un contatto con una persona scomparsa… Anch’io la vedo cosi. Ribadisco che quando i poeti mi hanno mandato i pezzi ho cercato di non chiedergli nulla, lasciando l’interpretazione a chi ascolta, a chi legge. L’atteggiamento è lo stesso che faccio quando traduco i film o i libri, cerco di non lasciare mai una mia interpretazione. Si, l’idea è proprio quella di una persona scomparsa di cui si sente la mancanza, qualche volta in modo forte. Questo porta a quanto dicevi tu sulla sensazione musicale: volevo un pezzo che fosse sospesissimo. C’è un lungo rientro dopo il primo refrain dove si suona soltanto; tu ti aspetti che il pezzo riprenda con una successiva strofa invece va direttamente al ritornello. Questo è proprio voluto, e rispecchia esattamente quello che voglio fare, quello che ho intenzione di fare

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in futuro. Se devo pensare al prossimo disco mi vene in mente qualcosa di molto più simile alle sonorità di Sottozero che a quelle di Ordine, due mondi radicalmente distanti tra loro. Quando l’ho scritto e arrangiato insieme a Massimo, gli ho detto: “lì in mezzo dobbiamo elaborare questo intreccio di chitarre sospese e lasciare una forte impronta. Sono le ultime note che l’ascoltatore si porta dietro e gli devono rimanere impresse”. Massimo intendi Massimo Roccaforte (per anni chitarrista di Carmen Consoli), che tra l’altro è anche il produttore artistico giusto? Si corretto. Massimo è un artista straordinario che si mette a servizio del cantautore e arricchisce tanto con grande attenzione ai particolari, uno con una cultura musicale sconfinata. Tutta la sezione degli archi nel disco è stata scritta interamente da lui. Ritiro fuori Jonathan Lethem per cercare di capire se, sia dal punto di vista poetico che musicale, condividi con lui il movimento letterario che lo contestualizza, ovvero quello definito come avantpop \ postmodernismo: autori estremisti, audaci, innovativi, in anticipo sui gusti e su lle conoscenze. No io non mi sento così avanti. Mi sento più orizzontale che verticale: attraverso spazi da percorrere piuttosto che i tempi. Mi sento un contaminatore, uno che porta delle cose in altri ambiti dove non ci sono mai state. Non mi sento un innovatore in nessun campo, ma uno che consegna prospettive diverse a cose che già esistono.

una sorta di equilibrio. Adoro la sua osservazione della realtà presente nel libro “Tempesta di ghiaccio” e la freddezza con cui affronta certi argomenti.

Barman all’inferno racconta di un barman che non ti può servire nulla, perché all’inferno non c’è niente da bere, e di un pittore che vorrebbe riprendere la sua professione ma inesorabilmente le sue tele bruciano di “bianco”. Questa impossibilità di fare l’ovvio fa molto girone dantesco, con l’eterna pena di tentare sempre qualcosa che non potrà mai essere realizzato… A me sembra il supplizio di Tantalo! Sono parole semplici e dirette. Noi musicalmente l’abbiamo pensata cosi, scritto di getto, come una rasoiata senza ritornello senza niente: solo con quel momento di sospensione quando di parla del “bianco” ma poi prosegue dritto attaccando nuovamente col tema iniziale. Volevo che l’effetto fosse cosi anche per l’equilibrio di tutto l’album.

Parliamo di influenze musicali. Si tende a parlare quasi sempre di “parole” con te, invece io ho la tendenza a privilegiare l’aspetto musicale. Partiamo da una fisicità: i tuoi dread ti danno un impronta ben marcata. Insomma possiamo parlare forse di tributo a un grande cantautore scomparso? Non è proprio vero. Lui li ha avuto solo in un periodo (parliamo di Michael Hedges) ma c’è an che un’apparenza fisica voluta che prescinde dall’aspetto di Michael. C’è chi ti chiama trasl-autore… Certo che la sua icona con questo elmetto forato dal Questa definizione è piuttosto precisa, rappresenta quale uscivano i suoi dread rimane per me come una un artista che attraversa ampi spazi e non rimane protesi al mio corpo, che non ho bisogno di tirare fuori confinato alla canzone e basta. Si, mi piace. ogni volta. Non è mai sparita e non sparirà mai. La prima vera ispirazione emotiva della mia vita. Di Rick Moody ho letto recentemente Tre vite. Rick è uno degli autori americani più brillanti e Risaliamo un po’ l’onda del cantautorato pop\ controversi della sua generazione, e in queste folk americano dagli anni 70 in poi. Quello tre novelle si parla di identità, di smarrimento, d’autore, un po’ di nicchia, e un po’ colto se di paranoia; un testo sulla difficoltà di trovare vogliamo. La tua musica non è certamente una stabilità emotiva ed esistenziale nel collocabile nel mainstream nè vuole esserlo. mondo sempre più lacerato di oggi. Queste Direi Leonard Cohen, con il quale condividi la sensazioni sono presenti nei tuoi lavori? vena poetica del canto, Vic Chesnutt, e dal lato Con Nick decisamente condivido molte cose: più che femminile oltre alla sopracitata Suzanne Vega, senso di smarrimento, direi la ricerca interiore che direi Ani di Franco, Tori Amos … segue a questo senso di smarrimento, diretti verso Non meno di questi David Crosby che rimane fortissima

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fonte di ispirazione. Soprattutto quando si tratta di struttura musicale, una delle cose più originali mai sentite. Insomma tutto ciò che ha a che fare con quella parte della costa americana, insieme a Stills e a Neil Young, io me la sento. A parte questo se mi devo mettere come ascoltatore non riesco mai a identificarmi. Posso fare come hai fatto tu, ovvero mettere insieme mix di tutta questa gente qua e pensare che c’è un pezzo di uno e un po’ dell’altro.

l’onda lunga del disco si riverbera con lo spettacolo, da maggio sulle piazze ad intraprendere un percorso parallelo a quello del disco. Il mio futuro è il prolungamento di questo presente: vorrei che il nome di Poetry \ Poesia faccia parlale la gente, a prescindere dalla fonte con la quale viene portato in scena, sia essa musica, letteratura o teatro. [ ]

Nel panorama italiano invece chi ti piace? A chi ti ispiri? Penso di aver fatto un percorso senza troppe influenze, soprattutto riguardo alla musica italiana della quale ascolto veramente poco. La mia musica non ha radici in Italia, definitivamente. In queste settimane hanno fatto paragoni un po’ azzardati, come Sergio Cammariere… (ndr, risata) … vedo che anche tu non sei d’accordo! Penso di esser immune da questo tipo di contaminazione, sento note che mi portano ad Ani Di Franco, ma Cammariere proprio no... Già un paio di persone me l’hanno detto: io penso di aver ascoltato massimo due o tre pezzi e tra l’altro non mi sono neanche piaciuti! Sono cresciuto con gli Avion Travel e con la chitarra di Fausto Mesolella, per me uno dei migliori chitarristi in assoluto insieme a Hedges. Gli Avion sono rimasti un modello da cui apprendere soprattutto in fase di scrittura, e musicalmente sono stati una delle cose migliori prodotte dal pop italiano in questi ultimi venti anni. A proposito di Avion Travel, proprio Ferruccio Spinetti è intervenuto in uno dei pezzi del disco anche per omaggiare la nostra provenienza casertana! Il futuro cosa ci aspetta? Il futuro è chiaro e dichiarato: partire con questo tour che rappresenta un’altra gamba del progetto:

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roberta cartisano [Musica] INTERviste

di Flavia Sciolette

Fa freddo fuori, lo sento nonostante sia intabarrata dalla testa ai piedi: sarà che il clima è cambiato, sarà che questo mondo è impazzito. Posso solo, come qualunque viandante, rifugiarmi da qualche parte, rifocillarmi, bere qualcosa: se avrò fortuna, qualcuno mi racconterà una storia. Ed è proprio quello che

Roberta Cartisano

è successo con , cantante ed eclettica polistrumentista, in giro a presentare il suo secondo album, “l’Ultimo Cuore”. Più che canzoni, racconti sonori tra viaggiatori di linee temporali, tra passato, presente e futuro, alla ricerca di quella bellezza nascosta, di cui tutti parlano... ma che forse si può solo cantare, come ha fatto al Forte Fanfulla (Rm) per il suo tour, che ha portato Roberta a narrare anche a viandanti oltreoceano, a San Francisco. JK | 66


[Musica] INTERviste

bellezza. Io lo definisco un “bastardo buono”, perché è anche ironico... forse è anche il mio alter-ego, fondamentalmente, ma è una storia che prende molto dagli umori del presente. Alla fine ho notato che ho trattato la contemporaneità proiettandola nel futuro: c’è ancora tempo per cambiare, per questo è così lontano, nel 2333. Nell’album si fa spesso riferimento a questa “bellezza nascosta”, a chi è capace di vederla... che cos’è per te? La bellezza nascosta è prima di tutto qualcosa di soggettivo; non è come i tramonti. Io non ho mai sentito dire da qualcuno che un tramonto è brutto. Ho cercato di comprendere questo concetto, anche attraverso un blog, aperto durante la produzione del disco. Ho chiesto a fan, amici, internauti di inviarmi delle immagini di bellezza nascosta. Molti mi hanno inviato foto di quando erano bimbi, immagini che raccontavano stupore e meraviglia.

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uesto è il tuo Ultimo Cuore Tour, ti abbiano beccata appena in tempo prima della tua fuga a San Francisco, dove hai già presentato questo album. Hai voglia di presentarlo a tutti i lettori di Just Kids? L’Ultimo Cuore è un concept album ambientato nel futuro. in realtà credo di aver capito molto di questo disco dopo aver letto le recensioni, dopo averlo registrato, perché molte volte si è come un fiume in piena, per nulla razionale. È come dipingere un quadro: dico sempre che accade, ti lasci andare... poi quando diventa altro da te, guardi il tutto da lontano e riesci a comprendere. L’Ultimo cuore è la storia di un uomo che nel futuro è l’ultimo essere umano rimasto sulla Terra a saper ancora riconoscere e a vedere la

Proprio la caratteristica di Ultimo, se non sbaglio... Sì, esatto. Attraverso il blog Ultimo, il personaggio del concept, si è alimentato della bellezza altrui. Come anche l’arrangiamento, la stesura del disco, tutto si è alimentato attraverso questo blog. Mi sono alimentata di una contemporaneità che ancora sa vedere la bellezza nascosta. Tu nei tuoi dischi curi veramente tutto, arrangiamento e testi, monti i diversi strumenti. Qualcuno, ascoltandoti, si è chiesto se magari ci fosse poca voglia di confrontarsi. Eppure c’è il blog, ci sono i “viandanti”. Come convivono questa cura totalitaria e personale con la ricerca dei momenti di bellezza? A parte che quando arrangio i dischi da sola è mia abitudine lasciare un vuoto, invitando amici musicisti a colmarlo. Dico loro: “Fate quello che volete.” Proprio perché è importante confrontarmi, anche per una mia crescita personale. Se facessi davvero tutto da sola senza ospiti, rischierei di produrre dischi piatti e monotematici. È capitato, anche perché ho registrato metà disco da sola nel mio studio di Milano e metà del disco in giro, quindi per forza mi sono anche dovuta confrontare. Ad esempio nel primo disco ho lasciato dei vuoti che poi hanno colmato Cesare Basile e Lele Battista... e chi gli dice niente! Anche in questo disco ci sono due belle collaborazioni, come le chitarre di Giorgio Baldi (chitarrista e

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[Musica] INTERviste

produttore storico di Max Gazzè) e Pasquale De Fina (Afterhours, Wolvo)... quindi sì, mi lascio contaminare. Più che altro è la fotografia sonora, è la struttura e l’arrangiamento iniziale che curo in maniera maniacale, ma come produttrice artistica di me stessa ritengo le contaminazioni fondamentali. Hai parlato di “fotografia sonora”. Quanto devi ad altre forme di espressione artistica per costruire il tuo sound? Moltissimo. Innanzitutto perché prima di fare musica bisogna interessarsi alla vita in generale. Ho fatto certo i miei studi, ho studiato basso elettrico e pianoforte. Poi ho voluto dimenticare tutto e interessarmi alla vita. Molti mi hanno chiesto che dischi ho sentito mentre lavoravo all’Ultimo Cuore, ma in realtà io mi sono rifatta più a immagini, film e altro. In realtà ho parlato poco di musica anche durante il mixaggio e voglio citare una persona che è stata fondamentale per questo disco, Guido Andreani, già collaboratore di Cesare Basile. Lui è stato fantastico perché mi ha chiesto di passargli i film che mi avevano ispirata e prima di mettere mano al disco li ha guardati, mandandomi messaggi di apprezzamento per i titoli. È stata una lavorazione un po’ atipica. Io credo molto nell’identità sonora, per me un disco è suono prima di tutto, identificativo del messaggio che porta; non voglio delegare ad altri e avere il suono di qualcun altro ed è a mio rischio e pericolo. Il mio sound può piacere e non piacere e in ogni caso come produttrice di me stessa, avendo scritto le batterie di questo disco, mi son messa in gioco, lo faccio sempre. Il prossimo disco si vedrà. Anche perché ogni volta che finisco un mio disco ne esco abbastanza stanca stando alle responsabilità che mi addosso. Per il terzo disco sto valutando di cercare un co-produttore. Bhe’, non ti metti in gioco solo sul suono, ma anche nell’espressività. Il concept-album in Italia non va moltissimo, è una bella sfida rispetto al solito “ascolto distratto”: scelta consapevole o semplice ispirazione? Ultimo è nato nel 2005, dopo aver finito un master alla facoltà di architettura. Io provengo da studi filosofici, ma questo master verteva proprio sulla città e la sua estetica, sulla bellezza nascosta nella città, quella che si scopre camminando. Il concept è nato perché avevo questo tema in testa,

con questo personaggio, nato dalle mie esperienze di vita. Se non ho qualcosa da dire io non faccio dischi: ho avuto questo tema in mente, un tema forte che mi ha portato a pensare ogni brano legato. È stato tutto veramente spontaneo, ho cercato la coerenza più nel suono che nei testi, ed è stato anche un percorso di crescita, non è stato facile far quadrare tutto. Io ricordo il tuo primo disco, Autentiche Voci. Viene spontaneo chiederti cosa avevi da dire in quel momento, rispetto a ora e che cosa è cambiato. Prima di tutto è proprio cambiato il mio modo di stare al mondo. Autentiche Voci è un disco che raccoglie dieci anni di canzoni, ci sono brani che ho scritto quando avevo 21 anni. La differenza sta che tra un disco e l’altro ho potuto lavorare come strumentista e arrangiatrice con diversi musicisti: più lavori, più ti confronti con gli altri, più cresci. Infatti, non bisogna mai isolarsi perché la musica è, prima di tutto, comunicazione. Ho soprattutto limato molto i testi: nel primo disco tutto quello che volevo dire lo buttavo dentro, con quell’approccio adolescenziale: “Sparo tutto quello che voglio, l’importante è il sentimento!” Invece adesso il lavoro sui testi è molto più mirato. Più brevi, più sintetici, poi io non riesco a essere autoreferenziale, mi nascondo dietro Ultimo o in Autentiche Voci, dietro altri personaggi. Sophia canta in una delle tue canzoni: “Tutti abbiamo un nostro Sud, più arretrato e in generale ostile che attende giustizia.” Vi possiamo leggere qualcosa delle tue origini? Vivo a Milano, ma la mia famiglia è del Sud, io sono calabrese. Quella canzone è nata tramite un confronto con mio padre; lui scrive libri e una volta si è parlato di questo tema, del Sud come una componente del cuore di ognuno di noi. Nel cuore di tutti c’è un Nord, quella parte un po’ più cosciente e razionale, e abbiamo anche un Sud, che è una metafora, per quella parte poetica e istintiva. Il Sud è pieno di errori, ma anche quelli lo rendono poetico, no? Il testo di Sophia è nato in Francia, è nato a Parigi perché mi son trovata talmente bene in quella città, talmente a mio agio, che mi son detta: “Il mondo è enorme, non possiamo percorrere tutte le città, non possiamo stare in tutti i luoghi”. Però secondo me

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[Musica] INTERviste

ognuno di noi ha un proprio “altrove”. E tu come “altrove”, non hai solo il Sud, ma anche l’Oltreoceano, con le tue collaborazioni. Hai presentato anche l’album a San Francisco, c’è qualche idea per il mercato internazionale, magari in inglese? Per quanto l’inglese sia una lingua pragmatica, con tante sfumature, io sento l’italiano deciso più mio, più adatto per esprimermi, però ho già tradotto i testi. Sono piuttosto nerd nella cura musicale: cantare in inglese vorrebbe dire curare un disco in... quattro anni? Quindi tempo al tempo, comunque il sound è internazionale.

Urli alla contemporaneità, ma chiudiamo sul futuro... come lo vedi? Io spero che nel futuro riusciremo a riappropriarci della bellezza, concetto di cui oggi abusiamo. Si sentono spesso espressioni come “bello”, ma abbiamo perso il vero significato di questa parola. Non si parla più di qualità della vita, di certi valori. Nelle canzoni “urlo” le cose che non vanno, certo, ma non parlo solo di questo, gioco sui chiaroscuri. Prima dico le cose scure, ma rimane sempre uno spiraglio, che riguarda proprio il futuro. [ ]

Nelle sfumature rientra anche però una sensibilità... Io ci ho provato. Non è solo questione di lingua, anche l’architettura del brano stesso è diversa: questa sensibilità è arrivata loro in maniera dirompente, mi chiedevano il disco. Era una presentazione in anteprima a San Francisco dove lavoro anche come bassista, avevo avuto dei ritardi con la stampa e non avevo nessuna copia del cd da dare. Ho notato però questo che loro, al di là dell’italiano, hanno apprezzato molto il tipo di composizione, c’è molta ricerca e lo avvertono. Torniamo alle canzoni. Nel Viandante dici: Devi andare nelle piazze e urlare. C’è qualcuno contro cui urleresti? La contemporaneità. Qui io ho proiettato tutto nel futuro, ma è come se quest’uomo dicesse: “Non dimenticate il passato.” Anche i video sono giocati su questo, proprio nel video de Il più bel giorno di ieri, dietro alle scene, ci sono i filmini di quando ero piccola, per il passato. È importante vivere un presente in maniera sana, tenendo a mente che c’è un forte distacco incredibile con quello che siamo stati: ce ne siamo dimenticati, anche per quanto riguarda la cultura antica, c’è un’involuzione incredibile. Anche nelle canzoni ne parlo, nella loro composizione ho assorbito tutti i malumori e le cose che non vanno di oggi. Dico sempre “qualcuno deve pur farlo”, e non è stato semplice, per esempio ne “Il giorno di ieri” dico che la polvere da sparo è stata inventata per far festa... ed è vero, è nata per i fuochi d’artificio. E noi criminali l’abbiamo usata per ben altro: il mondo occidentale è un po’ questo.

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TUTTE LE RECENSIONI DI JUST KIDS

SONO DISPONIBILI SUL SITO www.webzinejustkids.wordpress.com



[Musica] NOVECENTO

novecento

di Gaia Caffio | illustrazione di Viviana Boccardi

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[Musica] nOVECENTO

Meat Ia Murder - Rough Trade Records 01 - The Headmaster Ritual 02 - Rusholme Ruffians 03 - I Want the One I Can’t Have 04 - What She Said 05 - That Joke Isn’t Funny Anymore 06 - Nowhere Fast 07 - Well I Wonder 08 - Barbarism Begins at Home 09 - Meat Is Murder

1985, Manchester

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hi ascolta molti dischi diventa con il tempo selettivo e crudele. Io per anni ho diviso le persone in due categorie: chi ama The Smiths e chi “ah…dici quelli della pubblicità della birra”. I secondi hanno sempre subito il mio sguardo di sufficienza. Con il senno di poi non credo fosse solo spocchia. No, io volevo trovare veramente qualcuno che li amasse quanto me. Volevo non sentirmi sola mentre il mondo intero ascoltava Kurt Cobain. Ci sono, e ci sono state, band migliori degli Smiths, ma con certezza nessuna di esse è riuscita ad eguagliarli nella capacità di interpretare sino in fondo la complessità di una specifica epoca culturale e storica, affrontando temi di carattere politico e sociale, attraverso una distinta, deliberata e potente estetica, che ancora oggi è fonte di ispirazione per artisti di ogni latitudine e generazione. E’il 1985. In Inghilterra impera l’era tatcheriana e l’onda musicale e culturale punk è ormai sulla via del tramonto. The Smiths hanno già trasceso le nozioni di ciò che una band indie potrebbe e dovrebbe essere, dopo aver segnato alte posizioni in classifica, essere apparsi più volte su Top of the Pops gladioli-muniti, e pubblicato due dischi acclamati: il loro imperfetto, ma a posteriori ammirato album di debutto e una raccolta di sessioni radio e b-sides. Un po’ incuranti delle aspettative maturate dal mondo discografico, Johnny Marr e compagni decidono di autoprodurre il loro secondo album e di riempirlo di storie di ingiustizia, violenza e disagio sociale, in un’epoca dai toni soft e superficiali. Esce Meat is murder, un’opera combattiva e inquietante, che, a dispetto della critica, si colloca JK | 73

subito al primo posto nelle classifiche inglesi (per intenderci: Born in the U.S.A. tracolla al secondo posto). La copertina (tra le più belle mai realizzate) è la rielaborazione di una foto scattata durante la guerra in Vietnam. Alla frase Make war not love che un giovane soldato americano si era scritto sull’elmetto, beffandosi del movimento pacifista, viene qui sostituita quella che dà il titolo al disco, monito a favore del vegetarianismo (vera religione di Morrissey). In realtà, a dispetto del titolo, il vero tema centrale del lavoro è l’alienazione dall’umanità nella severa Inghilterra degli anni ottanta, vissuta come una guerra dal giovane Morrissey: punizioni corporali nelle scuole, bullismo, solitudine e marcato classismo. Meat is murder, semplice solo in apparenza, è un lavoro complesso nei testi e nei suoni. Policromo, nelle melodie e nella composizione, è illuminato dalla linea di chitarra di Johnny Marr (responsabile della metà della gloria della band) e dalle perfette sezioni ritmiche. Parte deciso e immediato con The headmaster ritual (con il riff più bello della storia!), per poi mescolare ritmiche rockabilly (Rusholme ruffians o Nowhere fast) a brano più apertamente pop (I want the one I can’t have) e rock (What she said). How soon is now?, pezzo cult degli anni ottanta, uscito come singolo, è in realtà assente nell’LP originario, incluso solo nelle ristampe successive dell’album, così come la malinconica di Well I wonder. L’album si chiude con la spettrale title-track, dove alla melodia si mescola l’agghiacciante suono delle seghe elettriche, della carne al macello... Ascoltatelo e riascoltatelo. [ ]


[Musica] L’ANTIPASTO NUDO

L'aNTIPASTO NUDo di Giovanni Romano e Graziano Giacò|illustrazione di Viviana Boccardi

da Burroughs a Lester Bangs, interviste scorrette a 365 gradi

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[musica] L'antipasto nudo

Ospite: LUCA WARD [L’arte del doppiaggio…] Quando si parla di doppiaggio si deve partire dal presupposto che parliamo di un ibrido, perché tu Russell Crowe lo senti con la mia voce, però non ci fai caso: io lo chiamo il doppiaggio silente. A volte la voce supera l’attore. Noi doppiatori italiani siamo stati ammirati in tutto il mondo, ma ora non siamo più ai livelli di quelle eccellenze. Non è che altri Paesi c’abbiano superato…però francesi e russi sono ad un buon livello. Prima c’era un’attenzione di tutto il sistema (le grandi distribuzioni Rai e Mediaset) per il doppiaggio. Oggi per essere tutelati dobbiamo trovarci un film della Universal o della Warner che, a differenza di altre, sono società senza gare di appalto, scelgono in base al prodotto che gli serve, tendendo così a mantenere uno standard di qualità molto alto. [Però alla fine i doppiatori sono sempre gli stessi per tanti, tantissimi attori!] Hai ragione. Ma in realtà le punte di diamante, o quelli che hanno la scintilla, come dice Pino Colizzi, sono pochi, venti-trenta…e quanti sono gli attori? Centinaia. Non è facile…noi ci confrontiamo con l’oltreoceano, i nostri voicetest partono e vanno lì, alla fine si cade appunto sui soliti: io, Pannofino, Chevalier (voce storica di Tom Cruise, ndr), Sandro Acerbo (voce ufficiale di Brad Pitt, ndr). Un conto è fare un film con Hugh Grant ed uno con Russell Crowe. Se tu senti i due file audio, pensi che sono due attori diversi ma in

realtà sono sempre io, ma in quei casi ho tempo necessario per modificare la voce. [Si parla del doppiaggio come un’arte in crisi..] Parlavo tempo fa con un dirigente della Disney che ipotizzava la scomparsa del doppiaggio nell’arco di un trentennio, io la vedo in maniera ancor più drammatica e credo che si estinguerà molto più rapidamente. Me lo voglio quasi augurare, non perché spero che sparisca tutto il doppiaggio, figurati! c’ho impegnato tutta la mia vita…però trovo giusto che i film si vedano in lingua originale. Sulle serie televisive si va troppo veloci perché c’è poco tempo, e finisce che hanno sempre le stesse voci. Prima era diverso. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei grandi del doppiaggio, da Renato Izzo, che è stato uno dei propulsori del settore, fino a Pino Colizzi, Locchi, Maldesi, Barbetti… ho assorbito molto, ci aiutavano veramente a crescere. [L’incontro con i grandi registi italiani, maestri del doppiaggio] L’incontro con i fratelli Taviani è stato bello, appassionante, costruttivo: Paolo e Vittorio conoscono perfettamente la sala di doppiaggio, sanno di che cosa si parla. Purtroppo non tutti i registi hanno conoscenza delle tecniche di doppiaggio e quindi spesso arrivano in sala e si sentono spaesati, mentre i grandi del passato come Fellini, Risi, Antonioni, Lattuada, Rosi, Leone, quando entravano in sala di doppiaggio si sentivano come a casa loro, sapevano come funzionava questa macchina

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potentissima. Addirittura nei loro film alcuni, diciamo, attori con molte virgolette, dicevano numeri, perché tanto poi si sapeva che con il doppiaggio si facevano miracoli. Oggi invece pochi lo conoscono e molti ne hanno paura, perché quanto tu non la conosci una cosa ne hai timore. [Questa mancanza dei registi non potrebbe essere uno stimolo nei vostri confronti?] Ci sono dei registi che si appoggiano perfettamente a noi e dicono “Signori, voi siete maestri, fate”. Perfetto! sei in sintonia. Poi, chiaramente, se ne discute. Io ho lavorato con tanti…con Salvatores ho fatto un film, Denti, ed abbiamo lavorato splendidamente. Nonostante appartenga ad una generazione più giovane, conosce perfettamente il doppiaggio, come Tornatore e Sorrentino. Ultimamente nel film di Muccino, con Gerard Butler, Gabriele ha affidato al direttore di doppiaggio tutto il lavoro, dichiarando inutile la sua presenza in sala, quasi un ostacolo al lavoro dei doppiatori, dimostrò grandissima intelligenza: quando hai un cast di alto livello è inutile la presenza del regista, a meno che non si voglia divertire. Ecco, uno che si divertiva era Sergio Leone: costruiva, faceva tutta una serie di cose poi chiamava un po’ di gente, anche gli addetti alle pulizie, e gli faceva vedere una sequenza doppiata. “Che hai capito?” “Io non ho capito bene questa scena…” si faceva dire quale sequenza, la riascoltava e spesso dava ragione all’ascoltatore esterno. Noi abbiamo dato vita ai Terence Hill, ai Bud Spencer, ai Fabio Testi, questi mica si doppiavano da soli, questi avevano dietro i Pino Locchi, avevano dietro i Rinaldi, Glauco


[Musica] L’ANTIPASTO NUDO

Onorato, i grandi attori italiani che prestavano le voci a queste bellissime figure perché erano belli, funzionavano, però avevano bisogno di essere doppiati. [Come mai si ricorreva così sovente al doppiaggio esterno?] Si trattava di personaggi che stavano bene in video ma poi quando parlavano era un disastro! Quindi si concentravano sulle facce, sulle espressioni, per il resto c’era il doppiaggio. Ieri era impensabile che un attore come Bud Spencer parlasse con la sua voce, perché c’erano i giganti (Bud Spencer era doppiato a Glauco Onorato, ndr). Quando andavo sul set non li riconoscevo, perché li sentivo con le loro voci. Oggi è diverso, ci siamo abituati a questo brutto suono. Ci sono infatti molti attori, specialmente quelli televisivi, che non sono chiari nel recitare, oppure dicono tutto uguale, nello

stesso modo. Non si distingue l’architetto dal poliziotto a l l ’ a v v o c a t o. Tutto uguale, e la cosa peggiore è che ci siamo abituati. Provate a immaginare un film di oggi proiettato quarant’anni fa sulla rai, la gente avrebbe spento, ieri avevamo Gino Cervi, Arnoldo Foà, Ubaldo Lay, Gassman… d’altronde basta andare a sentire i vecchi sceneggiati, senti questi suoni meravigliosi, anche chi andava a dire “buongiorno” era bravo. [Le nuove leve come entrano in contatto col vostro mondo?] Al doppiaggio non si sa nemmeno come ci arrivino, io cerco di catturarli dal teatro se ci riesco, perché è giusto che questo mestiere lo facciano gli attori, come era un tempo. Negli ultimi anni sono nati i doppiatori, provenienti dalle scuole di doppiaggio, ciò anche perché negli anni 80 c’era una richiesta molto elevata. Si tratta di gente che ha solo ed esclusivamente fatto questo e non sa cos’è un teatro, un palcoscenico, un camerino. Io vengo dalla televisione e dal teatro, è la base, va fatto. Prova oggi a chiedere ai doppiatori moderni di fare un cambio di personaggio: Pannofino lo fa, perché ha fatto trent’anni di teatro, lo chiedi a Giannini, idem. Ne sono capaci, hanno una tale esperienza

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che gli permette di fare qualsiasi cosa; basta guardare Esercizi di Stile di Pannofino. Quando sono andato a vederlo a teatro mi sono detto: devo ricominciare da capo! Noi siamo ancora oggi un’avanguardia, però cominciamo a diventare grandi, io certi attori non posso più farli, non posso fare un trentenne, come non può farlo Francesco, mentre oggi abbiamo i quarantenni che fanno i trentenni e non va bene. Io per esempio sono cresciuto con i miei attori: Hugh Grant ha un anno meno di me, Russell Crowe due, l’unico un po’ più grande è Pierce Brosnan. [Che rapporto si viene a creare con gli attori che doppi?] Con Crowe e Grant ci siamo conosciuti, anche con Brosnan. L’unica cosa è che ti dispiace quando fanno un cambio di voce, e ti dispiace perché sono cose che avvengono solo in Italia e gli attori stranieri neanche lo sanno…poi se disgraziatamente quel giorno ti gira storto e avvisi Russell Crowe del cambio, succedono i casini, come nel caso di Tom Cruise: nel film La guerra dei mondi gli cambiarono la voce e Tom si rifiutò, anche perché il doppiatore l’aveva scelto lui. Russell Crowe è fissato, convinto che in Italia l’ho sempre doppiato io poi qualcuno gli ha detto che non è così e s’è stranito, giustamente. Quando scelse la mia voce mi disse: “Lo sai perché ti ho scelto? Un po’ perché ci assomigliamo come voce, tu ce l’hai più bella della mia, però abbiamo lo stesso modo di interpretare, perché io ho visto delle cose che hai fatto e abbiamo una scuola molto simile”. Io quando mi sono visto in Francia, doppiato (Elisa di Rivombrosa ndr) m’è preso un colpo, sono stato


[musica] L'antipasto nudo

doppiato da uno troppo grande di età! Nel film Notting Hill, non si sa come mai, non venni chiamato a doppiare, quando Hugh Grant andò alla prima, all’Adriano, si rivolse al Responsabile della Distribuzione e gli fece: “Ma Luca Ward, non m’avete detto niente… è morto?”. Sembra strano, ma loro i doppiatori se li scelgono, non è quasi mai una scelta di budget, io mi ricordo che una volta, per il film Cinderella Man non c’erano proprio i soldi, perché era un film in cui la Distribuzione non credeva particolarmente, allora dissi: “Non mi potete pagare il cachet? Non c’è problema. Pagatemi i minimi sindacali, però quella cifra la devolviamo alla ricerca, così io non mi sono sporcato il cachet”. Così facendo ho salvato il film e ho continuato a doppiare Crowe. [Parlando di teatro...] A me piace fare il teatro e il musical, ne ho fatti due di recente, l’ultimo è stato My Fair Lady con Massimo Piparo al Sistina; mi piace stare in palcoscenico, mi piace ballare, cantare, recitare, lo trovo fantastico. [E la radio?] Grazie a dio ho la gioia di poter lavorare per Radio Italia…quando vedo le radio in onda sui canali televisivi non approvo, io voglio la magia della radio, solo il suono, non voglio vederti (e lo sappiamo bene noi che la facciamo radio, ndr). Sono legatissimo alla radio e mi manca Radio Rai, con i grandi sceneggiati radiofonici, che avevano l’audience più alto tra tutti i programmi, peccato che non li facciano più. [Luca Ward e i giganti musicali] Per quel che riguarda i miei gusti musicali sono rimasto ai tempi di

“Checco e Nina” (modo di dire romanesco, ndr) faccio parte di quella generazione che ha visto i grandi gruppi musicali, quelli mondiali, Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin e i grandi cantanti italiani tra cui Baglioni, Venditti, Battisti…Baglioni mi ricordo fu il primo in Italia a fare i concerti in piazza, mi sembra fece il suo primo concerto a Piazza di Siena, e tutti gli dicevano che era scemo, io me lo ricordo quel live, c’era una platea sterminata, tra l’altro era gratuito... Mi ricordo dell’ultimo live in Italia dei Pink Floyd, ma anche i Rolling Stones, Eric Clapton… parliamo di giganti. Oggi questo livello non c’è più. [L’incontro tra gladiattori]

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Il Gladiatore è un film che mi ha dato tanto, come io credo d’aver dato a quel film, sono molto legato anche a Pulp Fiction. Il Gladiatore è un grande film, lo attaccarono molto all’epoca, Ridley Scott lo disse subito, non si trattava di un film storico, ma era il duemila, l’anno del Giubileo, l’elmo indossato da Russell era medioevale, non era da gladiatore. Con Crowe c’era stato un incidente perché in un film non l’avevo doppiato io, quando arrivò nella sala, al cinema Adriano, mi vide in fondo alla sala e mi fece: “Sei sicuro che c’è la tua voce in questo film?” “Beh, sì”, gli faccio io…e lui: “Allora possiamo entrare”. [ ]


[Musica] webziners

stordisco.blogspot.it

Come on, pilgrim! di Angela Giorgi

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a pochi giorni ho quindici anni, sgrano gli occhi increduli cercando di abbracciare tutta l’umanità invasa da sacra mania che affolla il concerto in questo quattro giugno milanese. Il nucleo incandescente della performance di Nick Cave è la furibonda Papa Won’t Leave You, Henry: dopo aver irretito gli astanti con stentorei moniti da predicatore, trascina i Bad Seeds nell’aggressione feroce del ritornello, in un furioso crescendo corale di roboante potenza; il gruppo segue la voce debordante fino al parossismo del suo auriga malefico, come una schiera di cavalli al galoppo che travolge la sala. Il principe algido Blixa Bargeld, altissimo a lato del palco, sferza il pubblico con i raggelanti squarci metallici della sua chitarra: un unico corpo balza all’unisono, scosso in un involontario spasmo nervoso dalla vibrazione tellurica che dilaga dalla band come una slavina. Negli anni, sarei ritornata a omaggiare l’altare del Re Inkiostro altre quattro volte: segnata una volta per tutte dallo stordimento del primo incontro, ero ormai legata da sempiterno debito esistenziale a quell’uomo che mi aveva marchiato a fuoco con il suo sigillo di blues tossico; estinguiamo così il vincolo di riconoscenza verso degli amatissimi estranei, che ci hanno condannato e insieme redento la vita, con un pellegrinaggio costante reiterato fideisticamente anche quando la primordiale forza espressiva è stata smarrita. Nel mio immaginario non albergava certo un Robert Smith, pingue e sudato nell’estate asfissiante, che sfiancava i presenti con un interminabile sfoggio degli episodi più ridondanti e foschi e sfilacciati del proprio

trentennale repertorio, né la prestazione dovuta somministrata dai Pixies, convinti di compensare il sospetto di aver toccato il fondo del proverbiale barile – non ancora evidentemente raschiato a dovere – con un’esecuzione scolastica, insufficiente a esorcizzare la mia sensazione di malessere vago e apparentemente immotivato, come quando una persona a cui vuoi molto bene ti delude suo malgrado, ma eviti di dirlo per non amplificare la delusione al quadrato. Possiamo solo ricordare, nella nostra gioventù figlia delle decadi sbagliate, gli dei pagani che la morte ha sottratto alla nostra venerazione: non vedremo mai Lux Interior che letteralmente ingoia un microfono strisciando vizioso ai piedi di Poison Ivy, perennemente sedotto dalla sua Gretsch sibilante; perciò ci affanniamo a rincorrere i pochi superstiti ancora in piedi sulla nave dei folli, persino assecondando inconsapevolmente le cicliche operazioni retromani, ora è il 1993 se non te ne fossi accorto. Le vittime sono inevitabili, i nostri martiri laici continuano a effondere il loro carisma infero e i nostri vegliardi più o meno saggi, nonostante l’ottundimento senile dei sensi e il vigore creativo spesso stemperato dal successo ottenuto o troppo a lungo mancato, meritano il nostro tributo di eredi misconosciuti ma, tuttavia, involontariamente salvati. [ ]

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[musica] webziners

www.paperstreet.it

Ce n’era ancora bisogno di questi anni ‘90? di Nicholas David Altea

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enso sia una delle frasi che ultimamente ho sentito pronunciare più spesso. E un po’ mi indispettisce: come se negli anni addietro, non siano ritornati in auge altri decenni importanti, soprattutto per la musica o per qualche genere che li ha caratterizzati. E forse questo ritorno - lento e graduale, come solitamente succede in questi casi – ha avuto un esponenziale aumento, proprio con l’avvicinarsi del 2014. Vent’anni dal 1994, anno in cui non è uscito nessun album dei nirvana – se escludiamo Mtv Unplugged In New York datato 1° novembre 1994 – ma qualche mese prima, il 5 aprile, si è formata una di quelle ferite mai rimarginate degli anni ‘90: quella causata dalla morte di Kurt Cobain e relativo scioglimento della band di seattle. Ciò ha acquisito quasi l’importanza di quelle date che non dimentichi mai, come la scoperta dell’America (12 ottobre 1492) la rivoluzione Francese (14 luglio 1789) o la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989). Ha preso posizione in maniera asimmetrica, in un decennio che ci avrebbe portato in un ipotetico, grandioso e rivoluzionario nuovo millennio. A far pensare alla reale necessità o no di questo ritorno agli anni ‘90, ci si è anche messo il notevole incremento di reunion di quelle band che quegli anni li hanno popolati. Ultimi su tutti i Veruca Salt, ma recentemente anche Slowdive e neutral Milk Hotel si sono rimessi in gioco sui palchi di tutto il mondo. Come volevasi dimostrare, il pubblico li attende e affolla i principali festival estivi (nel caso degli ultimi due citati) per fare un tuffo indietro in quello che, per motivi anagrafici, probabilmente non hanno mai visto ma

solo sentito, magari in un semplice mp3. E se non c’è stato bisogno di ricongiungimenti per alcune formazioni, altre ci hanno provato facendo qualcosa di ben più difficile ma altrettanto coraggioso: pubblicare materiale nuovo. Lo hanno fatto i My Bloody Valentine nel 2013 con m b v e lo stanno facendo altri gruppi in questo 2014: i Pixies con Indie City e gli Afghan Whigs con Do To The Best, per fare degli esempi. Gli anni novanta, se vogliamo dirla tutta, non se ne sono mai andati: hanno ammiccato, qualche volta più vistosamente e qualche volta invece di nascosto, rifugiandosi dove manco ve ne siete accorti, che fossero vestiti, abitudini, o semplicemente nella musica. Non c’è nessuna vergogna a volersi fermare un attimo e riprendere in mano un decennio passato. Sarebbe un po’ come vietarsi di andare a riguardare le vecchie foto di scuola, dove avevamo un taglio di capelli assurdo, che a ripensarci ora, fa anche un po’ ridere. [ ]

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[Musica] webziners

5 film da vedere se vi è piaciuto La Grande Bellezza di Orazio Martino

www.osservatoriesterni.it

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on 9 milioni di spettatori e il 36 % di share, “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino è stato il film più visto in tv dal 2005. Ah, dimenticavo, ha vinto anche l’Oscar come Miglior Film Straniero, ma questo lo sapevamo già. Affievolitosi il clamore attorno ad una delle pellicole più discusse, amate e idolatrate degli ultimi anni, mi pareva giusto consigliarvi una manciata di film capaci di ricollegarsi, per ambientazione e atmosfere, alle pulsazioni mondane della Roma di Jep Gambardella, impersonificato da un Toni Servillo all’apice del suo splendore. Ecco a voi 5 pellicole da vedere assolutamente se avete amato “La Grande Bellezza”. Capolavori del passato e del presente da interpretare semplicemente con un caloroso omaggio al grande cinema italiano. Buona visione! La Dolce Vita - regia di Federico Fellini, 1960 La Roma del 1960 non è poi tanto diversa da quella dei giorni nostri. Uno dei capolavori del cinema di Federico Fellini, Palma d’Oro al 13esimo Festival di Cannes. Attori memoribili e una miriade di sequenze entrate di diritto nell’immaginario cinematografico contemporaneo. Sontuoso.

8½ – regia di Federico Fellini, 1963 Forse il film più influente nella carriera del grande cineasta italiano, ma anche quello più moderno, sensuale e inafferrabile. David Lynch ha preso tutto da qui, Sorrentino anche. L’Uomo In Più – regia di Paolo Sorrentino, 2001 L’esordio cinematografico del regista napoletano. Ispirato alle vicende di Franco Califano e a quelle del calciatore Agostino Di Bartolomei, “L’uomo in più” è interpretato da un Toni Servillo in stato di grazia, che piazza uno dei monologhi più devastanti nella storia del cinema italiano.Senza dimenticare la regia freschissima curata in ogni minimo dettaglio dal Paolone nazionale e una colonna sonora che dispensa brividi ed emozioni. Reality – regia di Matteo Garrone, 2012 Un film sulla disillusione dei giorni nostri diretto dall’illustre collega Matteo Garrone. E’ ambientato a Napoli ed è animato da quelle atmosfere surreali, malinconiche e circensi che hanno fatto la storia del grande cinema italiano. Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2012.

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Il pranzo di Ferragosto – regia di Gianni Di Gregorio, 2008 Una chicca, ma anche uno degli esempi più riusciti di nuova commedia all’italiana. Insomma, una Grande Bellezza in versione lo-fi tra dialoghi memorabili e cascate di vino bianco. [ ]


[musica] webziners

sante in casa (roba francese soprattutto), ma è solo da quando mi sono messo effettivamente a produrle che ho un’idea un pelo più precisa di cosa c’è in giro.

breakfastjumpers.blogspot.it

How Do You DIY? di Carlo Emilio Gadda

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ow Do You DIY? è la rubrica che vi porta a scoprire il mondo delle autoproduzioni, fatto di persone che si rimboccano le maniche e dal niente pubblicano fanzine, organizzano concerti e fondano etichette discografiche. Cominciano senza avere un soldo in tasca e senza alcuna esperienza, solo una passione patologica. Oggi voglio parlarvi di Giacomo Bagni, un simpatico giovane barbuto e genovese a cui piacciono i gruppi che urlano e i vecchi maglioni. Giacomo ha fondato una casa editrice e organizza ogni anno un festival per fanzine e qui sotto gli ho fatto qualche domanda. Partiamo dal principio. Bradiponauta (bradiponauta.tumblr.com) nasce ufficiosamente nel 2009 quando, insieme a un paio di amici, si decide di fondare una casa editrice. Eravamo sbronzi e volevamo fare qualcosa che avesse nel logo un bradipo con il casco da astronauta. Pensavamo facesse molto ridere. L’idea in realtà è rimasta parcheggiata per tre anni, fino al mio incontro con il buon Alessandro Ripane (alessandroripane.com). Ci siamo incrociati fuori da un concerto e mi ha fatto vedere questo taccuino in cui aveva disegnato una serie di animali intenti a lavorare. Dopo aver visto il Gufo Impiegato e il Gallo Skinhead ho capito che era giunta l’ora di tirare fuori dal proverbiale cassetto l’idea di Bradiponauta. Come sei venuto a contatto con questo mondo di stampe, fanzine e illustratori? Al mondo delle fanzine mi sono avvicinato soprattutto come produttore. Libri e cose di carta in genere esercitano da sempre su di me un’attrazione quasi morbosa e avevo già qualche pubblicazione interes-

Come ti organizzi? Quanto ci spendi in termini di tempo e di portafoglio? Fino ad ora ho fatto tutto un po’ improvvisando e solo adesso sto cercando di organizzarmi per essere un pochino più professionale. I costi di stampa per una fanzine in bianco e nero sono sorprendentemente bassi, considera che spendo circa 3 euro per 36 pagine in 150 copie. Riguardo ai tempi invece dipende molto dalle persone con cui hai a che fare, c’è chi arriva con un progetto già pronto come Paolo Cattaneo (paoloimmaginario.blogspot.it/) e chi invece ti fa penare un po’ di più. Negli ultimi tempi sto cercando soluzioni per dare un tocco più personale a quello che produco, con una lavorazione finale da fare a mano. Vorrei arrivare ad avere una maggiore regolarità nelle uscite, che mi consenta di trattare quel che faccio quasi come fosse un lavoretto part-time. E il Gelati Fanzine Festival come nasce? Com’è andata la prima edizione? Gelati 2013 è stato una figata. Genova è piena zeppa di illustratori e fotografi di talento, ma manca una vera cultura fanzinara e mancava un evento dedicato solamente alla microeditoria. Riuscire a metterlo in piedi (con Jacopo di Lok Zine e la mia “socia” Federica) per me è stato già un successo. Tra le cose da non fare mai più sicuramente c’è quella di organizzare un festival che in due giorni si sposti in tre luoghi: un delirio logistico! Quest’anno per fortuna abbiamo a disposizione il Teatro Altrove, dove si terrà tutta la due giorni di festival. È un luogo in cui mi sento a casa il che mi permette di gestire gli spazi come meglio credo e questo sicuramente mi sta rendendo la vita più facile. Che altro dire? Tutti al Gelati Fanzine Festival il 13 e 14 Giugno a Genova al Teatro Altrove. Info su gelatifanzinefestival. tumblr.com/ []

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[ILLUSTRAZIONI] FUMETTI

ILVOCIFERO Progetto di Walter Somà, Fabio Capalbo, Aldo Romano Titolo del disco AMORTE Il fumetto è stato disegnato da Giò Rabuffetti Parole di Aldo Romano

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[ILLUSTRAZIONI] FUMETTI

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[ILLUSTRAZIONI] FUMETTI

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[ILLUSTRAZIONI] FUMETTI

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[illustrazioni] la dimensione eroica del microbo

la dimensione eroica del microbo di Maura Esposito

Nel giorno del tuo amore nel giorno del tuo amore il ministro delle uccisioni comanda in dono l’onda di sumatra un’epica emorragia d’amore tutti sommersi, tranne i poeti che galleggiano con un frammento di antimateria tra le dita, che ha il loro volto Il venerdÏ santo accompagnata da uno strepitoso insulto passa la processione. Il mantra dei sommersi emerge dalle loro gole fino a raggiungere la gigantesca notte fab blondie rich skinny bitch prega per noi peccatori [ ] JK | 86


[illustrazioni] la dimensione eroica del microbo

| pic by Maura Esposito

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[illustrazioni] punto focale

Il Guardiano, particolare da Silhouettes N.8, 2014, inchiostri naturali su tela cm 100 x 100 www.giuliablasiart.blogspot.it

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[illustrazioni] punto focale

PUNTO FOCALE di Giulia Blasi

Il guardiano

Succedono molte cose in me Tante mi domandano D’altra parte molte altre Silenziose si stanno. In avanti Pura vocazione Arditamente spingono

Per cercare la nascita in forma fisica, Per procurarsi gioia e dolore Dall’atto stesso Di mirare alla luce. [] JK | 89


[immaginario] Sommacco

sOMMACCO

è Luca Palladino, Giorgio Calabresi, Francesca Gatti Rodorigo www.sommacco.wordpress.com

Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.

La madonna dei filosofi di Luca Maria Palladino

C

i ho tra le mani un vecchio bouquin pescato in uno di quei mercati dell’usato che tanti ce ne sono, ché tanta è la nostalgia. I miei occhi, invece, se ne stanno inquietamente a passeggio per le vie infinite di internet cercando uno spunto per scrivere qualcosa di sensato riguardo La Madonna dei filosofi di Carlo Emilio Gadda (ilbouquin che ho tra le mani), allorquando incontro la scheda del racconto che vorrei recensire nel sito dedicato allo scrittore milanese (solo a Milano ci sono dei letterati così). La scheda fa così: “Maria Ripamonti, ultima discendente di una famiglia nobile decaduta, promessa a un giovane partito volontario per la Prima Guerra Mondiale e poi disperso, non intende ascoltare i genitori che vorrebbero sposi l’avvocato Pertusella. L’ingegnere Cesare Baronfo, titolare di un azienda di rappresentanze ereditata dal padre, vittima di un’inguaribile nevrosi causata soprattutto dalla passata relazione con Emma Renzi che gli ha dato un figlio, decide di vendere l’azienda per dedicarsi alla filosofia. Maria Ripamonti e l’ingegnere Baronfo si incontrano e si frequentano. Ma, di ritorno da una gita in macchina, subiscono un agguato di Emma Renzi che ferisce gravemente l’ingegnere sparandogli con una rivoltella.”

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[immaginario] sommacco

Non incontravo una scheda dai tempi grigi della scuola mia. Questo incontro mi ha fornito un impasto di sensazioni, dove la percentuale maggiore degli ingredienti è rappresentata dall’invidia: io una scheda non la sono mai riuscito a fare nella scuola mia. La chiarezza è una qualità che mi sembra irraggiungibile: che bravi i chiarificatori! Poi mi sono chiesto, subito appresso, per via del mio inguaribile ottimismo, se sia importante nel Gadda la trama, la scheda, il punto di partenza e il punto di arrivo, e le indicazioni: destra sinistra centro. Quand’anche ci si muove, la trama nel Gadda, e in particolare ne La Madonna dei filosofi, non mi sembra affatto la caratteristica principale. Forse è proprio per la mancanza di indicazioni che in giro corre voce che leggere il Gadda sia assai difficile. In questa epoca nostra in cui si usa il navigatore satellitare financo nel proprio cortile di casa, dove perdersi non è lecito, non stupisce questo assunto; cosicché il Gadda non lo si riesce ad accatastare, egli non vi compare nei registri del catasto: ecco cos’è. Vero è che entrare in una frase del Gadda è come passeggiare in una strada a forte pendenza, in cima ci si arriva col fiato grosso, come al Castelletto: la bicocca dei Ripamonti. Ma è anche e soprattutto vero che entrare in una frase del Gadda e perdersi in essa è dire di sì alla vita. Leggere il Gadda è come entrare in un gomitolo dove non è necessario una fine e un inizio, è necessario esserci. Nel gomitolo gaddiano pullula la vita. Quando si entra in una frase del Gadda, tra un sobbalzo e l’altro, non è impossibile, è possibile, imbattersi in qualcosa che, per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere chiamata Arianna: l’amata parola, la luce, il paradiso del lettore. Penso che il Gadda sia per me una chambre de bonne dell’indispensabile, una casa sull’albero della madonna, una piccionaia del messaggio di Cristo, un pensatoio per praticare la ginnastica da camera: l’esercizio spirituale; una bicocca, già castello, che giustifichi una cassaforte dove riporre il salvadanaio dell’anima mia. Sicché, ogni volta che c’ho una vaga sensazione di malessere, io vado al gomitolo, io vado alla vita, io ormeggio al Gadda. Ritornando per un momento alla scheda, le vite a pezzi di Maria Ripamonti e dell‘ingegnere Baronfo si incontrano insperatamente nel salotto del romanticismo perduto (galeotta fu l’inserzione) fino all’arrivo dell’ostacolo, della realtà, della rivoltella, che qui il Gadda chiama

Emma Renzi: d’altronde un Renzi compare sempre a guastare le feste. Il racconto gaddiano termina con l’aspro commento di M.lle Delanay, un’amica “non eccessivamente francese” della famiglia Ripamonti. Qui il Gadda è come se lasciasse alla Delanay l’inchiostro, la penna e il calamaio e si facesse da parte. Così M.lle Delanay ci dà la sua versione dei fatti della disgraziata vicenda ”si bourgeois”, un solerte sfogo femminile: elle avait du linge, la petite! Un finale che è un ennesimo guizzo gaddiano. Ciò detto e a mio avviso, il Gadda dovrebbero farlo santo come le feste o come Agostino d’Ippona, in ragione della sua sconfinata, anzi infinita, generosità. Perdio, Gadda mi obbliga all’atto. Mi obbliga ad entrare nel mio dedalo, ad arrivare in cima seppur col fiato grosso, ad uscire ed entrare, ad entrare ed uscire, liberamente libero di perdermi, nelle e dalle sue stoiche frasi. Io per me, lettore da strapazzo, io per me il Gadda ha il potere di unire il cielo della Italia: non è questo forse un miracolo? L’unità della Italia l’ha fatta il Gadda! Con il Gadda siamo tutti e soltanto Italiani: la mia patria è il pomidoro, è la pasta e fagioli; la mia patria è Carlo Emilio Gadda. “Ma nel castello delli antichi Signori, dopo il veleno antico, il ferro, e i libri del male, erano dolci, nobili donne: ed era la bimba che tanto aveva sognato, e così amaramente pianto: e l’immagine benedicente di Lei, che a ognuno sovviene: e nell’ora di male e di guerra e nell’ora che ha morte, stanco, il nostro pensiero mortale.” Carlo Emilio Gadda, La Madonna dei filosofi. [ ]1

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Articolo pubblicato su www.smemoranda.it

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[immaginario] Sommacco

A matita

di Giorgio Calabresi

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a sera, quando era quasi ora di mettersi finalmente a letto e riposare, lo si poteva sentire leggere ad alta voce Moby Dick, quasi come avesse la speranza di essere ascoltato dagli altri intorno a sé, per imbarcarli con lui sul Pequod e reclutarli per la caccia alla bestia. Proprio come avrebbe fatto suo nonno, se avesse saputo leggere, per raccontare una storia al nipote in adorazione con gli occhi assetati e scuri. Poi lo si poteva vedere impugnare la piccola matita smangiucchiata e ormai corta, una matita che veniva da chi sa dove e con quella inseguire e cerchiare solo alcune parole: quelle più misteriose, che non capiva, come un giovane scolaro col senso del pudore e il bisogno di prendere sul serio una storia, anche quella di una balena bianca cattiva che cattiva non è. Un gesto semplice, un tratto breve e netto che può mettere a disagio come fa la verità, un gesto povero ma potente, come togliersi il cappello in segno di rispetto per qualcuno. Quando trovava una parola dal suono sconosciuto si fermava, la ripeteva ad alta voce e la isolava. Un segno calcato accorciava la vita della sua matita e quella della sua sete. Ma pensare di infilzare l’ignoto con la punta di una matita è come pensare di scagliare un arpione contro una balena, è richiesta una certa dose di coraggio e latitanza di senso pratico. L’esito dell’epica spedizione non importa veramente, quello che conta è ritrovarsi da soli in mare aperto a duello impari contro la paura e per dio battersi senza fuga né riparo. La lotta non prevede misericordia ma lo strazio insistito del rivale. Una vittoria porterebbe solo un metro più in prossimità di un nuovo conflitto, mentre una sconfitta sarebbe perfino più amara della morte, essa assumerebbe le sembianze orribili dell’eterna schiavitù alle proprie manchevolezze. Sulla scia di questi pensieri indomiti lo si poteva vedere riporre il libro a terra, smorzare lo stoppino imbevuto d’olio del lume, che a stento illuminava l’interno rosso scuro del ventre di balena nel quale si trovava, per addormentarsi lentamente, cullato dal moto dolce e in fondo rassicurante del respiro della bestia. [ ]

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[immaginario] sommacco

Come Kim Gordon di Francesca Gatti Rodorigo

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orenzo ed io parliamo a voce alta da circa un mese senza capirci niente. Non sentiamo cosa diciamo, non ne capiamo né il come né ci accorgiamo del quando. Imitiamo la gente che sta bene insieme, facciamo le cose che fanno ma peggio. Ogni tanto ci stupiamo del cominciare bene una cosa, un risveglio, una passeggiata col sole che cala. D’improvviso è la noia che cala. Dammi una tregua, un thé freddo con un ombrello, un pezzo di stoffa bagnata. Svegliami quando tutto è finito, quando al “me ne vado” non segue più un “aspetta”. Fermami quando non c’è più fretta. Ti ho chiamato tre volte, ma in un mese. Tu dici che basta, basta che sia intenso. Io dico che svengo. Fammi tornare ad essere viva, fammi tornare ad essere figa, Come Kim Gordon coi Nirvana dopo i sessanta. [ ]

| pic by alekseeve

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[IMMAGINARIO] TROPPO TARDI PER GLI ONESTI

troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci | 2ue

L’Orientale

Da una lunga camminata Ispirato al silenzio dopo la guerra Musica consigliata: Judy Garland – You’ll never walk alone Bevanda abbinata: Tè nero

S

ono partita quando ancora ero bambina. Di quel giorno ricordo solo una canzone triste. Forse era il suono del vento che tentava un goffo approccio con alcune foglie. O forse soltanto la mia immaginazione. Non avevo molto con me, neanche i miei genitori. Persi in un lontano non so che giorno, non ricordo che anno, non saprò mai che mese. Quando? Non ha più importanza. Ho iniziato a camminare, a camminare, a camminare… Questa è l’unica parola che non si è mai fermata, neanche il tempo per un tè, o per il profumo di un po’ di tabacco acceso. Dicono che se ti fermi sei perduto: vale lo stesso per me? Io mi sono già persa. Io sono stata già persa. No, fermarmi non è per me, non ha importanza. Vado, cammino, rallento, proseguo. Sono lunghe queste strade, lunghe e strette come vicoli di un funambolo. Ho calpestato rami, spine, uomini, pensieri parole opere e omissioni… non per mia colpa. La gente mi vede passare, alcuni li sento parlare, altri non hanno il coraggio di guardare. Le voci sono il ritmo dei miei passi. Un uomo, un giorno, ha detto: “Guarda, sta arrivando l’Orientale”. Ricordo ancora il suo tono basso e il suo timbro rauco, sporco. Non so perché l’ha detto, forse per i miei tratti marcati. Non conoscono nulla di me: supposizioni dette nell’aria del giorno.

Solamente la mia penna sa chi sono. Questa penna che scrive e tratteggia, e scrive. Scrive e si corregge. Scrive e si cancella. Scrive e finisce con un punto. Così. Trascino in me ogni sguardo, ogni notte, ogni quadro che mi ha rapita. Pesano le speranze, pesano i desideri, pesano i ricordi che non riesco ad abbandonare. Pesano, pesano fin troppo. Verrà il momento che le mie domande crolleranno, verrà, lo sento! Non ora, ma verrà. Forse nella prossima vita. Perché una prossima vita ci sarà, ci deve pur essere. Ho diritto a un’altra vita. … Ora mi andrebbe una tazza di tè. … Uno sguardo, lettore sconosciuto. Uno sguardo ed io non ti tradirò, mai. Giuro che non lo farò, non valgono incroci. Immaginami ancora, lungo la tua strada, anche solo per un momento. Vedrai che ci sarà un po’ di tempo, anche per noi. Non tradirmi, ti prego, non farlo. E vedrai che un giorno, un giorno, poi, chissà, quando questo mio filo cadrà per mano di un volto straniero, io allora potrò continuare a camminare, a camminare, a camminare ancora. Nei tuoi occhi. E un giorno, un giorno poi chissà, quando ti ritroverai seduto nell’anima più intima e triste della notte, ascoltando i dialoghi più sconci del vento, non vedendomi passare, ti chiederai… Qual era il suo nome? [ ]

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[immaginario] troppo tardi per gli onesti

| pic by 2ue

wearedroll@gmail.com

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[immaginario] INTERvISTE IMPOSSIBILI

INTERVISTE IMPOSSIBILI di Alessandro Barbaglia

Il Tema

Q

ui sono le cinque e io ho già paura di andare fuori tema. Concentrati, abbassa la testa sul foglio: non andare fuori tema, non andare fuori tema, non andare fuori tema! Ma anche dire che son le cinque non so se sia a tema o meno. Margini, allora, servono margini, devo trovarli perché i margini servono a quello, e oltre i margini non è il caso di scivolare. Stai sul pezzo: non andare fuori tema, non andare fuori tema: non andare fuori tema! Il tema. Già, il tema. Qual è il tema? Mi sono distratto. Quando l’hai detto non ho sentito. O son svenuto. O il tema era stare attenti a quel che dicevi e io ero già fuori tema. E ora posso star dentro una cosa che non so cos’è? L’aria, ad esempio, lo so che cos’è e ci sto dentro bene come lei sta bene dentro a me. Ci viviamo a vicenda ognuno entro i margini dell’altra. E’ un bel tema, io e l’aria. Svolgimento: respiro. L’acqua, per fare un altro esempio, nei margini dell’acqua però ci sto dentro meno bene di quanto io non faccia con l’aria. Devo nuotarci dentro, all’acqua, per starci dentro tenendo dentro quel che mi serve per non andare fuori, oltre i margini del mio essere vivo: l’aria. Mi sa che sto andando fuori tema. O sto mischiando due temi: aria e acqua. Il problema è che non conosco il tema. A no, forse me lo ricordo. E’ facile. Il tema è semplice, il tema è: il tema. Quel foglio bianco che ti guarda pallido e interrogativo come se fosse più teso di te e più di te volesse sapere cosa scriverai. Perché ha l’ansia di sapere che forma gli darai, in che cosa lo trasformerai. Che cosa sarà da grande. Che margini gli descriverai entro i suoi

margini di essere foglio libero. E’ per quello che il tema prima di essere il tema è così pallido: vive l’ansia di non sapere quel che è, ha paura di scoprire cosa sta diventando. E’ un viaggio, il tema, e il viaggio si fa sempre almeno in due: tu e il te stesso che stai diventando. E bastano quei due per non sentirsi solo. E sentirsi a disagio entro i margini di una compagnia da cui si vorrebbe scappare. Io una volta quando la professoressa come titolo del tema dettò: “Descrivi cosa vedi fuori dalla finestra”, io dalla finestra ho guardato fuori. Non male, ho pensato. E’ un bel tema: venti bambini che guardano lo stesso cortile ma lo descrivono ognuno dal proprio punto di vista. Saranno venti cortili diversi. Ho pensato. Non male. Un bel tema. Arguta questa prof. Solo che io ho visto un muro. E sopra un murales.

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[immaginario] INTERVISTE IMPOSSIBILI

E dentro nel murales c’era scritto “Giulia sei una troia”. “Giulia 6 1 troia” per la precisione. Io temo che a quel punto il tema sarebbe stato parlare di questa Giulia. Perché era bella quella scritta. Cioè, era brutta, per Giulia almeno, ma a me piaceva. Mi piaceva perché mi raccontava la trasgressione. Non quella di scrivere sui muri, che me ne frega a me di scrivere sui muri, e nemmeno quella di essere troia, che poi secondo me sta Giulia tutto era tranne che una troia perché per far scrivere una cosa del genere a qualcuno significa che a questo qualcuno non gliel’hai data e l’hai data a un altro. E una troia non se la tiene, la dà a tutti. Insomma la trasgressione non era questa: la trasgressione era quella di raccontare alla prof di sta Giulia troia o no rispondendo alla domanda “descrivi quello che vedi fuori dalla finestra”. E quello sarebbe stato trasgredire al tema restando nel tema. Io non so oltre che finestre guardasse Giulia. Non so nemmeno chi fosse questa Giulia. La immagino bella, però. Una della quale io avrei anche potuto innamorarmi e darle la responsabilità della mia felicità. E delle mie rabbie capaci di graffiare i muri di vernice, se fosse stato necessario. Alla fine andai fuori tema quella volta e parlai del mandorlo fiorito che vedevo fuori dalla finestra. Presi 4. Se avessi parlato di Giulia era meglio.

Anche perché il mandorlo in realtà era un ciliegio. Ma io studiavo italiano, mica botanica. Va be. L’italiano. Il tema è una brutta cosa perché dovrebbe insegnarti l’italiano e vieni valutato per quel che vedi oltre che per come lo scrivi. E’ un po’ come il tema dell’acqua e dell’aria, dovrebbero essere due valutazioni differenti. Così mi sembra brutto. Anche perché il tema del brutto è importante, più di quello del bello: l’italiano ha più sinonimi per la parola brutto che non per la parola bello. Giuro. Li ho contati. E allora perché io devo star dentro i margini di una lingua che ha più parole per dire brutto che non per dire bello? Se le parole ci dicono qualcosa, ognuna una cosa differente peraltro, perché in italiano ci sono 61 sinonimi di bello e 75 sinonimi di brutto? Perché? Abbiamo bisogno di descrivere più cose brutte che cose belle? Gli Inuit, ad esempio, hanno 46 parole differenti per dire neve perché hanno tanta neve; noi abbiamo tanto brutto? In realtà non è nemmeno vero gli Inuit per dire neve hanno solo solo due parole: Aput, che significa più o meno neve caduta, e Qanik, neve in cielo. Solo due parole che, a conti fatti, sono il doppio di quelle che abbiamo noi. Ma loro hanno inevitabilmente molto più del doppio della nostra neve. Loro hanno due parole per dire neve, noi abbiamo più parole per dire brutto di qualsiasi altra lingua al mondo. A me questa cosa fa paura. Non potremmo avere solo più neve anche noi? Che brutto tema potrò mai scrivere mai se statisticamente pescando una parola a caso dal sacco di tutte le parole esistenti ho più probabilità di pescare un sinonimo di brutto che non uno di bello? E’ sconfortante. Anzi: è brutto. Ecco, appunto. Poi penso che il tema allora deve essere questo: la lingua è viva. Toccherà esserlo anche a noi. E se ci son più parole per brutto che per bello, significa che ci serviranno parole nuove. E belle. Sono le sei. Il tema era: “Scrivi quello che pensi”. Tempo: un’ora. E’ andata bene, io credo. Almeno non sono andato fuori tema, credo. Ciao.

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[storie] sbevacchiando pessimo vino

SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO di Paolo Battista

In agguato

Parcheggio la mia Clio nera e mi chiudo nella giacca rigorosamente nera dal collo alto e liso. Al bar di Shearly Tick sta parlando con un amico sorseggiando uno spumantino fresco. “ Come stai? “ gli grido dall’altro lato della strada in procinto di attraversare. Tick mi guarda e mi sorride con il suo faccione bonario e gli occhi cerchiati da decine di seghe e decine di canne. Ultimamente non si è visto tanto spesso; qualcuno, non ricordo chi, mi ha detto che forse ha trovato lavoro in una fabbrica di piatti. Ha trentacinque anni Tick e questo è il suo primo vero lavoro, non ha soldi, non ha una donna dopo che la sua fiamma storica l’ha lasciato per un suo vicino di casa sfornando marmocchi a ripetizione, e ha perso entrambi i genitori nel giro di pochi mesi. Che inculata! Poi chiaramente ci sono i vizi, prima di tutto l’alcol e quando può la roba, ma nonostante ciò riesce ancora a sorridere e fare battutine. “ Da quanto tempo, che fine avevi fatto?, mi fa buttando giù il suo spumantino. “ Io? “ gli dico , “ tu piuttosto? M’hanno detto che hai trovato lavoro? è vero si? “ “ E’ vero “ sbotta Tick, “ mi alzo la mattina alle sei e torno a casa alle sei di sera stanco morto, se questo è lavoro allora si, ho trovato lavoro… “ Io e Tic abbiamo trascorso molto tempo insieme, prima di trasferirimi a Roma; e si stava bene, ci si divertiva, certo eravamo più giovani e stupidi, ma è piacevole ogni tanto pensare ai giorni felici quando tutte le esperienze erano inattese e la vita ancora ci sembrava bella da vivere. “ Porca puttana, dev’essere tosta “ faccio io. “ Si cazzo, ma ci si abitua a tutto “, mi fa, “ e poi una volta finito prendo una bottiglia e torno a casa, non ho voglia di vedere e parlare con nessuno, bevo e basta

“, ghigna Tick porgendomi il bicchiere per un sorso, “ prenditi qualcosa anche tu! “. “ Occhei “, e seguo il consiglio. Chiedo una vodka a Shearly che mi guarda con i suoi piccoli occhietti da lucertola e ritorno dal mio vecchio amico. “ Sto aspettando Stito “, sghignazza chiudendosi la cerniera del suo giubbino piumato, “ ho preso una cinquantina di grammetti d’erba…ma già doveva portarmeli ieri sera quel farabutto “. “ Occhei “, gli faccio, “ che dici se mi aggancio e ne prendo qualche grammo con te? “ “ Certo che si “, bastonandomi la spalla con un colpetto secco, “ devo darne cinque al Muto e il resto ce lo dividiamo ”. “ Bene “, faccio io. “ Bene “, fa lui. E ci scoliamo i nostri drink, prendendone altri due. Dalla tv del bar si sente Delivery dei Babyshambles mordere l’aria e due fintebionde ancheggiano ordinando vino bianco. Sono le sei del pomeriggio e l’aria è fredda e umida e viola e il fiume Sabato trascina sul suo minuto corso d’acqua tutta la disperazione di una vita senza scampo, infiocchettata e illuminata per l’occasione. Sento un brivido trafiggermi la spina dorsale, passo in rassegna un po’ di vecchi ricordi ma non faccio partecipe Tick che continua a bere spumante. Certe volte sono proprio inutili i ricordi, peggiorano solo la situazione, e non fanno che aumentare la paura e il panico. Poi Tick si avvicina e mi confida che ha bisogno di una donna, che ormai la sua ex è storia passata ( anche se quando la vede ci sta ancora un po’ male ) e che in questi giorni si sente più battuto del solito. Io annuisco e cerco di comprenderlo. Offro un altro giro e cerco di farlo sfogare. “ Ad aprile fanno tre anni anni che sono morti i miei “,

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[storie] sbevacchiando pessimo vino

mi dice abbassando il tono della voce come se un dj avesse girato la manopola del volume. “ Non posso capirti ma penso che dev’essere tremendo “, gli faccio buttando giù la vodka, “ la morte è in agguato e prima o poi toccherà anche a noi, cazzo quando meno te l’aspetti è pronta ad infilarti il suo bastone su per il culo “. Quel pezzo di figa rossa di Florence and the machine canta dalla luna argentata che penzola dalla tv. Prendiamo subito altre due vodka e ci buttiamo fuori per fumare una sigaretta. “ Si brutta storia “, sbuffa Tick, “ non l’auguro a nessuno, ma questa è la vita no? cosa possiamo fare? “ “ Un cazzo “ sbotto mordendomi la lingua, “ non c’è proprio niente da fare o forse dovremmo solo cercare di vivere un po’ meglio di come hanno vissuto loro… “. “ Mhhhh non lo so. In questi giorni poi non ho voglia di parlare con nessuno “ continua Tick, “ voglio solo scolarmi qualche bottiglia di vino e fumarmi la mia erba. Poi se recupero anche un po’ di roba meglio ancora se no va bene così “. “ Ti capisco “ faccio io cercando di acquietare il dolore allo stomaco con un altro bicchiere di vodka. Poi lo vedo schizzare verso la macchina di Stito che si parcheggia poco più avanti del bar. Dopo cinque minuti riscende con un bustone verde tra le mani che si ficca in tasca. Con un sorriso ebete recupera una cartina e mi chiede le chiavi della macchina per provare il materiale. Ci sediamo in macchina, spezzetta una cima d’erba con la punta delle dita facendomela prima annusare. Poi c’infila dentro giusto una punta di tabacco per non farla spegnere ogni due secondi e lecca come se stesse leccando una fica. Poi mi fa: “ tiè, accendila tu! “, infilandomi la canna tra le labbra screpolate. Io faccio un bel tiro a pieni polmoni e sputo fuori un leggero colpo di tosse. “ Buona eh? “, sghignazza Tick con la bava alla bocca. “ Cazzo si “, faccio io, e penso che certe volte ci vuole poco per rendere felice un uomo, piccole cose che riscaldano l’anima rovinata. Gli passo la canna e vedo nei suoi occhi un guizzo di luminescenza che si fa sempre più iridescente ad ogni tiro che fa. “ E si, buona “ conferma Tic, che poi inizia a tossire come un asmatico. Dopo un’ora e tre canne prendiamo un’altra bottiglia di vino per dissetarci l’ugola e Tick continua a lamentarsi della vita di merda e della sfortuna che da tutta una

vita non fa che tampinarlo. “ Almeno hai trovato lavoro! “ gli dico per tirarlo un po’ su, ma Tick aggrottando la fronte stanca e rugosa mi lancia un’occhiataccia tagliente e dopo qualche secondo sputa: “ non c’è niente di bello nel lavorare dieci ore al giorno e farsi il culo per qualcun altro “, e non posso che dargli ragione. La vita è uno schifo, mi dico, e quella di Tick fa un po’ più schifo delle altre. Poi prendo i miei cinque grammi d’erba e torno a casa; non prima di aver vomitato tutta la carne del pranzo e la vodka del pomeriggio e la vita da schifo, nella prima aiula della piazza. Sbuah!!! [ ]

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[storie] SUONATORE D’AUTOBUS

SUONATORE D'AUTOBUS di Carlo Martinelli

CAPITOLO 3

I

l giovane crescibudella e l’altro camminavano sull’asfalto sbattendo i piedi e dondolando le spalle. il signore masticava una gomma americana e guardava di sottecchi l’erbacce sfregolanti nel

sole ai margini della strada. - e che andiamo a fare? giovane? - sta’ zitto va’. - e scuoteva la braccia e rideva. - lo sai che non ci siamo più? che siamo morti?

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- che dici? mi vuoi far prendere un colpo? - scherzavo, dai! - e tirava fuori dalla tasca una piccola bara di metallo, gliela tirava addosso, rideva ancora.


[storie] SUONATORE D'AUTOBUS

- e che è questa? - e che ne so io? - e che vuol dire? - e certo che tu vuoi sempre sapere tutto.. - e mi pare il caso.. - e allora s’incazzava e se ne andava, ma poi alla fine tornava. - e vuoi sempre sapere tutto, e credi sempre di poter sapere tutto, e non sai, che non vuoi sapere niente e che neanche sai niente. la darsena era un ammasso di colori fosforescenti che andavano dal rosa al verde scuro, e questi colori mutavano l’uno nell’altro in continuazione con il sole. i ragazzi la costeggiavano, l’altro con il mento alzato e le mani sui fianchi, facendo l’idiota, ed il giovane centotrapani a testa bassa e con le mani in tasca, stava pensicchiando o almeno voleva darsene il tono. le barche arrugginite sbattevano contro il cemento armato lanciando brevi scintille: ad ogni scoppio emergevano dei piccoli pesci d’argento dall’acqua salmastra, si guardavano attorno come appena svegli, scomparivano. di tanto in tanto un grido roco rompeva il silenzio, che per il resto si faceva i cazzi suoi. i ragazzi erano nel centro perfetto del villaggio e gli scarponi di plastica sgretolavano lo strato sottile di sabbia rossa che copriva il vialone delle azalee. l’altro afferrò un cartello stradale da terra e lo lanciò, ridendo, ricadde pochi metri più in là con un rumore triste. l’altro era arrivato qualche anno fa col mare, era un ragazzino dai capelli crespi. madre e nonna l’avevano trovato avvolto nelle alghe sulla spiaggia e non avevano saputo decidere se fosse uomo o

pesce. avevano dato fuoco a tutto e s’erano andate a sedere poco più in là a guardarlo bruciare. poi s’erano scordate di lui ed erano tornate a casa. dalla finestra che dava sulla spiaggia il giovane staccareti aveva visto uno spirito del fuoco correre verso il villaggio gridando e sputando fiamme. era caduto di corsa per le strade al suo inseguimento. lo spirito scappò fino alla darsena avvelenata, ci cadde dentro e morì morto mortalmente, lanciando il suo spettro nel cielo in forma di fumi venefici. il giovane schioccaratti si era affannato a cercare di raccoglierlo agitando un colapasta nell’aria, ma i fumi colavano dai buchi del colapasta in ogni direzione. dopo qualche ora l’altro era semiemerso dall’acqua colorata, la pelle carbonizzata, i capelli smangiati e l’occhio vitreo. aveva riso e l’aveva abbracciato. da allora in poi fu solo festa tra loro. - vieni, vieni, amico pesce, che facciamo una festa, dai, su, non ti fare pregare. che tanto lo so che là sotto ti annoi, che ci stai a fare? è tutto buio e uguale, vedi caso passa un pesce più furbo, ti mangia, poi che ne sai.. un giorno ti trovi pure solo che tutti gli altri pesci se ne vanno, e tu che fai? ah guarda che è brutto star soli, sai? fa tanto freddo ed è tutto così triste. che ne so, dici? eh, lo so io che ne so, che è una vita lunga e strana che non sto mai solo. sempre luce e gioia, pesce mio. li vedi quei cosi là sopra? gli uccelli? eh, sì. quelli una volta erano pesci d’acqua come te, poi un bel giorno hanno capito che non ci guadagnavano niente a starsene là a sdormicchiare come degli scemi e sono venuti qua su e gli sono cresciute certe ali.. ma

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l’avevano trovato avvolto nelle alghe sulla spiaggia e non avevano saputo decidere se fosse uomo o pesce. avevano dato fuoco a tutto e s’erano andate a sedere poco più in là a guardarlo bruciare.

”

certe ali! li vedi, adesso? volano su intorno al sole quando hanno freddo e sì stendono dietro la luna quando hanno caldo. e manco si ricordano dell’acqua, sai? pensano di essere nati per aria, a metà strada tra una foresta bucata ed un uomo senz’occhi intento a raccogliere le ulive. ed alla fine il pesce si convinceva e usciva dall’acqua, l’altro tirava fuori lesto un coltellaccio e lo tagliava a metà, il signor staccaneretti prendeva sempre la parte della testa e l’ingoiava in un boccone solo. poi i ragazzi prendevano le squame e le lucidavano, si coprivano i volti con esse e andavano a correre per il paese, gridando: - è la fine del mondo, è la fine del mondo, scappate ! tanto a che serve scappare? ma nessuno li stava a sentire, perché non c’era nessuno. [ ] 


[TEATRO-Libri] RUBA QUESTO LIBRO

RUBA QUESTO LIBRO di Marco Taddei

Centuria

di Giorgio Manganelli (Adelphi, 1995, ottava edizione)

S

e mandassi una rosa sarei un disciplinato amante che si ricorda dell’amata, se gliene mandassi dieci sarei un infervorato corteggiatore, ma se gliene proponessi cento cosa sarei? Un innamorato di quale genere? Avventato, morboso, pazzo? E se scrivessi una romanzo? Se su quel romanzo ne innestassi altri dieci? Se facessi un libro tutto composto da cento romanzi arabescati uno sull’altro nell’equilibrio minimo e perfetto della penombra mentale? Centuria è una biblioteca amena e smodata, composta da ben cento per niente ortodosse storie battute ciascuna a macchina, bianca e volta su di un solo foglio, da un solo autore, il baldanzoso stegosauro Giorgio Manganelli. Saltiamo i convenevoli e facciamo un passo indietro, per capire meglio: Manganelli, classe ‘22, poeta, anti-romanziere, immobile reporter, scheggia impazzita di quel Gruppo 63 che farà impazzire la letteratura italiana e canto del cigno del genio italico in letteratura prima che arrivassero i best-seller USA e Fabio Volo, dopo un rapido excursus nell’opera Cento Libri in cui descrive cento libri da procurarsi ad ogni costo, forse da questa idea ispirato, giunto al limite degli anni Settanta, dà vita al libro di cui stiamo indebitamente narrando la vicenda emotiva. Italo Calvino, che già ebbe a commuoversi innanzi all’anamorfico universo manganelliano di precedente fattura, si lu-

singa a scriverne la fin troppo razionale introduzione, che diventa automaticamente un trampolino al contrario per lanciare il lettore nell’abitacolo spaziale diretto verso la dissaldata galassia dell’autore milanese - poi migrato a Roma ed ivi putrefattosi. Riducendo alla sua mercé il lettore con un eloquio che è un intruglio bestiale tra materia fecale e divina ambrosia, Manganelli usa la pietra filosofale della scrittura per trasmutare i nostri ossei forami emotivi in freschi, rigogliosi antri di rigenerazione. Centuria è la sintesi e forse l’apice di questa sua rinvigorente capacità, già solo titolo, giacché parente delle Centurie di Nostradamus, allarga il cuore con un orizzonte mistico e profetico, poi scartabellandolo, questo eunuco libro di sabbia, mostra il suo potenziale: scopriamo come le fermate degli autobus possano convivere con i fantasmi, gli unicorni con disadattati uomini in grigio, come i castelli abitino le periferie, i sogni il quotidiano, la simulazione il vero, la menzogna la pietà. Tutto questo inscatolato in un ieratico messale, tosto e chirurgico, redatto in linee brevi, frasi armate a dovere, leggere e puntuali come navi che debbano affrontare oceani non cartografati su rotte immaginarie. Il lettore distratto vi scorgerà cento paginette schedate in 37 righe, sminuzzate in 52 lettere per rigo, in forma assai banale; ma sotto la luce giusta, nella grazia laica di un cono d’ombra proveniente dall’abisso, tra quelle righe ecco emergere annichilente la spirale di cento romanzi fiume, ecco le parole moltiplicarsi in fiordi e frange spumose, babelici terrazzamenti dove crescono gli strani frutti dell’incessante, perpetua meraviglia. Come la madonna diventa gesù, ma per un battibaleno appare fusa assieme al figliuolo, in quelle bizzarre effigi bipolari che trovi appese negli oratori, racconto breve e romanzo infinito si intersecano privandoci del respiro. Tutto è peregrinazione attorno a questo punto. L’inferno totale del lettore è solo all’inizio. Mancano altre 99 illusioni ottiche. [ ]

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[sterilita’ del benpensare] parodia della volonta’

parodia della volonta' di Edoardo Vitale

@edoardovitale_ www.concimalatesta.it

Le 6.43 del mattino esistono

N

el quartiere in cui vivo, trovare parcheggio è impossibile. Sarebbe superfluo e inutile soffermarmi a lungo su questo punto nel tentativo di trovare metafore o frasi a effetto per marcare l’idea. È semplicemente un incubo. Proprio per questo, gli abitanti della zona, hanno sviluppato uno spiccatissimo senso del parcheggio selvaggio: connubio tra fantasia e interpretazione personale delle regole davvero notevole e degno di lode. Sperare di trovare un posto varcato il coprifuoco dell’ora di cena è follia. L’auto che si aggira nella giungla, carica del peso di chi deve compiere l’impresa, viene accompagnata dagli sguardi solidali dei passanti e dal ghigno di chi se ne sta affacciato a fumare comodamente in finestra. Questa notte ho parcheggiato, posso ritenermi fortunato, ma si tratta di un divieto di sosta che entra in vigore alle sette di mattina. Salgo su casa e punto la sveglia alle ore 6.30, per spostare la macchina e scongiurare una multa. Dormo un paio d’ore che volano in un attimo, ma abbastanza per farmi sobbalzare in preda al panico travolto da The blood from the air dei Coil (esatto, mi sveglio con l’industrial) mentre apro gli occhi nel limbo senza memoria di quei dieci secondi che impiego per ricordarmi come stanno le cose. Devo spostare la macchina, se non voglio beccare una multa. È uno dei giorni più brutti della mia vita, insieme a quello in cui è stato inventato il death metal e a quello in cui è

stata inventata la moda delle unghie finte e tutti quei brillantini e via discorrendo. Curioso pari merito, ma tant’è. Resto in pigiama, indosso solamente le scarpe, una sciacquata fresca in faccia, giusto per non svenire sulle scale. L’esistenza delle ore 6.43 della mattina si annovera a pieno titolo tra quelle credenze appurate e ovvie per l’umanità. Come la certezza che l’uomo sia sbarcato sulla Luna o che ci siano davvero degli appositi camion dei rifiuti per la raccolta differenziata. Nessuno ha mai visto con i propri occhi nulla di simile, ma tutti sono convinti che sia così. Un atto di fede: l’esistenza delle ore 6.43 è un atto di fede. Proprio per questo mi considero un eletto a cui viene sottoposta la verità, quando mi rendo conto di essere in macchina che è ancora buio e l’orologio dice: 6.43. I semafori sono spenti e lampeggiano sopra le teste dei bengalesi con le pettorine rosse ai semafori, pronti a distribuire giornali che ancora scottano di stampa. Ci sono solo loro e i furgoni dei lattai fermi in doppia fila con le quattro frecce di fronte ai bar con le serrande aperte solo a metà. E poi ci sono io, cellula estranea nella piccola setta dei testimoni dell’alba. Dopo un paio di giri dell’isolato trovo finalmente un parcheggio come si deve e torno su casa. Accendo la tv e c’è la rassegna stampa. Mi rinfilo sotto le coperto per svegliarmi poi nella tarda mattinata. Il resto non è degno di nota, una giornata come le altre. [ ]

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[sterilita’ del benpensare] sex on

SEX ON di Catherine

[...] “Non mi segue? Guardi è semplicissimo, ognuno di noi è riflesso negli occhi degli altri. Lei mi ha vista scrivere. Sono una donna giovane, ho una camicetta trasparente, su un paio di bluejeans non del tutto puliti. Viaggio in prima classe. Non leggo giornali femminili. Non ho la fede al dito. Nei suoi occhi si compone l’immagine di una ragazza emancipata. Questo la induce a tentare la fatica di una conversazione. No, no, non ho equivocato. Non c’è niente di male ad avere delle preferenze: è meglio annoiarsi con una persona di aspetto gradevole... anzi, ci si annoia meno, anche se conversare è, in genere, una pratica noiosissima. E ci si annoia meno perché si può sperare che la conversazione abbia un seguito... le assicuro che non la sto giudicando male: l’unico modo per non annoiarsi è avere un progetto, o aspettare una notizia, o sperare in un mutamento di qualche tipo, un evento improvviso. È così ‘anche al cinema’, caro signore, non ‘soltanto al cinema’. Lo vedo scendere a Bologna. Leggermente sbalordito, un po’ irritato: l’avrei affascinato di più tacendo.” (Ammazzare il tempo, Lidia Ravera) [...]

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[sterilita’ del benpensare] sex on

È ANDATA COSÌ #paroleacaso #incontriimprobabili #mezzeetà #vietatopensare #vietatoripensare

M

i hanno detto che ho il “circa” che ritorna spesso. Ora, non so esattamente come e se interpretare questa storia ma so per certo che la interpreterò comunque, anche qualora non ce ne fosse bisogno. Ho pensato che forse per capire una persona almeno un po’, diciamo quel tanto che basta, possono essere considerate le sue espressioni verbali ricorrenti. Le parole stanno alle persone come i testi stanno alle canzoni, le parole diventano testi come le persone diventano canzoni. O CIRCA una cosa del genere. Rimane il fatto che senza parole non andremmo da nessuna parte, anche se qualcuno non sarà d’accordo con questa affermazione. Parlare molto, parlare il meno possibile, parlare poi tacere e poi parlare di nuovo perché non avevamo finito. Avere tanto da dire da non sapere come dirlo. Imparare l’economia delle parole. Mi hanno detto che la costruzione delle mie frasi non ha abbastanza difetti. In ogni caso, prima di scivolare nel non senso formalmente poco curato come mi hanno consigliato di fare, mi prendo un minuto per farmi un’imprecisa idea di cosa ho intenzione di scrivere da adesso in poi. Sto iniziando a pensare che non incontrerò il padre dei miei figli andando a prendere un caffè. E questa è una frase a caso in un contesto a caso che genera scalpore. Ma niente è veramente un caso. Ho già parlato della voglia di incontri appaganti in qualcuno dei miei deliri scritti, ma è evidente che non ne ho ancora fatto uno che mi faccia distrarre dalla fissazione per l’argomento, o che perlomeno mi tenga impegnata fino alla scrittura del delirio successivo. Certo, non è garantito che un incontro dolce davanti a un caffè amaro mi faccia smettere di delirare, ma se da qui a breve dovesse capitare almeno potrò evitare di trasformare il nome di questa rubrica in “Sex Off”.

Va bene, sto ironicamente suggerendo una prospettiva dai contorni poco fiduciosi e assolutamente più drammatici di quanto lo siano. Gli incontri casuali oppure intenzionali sono all’ordine del giorno, è solo che avvengono dentro stanze con ancora pareti e con ancora porte che si chiudono alle spalle dopo l’uscita senza che molto sia cambiato. Il caso spesso è monotono, l’intenzione invece è eccessivamente programmata. Tuttavia, quando non si tratta di incontrare qualcuno di importante, possiamo lasciare che la casualità decida al nostro posto e per delegare a suo carico ogni responsabilità serve soltanto essere disposti a stressarsi un pochino: non orientarsi mai abbastanza, non essere sempre sicuri di cosa si cerca, negoziare con la pazienza un accettabile livello di attesa, abbandonarsi con leggerezza improvvisata agli avverbi di tempo, luogo, quantità, modo o maniera. Mi hanno detto che avere certezze è impossibile. Per quanto mi riguarda, tra le pochissime che mi illudo di avere, una è che non mangerò mai un uovo sodo alle tre di notte, un’altra è che il tempo passa e non ci sono molte alternative: il passato o si rimpiange o si colloca nel posto giusto. Non che questa sia una grande scoperta... se cambiamo casa, compriamo ancora libri, beviamo di più, scopriamo persone, rivalutiamo l’autunno, lasciamo passare l’estate e ci affezioniamo all’irriducibile stessa lunghezza di capelli, allora sì, il tempo sta passando. Il ché (colpo di scena) non è per forza una brutta notizia. Il male, se mai, dipende dal cambiare tutto ma pensare che alcune cose possano rimanere intatte. Anche i ricordi dovrebbero adeguarsi ai tempi. Poi certo rimane l’altra questione: aspettare inutilmente gli eventi. L’argomento sa quasi di ovvio. La città in cui vorremmo vivere è sempre un’altra, il mese in cui riusciremo a risparmiare è sempre il prossimo, l’occasione in cui aprire quel benedetto vino toscano del 2003 prima o poi finalmente arriverà. Si può accettare pure questo stato di finta paziente ambizione a migliorare, ma come si può credere sensato aspettare tutto ma niente in particolare? Somiglia al ricordare non ricordo cosa. Mi hanno detto che esiste il rischio di non sentirsi adatti ai propri anni. Volergli bene ma metterli a confronto con i propri passati, con i presenti degli altri, con gli anni inesistenti che non abbiamo scelto. Desiderare di avere vent’anni, nonostante prove anagrafiche inconfutabili dimostrino che ne abbiamo dieci di più e l’unico aspetto positivo è che stiamo

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[sterilita’ del benpensare] sex on

finendo di pagare le rate della macchina. Desiderare tanto di aver vent’anni, nonostante l’impossibilità biologica di riavvolgere il nastro delle cose che abbiamo fatto, non fatto, detto o non detto. Desiderare tantissimo di avere vent’anni non solo per una banale questione di tempistica, piuttosto per un fatto socio-sensoriale: fare l’università a Bologna, andare in Erasmus in Spagna, fumare canne prima, durante e dopo una cena a base di lasagne surgelate, avere la strizza per l’esame di antropologia, innamorarsi come se non esistesse il giorno dopo e nemmeno il giorno prima. Non vivere in un mondo incantato solo con un piede, e tutte le volte tornare in quello reale per fare i conti con caimani e carrozzieri. Essere liberi di parlare ignorando i toni cordialmente calibrati di un’email. Essere liberi di sbagliare, di capire e poi sbagliare di nuovo senza che i ragazzi cresciuti, severi, nostalgici e attori che siamo diventati

P.S.: CONVERSATI-ON (lesson 1)

se la prendano così tanto con il mondo e con se stessi. Mi hanno detto che essenzialmente ci sono tre tipi di problemi: 1. problemi oggettivi 2. problemi soggettivi 3. non problemi Per i primi e i secondi possiamo sperare nell’intervento di qualcun altro. I terzi dobbiamo senza alcun dubbio risolverceli da soli. Pausa ennesima sigaretta. Ecco, non vorrei tornare sul concetto triturato di consapevolezza, ma devo: esistono percorsi (non destini), serie di situazioni, azioni, conseguenze delle azioni, occhi, baci, pentimenti, soddisfazioni, alti, bassi, prese e perdite di coscienza. Esistono scelte fatte per una ragione o per nessuna ragione. Fin qui tutto fila, sembra quasi che corsi e ricorsi storici possano restituire una spiegazione per ogni assopita domanda, come nel migliore dei sogni. La domanda però stavolta è: dopo tutto questo interrogarsi l’abbiamo trovato il nostro rinomato posto nel mondo? E a questo punto... come la mettiamo con il nostro posto nel tempo? La risposta è che forse nel piccolo ma immenso angolo spazio-temporale che ci spetta ci siamo sempre stati. Ma forse una risposta che contiene un “forse” non vale davvero come risposta. Forse (per restare in tema) è solo un’altra incertezza travestita da affermazione saccente. Perché tanto vale crederci, tanto vale prendere atto della propria follia e convivere con le proprie costruzioni incredibili. Io, per esempio, scrivo essenzialmente per rileggerle e poi convincermene. Mi hanno detto che il tempo non cambia l’anima.[ ]

- Va bene, ma a parte la ripetitività, come va? - (non so se dire bene o dire male, credo nessuno dei due) Bene. E a te?

- Ho pensato... - Quando tu pensi, io tremo. - Praticamente il tuo è un tremolio perenne, scusa. - In questo posto c’è gente del ‘98. - Esistono? Cioè è un anno di nascita - Certo, è il paese delle eccezioni. che già esce da solo? - Subito a tirare in ballo il paese, - Sì. balla da sola. - Meglio i miei balli collettivi - Ma scusa, tu quando dormi? delle tue citazioni. - Nei tempi morti.

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[sterilita’ del benpensare] sex on P.P.S.: “Un post scriptum (locuzione latina che tradotta letteralmente significa ‘scritto dopo’) è una breve aggiunta, un ultimo appunto, a conclusione - Forse la realtà è irreale. di una lettera già firmata, più in - Ti stai allargando. generale, di un qualunque messaggio - Ok, mi restringo. scritto. Sovente non sta a indicare una dimenticanza ma piuttosto un - Il mio concetto era molto più modo per evidenziare al destinatario terra terra. un argomento che ci sta a cuore o da - Stai concimando. far risaltare particolarmente e che, segnalato come ultima informazione, - Cosa fa nella vita? speriamo non sia ignorato.” - Faccio la scrittrice. L’obiettivo finale, ambizioso, della - Così giovane? su-scritta rubrica è che un post- No, non sono sposata. Non mi sposo scriptum possa diventare più lungo mai prima di finire un libro, e tra e denso di significato di un preun libro e l’altro non ho mai tempo. scriptum. E vi prego, non confidate nell’analisi logica di quest’ultima - È schizzato. Completamente. frase. [ ] - Come tutti mi pare. - A proposito, non mi hai detto come si chiama il tuo bollitore elettrico... - Vero, grave mancanza.

- Sì... però famose sta serata, non fate i noiosi! - Io sono per il ‘Poi vediamo’. - Perfetto. - Sinceramente lui non mi fa più svenire come una volta... sarà che sto crescendo. - Sarà la sua attitudine ad avere, tipo, una moglie. - Che fai? Che hai fatto oggi? Anche se per te è ancora ieri. - È ieri che diventa oggi. - Allora ci sentiamo oggi quando è diventato oggi. - Io faccio quella telefonata. - Ma di quale telefonata parli? - Una a caso. Tutti dovremmo fare quella telefonata, ammettilo. - Però lui magari ti prende bene. - Mi sento pronta a rimanere nel dubbio. - Novità? - Nessuna, vita ogni giorno identica. Tu? - Per me ogni giorno è diverso, ma non so essere più concreta. - Ho come l’impressione che qualsiasi cosa dica tu la userai contro di me. - Esisto, fattene una ragione.

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[CRONCA NERA] ORacoloSCOPO

Oracoloscopo Le ultime notizie dalle stelle, scelte per voi da Franco Loscuro Salute: La taiga è il posto giusto per fare i soldi. Andateci. Già oggi. Casomai non aveste una taiga nei paraggi, potete andare in un vivaio o in una serra. Soldi: facili. SoldiDue: troverete una mappa del Tesoro che vi condurrà all’isola del Tesoro. Lì, sotto un certo albero, e sotto due metri di sabbia fine, troverete un baule del Tesoro pieno di buoni del Tesoro. Eliminateli, che dobbiamo

abbattere il debito, ce lo dice l’Europa (che è un’amica dell’Eliana). Amore: già avete avuto due sotto-paragrafi a nome “soldi” questo mese, non esageriamo. [ ]

Musica: Raffaella Carrà canterà “Ciao Ciao Ciao/ Muciaccia/Ciao” (con tutte le maiuscole) sotto la vostra finestra domani o dopodomani notte, insieme a Aldo che verrà apposta da Sora per accompagnarla con la chitarra. Aldo: suonerà al Madison Square Garden di Sora venerdì, sabato al Palalido di Newark e lunedì di nuovo a Sora (così fa il pranzo della domenica a casa). MusicaDue: a me

piace la musica gitana comunque. Amore: incontrerete una ragazza di Sora che vi chiederà patente e libretto, l’assicurazione, il bollo non è esposto, mi spiace ma devo farle la multa. [ ]

Amicizia: se un gatto è il vostro migliore amico, io personalmente non vi rispetto. Amore/Amicizia: mo’ la sta menando De Luigi con sta Casta che non è amica sua perché lui ne è attratto, innanzitutto come è possibile che la Casta sia amica di De Luigi? È evidente che si conoscono solo per via del marito di lui, Vincent Cassel, non c’è meritocrazia in questo paese, la verità è che oggi in Italia conosci

le fighe soltanto se tuo marito è un attore francese. Vincent Cassel: si sposerà con De Luigi per rendere questo paragrafo della rubrica coerente e non smentibile.[ ]

Musica: ma questa storia che gli zingari fanno fundraising in stazione è vera? Mi hanno detto che tutto il tema dei furti e la storia che rubano è una montatura, loro in realtà raccolgono finanziamenti per un ospedale in Cisgiordania, anzi pare che Alan Friedman abbia detto a telecamere spente da Paragone che Napolitano abbia architettato tutto mettendo in giro lui al bar la voce che se sei nomade

allora vuol dire che rubi. Perplessità: caso mai non vi stesse bene che il vostro oroscopo di questo mese non dica una parola su di voi, allora fatevi bastare l’oroscopo del Leone, che sono persone migliori di voi comunque. Lavoro: al tabacchi cinese c’è bisogno di uno che scarta le stecche di sigarette. È un lavoro delicato, 5 anni di esperienza minimo, e l’inglese bisogna saperlo bene.[ ]

Ferrovie: diventerete appassionato di ferrovie a scartamento ridotto, tanto che comincerete a costruirne una dopo l’altra, ma dopo un paio d’ore vi sarete resi conto non tanto che vi mancano le traversine, i piloni di cemento armato, le competenze progettuali, le mappe geologiche, un elaboratore adeguato, un treno a 12 vagoni, un sistema di trasformatori dall’alta alla media tensione, quanto

piuttosto che non c’è mai tempo per le cose che uno vuole fare, eh signora mia. Asse da stiro: ritroverete la vostra femminilità in un gesto antico, cioè mi dovete stirare le camice che la lavanderia sotto casa è chiusa da una settimana perché mi sa che il cinese che la gestiva nel frattempo è diventato milionario e adesso gestisce un tabacchi. [ ]

Eponimo: questo mese darete il nome a un Teatro in Siberia e a un Ospedale per bambini a Jesolo. Oscar: ma perché Sorrentino ha dovuto ringraziare Maradona? Mi sembra un tentativo mal costruito di fingersi uno del popolo. Tecnologia: il nuovo telefonino della Apple si chiamerà come voi, cioè Ettore. Caso mai non vi chiamaste Ettore, non è che posso farmene io carico. Pippo Franco: imparerete la spiritualità vera grazie al

suo libro “Pensieri per vivere. Itinerario di evoluzione interiore”, 2001, edizioni Mediterranee. Quattrini: la congiuntura suggerisce di fare investimenti immobiliari importanti, tipo comprare una casa popolare da 18 piani sulla Tuscolana. Il mutuo dura 502 anni, ma ne vale la pena, anche perché ci sono gli sgravi fiscali del 2%. Salone del mobile: mah. [ ]

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[sterilita’ del benpensare] sex on

Salute! (per lo starnuto) Idraulica: capirete freccette l’arbitro dirà qualcosa sul vostro futuro. come funzionano i tubi e deciderete di dedicarvi Solo che l’arbitro è olandese, quindi è un casino. ai tubi a tempo pieno. Tubi: ci sono diversi tipi di Amore: vi innamorerete di un cane.[ ] tubi: tubo di plastica, tubo di rame, tubi di materiale arancione che sembra plastica ma in realtà no, tubi di vetro (sono i migliori), tubi di avena (i più digeribili), tubini. Sport: domani durante la semifinale d’andata della champions league delle Stelle: in settimana le stelle aumenteranno, tipo 10 in più, le potrete vedere nel quadrante Beta della Via Lattea, 8bis, scala C. Stele: Rosetta ha dichiarato a Chi che lei non voleva farla la stele, suo marito Franco la costrinse e lei denunciò l’abuso ai Carabinieri di Vibo Valentia. Economia: crescerete del 10%, a livello di base imponibile, di prodotto lordo ma anche di moralità. Boschi: dovete piantare

5 pini in bagno. Confcommercio: vi iscriverete a Confartigianato per fare dispetto alla Conferenza Episcopale Italiana, ma l’Adiconsum farà ricorso anche perché l’Abi non ha pagato Confindustria per la consulenza sulla CIA (Confederenza Italiana Agricoltori). [ ]

Divieti di sosta: prenderete una multa da 852euro per aver parcheggiato sulle strisce. Vi sta bene. Produttori di automobili: diverrete il terzo produttore di automobili al mondo in un pomeriggio particolarmente operoso. In serata deciderete però di cedere la proprietà del vostro impero a tale Gigi, che è uno che avete incontrato in autobus che pare una persona affidabile. Modelle:

vi chiameranno decine di modelle per chiedervi dei soldi in cambio di prestazioni sessuali. Voi rifiuterete perché siete integerrimo e anche perché non ve la sentite di farvi pagare per darvi. Oggetti metallici: indosserete oggetti metallici prima di passare sotto il metal detector solo per il gusto di sentirvi importante. [ ]

Musica: vi piace. Salute: è una cosa buona. Denaro: non fa la felicità. Salute2: non fa la felicità. Musica2: non fa la felicità. Felicità: denaro, salute e musica vi faranno felice. Taxi: costa caro. Taxi2: vi rendete conto che per andare da Lambrate a Cadorna conviene chiamare un taxi allo 025050 di Kinshasa. Solo che dovete aspettarlo per 12 giorni. Ragionare su rapporto prezzo/livello di servizio.

Amore: “ammore, ammore mio, mon amour”. Apicella vi canterà questa canzone al tramonto dal marciapiede sotto casa, gli dovete dare 100 euro però che è in ristrettezze economiche da quando Silvio l’ha dimenticato. 80 senza fattura. [ ]

Perplessità sul segno: mah.[ ]

Tempo: compierete 52 anni. Proverbi: le stelle sono tante, milioni di milioni, i pesci pure, chi dorme non piglia pesci, il troppo stroppia. Donne: se siete donna sarà un mese molto femminile. Se non lo siete, non saprei che dirvi onestamente. Sito internet del mese: pof.com (plenty of JK | 109

fish), miglior sito d’appuntamenti americano che contenga la parola “pesci”. Tolleranza: non ho niente contro le etnie nomadi in generali, anzi mi chiedo perché non ci siano anche i touareg ad esempio al McDonald’s della Stazione Centrale. [ ]


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