Anteprima - Vittorino Andreoli

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Vittorino Andreoli Omeni, done e buteleti FRAMMENTI DI VITA

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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2015 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori. it www. gabriellieditori. it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-278-9 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), Novembre 2015 In copertina: Vittorino Andreoli, studio per ritratto, matita, 1995, di Mario Donizzetti (1932), massimo esponente della pittura figurativa realista contemporanea.

Per la produzione di questo libro è stata utilizzata esclusivamente energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ed è stata compensata tutta la CO2 prodotta dall’utilizzo di gas naturale.

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ad Angelo Beolco detto il Ruzante a Carlo Goldoni a Berto Barbarani a‌

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P REFAZION I

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Voci perdute “Omeni, done e buteleti” era uscito nel 1993 in una veste “dantesca”: formato 24 per 34, carta Fabriano, per la stampa delle Grafiche Fiorini a cui si devono grandi capolavori della Tipografia veronese. Un abito da cerimonia, da evento speciale, dedicato alla lingua di Verona (dialetto, in una espressione più modesta) che è anche la mia identità e che trova radici dentro la cultura contadina. Oggi, dopo ventidue anni, in un formato elegante (da regalo si dice), viene ripubblicato. E mi pare che se allora dominava il senso celebrativo, il desiderio di ricordare un modo di esprimersi che veniva sovrastato dal parlare televisivo e dalle infiltrazioni sempre più coloniali dell’inglese e dell’americano, oggi acquista addirittura il significato proprio dell’archeologia. Il Veronese è scomparso dalle campagne dove è difficile riconoscere ancora la tradizione contadina, pesantemente sostituita dalla civiltà delle macchine agricole. Ma, nella mia mente, è ancora più presente e la mia meditazione silenziosa lo rivive in tutta la sua ricchezza e soprattutto nella sua straordinaria musicalità. Un vero balletto di parole che si fanno ritmo e rappresentano per me la maniera ancora più adeguata per dare voce alle emozioni e ai miei sentimenti. Certo, anche alla rabbia che tuona, lanciando mocoli o rasìe. Ho inserito in questa edizione alcuni racconti, o cronache del quotidiano, che rappresentano l’amore (il fare l’amore) nelle sue liturgie contadine, semplici ma vere, pulsionali. Un amore che aveva sempre rimandi al patalon e a quella roba sconta dentro mutande di lana, par el fredo e perché 9


na dona la ga da tégner soto ciave le vergogne. La sessualità, nel mondo contadino di allora, occupava l’ottanta per cento della dinamica mentale e il resto, il venti, era dedicato al Padre Eterno e ai Santi Patroni, perché provvedessero a far pioer, quel che ocòr, e ad allontanare la tempesta facendola cadere, se mai, sul podere del vicino. Mi è parso che i racconti sull’amore tra Bepi e Maria avessero ora il sapore di vere elegie, di canti poetici, di fronte al dilagare di una volgarità insopportabile e del continuo nascere di siti pornografici all’insegna del pessimo gusto. Ho dunque inserito brani che sembravano fuori posto in quella prima edizione che pareva richiamare il Messale delle sagrestie, mentre nel tempo presente e in questa edizione non solo arricchiscono i rimandi alla tradizione antica veronese, ma ne mettono in risalto un contenuto che sa di vita, perché alla vita sono indirizzate le cerimonie dell’amore. Sono contento che quest’opera possa così continuare a girare per la mia città, Verona, che dopo un peregrinare che mi ha portato dappertutto nel mondo, rappresenta il mio nido e pertanto è parte della mia sicurezza. Una città che mi stimola a meditare, nel silenzio della mia casa di campagna, dove vedo ancora gli antichi contadini e mi pare che si parlino in Veronese, nel mio Veronese. Forse è solo un’invenzione, un’illusione, un sogno, ma per me ormai sono più importanti della realtà di questo mondo e di questa società che non mi piacciono. Mi sono accorto che le mie meditazioni sono costruite nella lingua di mio padre, dei mie nonni, dei nonni dei miei nonni. È la lingua in cui si sta consumando la mia piccola storia. Verona, 2015 10


Il mio rifugio

Non è la lingua della nostalgia, il “veronese” è lo strumen-

to della mia comprensione quotidiana. La follia di cui mi occupo parla in dialetto veronese. Non posso chiedere ad uno schizofrenico di esprimere i propri deliri in italiano. Nonostante la cultura televisiva abbia unificato la penisola mediante una lingua sopradialettale, il dolore, la disperazione, la follia usano ancora i dialetti. Nella mia città si esprimono attraverso quei suoni che io ho ascoltato fin dal primo giorno di vita. Non ricordo certo le parole, che un neonato percepisce senza comprendere, ma sicuramente appartenevano alla cultura contadina e veronese da dove sono uscito. Ho imparato a tradurre dapprima in italiano, poi il mio veronese attraverso l’italiano è diventato francese, inglese, spagnolo… Se avesse avuto ragione Benedetto Croce, quando sosteneva che i pensieri sono le parole che li esprimono e che non esistono pensieri se non nel momento in cui diventano lingua, allora anche il mio modo di pensare sarebbe veronese. Era il 1970 quando decisi che non avrei speso la mia esistenza negli Stati Uniti: ad Harvard dove lavoravo: mi sentivo limitato nella capacità di espressione, i miei sentimenti entravano talmente deformati nei contenitori della lingua anglosassone, da darmi l’impressione che si evidenziassero con un aspetto differente dai miei vissuti. Tornai a casa con la decisione di saltare anche Milano e col desiderio di occuparmi dei matti che meglio potevo capire, quelli che parlano la mia lingua originale, il veronese. Ci sono stati periodi in cui stanco di tradurre ricercavo situazioni per usare gli strumenti della comunicazione che appartengono alla mia storia, a quella della mia famiglia radicata nella campagna, nella fatica. In qualche caso, davanti allo specchio, tenevo conversazioni con me stesso con quelle pa11


role che io reperivo non in un vocabolario da biblioteca, ma dentro la storia, depositata da generazioni in me. Il vocabolario della mia infanzia che come una teoria d’ombre è animata di volti, di azioni, di quella storia invisibile, scritta dalla maggior parte della gente sulla sabbia e cancellata quando ancora nessuno l’ha letta. Con la lingua delle generazioni che mi hanno preceduto, che ha raccontato gesta di eroi senza nome e dimenticati. In questa archeologia del nulla, attraverso questo mio antico dialetto, mi pare di far rivivere tutto quel mondo cancellato. Insomma il veronese è per me l’identità esistenziale, espressa nel teatrino delle parole. Parole che hanno usato i miei bisnonni, mia madre nel raccontare le favole e persino nel recitare le orazioni. Sono sicuro che il dialetto veronese lo capisce persino il Padre Eterno a cui si sono rivolte tutte le mie nonne e le nonne delle mie nonne. Insomma con questi racconti in veronese vivo ancorato al mio passato, che di questi tempi mi appare come l’epoca più grande della mia inutilità. Ma forse su questo stesso percorso potrò ritrovare altri come in un sentiero di montagna quando uno si aggiunge ad un altro che cammina verso un rifugio. Il veronese è il mio rifugio. Sono consapevole di fare un uso povero di questo dialetto, adatto a storie che hanno il sapore della povertà e talora il gusto della follia. Con questo vocabolario si può soltanto essere sinceri, lontani da ogni retorica, e la sincerità si racconta con parole semplici. La maestosità di questo volume, la sua veste tipografica, mi rallegrano come quando da bambino, la domenica, indossavo l’abito migliore per la Messa. Verona, 1993

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F RAMMEN TI D I VITA

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Nona, me cóntito…

Nona, me cóntito…

Sa uto che te conta, lè sempre quela. Me piase stesso, me cóntito de quando era picolo… Te fussi almanco stà brào: te èri un mocaion, boca tirà, muso duro… Sa vol dir muso duro? Te te sentài in un canton, fermo come n’albaro e guai ci te tocàa. El paréa t’avessi perso la ósse. Te rispondei scorlando na spala. I oci sui genoci, nessun savéa sa t’èra capità. Mi vegnea là… Sa ghèto? Na scorlada de spala. Sa uto? N’altra scorlada… Beh, va farte na velada, quando la tè passà te me dirè… Passa n’ora, do, qualche olta tre… sempre fermo. Dopo te te alsai, te scomissiai a móerte, te ghe girai intorno a to mama, a mi… vegnea fora na paroleta, do, un basin… e bela e finida… Le faséelo anca el papà? Sì, stesso preciso, spuà e cagà. Eh te si de rassa si…! Nona come se ciamàelo quel là che vegnea in corte… El Torototèla… «Èco qua el torototèla, torototela, torototà»… Sul baston el gavea tacà bambolete de pessa. Le spingolàa da du fili, inciodadi sulla testa del baston: el le paràa atorno e ele le giràa… Te te godéi che no se sa. E lù, puareto, co na feta de polenta, un’óvo e qualche òlta diese schei el sitàa a cantar: «mi son el torototela, torototela, torototà» e a far girar ste bambolete, sporche che no te ghe vedéi più gnanca i oci… Eh caro, dò fato anca mi de bambole. A to sorela bambole par butelete, a ti da omo. Te le ricòrdito… una l’èra un bel vecieto, vestìo dale feste, col gilé, la gravata, el capel. El parea tuto to 15


nono, puareto, quel s’el ghe fusse ancora al mondo el podarìa contartene. Gò vossù ben… par quela, quando te fasea un bamboloto copiava lu… Ghe n’era uno co na pipa… E te zugai… Maria Santissima. Te sitai a parlarghe e lu el te rispondea, e alora ti ancora dai… Gavéelo i oci, la boca…? Eh come… La testa l’èra un sachetin pien de strasse. La cusìa ben atorno che no le vegnesse fora, la combinàa, fasèa davanti un disegno: ciapava el sangue de oca, par far bocca e la panseta rossa, un toco de carbon del fogolar, par i oci… ogni tanto el le perdéa e alora ghe i faséimo novi… Quanti bagni l’a fatto el bamboloto, par poderte lavar. Te eri un sporcaccion, le mane sempre par terra, dentro le boasse de le vache… Alora te ciapàa, andàimo in stala che ghèra un bel caldìn e dentro la brenta, nell’acqua calda ti e anca la bambola. Me ricordo nel ‘43 quando tè ciapà i pioci. Maria Santissima, i coréa sui cavei che i parea matti. No ghe n’avea mai visti tanti… un formigar. To mama disperà… Ciapa na fòrbise e pélete e dopo bruschin e saon, fato de grasso de porco, to dato na netada che te parei novo. Alora ghèra i pioci… èrimo puareti… ghèra la guerra… I omeni al fronte… senza notissie… I tedeschi… e voialtri piccoli da guernar… Ringrassiando dio lè passà… e che no la vegna più… Con gnente in tuto dovéimo magnar… un tochetin de renga e polenta… santa polenta… sensa saressi morti tuti, e un gosso de late dela Mora… Ci èrela? Na vaca, na vaca grisa, scura… to nono el l’avea batesada cossita. Na vaca inteligente… I dise che le vache no le ga servel… Quando te la monséi, e la magnava poco: quatro fili de erba che catàa su mi… el parea fin che la urtasse par sgossolar meio quel poco de late, par voialtri 16


picoli… l’era na santa. Saria ora che i fasesse un paradiso anca par le vache… i miracoli la Mora la là fatti par tutto el tempo de guera. Varda che grande e grosso te si vegnù, e tè studià: alora vol dire che el servel el sa fato belo grosso… varda che bel teston te ghè. Par comprarte el primo capelin avemo tolto la quinta misura, quela de to nono… Ricordete, ghe sarà tanti magnari, ma gnente lè piassè della polenta e del late… Tuto el resto lè in più. Con polenta e late te fè un omo… E to nono, puareto, quando stasea mal el disea: «Virginia, varda che ghe nò un sacheto sconto de polenta, lè par ti ma guarissi, sinò la baraca la se ferma. Sensa de ti no son bon de far gnente, me par da esser tornà buteleto… Gò dito ala Giorgia de fàrghene un bel stagnà par stasera e de meter un bel poco de sal, la mà dito la comare che la fa piassè bon parché la rinforsa i reni…». La polentà l’era tuto, primo e secondo, na medessina. A voialtri buteleti, la brustolàa, bela seca, taià fina. Te la daséa calda, la scrocàa come un galan el zòbia de grasso… No ghèra pastine più bone… e insieme la portàa salute. Da qualsiasi malan, te guarii co la polenta: un poco de sal piassè o de manco, lassarla sbrofar un poco de più o un poco de manco, magnarla che quasi la scotàa o pena tiepida… In un modo o nell’altro te paràa fora tuti i malani. Dentro quel stagnà ghèra na farmacia… El dotor quando el vegnea: «Ghe n’èto polenta?». Si, dotor, ringrasiando dio. «Magnèghene un bel poca stasera, un po’ indriéto, così la se cose nela pansa e la sistema i vermi! Beìghe drio un gosso de vin, ghe n’avio del 1940 l’ano che la Madona là fato el miracolo a Raldon? Alora bon, tirèla fora, lè ora». Dotor, volea tegnerla par quando se sposa la fiola. «Lassè star, no stasì pensar par alora, fè quel che vo dito! 17


Late la matina, polenta e vin la sera: starì subito ben». Quando la malattia la richiedea polenta calda e molla, la metéa in na scudela e dentro quatro gosse de vin; se bisognàa usar la polenta brustolà, me piaséa pociarla dentro el bicier… Erela la polenta, èrela la Madona che sitàa pregar, so rivà a settantatri ani… Eh be, le preghiere le conta. Quante ghe nò dito par ti! Quando te gavei da far i esami. Quante corone, quanti misteri… Serve anca studiar, ma se la Madona no la da l’ispirassion, in quel momento là i professori i te domanda… Con la Madona in ciel e l’angelo custode tacà… eh, te diventi dotor si, ma sènsa te pol studiar fin che te vol… Èra, parché quei che studia, iè par mi come santi: vol dir che el Signor el là iutadi… sensa te resti àseno! Sa uto che te conta, te vedi, me vien in mente solo disgrassie… me par de no averghe posto in testa par le robe bele… e se ocòr no ghe n’era alora. Se godéimo con gnente. Vegnea el moléta e tuti atorno a guardarlo, vardar le lucete che saltàa fora da la rua che gussàa i cortèi. N’altra òlta capitàa el caregar e se stasea fermi, sentà a vardarlo e lu con la paia el stupàa i busi de la carega che la diventàa nova, come fusse sta un miracolo. I buteleti no i se moéa e i sognàa da grandi de far i caregari. Puareto el spassacamin, no el gavea mai nessun atorno. Tuti i le guardàa dala finestra, sconti, parché l’era nero, sporco. Gran festa invesse col parolòto… el parea che rivasse la banda del paese… «Paroloto, paroloto, done tirè fora le pignate, giusto tuto, anca quele de na òlta…». Te ndaséi fora con de quele teiéte che fasea scaresse e te le portai a casa nove. Col so martel, con quei caùci che se molaa al caldo, el fasea anca lu i so mestieri… E dopo l’ombrelar… Èco el teatrin de la corte. I vegnea e te gavei sempre calcos18


sa da farghe far, cossita i buteleti i se godea… Ma anca i grandi, che cola scusa de rancurarli, i diventàa picoli anca lori: cole braghe curte e el ciucioto in boca… Come i partia te vegnei in cusina, te andai in stala a badar ai mestieri, par campar e pregar dio che no ghe fusse magagne. Me ricordo quando te si sta mal… no te magnai più… magro, impiccà, na tosse che el parea che te te rompessi. El dotor el disea che ghèra dele macete, de le macete dentro i polmoni… L’era come se dei vermeti i avesse messo su casa dentro de ti e no i volesse el sfrato. Bisognàa che te magnassi par rinforsarte, e no te volei gnente e te tegnei zo ancora manco. I oci i diventàa sempre piassè grandi… i parea che i vedesse la morte… El dotor nol dasea garansie… Sa dilo dotor «Cara, la prega!». Imàginete se non pregàa. Se el le dise anca el dotor, capisso el prete, ghè poco da sperar. Sèto sa ho fato? Gavea na spileta de me pòra mama; ghe lò vendua al botegar e coi schei ho fato dir, par na setimana, na messa ogni matina. Lè sta quando tè scomessià a becolar ia. De note sitàa a pregar e disea: Signor lè picolo, lassèlo star, tolime mi… i conti i torna stesso… tìreghe via quele maciete, la tosse, proè a pensar quante preghiere el dirà e come el ve ringrassiarà. Mi ve dirò, son anca stufa de star al mondo… no fasì n’ingiustissia, son contenta de morir, ma quel pòro buteleto… sa alo fato… lè na passion. Me piasarìa averghe piassè, par rinunciar a tuto. Se gavesse schei, i darìa tuti in cesa, ma el savì, no ghe nè. Ma quel che ghè, lè vostro, Padre Eterno, vardè sto buteleto, el fa de pecà che non se sà. Bisognàa tegner la camara scaldà come se fiocasse. To pare el parea mato, l’èra sempre a legna, la comprà du scaldaletti… T’èra vegnù do ganassete rosse e na òlta tè fato un sorriso. 19


A to mama ingenoccià davanti al leto, no la batea ocio, quando la ta visto rider lè scoppià a pianser, la parea mata, la osàa: «el sta meio, el sta meio…», la sitàa, la corea par la corte «Signor te ringrassio, lè na grassia…». Sèto che da quel dì tè scomissià a mandar zo, te sudai de manco, te pissai piassè e ciaro, te domandai qualche poca de aqua, che te davimo col sucaro… Prima de alora no savea cossa l’èra la contentessa! Tuto d’un colpo, ne parea de esser più siori dei siori, de averghe tuto noialtri. To pare, la matina, el ga dito a to mama «Sposa, voi vestirme ben, lè festa ancò». E ela «Bepi, aspeta alora che ghe do na spassolada alle braghe e na stiradina ala giacca… Mettete le mudande longhe, quele che te gavei quando te tè sposà, iè nel calto in carbonina». E lu «Vèstete ben anca ti, Maria». «Si, Bepi, me cavarò el grombial e me metarò quela spileta che te mè porta quando te si andà al raduno dei combattenti». «Dai Maria, te vedarè, la cambia…». «Nò Bepi, no voi che cambia gnente, me fa paura pensarghe, mi ancò son contenta come na pasqua, se el nostro buteleto el sta ben, no ghè nessun più contenta de mi…». «Sèto Maria femo anca all’amor, parché in sti tempi te èri sempre in pié, no tò mai vista in leto… Maria me son acorto che qualche òlta, da rabià, tò dato la colpa a ti par quele macete… t’el sè che no lo penso…». «Bepi no sta preocuparte, ma voi che te sapi che par darghene a lu, no gò mai fame mi. No sarìa bona de mandar zo un bocon se savesse che i ga ancora fame…». «Eh ma sti ani i passa, sèto, e alora ghe ne sarà da butar via, òstia! Basta con i problemi del magnar: stano l’ua lè bela e el par che ghe ne sia. Te vedarè che vansemo un franco e alora voi che te gabi anca ti tuto quel che ghe vol… Son na bestia Maria, ma te sè che te voi ben…». 20


«Si Bepi, grassie… Dame le braghe e dopo va anca da to mama e dighe do parole, puareta, lè delà col buteleto…». Nona, me vien da pianser? Èco védito, son bona de contar solo lagrime. Cònteme alora na roba più alegra? Bisogna che ghe pensa un poco, la sèrco par doman, sèto… Una curta, subito… Lè fadiga, no me vien gnente… se ocòr questa de to nono… L’èra un bon omo, sèto, un santo… qualche òlta el beéa. El partia imusonà, no te sè parché nè parcome, el tornàa inbriago marso. E mi, là ala finestra a guardar se el vien… avarìa volù andar incontro, ma sa diseli de na dona che va tor l’omo all’ostaria: Varda la comanda ela, nol pol gnanca star fora un poco… El vegnea de note, tante òlte avea za sentìo la campanela dei frati. Tuto alegro el ropetàa su par la scala e el capitàa dentro in camara… Mi soto la cuèrta, fasea finta de dormir, come la ma insegnà me mama «Ricordete che un omo imbriago el pol esser un angelo, ma anca un diaol». Quando, da quel che el disea, era sicura che l’èra alegro, fasea finta de sveiarme e ghe disea «Maria Vergine, Bepi, sito ancora vestio, me par che sia tardi, che ora èlo?». E lu: «Maria lè ora de ciavar, preparate che ho imparà na mossa nova». L’èra quela de sempre. Me sentava sul leto e l’era come fusse in teatro. Lu el sitàa a far la parte de l’omo inamorà… Ben te si grande, posso contartela… El versea el patalon, par sercarlo el ghe metea mezz’ora, … «Védito Maria, in guerra na òlta ghe lò fato vedar ai sol21


dadi e ià dito: lè n’oselon, bisognarìa che te ne lo prestassi»… E mi: No cari, lè tuto quel che gò… Na òlta el ciapa sto sturlin infredolìo in man e el le tira, par slongarlo e farlo star fora dale braghe… «Lo vedito Maria che grosso!». «Eh si Bepi, vuto che no lo veda, anca un orbo el se n’accorsarìa». «Dèlo grosso». E mi «Sproporsionà». «Semo de rassa, anca me pare, me nono, so pare de me nono, tuti…». «Ben ben Bepi, vegni in leto, alà, che tra poco bisogna alsarse». «Vegno, vegno, ma spèta… no lè gnente gnancora». El guardàa sto oselin spaentà, e el trabalàa come na balerina… Qualche òlta el tornàa dentro, sconto, e alora el se incassàa e el ghe disea «Lassaron, no sta sconderte, fa el to dover, attenti, sito o no sito n’alpin». Nò tirarte in drio. Un poco ala òlta el se cavàa anca le mudande e el restàa co le scarpe e la giaca. El me vegnea vissin e el disea «Maria ciàpalo in man», e mi «Nò Bepi me ocor tute e do le man, lè na bestia d’un osel, sa tè capità stasera… Maria Vergine no la sarà mia na malattia, lè come quel d’un bò». «Nò, tò dito che lè n’afar de rassa». «Ben ben còreghete un poco, parché el te tira par tera, tanto lè grosso…». «Maria ma no tè gnancora visto i coioni… quei i fa paura… parché t’el sè: osel grando, coioni di ferro…». «Bepi i pesa piassè del piombo, nò del fero, come feto star in piè caro, butete zo…». «Eh no, prima voi mostrarteli ben». El se gira come al solito e sfadigando el se piega mostrandome el cul con tacà sti du oveti, puarini, che i me ricordàa quei de le galinete nane. «Ben adesso preparate che…». «Si Bepi, son pronta, vien in leto»… Come el se butàa, l’era belo indormensà. Ghe cavàa la giaca, la camisa, 22


ghe metea le so bele mudande e el più dele òlte l’era ora de guernar i piti… Adesso che te lò contà, me pararìa che no dovéa farlo. Le robe de leto iè sempre segreti… No vorìa che te t’avessi messo in mente anca ti d’averghe n’afaron de rassa… Secondo mi no l’èra ne grando nè picolo, ma na misura giusta… insoma t’el sentìi magari moèndote… nò n’esagerassion. Ah, bisognarìa averlo visto, puareto. Peccà che el vin el ghe fasea mal, ma almanco lo vedea qualche òlta contento… e te digo la verità, dopo le preoccupassion che gavea spettando, quando l’entràa in camara, me sentia anca mi come na siora, parché no l’era imusonà, el parlàa e el mostràa i so mestieri, i mestieroni… Ben lassa che ghe pensa, se cato calcossa che fassa più ridar, parché me par che te si sta serio… se vede che me desméntego le robe da ridar, lè come se no m’avesse mai godù… Gòderse, se ocòr, no lè roba da puareti… noialtri se godéimo quando era passà un malan…

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Bepi, gavarìa un piaser

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iao Bepi, come vala. Eh, no ghè mal, te sè come lè, un po’ de tuto. E ti, come vala… a casa? Ben, bastànsa, ringrassiando el Signor e se el tempo el tien e se podesse far un poca de ua… insoma gò speransa. Bepi gavarìa un piaser da domandarte… Gò pensà, te sè, no me piase disturbar… ah, lè na roba da poco sèto… Se posso eh, se posso… te si un parente, te sposà me sorela… come stala adesso de quei laori de done? Ah puareta, la sèita perder, ma el dotor el dise che l’è l’età e dopo passa. Te disei de l’ua? Ghe nèto tanta de quela mora… Ghe nè anca de bianca, ah se la va ben tra qualche mese, ciapemo dei bei schei … se no lè come nel sinquantotto, poco ghe manca… Basta che piova, che no tempesta, che quei vermi de l’America, i speronòfori, no i ne le magna… Bepi te dispiase se te domando un piaser. Ostia te lò dito, se posso, t’el fasso, semo come fradei… te si vegnù ti a arar, mi son vegnù a rastrelar, te me iutà a travasar… se posso, dito che no tel fasso… Gò pensà, ho parlà anca con to sorela. La ma dito, arda el ga un cor… lè brusco ma se el pol el se fa in quatro… eh po, la ma sempre dito ela, arda che el sangue el se sente, e quando ghè bisogno… Ostia dime, ghèto bisogno dei bò, toli su. T’el sè no ghe i do a nessun, ma a ti si… lasseli sponsar un poco… La ga reson me sorela, se no se iutemo noialtri parenti. Te ricordito to pare, quante òlte galo dato na man al mio? Se conosemo da piccoli, nella stessa corte, dopo tè sposà me 24


sorela… Semo gente che se pol… se posso el fao, sa uto? La saria roba de schei. De schei? Vèito Bepi, el me Lorenso, che el sarìa to filiocio, nol ga na salute de ferro come quei altri e alora avemo pensà: sa faralo sto buteleto, el fa na corsa el pantesa, el monse ghe vien la lergìa, el sta al sol ghe se infiama i oci… Lè debole òstrega, no so da ci lè vegnu fora. Parché mi e anca to sorela semo de sòca bona. Emo parlà anca col prete… el dise: «ma vardè che el ga na testa, lè inteligente, no stasì guardar altro che i muscoli». Con l’inteligenza, te sè, te magni poco in campagna. Me son anca rabià, a òlte ghe disea: «eh, can da l’òstia, qua bisogna móer el coin sinò la barca no la va mia vanti». E te vedi che el ghe le mete tuta, ma nol ghe le fa. L’altro di, lo porto con mi a travasar… e lava bottiglie e porta zo casse… za che ghe semo lava i vesoti che no i ciapa quel tuin che te fè fadiga a tirar ia… Vedo che el va, ma el tase. Ghe digo: «béi un bicier». «Papà nol tegno». Anca questa lè na preocupassion, lè stemio. «Papà l’udor el me fa vègnar su el magnar…». E alora pensa con to sorela, che la te vol ben sèto… La sèita, me fradel si, quel véito el ga un cor… che tante òlte digo: è òstia falo tuto lu e mi ci senti… ma varda che te stimo sèto, parché te si un’omo, te si uno che sèita ropetar… e vanti… Ben par fartela curta, emo dito: ben proémo, fémolo studiar… almanco sui libri nol gavarà le madone. Lè inutile che seitemo a ponserlo, se nol ghe le fa… lè come catar un pel in t’un ovo… Va, sempre con to sorela, al seminario… te vedessi che belo, tuto disegnà sui muri. Emo parlà con quel che comanda, el dise: «ho visto i voti, le raccomandassioni, proémo…». Èco, èto capìo, i le torìa lori, ghè solo da portarghe i schei… 25


Èco parché emo dito: l’unico che ne pol dar na man lè to fradel… Par mi no domandarìa, ma, te sè, par un fiol… Ho capìo, ma èto proà a meterlo a laoràr in botega, a far el marangon, el fornar… Varda che ghe nè mestieri sèto… no bisogna mia laorar i campi par viver. Ghè i concorsi in ferrovia, la studià un bel pochetin… Varda iémo proade tute, gò la testa che me sbrusia da tanto ho pensà in sti mesi… parché iè mesi, sèto, e come te vedi no son mai vegnù prima… la solussion la sarìa el seminario, lu là el sta chieto, sui libri, el va vanti e dopo el ghe pensarà, volo farse prete, doman el pregarà anca par ti, volo lassar li e ndar a laorar, quando tè studià te si a caval… el ghe pensarà lu. Mi e to sorela emo dito: fémolo nar avanti un pochi de ani e dopo el se rangiarà, sarà quel che el Signor vorrà… Te sè la campagna adesso lè guernà ben, la te da un franco, se te ghe tien drio, ma ghe vol aiuto e lu lè el piassè disgrassià, nol ga forsa, el sèita sbossegar. No volemo averghelo sula cossiensa, sèto. Magari lè nel campo che el vanga par piantar i brocoli e tac el fa un colpo e el more… sa fèto col rimorso par sempre. Nò, par mi, ma pensa a to sorela. Te ricordito quando to pare el te disea: ricordete, te si el più vecio, tè ciapà piassè de tuti, ma bisogna che te dai piassè dei altri… Ghe l’avemo dito anca all’arciprete che vegnéimo da ti par sto piaser e la dito: no podei andar da uno meio. Parché se discore, te ghe si in grassia che no se sa… tuti i te stima in paese, te si come un santo. Par dirghene una: tornando ieri dal seminario, ho fermà el birocio davanti al Caga e digo: béo un bicier e to sorela la dise: si intanto vo a contarghelo al prete… Ghe digo: «Caga, sa pensito de me cugnà par cussì e cussì». El me dise: «varda quel si el ga du coioni. Lè trentani che ghe do da ber, no là mai inciodà. El ga la pila, ma el paga… parché de solito, anca se i ghe nà i 26


fa de tuto par no darteli, to cugnà no». Podarìa sitar che tuti i te stima assè e tuti i ma dito: va da lu no sta farghe un torto… Òstia la gente la fa presto a parlar dei schei dei altri. No i sa mia le disgrassie che ghè nele fameie… i pensa de averghele altro che lori, i se impenisse la boca… Te sè che anca Giacomo la fato la pleura e mi gò na bestia d’un can che me rósega qua nela gamba che se no me cucio in pressia, resto li come un semo, dal dolor. Ieri era drio arar e son cascà par tera come un’oco… avarìa dito de lassarghe la ménega. Ognuno guarda dentro la so fameia, ma el studiar el me par sbaglià par i nostri fioi. No i gà la sòca, i libri iè fati par i siori… Varda el fiol de Cesarin… in seminario lè morto a forsa de studiar. Se el le tegnéa a casa, el saria ancora qua. L’èto ciapà par el verso giusto nel laoro? Vuto mandarlo qua da mi, che próo mi a introdurlo… podarìa darghe na manceta par farghe òia. Qua da far ghe nè… Varda ièmo proade tute e desso avaressimo deciso de mandarlo, bisognarìa che ti te ne imprestassi… Parché védito, studiar da prete… Par carità averghe un neodo che confessa, benedisse, no me dispiase… ghè bisogno de na carta, el te da na man… ma èlo portà?… te sè bisogna che i desméntega l’osel, gnente done. Magari la gente la dise: speta che lo iuta e magari la fa el so mal, e un giorno, el capita qua e el dise: parché ghèto imprestà i schei a me upà che cossita el ma sassinà. Meti che el se cava la veste, che i le cata con na troia… Se ghe ne sente, sèto, … lè na bela responsabilità! Nò, t’el digo mi… lè un prete nato: gnanca, gò dito a to sorela, te l’abi fato col prete! lnvesse el vegnarà qua e el te dirà: sio grassie par quel che tè fato, mi te nomino ogni matina nela messa, no fa gnente anca se te tiri qual27


che mocolo e te imbroi na scianta el paron, con tute le me preghiere te vè in paradiso sicuro. Varda che no lè mia poco … Eh, sa sèto ti del paron… eta sentìo calcossa… Eh, gnente, tuti i crede che te sii un santo e quando i me la dito gò risposto: lè un santo! No te pol mia méterghe in conto tuto, alora te disi: speta che un poco lo meto da parte… Bepi, te fè ben, e mi son contento che, te gabi un franco… I schei, sacramento, tuti i vol schei… Ostia l’avesse savù prima, no ordinàa el careto novo, el perde tochi da par tuto; bastàa du giorni prima che no compràa i du vedei de late, parché la Bigia lè mal messa. Son sempre in stala, parché me par la sia drio morir, e de na vaca morta no te ciapi gnente… Gavea quatro franchi in posta e el ma dito: vuto impegnarli che te ciapi un bel fruto, tri ani te do el sié. E mi gò dito: va ben. Dito che se savea che te vegnei tri giorni dopo l’avarìa fato, nò èra! Òstia, par quando te occoraréssili? De paca, el va zo luni e se no ghe porto i schei prima, no i vol gnanca védarlo. Beh, ma te ghe nè anca ti un bel pochi… tè vendù na bestia a Bieti un mese fa… che te podei offrirmela anca a mi, e no te mè gnanca domandà. Te tirà i schei dell’olia anca ti… Bepi, i ho messi tuti par lu, ma no iè mai bastansa… Te savessi sa costa studiar, e sa vol i preti … Ma parché te te meti in un roéio che no te ghe ne vien più fora… Parché véito, coi preti no te pol mai far debito, i te cava la camisa e i te manda all’inferno. Comunque te ghè da pensarghe ti… L’èra meio che te lo guernassi ben, magari un ricostituente del dotor, na bela 28


stropa e el parasse avanti i campi sènsa dover ringrassiar nessun, sensa far debiti… Bepi, bisogna che te me i dai … Bepi i me ocòr. Te fè presto a parlar: bisogna… Sacramento te vien nel più bruto momento che ghe sia… varda, te mostro el portafoglio, guarda se ghè un sesìn… santini, carte da pagar. Varda qua, gò ancora da darghe i schei del fil che tien su le bine e el sèita domandarmeli. Varda, èco qua, ghè sinquesento franchi, i vuto… toh… Nò, Bepi, no son mia el Bortolo che el vien a la carità, mi te i domando parché dopo te i do indrio… Ala vendemia te ghe iè tuti e se te vol te do i interessi… Me credí na banca, parché uno el tase, nol se lamenta, i dise: lè pien de schei. Ma quai, son qua che tribolo anca de note, pien de pensieri… Bepi, te ricordito quando è morto to pare, to sorela l’avea redità un tòco de tera e ti: «damela a mi che la tegno insieme a quell’altra come se ghe fusse ancora el upà, te dò calcossa…». Quel campo e mèso là, te ghe lè vendù ai Ferari par fabricar e tè ciapà na brenta de schei. No tè mai dito: «sorela, varda iè par ti…». Ma el sèto sa ho pagà de tasse quando è morto el vecio e sa ho pagà anca par to moier. Seto sa mè costà intestarme quel fassoleto de marogna de to moier? Un sporchesso de schei, l’era meio che ghe la lasasse. Lè sta na debolessa, l’èra ancora nela cassa e me parea de farghe un piaser… Lassemo star Bepi, me ocòr i schei par me fiol e ti bisogna che te me i daghi, parché mi so che te pol. No te domandarìa mia, sinò… Varda, gavarò in tuto mi diesemila franchi, i vuto?, dopo posso morir de fame. Schei no ghe nò: gò quatro basecole, du campi che guerno par me fioi… parché tèto desmentegà, ti e to moier, che gò fioi anca mi… e credito che no me piasaria farli studiar… e varda che de testa 29


i ghe nà anca lori, specie el Mario, ma dove cato le palanche? Te pararìa giusto che se ghi avesse, e no ghe iò, i spendesse par far studiar i tui de fioi e lasasse i mei ignoranti come mussi. Ieri el più vecio el ma dito: upà voria regalarghe na còtola a me morosa, me dèto quindese mila franchi che ghè na liquidassion. Nò caro, gò risposto, dighe a to mama che la ghe le fassa ela… mi schei no ghe nò. Doman che el savesse che mi ho dato i schei par so cusin, cossa dirésselo? Magari el se ritien maltratà e el ciapa su e el va via de casa… Ho rovinà la fameia par aiutarte ti! Se doman me moier la ga bisogno de un dotor de città o la more? Cossa ghe digo: nò, no sta curarte o no te fasso el funeral! Bisogna pensarle tute, cari, e bisognarìa che te l’avessi considerà prima de vègnar qua a domandar schei. Lè fadiga, savìo, averghe schei, iè sudor de la fronte. Vuto che roina la me fameia, che fassa morir me moier… Prima che te rivassi pensàa: òstia e sa falo adesso sensa còtola, magari i cria, e se par colpa de quindisemila franchi ho sassinà na fameia? Pensàa da par mi: se vendo el me orolòio, i recíni de me moier, podaressimo comprar na bela cotoleta, magari de quele curte che se usa ancò che le costarìa manco… Vèdito che dapartuto, in ogni fameia, ghè i so problemi. Du ani fa quando me son roto la gamba avea pensà: ben vò domandarghe un po’ de schei in prestito a me cugnà, che te saressi ti, e dopo ho dito: ah lassa star, tiro piassè la cinghia e no son mia vegnù. Sonti vegnù? No, no te si vegnù! E ti invesse? Son vegnù. E no te dovei végner, parché adesso mi sto mal e digo: òstia che belo sarìa poder aiutar me cugnà e me neodo… Sacramento quando elo che la cambia e invesse de 30


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