OMAGGIO A PIAZZOLLA - volume 1 - ANTOLOGIA

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OMAGGIO A PIAZZOLLA a cura di Velio Carratoni

1 ANTOLOGIA


Š Copyright by fondazione Piazzolla, Roma, 1992


«Se Cecchi, per esempio, dice che Montale è un grande poeta, i critici che hanno un complesso d’inferiorità rispettoa Cecchi, ripeteranno in coro, che Montale è il più grande poeta italiano. Se De Robertis ha scritto e riscritto che Ungaretti è l’unico autentico poeta che abbiamo in Italia, i critici subalterni di De Robertis continueranno a dire che Ungaretti è e sarà il nostro più grande poeta. La suggestione critica, promossa da tante ragioni segrete e non segrete, che sono tutt’altro che disposizioni al giudizio sereno ed obbiettivo, finisce per colpire anche gli scrittori. Così in Italia, si sono formate le gerarchie. Ma in Italia, purtroppo, sia le dinastie che le dittature durano molto, anche nel campo della cultura e dell’arte. Ed è questo un segno di scarsa civiltà…». Marino Piazzolla La funzione della critica letteraria militante, «Iniziative», Roma, marzo-aprile 1955.


Marino Piazzolla, disegno di Eugenio Dragutescu, dicembre 1961.


NOTA DEL CURATORE

Ci son voluti coraggio e ostinatezza, a recuperare tanto materiale sparso di un autore, oggi, che non va per la maggiore, con lo scopo di suggerirlo o di proporlo all’attenzione di chi l’ha conosciuto o non. I primi sempre di meno, forse se lo stanno dimenticando; i secondi, di più, potranno acco starsi al suo mondo fatto di classicità, di cultura, di natura e vita. Un autore in definitiva «grasso», ossia ricco di opere, di contenuti, di immagini, in molti casi misurato, per la sua capacità di ricorrere alla sintesi, anche quando la materia è incandescente, ma lo stesso concisa come in Lettere delle sposa demente. Insomma, si tratta di un testimone di tempi bui, come quelli d’anteguerra, di guerra fredda e di ovattamento consumistico che si possono dividere in tre fasi: fervido e di scoperta, sia pure di precarietà, quello parigino; di partecipazione critica e d’impegno costruttivo, quello che va dal dopoguerra agli anni Cinquantasessanta; per divenire di revisione e di polemica con se stesso e con gli altri, quello degli anni Settanta-ottanta. E tra questi periodi emergono tre filoni, quello di «Narciso», periodico introvabile, da lui fondato, che precede gli anni Cinquanta, per il quale ha subito denunce, processi, umiliazioni. La linea di tale periodico era di critica e di esaltazione di un libertarismo mai gratuito o scanzonato, ma d’impegno sociale che lo porterà alle tematiche apocalittiche del postumo Il pianeta nero. Altro motivo ricorrente nelle sue ricerche, quello lirico, come nel su citato Lettere della sposa demente, ricco di pathos e di delirio emotivo e quello religioso di un·saio nell’infinito. Dovrei proseguire con altri filoni, da quelìo politico a quello umoristico, ma già quelli citati dimostrano che si tratta di un autore, come già accennato, eclettico, non nel senso della struttura o dell’espressività contenutistica, ma di una sistematicità che non è frequente nella produzione poetica di una nazione che ha dato tanti poeti intimisti o lirici occasionali o scialacquatori di accozzaglie da officina in ebollizione, ma poveri di una certa sostanza o di un’autentica espressività che abbia lasciato il segno. E per questo i suoi componimenti hanno messo in difficoltà molti ad detti ai lavori, poeti o critici, pur contando su uno stuolo vario di uomini di cultura che l’hanno trattato. Questa una delle più strane contraddizioni in cui si sia trovata la nostra critica che l’ha seguito senza accettarlo, in troppe circostanze; che l’ha amato, ripudiandolo, al momento giusto; che l’ha letto e imitato, senza troppo prenderlo sul serio. Quindi l’Omaggio in questione, per il quale ho dovuto reperire molti testi e

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tralasciarne tanti altri, per evitare un lavoro arduo e sconfinato, pur non riuscendo a reperirne altri ancora, nasce dall’intento non di esaltare o celebrare ad ogni costo, ma unicamente di proporre brani, interpretazioni, giudizi, sollecitando gli studiosi, gli uomini di cultura, i giovani a ricordarsi di un autore, non avendo qualità inferiori di tante glorie nazionali che sono trattati per moda, per fortuna, per ragioni di schieramenti e di cricche. La sua riproposta non dovrebbe essere quella di farlo risultare con i gradi di maggiore o minore, di grande o piccolo, esortando chi dice di conoscerlo ad approfondire ragioni e spunti, prima di diffondere notizie inesatte sulla vita e le opere; evitando di esprimere giudizi sommari sulla cattiva sorte capitatagli, auspicando, invece, una più attenta analisi sull’uomo e il personaggio. Non si tratta di un invito forzato o di parte, essendo stato chi scrive suo amico, ma di un suggerimento a bassa voce, suffragato del resto da giudizi di altri studiosi non sempre comprovati da medesimi intenti. In realtà Piazzolla suscita imbarazzo. Perché? Rimarrebbero altre documentazioni da reperire, soprattutto di manoscritti, documenti di qualsiasi specie di sua appartenenza, in modo da poter sollecitare altri spunti per ulteriori interpretazioni. Anche se riconosco che sia i brani della presente antologia che quelli che seguono delle testimonianze o delle interpretazioni critiche da me proposti potrebbero offrire lo spunto per illuminarci su un autore complesso e anche timido, dalla scorza esteriore che lo faceva sembrare, impropriamente, sicuro e combattivo. Piazzolla mi è parso, in troppe occasioni, un ansioso, un introverso, un rabbioso sì, ma incapace di grandi azioni costruttive. Egli è stato più un rinunciatario che un conquistatore; un vinto, anche quando una certa fortuna l’avrebbe messo in grado di risolvere tanti problemi reali. A questo punto è stato sopraffatto da eventi più grandi di lui, rimanendo essenzialmente un bambinone, costretto a muoversi in una giungla piena di sciacalli e di uomini meschini. E in tale periodo ho visto nascere o riproporre le composizioni de Il pianeta nero, derivate da uno stato di maledizione e d’invettiva, per il clima d’incubo in cui era costretto a vivere. E con tale lavoro si è conclusa la fase della sua esistenza: l’ultima volta che l’ho incontrato, la sera prima della morte, a Villa S. Pietro, teneva in mano proprio tale testamento di sciagure e di morte. Ma, rileggendo i brani dell’antologia, ci rendiamo conto che egli sapeva anche ridere e sghignazzare sul destino umano. Prova ne sia che i Detti immemorabili di R.M. Ratti, costituiscono un’altra opera da riproporre, per la sua freschezza e per il tono di scherno caricaturale che emanano da essa. Quindi, Marino non è stato il solito poeta logorroico e multiforme, ma un maestro di vita, anche da contestare o rigettare, prima conoscendolo. Per fare questo, come lui stesso ha esortato, occorre liberare le orecchie da tanto cerume e le pupille da tanti paraocchi. Velio Carratoni

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PREMESSA

Tale e tanta è la caduta d’interesse verso scrittori ed artisti che hanno vissuto con passione le varie esperienze degli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, che non ci sarà da stupirsi se oggi molti dovranno riscoprire il nome di Marino Piazzolla e la sua opera, che fu insieme quella di un poeta e di un saggista letterario, nonché di un pittore esigente quanto la sua attività di critico d’arte. I tempi della moda non sempre vanno d’accordo con quelli della storia. Tanto più quando si tratta di uno scrittore e di un artista dotato di una notevole indipendenza di carattere, di una fierezza d’animo che lo rendeva spesso indifferente ai miti correnti. Facciamo subito l’esempio più vistoso, quello di Sartre. Ben diversa era, infatti, la conoscenza che Piazzolla acquisì delle teorie esistenzialistiche, vivendo a Parigi negli anni ruggenti, dal tono che assumevano le medesime teorie, anche distorte, messe a frutto in Italia, in ambiente neorealista. E così si può dire di altri problemi intellettuali e di meditazione filosofica che lasciarono freddo o in perfetto contrasto il poeta di S. Ferdinando di Puglia. Se si prescinde dai gusti e dai disgusti, che caratterizzarono l’ultimo decennio della sua vita, la maggior parte delle idee di Piazzolla; coincidenti con l’epoca della sua piena maturità, sono condivisibili assai meglio oggi che ieri. L’uomo che non cessava di frugarsi e di interrogarsi come poeta e pensatore, era essenzialmente un solitario. E in questa sua solitudine ben armata accumulava motivi di riflessione autobiografica e ragioni culturali, che spesso travasava automaticamente nei suoi libri, tutti in genere di carattere antiaccademico, com’era costituzionalmente l’autore. Chi veniva in contatto con lui, presto si rendeva conto anche dei suoi prolungati silenzi, virtù che divideva con Vincenzo Cardarelli, suo amico divenuto più tardi a lui ostile. Ma ricorderò anche certe caratteristiche che lo avvicinavano ad un altro grande poeta solitario della lirica moderna, Corrado Govoni, che Piazzolla cominciò a frequentare intensamente dopo il suo ritorno a Roma negli anni ’50. Entrambi, a mio avviso, avevano sentito sino in fondo la vanità culturale del fascismo,· ma Govoni, al contrario di Piazzolla, che si era ritirato nell ’insegnamento, aveva subìto dalla sorte torture morali immedicabili: innanzitutto la tragica morte del figlio Aladino alle Fosse Ardeatine, per il quale scrisse una delle opere più memorabili della poesia contemporanea. D’aItronde, che altro si poteva dire di lui se non che era un “vinto” – lo si accennava spesso con Piazzolla? La sorte lo aveva condannato ad avere in casa una donna seminferma di mente, la compagna della sua vita inquietissima; e per impiego un oscuro posto di usciere al Ministero del Tesoro. Né gli erano rimasti accanto molti

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amici ed estimatori. Piazzolla era tanto colpito da tale situazione da suggerirmi di esporre il caso di Govoni a Roberto Longhi, anch’egli ferrarese e in gioventù fervido ammiratore di quell’ingegno fecondissimo. A cose fatte, dopo la pubblicazione di un’antologia govoniana, ebbi facile vittoria. Il libro fu recensito da Montale e da Solmi. Piazzolla non era soltanto uno scrittore generoso; nella cerchia dei transfughi e dei mistici a cui apparteneva di fatto, godeva di una caratteristica sua propria: sapendo di non poter contare sull’aiuto di nessuno, agiva sempre seguendo un istinto profondo:· cercare nell’amicizia il conforto supremo. Ma gli amici non ricevevano, di solito, che una parte di lui. La parte maggiore la riservava al suo lavoro di poeta e di saggista, producendo e stampando a ritmo incalzante. Caproni mi confidò una volta che era stato difficile un giorno per lui parlargli al telefono.· Lo aveva sorpreso evidentemente in un momento creativo. Appariva agli occhi di Cecchi, che più d’una volta lo ricevé nel suo salotto domenicale, come l’ultimo dei bohémiens. Era tale, forse perché Cecchi sapeva che di rado Marino trascurava la sosta al caffé prima di cena, in un tempo in cui ormai non usava più? Riflettendo su queste abitudini, mi chiedevo quale sorte avrebbe avuta l’opera di un tale solitario. Vorrei dare, in questa “premessa” all’Omaggio a Piazzolla, qualche piccolo aiuto a conoscerlo nel carattere e nella vita quotidiana, dato che dell’opera poetica e di quanto egli ci ha lasciato, come eredità morale, mi pare di aver detto ciò che sento nel saggio qui raccolto. Esso riguarda principalmente il distacco traumatico dalla persona amata, lo “strappo” appunto che ha dato il titolo a uno dei suoi libri migliori. In queste poesie di rimpianto e di strazianti ricordi, Piazzolla aveva lasciato del tutto da parte una delle sue doti genuine, l’ironia, che unita all’orfismo e alle sue tendenze misticheggianti, risuonano quasi in tutte le sue opere. Nell’amaro mistero della morte, egli aveva sentito vibrare solo la corda autobiografica, come in tutti i poeti di autentico respiro umano. Ma al lettore di questo Omaggio, che ha richiesto tante cure dal suo artefice, vorrei alla fine indirizzarmi con una preghiera: scomparso l’ultimo bohémien del secolo, se ne ascolti la voce, insieme spontanea e incisiva, anche in quelle preoccupazioni e profezie che occupano tanto posto nelle ultime sue opere. Una delle fulminanti manifestazioni del coraggio morale di Piazzolla può ritrovarsi nella lunga “Lettera a Bertolt Brecht”, un poemetto del ’65 riportato ne Il Pianeta nero, l ’ultimo suo libro apparso in coincidenza della sua scomparsa. Si parte da una constatazione: «Stiamo vivendo i tempi della paura», e si precisa che «ovunque c’è la promessa certa del terrore». Ma la parte centrale del poemetto riguarda l’avvenire dell’umanità, ed è possibile riepilogarla in questi versi: «È delitto spingere la vita di oggi –/ che certamente non è vita per miliardi di uomini /– nel tempo che non è già, o forse sarà miraggio.·/ o certamente non vita per quelli che verranno». Ecco, vorrei che il lettore si sof- fermasse un momento su questa profezia del 1965,

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che sta per diventare amara realtà d’oggi. Anche per evitare che alla poesia di Marino si guardi come a uno struggimento personale, a un sofistico e intellettualistico diagramma d’un’esperienza privata. Ciò che doveva diventare in Piazzolla poesia lo è stato, anche in virtù di tali convinzioni. Giacinto Spagnoletti

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INTRODUZIONE

Quest’opera vuol essere, oltre ad un “omaggio”, un risarcimento, nella storia della nostra letteratura, al poeta Marino Piazzolla. Ho accolto con piacere l’invito a stilare questa introduzione non solo in quanto amico di Marino, che conobbi a Roma nell’immediato dopoguerra (negli anni di ripresa della «Fiera Lettteraria», quando la sua direzione fu affidata a Vincenzo Cardarelli, ma anche perché fui tra i primi ed apprezzare la sua poesia, allorché egli pubblicò, nel 1951, Elegie doriche, che apre un nuovo ciclo nella sua produzione, dopo il detinitivo trasferimento (1946) nella capitale1. Fui anche il primo a paniere della sua poesia in una Università, anzitutto in Assisi (Università «San Paolo»), nell’anno accademico 1965-19662 e poi in Viterbo (Libera Università della Tuscia). Continuavo a seguire con vivo interesse gli sviluppi del poeta pugliese negli anni Cinquanta e Sessanta3, finché nel 1968 lo introdussi, curandone la voce, nel Dizionario delta letteratura mondiale del secolo XX 4. Nel 1980 presentai nella Libreria Croce, con Ferruccio Ulivi e Walter Mauro, l’opera Sugli occhi e per sempre (Ed. Fermenti), e nell’anno successivo lo proposi, con altri colleghi della Giuria del premio nazionale di poesia e di critica «Citta di Tagliacozzo» [da me presieduta5], per l’assegnazione del primo premio per la poesia, che gli fu conferito per l’opera L’amata non c’e più6. In quello stesso anno pubblicavo su «L’osservatore Romano» (11 settembre 1983) un articolo in cui ripercorrevo l’intero iter dell’opera di Marino, sottolineandovi la forte incidenza dell’ispirazione verso l’oltre e l’altrove, senza trascurare la sua creatività figurativo-ideografica. 1  Secondo quanto attesta lo stesso Piazzolla in un suo intervento nell’lnchiesta su “Poesia nuova”. in “Ouinta Generazione”, a.V, settottobre 1977, p. 36. 2  ln un mio corso su «Le giovane poesia italiana nel dopoguerra – 1945-1960». Le prolusione a tale corso fu pubblicata, con il titolo Poesia nuova in Italia fra ermetismo e neoavenguerdia, Roma, ed. Ausonia, 1966, pp. 48. 3  Ctr. la mia recensione a Elegie doriche in “Idea” 2 dic. 1951 (poi nel volume A.F., Poeti italiani dei Novecento, Alcamo, 1953); l’articolo Itinerario poetico di Piazzolla, in “ldea”, 8 maggio 1955 (poi in A.F., La giovane poesia italiana, Pisa, Nistri-Lischi, 1964); la recensione a Mia figira è innamorata in “Humanitas”, novembre 1960 (poi in La giovane poesia italiana, op. cit.), 4  Roma, Edizioni Paoline, 1968. Tale “voce” appare anche in A. Frattini, Poesia nuova in Italia, Milano, I.P.L., 1968. 5  Tale Giuria era tormata da F. Del Beccaro, V. Esposito, L. Luisi, E. Miscia, U.M. Paianza, A. Paoluzi, M. Petrucciani, M. Scotti. 6  Roma, Edizioni deiI’Ippogrito, 1980. Tale opera – scrivevo in un articolo su “II Popolo”, 18 settembre 1981, p. 8 – ·radicata in un drammatico groviglio di tensioni dell’umano al sovrumano, si concentra e si decante in un linguaggio tanto più incisivo quanto più spoglio, tra la sofferenza di un’immedicabile ferita e la luce della parola come accordo tra sgomento e solitudine, memoria e rimpianto: dove la fedeltà alla poesia si fa ormai estremo appiglio di salvezza». Si veda, in merito a questo Premio, anche l’articolo (con una breve intervista a Piazzolla) di Renato D’Aquino, in “L’Umanità”, 16 settembre 1981, p. 3.

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Nel 1983 inserivo Piazzolla nell’antologia Poeti a Roma7, dove si esempla un gruppo di poeti che a Roma, nel secondo dopoguerra, si erano incontrati, in buona parte, nella collana di poesia di E.F. Accrocca e C. Vivaldi, «Il Canzoniere»: dove Marino aveva pubblicato, nel 1953, Esilio sull’Himalaya, testo notevole del suo revival romano. Parecchi anni più tardi Piazzolla, partecipando ad un’inchiesta promossa dalla rivista «Quinta Generazione»8 chiariva che se da quel gruppo non era nata la nuova «scuola romana di poesia», di cui aveva parlato Giorgio Petrocchi, ciò si doveva al fatto che quei poeti «avevano ben ferma l’idea che la buona poesia non può nascere da raggruppamenti di scrittori, magari fondati su ardite e ambiziose ragioni, sia d’ordine estetico e stilistico, sia più latamente, culturali e sociopolitiche. Programmi e poetiche di gruppo non possono avere, se mai, che limitata incidenza sugli orientamenti del gusto e del costume letterario»9. Ricordava inoltre di aver collaborato alla rivista «Poesia nuova», da me fondata (con Pietro Calandra) nel 1955, e nella quale lo avevo presentato sul primo numero. Partecipai, infine, alla presentazione dell’opera, purtroppo postuma, Il Pianeta nero (Ed. Fermenti, 1986), che arricchisce di inconfondibili drammatici accenti la variegata invenzione lirica di Piazzolla. Ho indugiato sui numerosi contributi da me dedicati allo studio dell’opera piazzolliana, per dare testimonianza dell’interesse da me avvertito per essa, nella sua rigerminante vitalità, sempre coniugata con una umanità inquieta e generosa10: dove, nonostante talune punte di acre pessimismo e di amara negazione, mai si perviene a prospettive di nichilistica resa. Come ora si può meglio verificare nell’ingente corpus selezionato delle sue opere, che consente di spaziare sull°intero orizzonte ideativo e produttivo dell’autore, esemplando anzitutto i testi del poeta (di cui si registrano oltre 45 titoli), ma senza trascurare né il critico letterario né il critico d’arte, né il traduttore, il saggista e il polemista, né l’opera del grafico e pastellista, per il quale era già apparso, nel 198111, un folto contributo di testimonianze critiche arricchito dalla riproduzione, in bianco e nero, di numerose opere. Un importante strumento per ulteriori ricerche offrono, in questo Omaggio, i materiali ordinati alla ricostruzione di una storia della fortuna critica di Piazzolla, a cominciare dalla raccolta delle prefazioni: dove, se ha subito spicco 7  A cura di A. Frattini e M. Uffreduzzi, Roma, ed. Bonacci. In precedenza, in un saggio su La poesia religiosa dal 1945 ad oggi (nell’opera collettanea Letteratura Italiana Contemporanea, diretta da G. Mariani e M. Petrucciani, Roma, Lucarini, 1982) aveva riconsiderato l’esperienza poetica di Piazzolla sul versante di animazione mistico-trascendente. 8  N. 37/38 e n. 39/40 (1977). 9  lvi, N. 39/40, p. 37. 10  Per i rapporti con l’amico ricordo una singolare iniziativa negli anni Sessanta: per risolvere il problema — anche allora critico — della casa si formò una cooperativa, presieduta da Corrado Govoni, di cui facevano parte Giorgio Caproni, Giacinto Spagnoletti, Mario Dell’Arco e Marino: un progetto di poeti, che aveva l’attrattiva di un miraggio: e tale, in concreto, rimase. 11  Testimonianze per Marino Piazzolla, Roma, Edizione Fermenti, pp. 52.

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l’attenzione e il consenso di un poeta d’OltraIpe, il provenzale René Méjean (conosciuto a Parigi nell’anteguerra ed al quale Marino si ricollega per la comune esperienza magicista), si coglie anche il progrediente interesse di scrittori, poeti e critici di rilievo, da Giuseppe Marotta a Enzio Cetrangolo, da Mario Sansone a Giacinto Spagnoletti, da Giorgio Bárberi Squarotti a Pietro Cimatti. Il vasto panorama di riconoscimenti e apprezzamenti si articola e si avvalora non solo nell’ambito delle recensioni alle singole opere, ma anche nella serie di testimonianze critiche, dove si incontrano molti dei nomi più significativi della poesia italiana di questo secolo – da Corrado Govoni a Camillo Sbarbaro, da Carlo Betocchi a Mario Luzi, da Libero De Libero a Giorgio Caproni – e della nostra critica contemporanea: da Francesco Flora a Ferruccio Ulivi a Luigi Silori, da Emilio Cecchi a Giuliano Manacorda, da Mario Petrucciani a Michele DelI’Aquila. Quanto alle interviste ed alle autopresentazioni, occorre procedere con cautela, dato che si tratta spesso di interventi improwisati e con palesi intenti di autodifesa: sì che non è raro il caso di trovarvi l’autore in contrasto con sue precedenti affermazioni. Così sul problema specifico della sua fortuna critica Piazzolla asserisce, in una intervista del 197712 di non mancare di una ricca bibliografia, e richiama, fra le voci di consenso, nomi di prim’ordine, da Massimo Bontempelli a Giacomo Debenedetti; mentre nell’intervista di Angelo Sabatini13, cinque anni più tardi, sostiene che i critici «non si sono mai occupati» delle sue opere, e ne chiarisce la ragione nel fatto di non aver trovato una casa editrice («importante» si deve sottintendere), sì che essendo, a suo avviso, i critici «ufficiali» legati alle case editrici che più contano, quando uno scrittore non pubblica con quelle essi non si pronunciano: ciò che sarebbe accaduto nel suo caso. Ma alle interviste citate avrò occasione di riferirmi ancora, per meglio puntualizzare i rapporti, divenuti talora difficili, con alcuni dei nostri maggiori poeti di questo secolo – Cardarelli, Ungaretti, Montale – in un intreccio di rapporti in cui meglio si motivano ragioni e aspetti che Marino privilegiava nella sua poesia ed avvertiva tra le cause della sua contrastata fortuna. Ad approfondire alle radici il maturarsi della cultura di Piazzolla e della sua stessa idea di poesia gioverebbe studiare organicamente i suoi numerosi interventi critici sulla poesia italiana – da Dante a Leopardi, da Marinetti e il futurismo all’ermetismo al neosperimentalismo – ma senza trascurare le sue ricognizioni nell’area transalpina, dal decadentismo al simbolismo al surrealismo, da Baudelaire a Mallarmé, da Valéry ad Apollinaire, da Saint-John Perse ad Henri Michaux, da Claudel a Char a Méjean. Nella sua avidità di cultura Piazzolla era d’aItronde interessato a problemi e personalità di spicco della 12  A cura di Velio Carratoni, in “Fermenti”, aprile 1977, pp. 18-21. 13  Nella “Telefonata”, programma di Radio Uno, a cura di G. Bisiach, 1982. Vedi qui il testo nel vol. 2°.

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civiltà letteraria contemporanea, sì che fra i temi dei suoi interventi – di occasione, taglio e impegno diversi – si rispondono scrittori pensatori e poeti di vari tempi e paesi, da Pirandello a Proust, da Pascal a Nietzsche, da Poe a Joyce, da Kierkegaard a Eliot, da Hölderlin a Guillén, dalla Weil a Lorca a R. Alberti. Una ricostruzione a parte meriterebbe – come sopra accennavo – il contributo di Piazzolla all’interpretazione della poesia italiana del Novecento: numerosi sono infatti i suoi articoli in merito, da C. Govoni a G. Ungaretti, da Campana a Cardarelli, da Quasimodo a Grande, da Penna a Gatto, da Delfini a De Pisis; fino ai più giovani, da N. Risi a G. Frattini, da Cimatti a Spatola. Senza escludere nuove voci dell’area meridionale, dal calabrese F. Costabile al corregionario C. Serricchio. Nell’auspicata ricognizione sarebbe utile mettere a raffronto le valutazioni dei primi scritti e i giudizi che più tardi si incontrano in altri interventi, dove è evidente che l’ottica del critico si appanna per fatti personali. Come accade nei confronti di Cardarelli, con il quale Piazzolla ebbe una sorta di sodalizio decennale che poi s’incrinò, a causa del mancato interessamento del poeta, allora direttore de «La Fiera Ietteraria», a favore della pubblicazione di un libro di poesie di Marino con l’editore Mondadori. Piazzolla parla diffusamente di questo episodio nell’intervista citata, su «Fermenti» (1977), dove si sofferma con rilievi limitativi e ironici sul «vate di Tarquinia», sottolineando le sue gravi carenze culturali, esorcizzate nel motto «Colti si nasce». Con Ungaretti i buoni rapporti si guastarono, secondo Marino, a causa di un suo articolo pubblicato su «La Fiera letteraria», dove riferiva che Gide aveva scherzosamente definito Ungaretti un modesto suonatore di flauto, epigono di Apollinaire e di Valéry14, sì che Ungaretti avrebbe poi, come membro della Giuria del Premio Viareggio 1960, bloccato e fatto cadere l’assegnazione del premio per la poesia a Piazzolla, che già aveva ottenuto la maggioranza dei voti con l’opera Mia figlia è innamorata. A molti anni di distanza Marino non dimentica quel torto e presenta Ungaretti15 con un flash che si commenta da solo («qualche folgorazione e un potente istinto di arrivismo») e non è certo temperato dalla concessione di quasi ironica sufficienza che segue («da un punto di vista poetico possiede una certa freschezza e un autentico abbandono lirico che lo distingue da Montale»). Quanto a Montale, ecco quanto si legge nella stessa intervista: «malgrado abbia vinto il premio Nobel, penso che non sia andato aldilà di una poesia fondata sui presupposti di un pessimismo di maniera, voglio dire di un pessimismo prefabbricato e non sostenuto da una reale esperienza esistenziale né da una visione leopardianamente profonda del mondo»16. Per un giudizio cosi negativo e macroscopicamente falsificante, le vere 14  M. Piazzolla, Amore di Gide alle lettere italiane, “La Fiera Ietteraria”, 25 febbraio 1951. 15  Cfr. Intervista con Manno Piazzolla, a cura di V. Carratoni, «Fermenti», aprile 1977, pp. 18-21. 16  Ivi, p. 19.

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ragioni affiorano più avanti quando Piazzolla da notizia del torto che nel 1961 avrebbe subìto da parte del poeta ligure17. I successivi rilievi su Quasimodo, considerato, rispetto ai due precedenti, «il più umano e senza dubbio il più legato sia al mondo antico che al moderno», appaiono sintomatici non tanto per tale affermazione (vaga e arbitraria) né per la caratterizzazione che segue («poeta ricco di pathos greco e di magia tutta contemporanea») altrettanto frettolosa e generica, quanto per la chiosa che di tali giudizi sembra fornire candidamente la chiave18. Il lavoro di ripensamento e di valutazione degli apporti di Piazzolla come critico letterario dovrà dunque prescindere dai più tardi interventi, segnati da risentimenti e malumori, e risalire agli scritti degli anni Cinquanta-Sessanta, dove si incontrano meditati contributi su alcuni protagonisti del nostro Parnaso contemporaneo, a cominciare dalla testimonianza su Cardarelli, «un uomo antico in esilio in mezzo a noi»19, all’articolo su Eugenio Montale20, del 1960, al successivo su La farfalla di Dinard21, dallo studio sulla lirica di Giuseppe Ungaretti, dal Porto sepolto a La Terra Promessa22, ai contributi su Salvatore Quasimodo23. Su Pier Paolo Pasolini, di cui Piazzolla apprezzava il valore non solo come poeta ma anche come narratore, saggista, regista, si veda il suo intervento sulla tragica morte dello scrittore friulano·romano24, dove si sottolinea l’ipocrisia con cui si è tentato di rimuovere le «ragioni delicatamente private» del suo assassinio, per il tabù sessuale tuttora dominante in un paese ancora privo di una sensibilità e cultura libertaria. Assai rari invece i contributi di Piazzolla critico nell’area della narrativa: si vedano, in questo Omaggio l’intervento sull’arte di Giuseppe Marotta (con fini rilievi sul corrispondersi fra interessi fantastici atmosfera magica e tecnica espressiva), e il «medaglione» su Alberto Moravia, la cui opera è ripensata di scorcio (fuori da un esame specifico di singoli testi), nella dialettica fra illuministioa concretezza di contenuti, spregiudicatezza d’indagine e naturalezza di vena fabulatoria, dove certe costanti d’ispirazione sono riportate ad una matrice psicologica e sociologica: per cui, per es., «la sua propensione al sensualismo è forse la nostalgia di un rapporto erotico più profondo e più umano. La sua predilezione per il personaggio antieroico deriva dal fatto che, sia superstizione che eroismo sono prodotti di una società falsa, in cui l’uomo 17  «Montale, che curò l’edizione del mio poemetto Mia figlia è innamorata, presso l’editore Del Duca, per il semplice fatto che non avevo accettato tutti i suoi tagli segnati sulla mia opera si oppose in modo accanito contro Cecchi perché non mi venisse assegnato il premio Marzotto 1961» (Ivi, pp. 19-20). 18  «Devo dire che dei tre poeti il più benevolo nei miei riguardi (aveva di me un‘autentica e sincera stima) fu precisamente Quasimodo» (ivi, p. 19). 19  “La Fiera letteraria”, 21 maggio 1950. 20  “La Fiera Ietteraria”, 12 giugno 1960. 21  “La Fiera letteraria”, 2 aprile 1961. 22  “La Carovana”, aprile-settembre 1970. 23  “Il Piccolo”, 28 aprile 1961; “La Carovana”, aprile-giugno 1968. 24  “Fermenti”, nn. 1-2, 1976.

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autentico, semplice e libero, non circola ancora come prodotto genuino»25. Dopo il periodo di collaborazione letteraria con vari quotidiani, dal «Piccolo» alla «Gazzetta del Sud», negli anni Cinquanta, e poi con «La Fiera letteraria» (soprattutto negli anni Sessanta), si accentua negli interventi di Piazzolla sulla cultura italiana del presente e del recente passato, il carattere polemico, che trova un esempio particolarmente significativo nel saggio La cultura che ha fallito26 dove, in un articolato commento ad un incontro-intervista con Renato Guttuso, si ridiscute la cultura italiana nel secondo dopoguerra, muovendo dall’idealeutopia della cultura al potere rivendicato da Elio Vittorini subito dopo la liberazione, e dal rilievo di una allarmante decadenza della vera libertà della nostra cultura, per una presunta immaturità degli italiani a farne appropriato e fecondo uso anziché cedere agli sclerotizzanti meccanismi dell’integrazione nel sistema. Sostanzialmente inaccettabile la tesi, che si sviluppa da certe risposte di Guttuso, di una cultura che sarebbe fallita in quanto «non-cultura» ma resa al compromesso, all’arrivismo, al potere, alle lusinghe del tornaconto e del facile successo (una specie di «fascismo» peggiorato dalla più spregiudicata partitocrazia). Verità concrete sono invece quelle che Piazzolla rivendica (contro cena storiografia faziosa) dove riconosce che nel cosiddetto «ventennio nero» poterono operare ed esprimersi poeti scrittori artisti critici tutt’altro che «allineati», anzi in certi casi, in sostanziale opposizione con il «regime»: dunque non solo Croce ma anche – cita in esempio – Tilgher, Buonaiuti, Martinetti, Flenzi. Ma nell’accalorata tensione della sua dialettica Piazzolla, se ha ben ragione quando afferma che il teatro di Pirandello non era e non poteva essere «arte fascista», cade poi nell’ingorgo di una contestazione indiscriminata della poesia della cultura dell‘arte nell’ltalia del secondo Novecento: ed ecco la facile ironia sui «sacchi» di Burri, «ritenuto il Michelangelo dell‘arte italiana contemporanea» (ma da chi?), ecco «il pubblico» (ma quale?) «fermo ai romanzi erotici e alla pittura oleografica»27. Sul terreno della polemica con un personaggio illustre della cultura francese, Jean-Paul Sartre, Piazzolla era già sceso spericolatamente nel saggio di molti anni prima, J.P. Sartre intellettuale massificato28. Marino conosceva personalmente il pensatore e scrittore d’Oltralpe con il quale aveva più volte discusso, come ricorda nella «Telefonata» di Angelo Sabatini (1982), chiarendo anche le ragioni della polemica sorta con esso, provocata da un suo beffardo articolo su De Gaulle (salito da due giorni al potere) pubblicato da «L’Express». Se anche nell’intervista della «telefonata» suddetta le riserve s’incentravano sull’eccessiva prevalenza ideologica nel suo pensiero29, esse già affìoravano nel saggio 25  Vedi, in questo Omaggio pag. 235. 26  Nella rivista «Punto interrogativo», gennaiofebbraio 1977. 27  Vedi, in questo Omaggio, pag. 346. 28  Roma, Edizioni delI’Ippogrifo, 1973, pp. 56. 29  »Era un uomo molto intelligente molto colto ma troppo ideologo. Non capiva nulla di politica,

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del 1973, mirante a demistificare analiticamente un’intervista rilasciata da Sartre (pubblicata e commentata su «L’Espresso») sulla contestazione giovanile anche a livello internazionale. Dell’«intellettuale massificato» – così gìudicave lo scrittore che aveva rifiutato il Nobel – Piazzolla dava un giudizio quasi stroncatorio ma che ben risponde, sulla base di affermazioni sartriane analiticamente esaminate e impugnate – all’intento di dissacrare certi «idoli» culturali passivamente accettati e opportunisticamente osannati30. Fermo restando (la chiosa e qui d’obbligo) che il vero pensiero di Sartre non può enuclearsi o distillarsi da un’occasionale intervista – troppo insidiata dalle sollecitazioni dell’effimero – anziché dal diretto approfondimento delle sue opere. Nonostante la buona conoscenza della letteratura e della lingua francese – che per qualche tempo insegnò in Italia31 – Piazzolla non può considerarsi un «francesista» anche se, come ho accennato, sarebbe utile uno studio che, esaminando i suoi numerosi articoli e interventi su poeti scrittori e anche pittori francesi, ne ricostruisse l’articolato interesse per la cultura di Francia (per «La Fiera letteraria» si occupò, per un certo periodo, appunto di riviste francesi). Tale ricerca gioverebbe anche per verificare il suo modo di fer critica: da studiare e approfondire, comunque, soprattutto nell’area della letteratura italiana, e in particolare della poesia, dal Leopardi agli autori del secondo Novecento. Proprio un intervento sul Recanatese, del 196132, ci offre un significativo paradigma dell’approccio ermeneutico di Piazzolla: rivedendo limiti ed equivoci della critica leopardiana tradizionale egli attua, in questo caso, un tipo di lettura globale, chiarendo come lo «spirito classico» del Leopardi non debba confondersi con il neoclassicismo accademico e formalistico, dato che nell’autore dei Canti la grande poesia nasce da una profonda indissociabile interazione tra fantasia e pensiero, riflessione ed emozione, realtà totale dell’uomo nell’invenzione del sentire·meditare, al di la di ogni astratto metafisicismo e di ogni presunta miscredenza materialistica: posizioni tuttora valide per una intelligenza del Leopardi non forzata entro griglie ideologiche. Anche in un articolo su un poeta spagnolo, Rafael Alberti33 si verifica il procedimento di scavo verso una comprensione pluridimensionale, nell’intreccio fra poesia e irrealtà, assurdo e follia, sul fulcro della creatività onirica, si che una lirica di Alberti, messa a confronto con una di Eluard, appare soltanto ciò che gli interessava in campo filosofico, ma in senso astratto. Non aveva alcuna sensibilità politica, era tutto ideologia» (qui a pag...). 30  «Sartre non può avere che adoratori e seguaci. Ne ha in tutto il mondo. Anche i suoi awersari, del resto, lo ammirano... È uno di quei terroristi mentali, emerso nel dopoguerra, con una verve disponibile per ogni tipo di awentura intellettuale. E Sartre è diventato il mito di questa disponibilità: cioè il mitico provocatore del mutamento forzato, volontaristico e inconoclastico» (J. P. Sartre – Intellettuale massicato, op. cit., p. 56). 31  Cfr. il saggio, più avanti ricordato, di G.P. Bronzini, vol., 2° dell’Omaggio. 32  Noterelle di revisione critica: lo spirito classico di Leopardi, “La Fiera letteraria”, 21 maggio 1961. 33  Il poeta degli angeli, “La Fiera letteraria”, 26 febbraio 1961.

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meno segnata da connotazioni intellettualistiche e letterarie rivelandosi, nella sua germinazione surrealistica, ben rispondente alla tradizione poetica della Spagna (non a caso il critico aveva in precedenza richiamato il «meraviglioso delirio» di Don Chisciotte). Dai riferimenti sopra accennati si può intendere come lo soandaglio sulla critica e sulla saggistica di Piazzolla possa offrire indicazioni utili per addentrarsi nelle complesse metamorfosi della sua lunga e fervida esperienza di poesia, per la cui interpretazione in sintesi rimando al mio saggio inedito qui pubblicato34. Vorrei invece soffermarmi su qualche aspetto di questa poesia, approfondito in alcuni contributi critici ordinati in questo Omaggio. Come primo esempio, in riferimento alle poco note raccolte francesi (che sarà opportuno ripubblicare), ecco Antonio Motta che, nel suo ampio studio del 197535 rileva in Horizons perdus36, anche in rapporto a certe suggestioni di Valéry, l’insistita ricerca di accordi fonico·ritmici e di significanti analogici di forte contrazione (dove si coglie anche certa inclinazione al gusto post-ermetico), mentre Caravanes appare piuttosto come un diario lirico dove contano, più d’ogni poetica, gli affetti, i ricordi», sobriamente trascritti, a conferma di «una vocazione poetica lirico intimista». Ancor più importante, negli esordi di Piazzolla, il poemetto Pérsite e Melasia (1938), in forma dialogica, che «nella sua struttura fondamentalmente miticolirica richiama alla mente personaggi e motivi della mitologia classica». Ma nella sua radiografia genetica Motta non trascura ascendenze più specifiche della tradizione latina, come il Virgilio delle Egloghe37. Più eterogenee le ascendenze verificabili nell’altra opera giovanile (in italiano), composta in precedenza, Ore bianche, dove lo studioso pugliese coglie suggestioni di segno pascoliano, dannunziano ed anche crepuscolare. Si avvertono inoltre preannunzi del leopardismo di Piazzolla, non solo per le ricorrenti «pause interrogative meditative sull’onda dell’endecasillabo e del settenario», e per le rifrazioni gnomiche del discorso autobiografico, ma anche per certi richiami all’inutilità e assurdità del vivere, in toni e accenti che rimandano al poeta dei Canti. Un contributo non trascurabile alla lettura di Pérsite e Melasia si trova qui nel saggio di Giovan Battista Bronzini, noto specialista di tradizioni popolari e conterraneo di Piazzolla: suo allievo per la lingua francese, ebbe da lui in dono l’operetta del 1938. In essa lo studioso vede preannunoiate certe costanti di 34  Lirismo ontologico e riflessione irico-religiosa nella creatività poetica di Piazzolla. 35  Nella rivista “La Capitanata”, gennaio-dicembre 1975. Qui nel vol. 2°, in «Testimonianze critiche». 36  Paris, Editions des Deux Artisans, 1939. 37  L’interesse di Piazzolla per la poesia virgiliana è attestato anche dalla sua traduzione di un ampio passo del IV libro delle Georgiche: Orfeo ed Euridice (“Iniziative” (Roma), gennaio·febbraio 1957). Uno studio particolare, a confronto con il testo latino, meriterebbe questa versione: dove all’austera intensa compattezza melodica dell’originale corrisponde la limpida e awolgente musicalità della trasposizione, incisa da un forte e partecipato sentimento drammatico.

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pensiero e di stile che il poeta di San Ferdinando maturerà nelle sue opere ulteriori, come nelle Lettere della sposa demente, dove l’apertura dal «mito» alla favola-follia riflette una tensione poi sempre ricorrente nell’ispirazione di Piazzolla, sul filo di un paradosso che Bronzini non esita a definire «pirandelliano»38, ma di particolare sapore, «domestico» eppur fiabesco (non a caso la vicenda è collocata lontano, in un villaggio della Fiandra). Quanto a Pérsite e Melasia, l’idea mitica che l’anima è come attratta «verso la dimensione trascendente del mito e del sacro» che richiama suggestioni di Gide (cui molto il poemetto piacque), ma accostandosi anche a quel magicismo (corrente che accomuna, agli esordi, come si è detto, Piazzolla al poeta provenzale Méjean) che dà ragione del rapporto, in germe nel poemetto, cui si ricollega anche il motivo della metamorfosi e dell’«eterno ritorno», che ha rifrazioni di rilievo nella parte conclusiva del dialogo fra i due amanti, omologandosi con l‘idea di «metempsicosì indotta dalla concezione animistica della natura». Questa linea di tensione orfica si svilupperà in Esilio sulI’Himalaya (1953) riflettendosi più tardi anche ne Gli occhi di Orfeo (1964). Sul frastagliato versante paleoprimitivo Bronzini avvia un acuto scavo sul sintomatico «bestiario» che in Piazzolla si nutre di numerose ascendenze classiche (da Virgilio ai medioevali) e sulla convergenza di tanti interessi e strumenti eidopoietici, dal mito primordiale al mito «complesso», al ricupero del «sacro» come dimensione fondante delle più alte ragioni dell’umano (qui si radica in Marino la lacerante coscienza del male come egoismo-iniquità, che ha voce tremenda nella tragedia dei bambini del terzo mondo morti per fame). Se i miti dell’orfismo e il divino equilibrio della poesia e dell’arte elleniche non poco incidono sulla matrice della creatività di Piazzolla, non è improbabile che altre fonti letterarie abbiano su di lui esercitato, dall’Oriente e in particolare dalla cultura islamica, qualche suggestione. ll problema – che meriterebbe precise verifiche nel folto tessuto di letture e di studi del poeta pugliese – è proposto, in questo Omaggio, da un poeta e studioso conterraneo, Daniele Giancane che, ad apparentare l’autore delle Lettere della sposa demente ad esperienze letterarie dell’Islam richiama Gialàl-ad-Dìn-Rùmi, un poeta mistico del Duecento (nato nel territorio dell’attuale Afghanistan), autore di un vasto poema spirituale, il Mathnawi, un classico del «sufismo» (corrente mistico-ascetica sviluppatasi principalmente in Persia). Giancane insiste soprattutto sulla visione della realtà eterna che in Rùmi si conosce nel riflesso della realtà dei simboli: i poli dell’universale ossimoro sono in Dio che lavora e inventa nel Nulla e nell’Amore, in cui l’uomo sale dal Nulla all’Eterno. Motivi, questi, che circolarmente si intrecciano dell’ispirazione di Piazzolla, richiamando ancora a Rùmi per la presenza 38  «La forma dialogica renderà umano il pseudodialogo fra la sposa demente e il suo partner assente che è un fantasma da lei stessa creato, un essere “altro” pertorito dalla follia cosciente della sposa: paradosso pirandelliano, che determina l’isolamento della sposa da tutti gli esseri che la circondano- (vedi, in questo Omaggio lo studio di Bronzini, nel vol. 2°).

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della natura – il sole, l’acqua, il vento, i fiori, la luna – come protagonista delle Lettere della sposa demente. Qui «il viaggio intrapreso dal poeta è un viaggio celestiale, mistico, è la ricerca di una congiunzione cosmica, che si conclude con uno scacco (il rifiuto dello sposo, la morte della donna che giace sulla collina) perché il cammino intrapreso dal poeta è di genere emotivo/intellettuale, non ha conosciuto alcun percorso iniziatico per cosi dire strutturato, legato ad un maestro spirituale, un guru. La ricerca dell’Amato o dell’Amico è identica in Piazzolla e in Rùmi (semmai più consapevole nel mistico musulmano), ma mentre Rùmi trova la sua strada e in quella si annulla e si esalta al tempo stesso, Piazzolla intraprende una ricerca che conduce alla disperazione»39. Già Michele Dell’AquiIa, caratterizzando l’opera del poeta conterraneo, aveva dato rilievo alla complessità del suo underground culturale, da cui non possono trascurarsi le «esperienze mistiche, filosofiche, esoteriche di una larga fascia di letteratura orientale ed europea»40, sottolineando però l’incidenza dei grandi maestri della nostra tradizione letteraria, da Petrarca a Leopardi e dei protagonisti del Parnaso italiano novecentesco41, e «la varietà e la copia della sua vena, per il fermo dominio della parola e dell’immagine, per il rigoroso eppure sciolto governo del verso, per la molteplicità dei registri e dei toni, per la capacità di passaggio dalle larghe composizioni sinfoniche alla essenzialità epigrammatica; per la purezza di canto di certe sue cose migliori» (ivi). ln questa caleidoscopica ricchezza del tessuto espressivo si connotano anche i poemi sinfonici ordinati in Sugli occhi e per sempre (1979) dove l’urgenza del vissuto più angoscioso spesso felicemente si decanta nel «risarcimento della parola», mentre nella silloge L’amata non c’è più (1980) l‘orfismo è lievito e viatico «per una ineluttabile e necessaria discesa agli inferi della propria esistenza»42. Quanto alla raccolta del 1979, che ottenne notevoli consensi della critica43, vi si riafferma, in particolare, anche la funzione di certo sorriso stoico-liberatorio (con radici nell’esperienza dei Detti immemorabili di Renato M. Ratti) che solo di rado sale alla violenza del sarcasmo. In qualche caso – per es. in Proclama d’assedio – si avverte un certo sforzo nel mantenere la tensione ironico-demistificatoria, sì che l’insistenza dell’iterazione emotiva comporta qualche sacrificio di naturalezza. Un testo poetico che può provocare qualche sconcerto è Un patibolo chiamato Loreto44: un lungo poemetto – più che un «carme», come foscolianamente lo chiama l’autore – acceso di sdegno e pietà per il selvaggio infierire della folla scatenata contro il cadavere di Mussolini, appeso a un gancio come una bestia 39  Vedi qui il saggio di Giancane a pag. (Bozze, p. 442). 40  Cfr. Omaggio a Piazzolla, vol. 2°. 41  Vedi Omaggio a Piazzolla, vol. 2°. 42  Ivi. 43  Si veda, fra gli altri, l’acuto intervento di R. Méjean. 44  Roma, Edizione deII’Albatro, 1983, pp. 22.

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al macello. La sorpresa aumenta quando leggiamo, nell’occhiello-epigrafe, una dichiarazione di Stalin ad avallo della grandezza politica del Duce45. È forse impossibile giudicare se il tiranno «rosso» abbia superato, per fredda e feroce inflessibilità nel perseguire i suoi fini politici, il tiranno della croce uncinata; non si dimentichi comunque che contro Hitler Piazzolla aveva scritto nel 1961 il Monologo del dittatore46, un graffiante sfogo ludico-onirico. Poiché tutta l’opera del poeta pugliese è attraversata da spirito libertario, sia pure nell’intreccio con un ricorrente sentimento del religioso e del numinoso, Un patibolo chiamato Loreto può apparire una strana incongruenza, anche se proprio alla sacralità della vita si riporta il rispetto dovuto ad ogni persona umana, tanto più quando, spenta la vita fisica, entriamo nell’alone misterioso dell’oltre. Ma il risentimento appassionato di Piazzolla contro lo scempio di cui fu oggetto il corpo esanime del dittatore vinto – del quale l’autore del carme non ignorava responsabilità e colpe che infiammarono la folla inferocita – non si può intendere trascurando il quasi fanciullesco candore con cui il poeta richiama gli aspetti in positivo dell’autocrate caduto, con accenti e intuizioni che, nel discorso emotivamente partecipato in utopica chiave, hanno qualche barlume di tragica verità47. Dopo Sugli occhi e per sempre l’opera di maggior rilievo di Piazzolla è Il Pianeta nero che appare il giorno prima della sua morte (1985) sì che egli puo vederne la prima copia. La silloge fu pubblicata dalla stessa casa editrice del precedente volume del 1979, «Fermenti», a cura di Velio Carratoni, che aveva accolto lo scrittore, sin dal 1974, tra i collaboratori dell’omonima rivista, ed al quale va ora il merito di aver curato, con ricerche spesso ardue, la preparazione di questo Omaggio. Il pianeta nero è forse l’opera più incisiva e drammatica di Marino e può considerarsi un testamento esistenziale oltre che poetico. Si tratta veramente di un «libro terribile», in cui si scopre una inusitata forza di allarme di contestazione e di denuncia, per l’umanità presente e a venire, entro i limiti, «per eccesso», di un poeta libero, ardito e ricco di non comuni risorse espressive. Si pensi alle ricorrenti strutture e modulazioni del suo linguaggio dove, come nel poemetto eponimo della raccolta (dedicato a Marco Pannella) il più crudo realismo si rovescia in un surrealismo d’incubo: quei «bambini-insetti dal ventre gonfio d’aria lamento», che «non fanno nulla che non sia la loro fame», sono un flash tremendo d’orrore e di pietà, un biblico atto d’accusa. Ma si veda anche Terrore sui continenti, allucinante invenzione di un delirio collettivo in proiezione del presente, o la Lettera a Evtuscenko sulla mostruosa violenza perpetrata a Praga dai carri armati sovietici, o l’altra, non meno vibrante, Lettera ad Alexander Solgenitsin, che si conclude, da un’incandescente tensione 45  Con la morte di Mussolini scompare un grande uomo politico cui si deve rimproverare di non aver messo al muro i suoi avversari». 46  «La Fiera letteraria», 1 gennaio 1961, p. 6. 47  Si veda, in particolare, la sequenza conclusiva del “carme” (ultime tre strofe).

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di terrore e torture, sulla freccia magnetica dell’utopia-speranza: «Verrà per te / verrà per noi / un’Ala dagli abissi / e sarà giorno per tutti: / pane e cielo per tutti. / Amore a non finire sul pianeta / e pace sulle spighe e feste / al centro d’una luce, / oggi murata dove c’era il cuore». All’altro polo del perenne oxymoron piazzolliano La pupa del denaro, «ode lorda e “metafisica”», è un pamphlet polemico in cifra ironico-sarcastica, dove una rapida allusione autobiografica – «Da quando ho ereditato / io stesso mi sento sterco» – si la spia di un disgusto sofferto dall’autore sulla propria pelle. Ma Un po’ d’apocalisse è il gran finale dove la potenza immaginifica esplode a lilo di un irrefrenabile horror («Gli scheletri danzeranno con noi / con i teschi bucati / dall’urlo degli atomi all’idrogeno»), fino alla resa di un nuovo estremo Big-Bang, a cancellare il Tutto nel Nulla (e si pensi all’analoga conclusione, pur nei diversissimi registri, di ieratica gravità, del leopardiano Cantico del gallo silvestre). Marino Piazzolla resta ancora un poeta da leggere o rileggere, per molti tutto da scoprire: un rilievo ma anche un‘istanza cui questo Omaggio ha mirato concretamente a rispondere. Alberto Frattini

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ANTOLOGIA



Il poeta



da «ELEGIE DORICHE» L’ala Terreno tempo, voli, e già maturo ho il cuore. Non vale l’invecchiare, svanire alla memoria. Come una festa spenta s’eleva la mia vita. E m’è rimasta l’ombra al corpo prigioniera come un’ala.

Sella polare Vivida ninfa, ingenua del tuo cielo, pendi dal ramo fulgido dell’Orsa e navighi lucente. Tante rotte rischiari, lume polare e al navigante narri la speranza. Forse con te l’occhio gli equinozi, felice degli approdi, può sognare sull’onde senza fine. E quando appari penso all’approdo certo della morte con te che appena infiammi l’alta notte.

Infanzia Amica infanzia, inabissata sei nella mia vita. Mi rimane di te lieta una ruga sull’appassito viso e il murmure di un’arca favolosa. Nella tua festa breve, già cenere, da tempo, scavo e ricerco la tua verde sera.

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Vorrei che morte In fuga è l’estate: compiuto è il mio cuore. Da un’isola, portatemi giovani danzatrici. Che il loro passo sia lieve; la caviglia abbia l’ala. Diffusa luce di mare negli occhi portino a me. Voglio che sia spensierata la mia tarda stagione. Vorrei che morte me colpisse amando la più pura.

Bianco di tempo… a Francesco Carchedi

Veleggia il novilunio e incanta il mondo. A me il suo viaggio è favola, or che si frana l’ultima stagione. Potessi come il cielo essere a me notturna aurora e andare bianco di tempo alla felice morte.

Venisse almeno Ritarda il giorno e già remota è notte. Nessuno ti consola e imbianchi il capo. Venisse un usignuolo ora che il buio schiude il suo abisso ed è più vasto il tempo.

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Distanza Il gallo favoleggia… calante è già la luna. Amore,gnon rispondi da tanta lontananza. Più vasto si fa il mondo e resto insonne ad aspettare, come un tronco, il sole.

E fu amore alla terra Ami essere statua, col dorso che fa ombra al raggio d’alba. Così ti sognarono i poeti: conca che mai lavò la mestizia del cielo! E fu amore alla terra il tuo svanire quasi corno smarrito alla notte spenta. Ora i fiori ti fiutano; e all’aria resta il tuo barbaglio d’antica fiamma. Un’allodola ti cerca nel cielo già deserto.

Stella mattutina Sei rimasta tu sola. stella mattutina; e fai lume, remota, nel tuo cielo. Eppure anch’io son solo e non ho lume in questa via deserta.

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Testamento Quando sarò morto, non vestitemi a nero. lo che avrò per compagna la notte, non desidero lutto. Lasciate che la camicia resti sola sul petto. Io che avrò per compagna la terra, vorrò esser leggero nella bara come andassi alla festa. Sul mio silenzio, non parole gravi. Mi venga dietro un cieco e la sua fisarmonica. Seppellitemi di giorno, non al tramonto, io che amo la luce voglio che il sole assista al funerale. E quando sarà chiuso il cancello sulla mia giovane tomba, dite pure: un altro se ne è andato! Sulla mia fossa, non seminate fiori: seppellitemi invece accanto al cipresso più solo. Non scrivete epigrafi, lasciate la lapide in bianco: sarà la mia ultima luna. Non accendete lumi alla memoria: e che ognuno di voi mi dimentichi presto. La morte ama solo chi vive: io voglio veramente scomparire.

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Se non ancora è giorno Saggio non sei: e piace a te la sorte non compresa il vagare dal buio al nuovo sole. Pastore di molti sogni lungo l’aria; tu fanciullo che Iddio dimenticò, quaggiù da tempo mediti il tuo volo. Ebbene, ora ti resta completare il viaggio, andartene ov’è la notte, tu che per essere umano facesti del silenzio amabile decreto.

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da «LETTERE DELLA SPOSA DEMENTE». Prologo In un villaggio delle Fiandre, Presso un giardino, Una donna girava per le stanze, Ferma in un’ora, Ormai fuori del tempo. * Lassù, dove una quercia si torceva, Viveva con se stessa, come in sogno. Non contava i giorni, Non sapeva gli anni; Quale ombra fosse chiusa nel suo cuore. * Nessuno mai l’amò. Nessuno giunse fino al suo rifugio. Essa attese, così, piena di tempo: Attese qualcuno che mai venne. E soli, in quelle stanze, Rimasero i suoi occhi. * Avvenne che impazzì Ma fu più bella Per ricordarsi ch’era ancora viva. * Così, una volta, le accadde di sposarsi; Ma non come le altre, quasi in sogno. E allora l’uomo se ne andò lontano: Partì senza neppure dirle addio. * Poi che divenne madre, fu felice: Felice di qualcuna che non c’era... * Mai seppe quanto attese; Quanto scrisse e a chi. Mai seppe chi le rispose; Perché fu sposa e madre. * Si fece intanto bianca: E andò a morire sopra una collina.

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I Tempo Mi sento nuova e il tempo mi travolge. Mai m’abbandoni: Tu vibri col mio petto e resto muta, Piena del tuo silenzio. * Vedessi come freme la mia veste Se tocca il cuore. Il viso mio s’arrossa, Acceso dal tuo soffio. * Io sento che tu m’ami. Lo dice il sole, l’albero fiorito: Lo dice il gallo al sommo della notte. Così vedo tremare, appena è giorno, La mia innocenza consacrata a te. * Quando giunge la sera, Io ascolto le stelle suonare, Curve sul cuore. Ho voglia solo di pianto Per sentirmi più viva. * Ho udito mia madre; e triste era la voce In altre stanze. Forse non sa più nulla dell’amore… Mi sono messa subito a cantare, Ho spalancato i vetri, Ho spalancato il cuore… Ed essa s’è zittita. Poi ha ripreso il canto. Io l’ho sentita quasi innamorata Come fosse di nuovo giovanetta. * Oggi mi sento un’altra Perché t’ho visto solo. Tu andavi altrove... quasi illuminato, Come andassi a una festa. * Non so perché scrivo il tuo nome Sui libri: disegno

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Il tuo volto Appena mi trovo sola O incomincia a suonare Altrove una musica nota. * Pensandoti così, Io sento che rinasco: Forse m’allungo lieve come l’aria, Fino alle prime stelle. * Non c’è istante Ch’io non oda L’eco della tua voce: Il dolce rumore dei passi. Basta così poco all’amore; Basta un nulla Che un giorno diventi eterno. * A volte io mi sento smemorata: Come fossi già morta. Come ci muta amore Da un giorno all’altro. Così mi guidi, fai luce: Sei già la vita in tutta la mia vita. * Oggi l’aria è uno squillo: Sono fioriti i rami innanzi ai vetri. Ed essere una rondine vorrei... E inseguirti, impazzita. * Poi che la sera mi raccoglie stanca E la mia stanza trema, L’ombra mi suona come un soffio lieve. Tu mi tieni sospesa ed io ti chiamo. * La notte è tramontata. Odo un canto lontano… Oh voce del mio amore! Tra poco verranno i raggi E mia sarà l’aurora. *

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Sovente mi reggi il volto E il vento viene a fremere sui rami. Sento che il tempo è fermo alle tue mani E mi abbandono come fossi presa Soltanto dal tuo sangue; Intanto impallidisco. * Se mi mancassi, Buio sarebbe il giorno E più lunga la notte. Tutta mi trema la voce Se pronunzia il tuo nome. * Ti sto aspettando. Vedessi come tremo se una foglia Cade sull’ombra mia. * Quando tu sei partito Ho sentito bruciare le guance E la bocca deserta. È qui, con me, il tuo fiato E l’eco del tuo addio. * Un giorno, sarò la sposa. Sarà con noi, per lungo tempo, il sole, L’ora che suona, il ticchettìo dei passi. Vedremo lo stesso cielo Perché di me saranno gli occhi tuoi E nei tuoi occhi, più grandi, Verranno ad abitare gli occhi miei. * Ti aspetto al buio Per non mostrarti la mia faccia bianca. Se tu venissi Starebbe, tra noi due, La tua luce soltanto; e tremerei Come una canna fino al nuovo giorno. * Come vorrei soffiare sul tuo sonno Quest’ansia che mi brucia E attendere il tuo risveglio Col tremito fra le dita.

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* Ora che t’amo Fino a sentirmi assente, Mi basta l’ombra Che s’incurva fino a te. * Se fuori l’ora è dolce E ascolto, insonne, La musica svanire, Tu sei con me fra tutte quelle note. Poi ritorna il silenzio: Fino all’ultima stella resto sola. * Spesso tocco un ritratto Che chiude, in un barlume più sereno, La giovinezza. Ti guardo; e il tempo è fermo. Tu vibri fra le dita E il sole mi trascina, in ogni stanza, Dove ti cerco cantando. * La luna non è più stanca Di farmi compagnia. Siamo in due a pensarti In ogni istante della notte muta. Poi viene il vento ed io rabbrividisco. * Oggi è con me la pioggia E non so cosa dirti. Come è vasto il freddo Sceso nelle mie stanze. Intanto ascolto Mia madre allontanarsi. * L’aria che m’accompagna Trema sulla mia veste. Io non mi sento sola, Con tanta gioia Fiorita negli occhi, improvvisa. * Talvolta penso di perderti. M’invade allora il delirio:

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Il sole si spegne, Non odo nemmeno il mondo che mi chiama. Io, muta, m’abbandono Soltanto in una immensa oscurità. * Ogni mio giorno è un anno. Finanche l’ombra batte con le vene Ed è felice come la mia vita. * Ho bruciato un foglio E nella fiamma, Al posto dove c’erano due lacrime, Lucevano i tuoi occhi. Ma l’incanto è svanito... Io sono ritornata alla finestra A vedere tremare d’amore Le prime due stelle. * Ho freddo fino al cuore. Come l’amore mi scava Da un’ora all’altra. * Odo chiamarmi da te Con la mia stessa voce; Ma in fondo alla mia via non c’è nessuno. * Mi sono risvegliata coll’aurora. Amore, che pazienza Vegliare sola Quando le vie, più bianche, Vanno verso la luna che tramonta. * Ogni volta che scrivo Sento alla gola Il respiro degli anni. Ma perdono calore le ginocchia; Mi battono le tempie Come se l’amore fosse un tuono Che non vuole scoppiare. * Odo l’acqua cantare

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A una fontana; il suono M’accompagna per la via Deserta. È primavera. Tace il fiore sul petto, Dove c’è tutto il caldo del tuo viso. Se mi sfiori cogli occhi, Io ti rispondo: Come vorrei morire. * Oltre i vetri c’è un albero che trema E, più distante, un’ala di colomba, Che sembra una tua lettera volata. C’è una casetta verde e, in fondo, un pino Che si piega, dolcissimo, sul colle. Manchi tu solo In tante cose mute Che annunziano il tuo amore. * Amare è andare in due, Smarrire il tempo, Fermarsi dove, eterna, Soffia la brezza di Dio. E scoprirsi innocenti Al tocco delle dita Che nascono ogni giorno. * Lontana più che mai La vecchia luna Veglia sul volto Che declina, appena Sul tuo nome, Legato alla mia voce. * Mi sono messa A udire il suono Che fa la pioggia E mi sento Più fresca Come avessi Sul viso Gocce soltanto

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D’acqua E nelle orecchie Il murmure del mare. * Sento che il sole porta per il cielo La mia felicità; Poi mi rimetto a scrivere, in silenzio, Fra tutta quella luce che m’abbaglia. * Quando mi sei vicino E antica si fa la sera Non vorrei mai lasciarti Anche se dici che ritornerai. * Sfoglio un libro di fiabe. Mi stupisce il bianco d’una fata E l’occhio d’una gazzella, Sbucata da un ciuffo di foglie. Ho voglia di dormire in un ruscello Che piove da una stella, dietro i vetri. * Nel suono dell’ora Mi ritrovo sospesa… * Viene da non so dove La voce di mia madre. Stupisco ai dolci rumori dei vetri; Col dito tocco la luna, Scoperta, in cielo, per la prima volta. * È qui, con me, La stella mattutina; Rosa bianca appassita. * In fondo alla via, Guardo mio padre tornare. Mi porta negli occhi Perché mi senta protetta. Entra e svanisce. * Odo l’armadio scricchiolare

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E il ticchettìo del pendolo. È stanco; ed io mi sento Nuova sull’ombra sua Che cresce alle mie spalle. * Questo giorno S’intreccia a un altro giorno.. Qualcuno, dalla via, Lancia il mio nome e aspetta. Nel giardino mi attende Il volo d’una farfalla. * Scendo di corsa: la mia veste è un’ala. Lancio la voce tra le foglie E mi fermo sudata, Sbigottita del rosso Che mi accende la guance. * In altre stanze odo un valzer... Sorpresa, sento sciogliersi La mia innocenza. E chiudo gli occhi, Lascio che il vento smuova i miei capelli. Nel senso della vita Muovo col mio respiro: Aggrappata a me stessa. Ho l’età che gli occhi fanno chiara E incomincio a vagare Nel caldo della stanza. Ho qui una treccia sfatta E il tremolio della luna. * È così breve ogni istante Che va da un cuore all’altro, Ch’io mi sento travolta... È allora che vorrei forse morire. * Oggi è festa. Ma il sole E sempre quello. La stanza ove respiro Non è cresciuta.

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* Io qui mi sento fanciulla, Mi tremano le mani: Nel mio cuore c’è il mare. E, andando, porto un velo Ch’io solo vedo Adagiarsi sul capo. * Un’altra primavera! Io sono lieta veramente Perché tu m’appartieni. Con te mi viene incontro un’ombra cara. Io mi ripeto: «Oggi il melo s’è vestito a festa: Non appena mi ha vista Si è fatto più bianco». * Sento che giungi; tremano le viole; Le rondini fanno festa in cima al cielo Il ciliegio è contento. Potesse il tempo riportarci, bianchi Di giovinezza, a una felice morte. * Quest’albero non parla... Mai mi parla. Eppure quando il vento Giunge tra le foglie Sento che si lamenta. Se vola via una foglia Agita i rami, e ancora si lamenta. * Disteso innanzi agli occhi è già l’autunno. Sento che non verrai; Intanto ti ricordo, quasi in sogno. Da un angolo del balcone Guardo i lumi placidi dondolare; E ascolto il vento andare lentamente... Pare che tutto si muova col mio respiro. * Scrivo il tuo nome Incido il tuo profilo

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Veglio sull’uno e l’altro per amarti. Ed anche se non vieni Continuo il tuo ritratto: Come quando, fanciulla, Io disegnai una barca e poi la luna. Volli tingere il cielo e qualche nube Con un colore che non era azzurro. Lasciai la luna sola Nel bianco della pagina. Allora la barca Narrò storie di mare: Andò verso la luna Per farle compagnia. * «Non capisco perché le foglie Se ne vanno. Vanno via. Vogliono forse danzare All’insaputa dei rami». * Stasera freme l’ombra Che mi segue mansueta: Odo, lontano, il tonfo dei portoni: Il rombo scende nel cuore. Oltre le tenebre, La luna è di profilo; Sorge timida: Sembra che attenda… Sembra che si sciupi Nell’aria vecchia del cielo Ch’io guardo, innamorata. * Quando sono sola Io mi copro d’un velo E gioco all’onda. Come un tempo, Sulla sabbia assolata, Chiusi, fra due raggi, L’adolescenza. * Dall’alto del mio balcone Sto guardando il giardino.

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Sento la calma Dei giorni felici; Ma c’è il colore spento Del primo autunno E il tremolio dei vetri Per ogni via. * Tinta di verde tace la vallata. Mattina l’erba ingenua; Ma trillano le frasche. * Mi specchio e penso a te. L’ombra mi guida e sciolgo i miei capelli. Anche la mamma è accanto ad uno specchio. Io m’avvicino e dice: «Vedi? Vedi quella? È un’altra madre, Che mi vuol fare sempre compagnia». * Sono ritornata nell’orto E l’erba m’ha salutata, Piena di vento, anch’essa innamorata. Dal vecchio ciliegio, Appena ha udito un fruscio, La colomba è volata... * Sembra la stessa a cui dissi: «Vieni sempre, colomba; Vieni a dormire da noi. Forse ti manda la luna Chè sei così bianca...». * È qui con me l’estate; L’aria è cosparsa di cicale nuove. Cantano fino al sole Come al ritorno di un’antica festa. * «Se parlo alla mia ombra Essa non mi risponde. Aspetta forse ch’io dorma Per chiamarmi per nome».

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* Mi conduce l’amore fino ai pini E il tempo pare fermo. Non ti chiamo nemmeno Per tema di sciupare il mio silenzio. * Puntualmente, Io tornerò da te, ma come un’eco, Confusa forse al bianco della luna. * Vieni anche tu, ti aspetto. Con tante foglie Allegre nel giardino, Tu puoi andare e venire Senza farti vedere. * Oggi l’aria è celeste; Ed io vorrei sentire la tua mano Condurmi fino al sole. Ma sono allegra: un’ape è nella stanza E sibila d’amore sopra i vetri. Vedessi: ha una vestina nera e gialla: Sembra che danzi, E forse mi somiglia. * Quand’ero bambina E l’amore era soltanto Un susseguirsi di giornate liete, Sovente il pino, che sul colle invecchia, Pieno di vento mormorava appena: «Sono alto, lo vedi? Io cresco sempre: Voglio vedere il cielo da vicino». * Ora che t’amo, Mia madre Si fa sempre più stanca. Parla innanzi allo specchio E fra le dita, Le trema un ciuffo di capelli bianchi. *

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Stamane si è sciolta la neve; Ma soltanto mia madre È rimasta coperta di bianco Senza dir nulla al sole. * Un giglio s’è levato di buon’ora. Mia madre, sottovoce Mi ha detto: «Lo vedi come è bianco? Ha sognato la luna: Oppure è innamorato come te». * Se venisse la luna sul mio letto, La vestirei da sposa con il velo Che mamma chiuse in un tiretto, un tempo. Dicendomi, felice: «non è un velo! Questa è l’anima mia». Poi chiuse a chiave. * La speranza qua e là porta il mio cuore E tu con me, sereno come un lume, Spingi la notte altrove e mi fai quieta. Pare sia fermo come al primo giorno Questo tremore che non m’abbandona. * Nella mia gola il tuo nome S’è fatto nodo! Così, tu avanti mi spingi Fino a farti pianto che non sgorga. * Giungono come squilli altri mattini Ch’io rubo alla mia vita. E solo un po’ di tempo in cui prolungo Quest’ora dolce che mi sembra eterna. Amore, felice inganno, Gioia dei giorni che non sono ancora. * Odo un’arpa nel buio d’una via E gli occhi vanno soli in fondo al tempo. Quello che penso è musica soltanto; Son io che vago e non le note meste Che fanno antica l’aria fino a te. *

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Un tempo sarò vera come è vero Il sole; come è vera la mia vita. Sarò tranquilla innanzi agli occhi e tu Mi reggerai coi figli, se verranno A far lieta la casa, a cancellare Tutte le mie illusioni. Ma già sento Ch’una soltanto rimarrà fedele: L’amore che mi scava e mi fa donna. * Il sole che mi guarda e già dilaga Nel dolce paese di Dio, Sarà luce e non altro: Abbaglio dei miei giorni. Se m’incanta la terra, È segno che sono tua. * Non è mai vano il giorno, che s’acqueta In altro giorno più distante. T’amo: Il cuore è come un’onda che travolge. S’ode il tempo Fare nel sangue l’eco e render lieta La vita che s’aggrappa ad altra vita, Anche se il mondo muta e giovinezza Tramonta. La bellezza pare spenta, Sul volto ormai che volge alla sua morte. * S’io dovessi morire prima ancora Che tu sia vecchio, sappi che la morte Non spegnerà l’amore. * S’io ti perdessi, allora la mia voce Sarebbe vuota e tu soltanto un’ombra China sul mio deserto. Sola, nel vecchio buio, a poco a poco, Appassire vedrei le braccia e il volto: Ma il cuore no; con me starebbe il sangue A vegliare le notti, ormai felice D’essere colmo dell’amore tuo. * Io chino il capo e mormoro pian piano La dolce nenia a un figlio che nel grembo

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Vibra soltanto con il nostro amore. * Quando verranno le sere E noi cammineremo tra le alte Case come due ombre, Allora la città, bianca di lumi, Sarà soltanto un’arca silenziosa. Io non ti parlerò, sarò serena, Tutta raccolta, come roccia, accanto: Oh, allora non saprò dirti, Anche se vinta da mortale pena, Mai ti dirò: «Amore, Amore, addio!».

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da «ESILIO SULL’HIMALAYA» XXX Tu che sciogli la stella mattutina e ad ogni allodola tocchi la sua gola perchè festeggi la tua somma luce; tu che ti lasci crescer nell’oceano come un avo cogli occhi aperti da sempre, dàmmi la roccia per letto e un chicco del tuo sole per il mio giorno anche se la pena non m’abbandona.

XXXI Signore che ti rimembri e nell’occhio spunti ogni giorno e lacrima ti fai, accostami al tuo fianco, che palpita solitario al sommo della Galassia. Fammi, sul capo, bianco come le vette che incontro qui da tempo. Fatto silenzio, chiamami con un’eco

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XXXII Quando per sempre io sarò muto alla mia terra, – sasso tuo e null’altro – tu che inventi fibre e fiori, fammi radice d’una quercia; e che nel buio m’affonda col volgere dei giorni. Cancellami dall’erba che il sole nutre; ma lascia solo di me, sopra una roccia, l’ombra; e che la vecchia luna le dia ristoro e a lei rischiari ovunque il suo vagare. Ch’io mi perda, come sopra un nevaio, per accostarmi a te, o antica mia innocenza.

Lo ricorderemo cantando A Claudio Claudi

Seppellite il fanciullo presso il pesco; lasciate che stanotte venga timida una pernice sul ramo fiorito. Noi a quell’ora qui faremo festa con gli occhi pieni di chiaro dolore. Lo ricorderemo cantando; ed egli non sarà che peso lieve alla terra mansueta. Fino all’aurora staremo alle finestre a riempirgli il silenzio di canti dimenticati.

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Preghiera agli amici A Curdo Notari

Quando sarò vecchio, non lasciatemi solo. Io che amo la vita, voglio che vita mi diate lunga le sere di noia. Amici cari, non m’abbandonate nel buio delle strade: non fatemi scavare le memorie. Io che amo il tempo verde, voglio che sia festosa la vecchiaia. Portatemi lungo i viali, dove verranno ansiose le agili adolescenti: fate che il mio sorriso ritorni sulle labbra. Poi datemi da bere il fresco vino, quello che dal bicchiere passa al cuore… E che ancora m’inebri e me ne vada al sonno più felice, avendo fra le braccia. – ultima amante –, la mia serena morte non attesa.

A una libellula A Giacomo Natta

Avrai breve la sera, tu che l’ala di lusso, spensierata, in un fruscio monotono per l’aria agiti al casto lume e fai vezzosa l’ora, Tu non conosci che la goccia chiara di luce stupefatta, tua custode. Forse tu favoleggi con la notte, e vai leggera al circolo incantato, unico tuo mattino.

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A una conchiglia Venisti sulla riva, pensile al ciuffo d’alga, col murmure del mare nell’incavo; Su te prese a sognare il nudo adolescente con l’animo di un dio.

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da «LE FAVOLE DI DIO» Le favole di Dio Ora s’alza la luna e imbianca il mondo. Sull’abisso del cielo sorge Sirio; appare il Carro e l’Orsa e la Polare coi suoi ghiacciai eterni. A guardar l’Orsa, scorgi incendio millenario; e fuoco agita il tempo; per la Galassia, che scintilla appena · sulla umana pupilla. S’incanta l’occhio, ove lo spazio è quasi una follia di foglie che fan luce: e Dio favella ovunque, con mille e mille raggi, altissimo in se stesso, sempre senz’ombra al·suo pensoso volto. Qualcuno che lassù viaggia veloce. scorge a stento il pianeta, che qui s’apre con piaghe di vulcani. Vede e non vede i lumi sopra i monti: non sa del nostro vivere penoso. Oceani sono ovunque, e selve accese: orbite sole, ove colando l’acqua si fa specchio. In ogni antro ignoto striscia un bruco; e il giorno è guerra; e notte sola è pace anche se chiara. Occhi a miliardi in ogni stilla d’etere vedono volti, in altre dimensioni, e vanno di sfera in sfera all’infinito. Si brucia dov’è un ramo che s’allunga nell’aria, anche se muta è la stagione, se il tempo è fermo e il cuore è un altro cuore. Dove già trema, in polverio, la Lattea,

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vanno giganti, come rocce, soli negli incavi di luce a cercar Dio; ed è la via più chiara, e vedi il fuoco sciogliersi in alti roghi tra un astro vivo ed un pianeta spento. Ovunque è un’eco, lì c’è un’orizzonte; . e foglie e fiori brillan luminosi, e tubano colombe immaginate sopra raggi spezzati. Tu che sei muta, luna, – a noi muta e null’altro – a te stessa tu parli anche se cadi dalle tue rocce candide, o ascolti un trillo in un cratere sceso con cupo tonfo. O quanti canti di mattine e sere a noi paiono vago velo d’oro: quasi una tomba o vortice di neve. Tu, vivida Polare, a noi soltanto guida, che gli orizzonti sui mari accende, bruci senza fine, ove tu vibri sola. A guardarti dai flutti, sul tuo buio, col sonno sulle palpebre sospeso ho visto, in un istante, i tuoi paesi di pietre, ed alte guglie e piante immote _ nel cerchio di un mattino favoloso. Ma tu, Carro, tu reggi il peso della notte, e il cielo inchiodi perché non cada coi mondi; tu sei folto di boschi alati e di fogliuti uccelli, che fiamme arcane spingono verso Dio. E tu, Venere, ancella della sera, tu che veleggi tinta di celesti vapori, tu spaventi, coi tuoi deserti a picco. Non sai la dolce ora dei riposi, smemorata alla vita, silenziosa nella tua ferma aurora.

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Tu, Vega, iride al sommo d’altri soli, onde di lava inventi; e crolli ad ogni istante: fuori per sempre dalle tue stagioni. Queste son le tue favole, Signore, che racconti a te stesso a giorno spento: quando vegli sognando su noi sommersi in un amaro sonno. Cosi, di cielo in cielo, accendi mondi, orme di luci ormai su noi mortali: persi quaggiù dove non giungi mai, talmente vibri in ogni cuore umano.

Requiem per la morte del poeta Figlio del raggio preciso, immobile nell’acqua dei tuoi occhi: sepolta voce nella scia di colombe mai quiete. Non hai pane per il tuo scheletro se la pioggia ti rende più nudo: se cresce vivida l’ombra che avesti con peso di carne. Non c’è calore lontano che non cerchi i tuoi echi di morte ingenua. Figlio delle strofe giovani impastate al bianco silenzio. Tu, mago distratto, cantavi il paese di fuoco: colmo come l’occhio di Dio. Ora tu sei di profilo nel tempo di tenera immobilità. La morte vera ti è distante ed è una vestale ansiosa; sei come una macchia di cielo all’ombra dei fiori cresciuti. Murato come sei

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nel più fresco degli orti, attendi che il tuo canto ti ridìa luce ed anni. Sì, tu puoi dominare e dormire, alto nella tua morte disfatta, più allegro che nel tempo di terra. Sei verde nel tuo mattino, punto di sole nella voce che parla a creature non vive; pronto a imitare la luna nel dare neve ai tuoi giorni. Cresci per tuo conto e non lo sai se ti pesa il cuore, l’aria gialla, così bianco nel buio. Appoggi le dita con fragile forza su corde così nuove. Fatto ti sei di pietà immutabile nei grumi di polvere assente. La morte ti volle fanciullo ` per i suoi giardini intatti. Volle il tuo raro sangue per le vegetazioni. Immobile nello sfoglio di sasso ascolti il murmure dei querceti e l’acqua scorrere negli abissi di una luna più antica. Ora sei perfetto, lodato dal nulla col tuo passo di fantasma ingenuo; e non ti pesa l’aria di fresca ala, non hai più bocca per le rose, né voce per lodare i riposi dell’acqua e il calore dei cieli sui pini. Sei cenere nell’umile conca del tuo paese alato. Angelo distrutto dal suo fuoco.

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da «E L’UOMO NON SARÀ SOLO» Chi si ascolta può soltanto sentirsi solo. Dio, tu vuoi l’uomo mansueto; lo sogni come il tuo erede. Eppure, ognuno disubbidisce. Si lotta col tuo fantasma e ci si annera di terra, con l’affanno che distilli a distanza. Non verrai con noi; ti fa paura il sangue sulle nostre mani d’assassini. Nel nostro cuore c’è posto soltanto per l’ombra tua, che togli e metti a sognare nel tempo, con distrazione. Forse per questo è duplice la vita; ma la fede nel tuo riposo è il nostro assurdo. Chi ha meditato sul dubbio sa questi lieti disguidi della Grazia. Una volta eri con me, felice sugli occhi di mia madre. Coperto di sole, entravi nella casa col primo canto di gallo. Eri tu, e nessun altro; tu, così buono da tacere finanche alle spalle di mio padre, con te finito in fondo alla notte. Lo so: Io ho sempre coltivato l’innocenza come la tua eco. La terra sa questa amarezza di cercarti. Basta vedere i fiori e l’insonnia degli alberi. Basta il tuo silenzio sul mare e tutta la notte che sbianca. Ora stiamo devastandoti. Quanta pena! Gli uomini mi sembrano distratti. La pietà si dissolve e c’è qui la nebbia. Tu non sai chi ti chiama. Tu che ci scavi a distanza e ti ritrovi, pentito, nei nostri anni. Che amarezza ritrovarti così mutato, mentre fa sangue la terra e il cuore non sa se tu verrai almeno con la morte. Si bivacca da belve; e tutto questo per volerti amare. Meglio forse partire con l’infanzia che ci togli; cessare di ubbidirti cogli occhi puri come i tuoi sonni. Gli angeli, maestri dei nostri padri, sanno quest’astuzia; e tacciono tutto il tempo. Eppure qui da noi non v’è giomata che non parta con un fanciullo ucciso. Non c’è sole che non cada sfregiato da una bestemmia. E tutto questo per amare quello che mai verrà. Forse la fanciullezza è il tuo saluto. Io la riempii di me stesso, libero come un volo: distratto da chiudere il cielo negli occhi. Finalmente liscio di pelle e di cuore, da essere tranquillo come un sasso sotto la piena del fiume. Ora? Già m’invecchi. Mi stacchi dagli anni. E sono il tuo prigione senza lamento. A quest’ora posso dirti: lasciami dormire! Signore, ho sonno; taccio come il sasso. Il mio giorno è il pozzo dove mi troverai al festino dei vermi. L’amore mi squassa i sogni come un tuono che s’allontana. Le mani di fango pesano ai miei fianchi. Tu stesso non puoi più riconoscermi, talmente gli anni 56


mi hanno cancellato. E un tempo mi bastava la faccia lieta di mia madre. Lungo era il suo parlare. Erano parole nuove: vi scoprii il rumore della vita. Che vita! senza un grido. Poteva finanche mettermi le ali talmente mi taceva il tuo segreto. La vita la consumava ed era invece una roccia. Povera madre, così contenta della sua stanchezza da dirmi sempre: domani sarà festa. Un giorno era una stagione e forse molti anni. Oh! la felicità ha l’età del tuo volto; e gli uomini di terra non lo sanno. Ora me la nascondi di là dal mondo che opprime; e tu stesso non sai se può venirmi incontro come una foglia o nel mio stesso grido. Il tempo è il tuo castigo. Tu sai questa piaga e forse ci mandi il vento a dirci che i morti non torneranno. Eppure vorremmo amarli, se non altro per ritornare fanciulli o sapere se è vero che vengono talvolta in sogno o hanno parole, umane più delle nostre. Ho conosciuto delle donne con le mani tristi e gli occhi calmi sotto la fronte. Dicevano sempre di partire con tutta la carne in un paese di bambole. Povere creature logorate fino alla demenza. Si reggevano sul filo di Dio parlando con la morte. Avevano la pietà delle statue. Ne ho conosciuta una che pregava in un angolo: «Dio, ti perdono. Lasciami gli occhi per vederti una volta. Non è vero che piangi col mio cuore. Se tu fossi vero. Se tu mi vedessi patire! Qui viene l’uomo, ogni sera: vedessi che noia. E piango. Non sarò mai tra gli angeli con tanta freschezza che mi sfugge. Signore, ti perdono se tu pensi che sarò diversa. Il mio ventre è quello di una madre che ancora ti cerca. Non avere pietà che delle mie ossa di giovanetta!». È difficile vivere aspettandosi. Le città soltanto sanno questo segreto dell’uomo che si aspetta. Ora sono un dannato. Penso che nulla ho concluso; e il tempo iui brucia. Potrei andarmene dove la solitudine ci lava da ogni vizio. Ma la città è come la continuazione delle nostre ossa. Eppure qui c’è noia; tanta pietà ci soffoca e si protesta in silenzio. Qui le notti mi scavano e rischio d’impazzire fra tanta luce disumana. Forse un tempo mi vedranno straccione, senza capelli, cogli anni unti sui vestiti e la voce timida. Non c’è sera che non pensi a questo stato delle mie ossa e del mio cuore. Si vive per bruciare. 57


Provare la carità come un flusso di luce sugli occhi. Ma che posso, ormai!… Mi manca finanche la speranza e sconto la vita, fra le pietre, in cerca di me stesso. Sento che sarò sempre in rivolta. I puri sanno questa mania dell’instabilità. Mi puniranno con l’indifferenza, tutti! Forse una notte, colmo della mia vita, potrò dire: Signore, toglimi dall’inferno come uno straccio bruciato. Cancellami dalla terra se nessuno mi pensa. Tutto s’è compiuto. E tu sai la pietà che mi occorre. Sofña sui miei occhi e chiama tu solo tutti i volti che ho pianto. La vita mi ha corroso e dormo colle mie ossa, da tempo. Signore, non punire la mia innocenza fino alla fine. Lascia che i miei capelli bianchi siano calmi sui miei pensieri. E tu non dirmi addio col tuo silenzio di sempre.

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da «GLI OCCHI Dl ORFEO» ad Alfonso Gatto

Ed ecco la buona luce. · Esce ed è fresca; Dai timidi muri di calce Esce la buona luce! Non c’è nulla tra i raggi Tranne che una tovaglia. Alta si scioglie Una muta candela. Pare un’ostia di fuoco, La fiamma sola. Non avrà il tempo Anima più bianca. La tortora ama l’ombra grigia Del colombo; e palpita posata Sul ramo sognato in alto, nella luce, O inventa un nido con piume d’aria E pagliuzze di raggi uditi suonare Al mattino, presso il suo cuore Trafitto dall’ultima penna, Calda di volo. Sole, toro di luce, Toro insanguinato Da raggi precisi: Banderillas al tuo collo Di fuoco. Taci, specchio Di valli d’oro, Di fulmini accatastati. Ogni giorno, a ponente, Perdi la corrida: Cadi sul mare. Poi bruci; tu infiammi, A un’ora esatta, l’Arena. Alta stava la rosa. Era nel vento Rosa fino alle spine: Fino al vento, odorosa.

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Ora danza la rosa, Cupa nel suo profumo: Lunga fino alla luna Che non sogna la rosa. Ecco il silenzio. È solo. S’ode la piaga di giglio. S’apre la corolla E fa luce serale. Volo di piume e non altro ll paziente silenzio. È come un’onda bianca Di mare d’aria; Un suono appena Di stelle partite Nell’eco di Dio. Sì vede sulla città, nel fumo Delle nuvole si vede il sole Suonare ai suoi raggi. Si vede la luce dal volo di giglio nuovo. Sì vedono fiumi sulla città E poi le rose d’Oriente, fiorite In quest’alba. Impazzisce una nube E trascina la faccia del sole Che getta sangue. a Leonardo Sinisgalli

Cinque vocali Cinque rondini che vanno a scuola. Nelle voci fanciulle Il volo delle vocali. Sui fili d’erba. La voce delle rondini. Aula bianca · Nel bianco volo delle vocali. Prato verde Nel verde canto delle rondini. Sanguina il canto del gallo. Getta neve la statua Dagli occhi assenti.

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S’arriccia nella conchiglia l Il brusio della terra. Quante stelle, negli occhi, Inchiodano la notte! Il volo del pipistrello Disegna rocce scattanti Nell’aria di pece. Il sogno mi rende valli sconosciute . E mi copre di lana. Sul muro acceso Di calce, il silenzio. Vestiva i gigli Alla festa dell’Orco Dipinto col fumo. Morì nell’eco di chi lo chiamò Battendo col dito sui vetri. La rondine è volata. Vibra al suo posto L’ombra dell’ali Impigliate al giro D’un volo nero. Sono tre note Aguzze; ma non stride L’ombra della rondine, In fuga verso il caldo Celeste d’Oriente. Giuoca la fontana Coll’acqua chiara E l’eco è una camelia: · Ha un timbro d’elegia Nel mezzo della piazza. Qualcuna può udirla Di là da una vetrina Trafitta da un lume E sciogliersi nel suono Di gocciole volate. Nel tuono d’una campana Fiorisce l’udito e in fondo

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Al ricciuto orecchio l’eco È volo d’onde accese Dal bronzo nell’aria Che si dilata fra stuoli Di passeri impauriti. a Eugenio Montale

Già l’autunno dai murmuri lunghi. Cos’è delle foglie? Cos’è del tonfo muto dei rami? Perduta è l’aria. Perdute le foglie a mucchi cupi. Si soffre cogli umidi muri. Muoiono nuvole sole Nel buio che fuma. Ecco gli orti defunti E poi tutti i flauti dell’aria. Sono accordati i rami Uguali ad ugole – In vortici purpurei di voli. E la sera di rosa… la sera . Darsi quiete – in minore – Fra i lumi usignoli. Il vento dice parole di foglie Dice volo di foglie E di uccelli minuti: Scintille di verdi Uccelli senza canto. Il vento dice nuvola: Villaggio di bianca notte Nuvola senz’acqua. Quante fontane ha il vento. Già: quanti zampilli di luce A1l’ora in cui l’albero Trema nell’area dell’aurora.

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da «BALLATA PER MILLE OMBRE». Viaggio di nozze al paese di nessuno a Liliana

Mia cara sposa che ti fai più bella, Vorrei farti una veste d’ombra mia, Vorrei dirti stanotte altre parole, Ma gli occhi se ne vanno e tu non vedi Come si dorme in pace sul tuo velo. E il mandorlo già è in fiore sul tuo capo: Tu sei cresciuta fino a farti ingenua È tempo delle nozze a bruciapelo E appoggi già le palme sopra gli occhi Per non vedere la giostra degli anni. Ce ne andremo insieme in un paese Ove la luce non fa una piega E l’aria sa il tuo viso a memoria; Poi ti dirò che un lago sa far l’èco Finanche al silenzio che cresce mansueto. Incontreremo un tronco a mezza strada, Ti dirò ch’è mio padre, lì seduto, A vederti crescere fra le braccia che porto. Verrà una gazza a beccarti i capelli; E tu, cogli occhi chiusi, mi dirai Come cade la neve sulla luna, Come batte il mignolo senza anello. Per dote tu mi porti il solo cuore E l’acqua che fa luce in fondo agli occhi. Hai le scarpe di seta che ti dette Tua madre in sogno una notte d’aprile. Verrai vestita con la pelle chiara E il velo, ove tu cresci a capo chino, Che fa il giuoco dell’onda capricciosa. Poi ce ne andremo sul vulcano spento A bussare a una roccia verde cupo Per sentire se all’alba la tua voce Fa crescere in petto la sillaba tu.

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A una fontana che sciacqua il tuo nome Sosteremo un minuto assai distratti Per ricordarci dei giorni perduti. O sposa mia, tu porti sulla testa La nuvola d’un paese che vedesti In un minuto di raccoglimento, Quando si spaccò in due la parola amore E gli anni si raccolsero nel cuore. Vieni al mio fianco come un’ala lieve E chiami amico il vento nelle foglie, Per farti buona sotto un raggio acceso Che la luna ti dette quindici anni fa. Andremo fra le case a non baciarci E lì l’arcobaleno, appeso ai muri, Ci ospiterà soltanto per un’ora, ‘ Fino a quando sul tuo velo intatto Potrai cogliere un fiore e regalarlo A me che ti vedrò sempre più bella Fra le colombe scese dalla luna. Andremo a visitare un santuario Dove c’è una gazzella sopra un sasso A dire t’amo a una farfalla rossa, Che vedesti un mattino assai lontano Volare alle tue spalle come un’ombra. Ti condurrò sul fiume che fa l’eco Agli uccelli felici che sui pioppi Aiutano le foglie a dirsi addio E vanno incontro al sole mattutino. Andremo in una grotta che conosco Per averla sognata da bambino: Una grotta che piange perché è al buio E porta a un luogo dove una conchiglia, A Sepolta in un anfratto, ai soli amanti Racconta una leggenda sempre nuova. Vedremo un lume accendersi fra il muschio E toccando una pietra con il dito Si può vedere un angelo canuto, Che dice d’essere un lontano parente Ed offre per ricordo un anellino.

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Mia cara sposa che ti fai più bella, Io per dote ti porto il firmamento, È Un mazzo d’erba e un merlo che conosco, Per averlo rubato a un vecchio cieco, Morto non so da quando in un giardino. Non ho che in tasca l’atlante di Dio E in cuore le parole vecchie e nuove; Posso parlare ai tronchi e ai pettirossi E sognarli soltanto i gioielli per te. Non ho che i paralleli, quelli bianchi, Che vanno da una stella a un’altra stella, E pago la pigione al Padre Eterno, Stando in silenzio sul mio duro esilio. Andremo a villeggiare a un’isola verde, Dove si fanno ceste con raggi di sole E le nuvole fanno da liete capanne E si può scrivere t’amo sulla luce. Pasceremo capretti sulle onde del mare E tu venderai specchietti alle fanciulle Che vivono appena il tempo di un sospiro E vanno a morire tutte nella spuma. In un paese con palazzi d’edera Dirò t’amo finanche all’ombra tua, Che a trovarmi verrà se sarò solo Per raccontare al vento la mia vita. Andremo in una valle che conosco Per farti udire come cantano ancora Gli usignoli morti cento anni fa; E dove il sole regala a chi s’ama Un chicco di fuoco per gli anni futuri. Da un monte che cresce con il tempo, Ti farò vedere proprio da vicino Come si veste una cometa Prima di passeggiare per il cielo. Se metterai la palma sopra gli occhi, Potrai vedere in un istante bianco Come cresce la Stella Mattutina, Sonora di campane e di fontane.

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Se tu dirai una parola nuova, Ti verrà incontro la luna senza raggi Per mostrarti le celle dove ancora Parlano gli angeli condannati a vita. Andremo a visitare la Polare Se diremo a una foglia: o poverina, Hai perduto il tuo ramo in questo istante, Non sai nemmeno dove morirai. O mia dolce sorella e sposa strana, Tu porti gli occhi vivi nel colore Del velo per farti ancora più pudica E seguirmi come un angelo custode. Ce ne andremo alla terra promessa, Dove si canta con gli alberi d’aprile E l’ape regina ti farà da scorta Finché il tuo petto batterà più forte. Con me sarai più lieta lungo il viaggio. E non ti annoierai fino alla sera, Imitando la rosa, onda ricciuta Come criniera d’acqua a fior di mare. Farai la corte ai fiori del ciliegio E vestirai come una vespa astuta, Per farti amare come una gazzella Che porta negli occhi il sorriso di Dio. Sposa mia che sai quanto sia povero Quest’uomo che ti parla dal tuo cuore, Fatti matura madre al fianco mio, Dammi il figlio già vivo nella voce Che dice al tuo seno: la notte è compiuta. Andremo a pascere le nostre dita Sul monte dove sono sparsi i raggi Del sole che si corica al tramonto; E una colomba ci farà da guida. Scriveremo messaggi ai nostri amici Soltanto sulle foglie abbandonate, Perché sappian che siamo ancora puri, Anche se andiamo all’isola dei gabbiani. Ti porterò dove si trucca l’alba,

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Fin dove finisce il celeste orizzonte, ° E tu vedrai le aiuole di gerani, Senza poterne cogliere nessuno. Non ho niente per te che non sia altrove; Non ho nemmeno un carro per viaggiare: Ho soltanto una vela in alto mare E un treno deragliato non so dove. ‘ Eppure viaggeremo notte e giorno, Anche se il cielo non sarà propizio; Tu farai da guida al mio silenzio Ed io ti vestirò come tu vuoi, Anche con l’ombra dei peschi fioriti. Un grillo ci farà da cicerone Quando le viole ci verranno incontro E tu vedrai risplendere il profilo Di sposa sullo spicchio della luna. Andremo a visitare i nostri morti, Dove il cielo finisce e il raggio solo Di Dio colma di luce il loro buio. Non ci diranno nulla per timore Di sentirsi vivi come un tempo E tu vedrai tua madre ritornata Fanciulla come te, ma senza il velo, Messa a tacere per vederti bella. lo vedrò mia madre rammendare L’ultima mia camicia di scolaro Per regalarla all’angelo guardiano Soltanto per sapermi più felice. E dopo questo viaggio torneremo Alla casetta che non è più mia, Talmcnte sono povero e tu saggia Mia dolce sposa, unita alla mia sorte: ` A un viaggio che finisce con la morte. Roma, marzo 1953

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Testamento a Giacomo Natta

Se morire è scordarsi ormai nel sonno, . Tacere all’ombra di un muretto bianco, Io voglio da vivo fare testamento · Per quelli che verranno al capezzale A deporre corone sul mio sonno. Fratelli, che verrete in fila indiana Dietro la cassa con un cero in mano, Io lascio la mia giacca di velluto . A1 portiere che ha un gatto d’angora E il pendolo a cucù sul credenzone. Lascio la mia camicia bianca e nuova _ A un mio giovane alunno innamorato D’una fanciulla che non vende rose, Ma foglie di menta in un angolo oscuro. Lascio la mia cravatta color sangue Al mio barbiere che ha un cane barbone E un merlo che fischietta la Traviata. Date pure le lettere d’amore Ad una cieca che mi disse: t’amo! Credendomi il suo angelo custode. Lascio il raggio di sole che il mattino Mi svegliava contento dietro i vetri Agli occhi neri di mia madre morta Che fanno la guardia al suo volto sbiadito. Lascio la viola che misi in un libro Ad un amico di trent’anni fa Che uccise se stesso e si fece banchiere. Lascio la mia penna e il calamaio A impolverarsi di chiaro di luna Dove scrissi favole per gatti. Desidero che un fanciullo albìno Porti alla giostra spesso l’ombra mia E che al mattino il gallo del portiere Canti la sveglia alla mia stanza vuota. Venga a prendersi il letto un dittatore Purché impari a scordarsi nei miei sogni, Rimasti a fare il nido nel guanciale.

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Lascio i miei libri di filosofia Alla guardia notturna che sovente Mi spiegò l’Astronomia. In un quaderno che non trovo più Scrissi un’ode al silenzio, dedicata Agli uomini che ingannano parlando E fan carriera rapida in politica. Lascio i miei fazzoletti ormai tarlati Ai vecchi di un ospizio rinomato Perché piangendo perdano le lacrime E dicano d’amare ancor la vita. Lascio le calze bianche a un violinista Che suonava di notte nelle chiese Per farsi amici gli angeli dipinti Sulle vetrate al sommo dell’altare. Lascio le scarpe rotte ad un vecchietto Che aveva una colomba ammaestrata Nel portare messaggi ai sordo-muti. Il più paziente prenda il mio lenzuolo E raccolga la notte, silenzioso, Tutte le gocce che perde la luna. Chi ha voce chiara prenda la chitarra E vada sotto i mandorli fioriti A suonare la Vedova Allegra. Offro all’amico Natta un cerchio bianco Lasciatomi una notte da Saturno Chiamato in fretta a regolare gli astri Per mancanza di luce nella luna. Al poeta Parrella in donazione Lascio un raggio della Stella Mattutina Perché suoni la sveglia ai cherubini. A Nicola Ciarletta giansenista, Lascio per dote una farfalla bianca _ Che vide San Francesco moribondo E si posò sul cuore finché rossa Divenne per miracolo di Cristo. Lascio ai fanciulli per vestirsi a festa La porpora di tutti i cardellini Che tenni in gabbia chiusi a cinguettare.

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Regalo il mio pigiama rammendato A un vecchio che ammaestra i pappagalli E vende per la strada le bugie. Con i bottoni delle mie camicie Pagate tutti i debiti che ho fatti, Compreso il prete che mi assolverà Dall’aver scritto versi sulle foglie E messo il cuore al Monte di Pietà. Lascio le mie bestemmie di fanciullo Ai banchieri che seppero distrarmi Con sequestri mensili ed altri guai Che in fondo sono il miele della vita. Al Capo dello Stato lascio un soldo Come ricordo della mia ricchezza Che pur doveva essere e non fu A causa della mia gran distrazione. Agli uomini politici lascio detto: Vendete palloncini colorati Anziché fole in nome del progresso. Ai miei colleghi di filosofia, Lascio una nube che sa dissertare E un merlo chiromante in ogni scuola. Lascio al mio amico Claudio in un quaderno Scritta una bella massima orientale Forse di Omar Kaiam e di Ciuanzé. Roma, dicembre 1953

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Processo al poeta a Franco Ferrari

Ha un’altezza d’uomo e si ricorda troppo di sé. Ha gli occhi assenti sul cuore distratto. Da millenni, il fanciullo canuto giuoca soltanto; colle parole si diverte. Poeta, s’alzi: giuri di dire tutta la verità. Lo giuro. È imputato d’aver corrotto tre Lune calanti e l’Orsa Minore. Punse una rosa con un verso; fece lo sgambetto a un angelo, custode d’un altro poeta. Disse che avrebbe toccato col dito la Stella Mattutina. Perdé la scommessa. Ammanettò due gigli. Dove ha messo, ladro a distanza, tanto chiaro di luna? · Sappiamo che nasconde sua madre morta fra due lacrime clandestine. Per invidia, strozzò un usignolo nascosto, per timore, fra due foglie. Una volta abolì tre raggi di sole in pieno giorno per impedire all’acqua di brillare. È accusato di aver maltrattato il suo cuore, (inquilino innocente) per semplice curiosità. Che altro poteva dirgli il suo cuore

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se non, da sempre, tic tic - tac-tic tic-tac. C’è un gallo che l’accusa di essere stato spennato a furia di lodi senza perché. C’è inoltre una denunzia del silenzio, dalla sua voce tormentato fuori orario. Offese, ma in modo lieve, un tulipano sfuggito a una sua ode cortese. È vero che lei s’innamora, in modo struggente, dei gigli . e dei lampioni? Questo sarebbe, certo, feticismo; ma sorvoliamo. C’è inoltre una margherita che l’accusa d’essere bugiardo. Ci risulta che una notte, stando al buio, lei offese una lucciola di servizio. Che ha fatto, insomma, di tanti tramonti · chiusi a chiave nelle sue elegie? Lei costrinse una viola a lasciarsi asfissiare in un volume di filosofia. Se lo ricorda almeno? Lei è un ladro abituale di luce serale. Se nessuno lo vede borseggia finanche le gazze e maltratta le rime come fossero sguattere testarde. Per aspettare se stesso a tavolino, lei saltò pranzi e cene.

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Lo stomaco protestò. Lei fu crudele: non aveva tempo di dare alla bocca lavoro. Tentò d’imprigionare in due vocali un soffio di vento orfanello; E usò una rondine mutilata in un suo madrigale. C’è un verbale firmato da un grillo; lo accusa di schiamazzi notturni e d’una tresca non lecita coll’Orsa Maggiore. Ma è propro vero che tentò di strozzare la sua ombra che si abbracciava ai tronchi volentieri, lasciandolo solo? C’è un sindacato di aggettivi che l’accusa violentemente per essere stato messo in pensione senza una poetica ragione. La nonna della Stella Mattutina l’accusa di corteggiare sua nipote quando all’alba rincasa in sottoveste, lungo i vicoli del cielo. Che c’è di vero in questo? Un filo d’erba e una foglia l’accusano d’esser sovente maltrattati. Non parliamo poi di una denunzia veramente straziante: · Lei costringe la sua mano destra a scrivere fuori orario: ad essere complice innocente dei suoi continui misfatti. C’è un merlo che ci scrive ogni sera: l’accusa di eccessiva adulazione. C’è una camelia che vuol essere risarcita: Lei, per errore, la chiamò sgualdrina. Ogni giorno ci giunge una protesta: sono farfalle e nuvole di passaggio

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che vengono chiamate all’improvviso coi nomi più strani. Lei soffre spesso di cleptomania: ruba versi di altri poeti per abbellire le sue poesie. Ma qui risulta un reato più grave. Da qualche tempo sfrutta le parole: le obbliga a servire i suoi capricci. Vuol essere originale ad ogni costo! E, senza cortesia, ammucchia versi privi di senso. Ma è forse anche lei alienato? i Vuol essere un nuovissimo: ‘ scrive piatti verbali dicendo in giro che fa poesia. La legge non contempla tale arbitrio. Lei non può cantare coi sostantivi e i verbi ammutinati. Se lei vuol essere moderno non sfotta gli aggettivi; non faccia fare la rivoluzione alle strofe colpite da areofagia. . Per incitamento alla rivolta c’è una dura pena: la libertà vigilata o il manicomio. Si beffi di se stesso quanto vuole, ma non costringa le parole, ogni sera, a fare, senza ragione, il caos generale sulla carta. Ed ora veniamo ai fatti seri. Come mai si crede eccezionale? Si spaccia per un angelo in esilio quando non vuol pagare la pigione. Corteggia la morte negli attimi di falsa commozione e non si accorge di chi soffre dall’altra parte della luna.

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Porta a spasso le nubi, mai gli occhi d’un fanciullo che aveva il padre minatore. Invita ai pranzi finti gli uccelli e non si è accorto mai di un operaio dal cuore maltrattato dalla vita. Se lei guardasse il sole senza tanto mistero, vedrebbe impiccato, a ogni raggio, chi ha sempre la pelle sudata e il sangue maledetto. Per correre dietro il volo di una farfalla lei non vede la mano rotta dell’umile zappatore, caduto dal sonno ubriaco di buio e disperazione. Vede le stelle cadenti, ma non si è accorto mai di un muratore che cade, ogni giorno, da un’impalcatura pieno soltanto di sogni morti e di calce avvilita. Ha cantato nelle strofe d’oro il volo dell’ape dolce, ma non si è accorto, non ha visto una madre coll’ombra soltanto dei figli negli occhi: i figli che muoiono alla guerra e tornano a casa fantasmi. Passa la notte a contare le stelle come un pitagorico allucinato, ma non conta, mai conta i milioni e i milioni di fanciulli soltanto affamati: i fanciulli colla pancia piena d’acqua che non possono dire nemmeno mamma. Lei che ha la mano destra operaia non si è accorto mai che sulla terra

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vi sono donne sfruttate come stracci: le donne dal volto anemico, più bianco della luna? E i vecchi? Ha mai toccato col dito la spalla di un vecchio che si trascina taciturno? I vecchi si rivolgono ai poeti perché diffondano pietà! E i fanciulli dagli occhi soli? altro che uccelli e farfalle. ‘ I fanciulli dalle mani piene di corolle e di giuochi. Quelli che dicono ogni sera: E la mamma dov’è? Ha mai seguito la voce d’un ubriaco: la voce che mette in libertà gli uccelli neri chiusi nel cuore? Ha spiato negli occhi di chi uccide e resta impiccato al rimorso? Altro che usignoli impazziti · e litanie di cicale negli orti. Ma per quale ragione lirica si è sempre scordato delle spine, spuntate nel cuore delle vecchine? Ha mai chiuso gli occhi a un morto incoronato di singhiozzi e ascoltato dal silenzio dei ceri? Poeta, lo accusiamo d’aver tradito sangue che batte dietro la piaga per aver scelto il profumo di una rosa. Non parliamo delle menzogne. Una volta disse a un fanciullo: «Lo sai che Dio scende a sognare nel calice dei gigli?» Bussò una volta al cuore ma gli rispose la sua stessa voce,

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Disse a un amico: «Mia madre mi scrive dall’aldilà; non può far nulla per me: c’è la nebbia dovunque, tanta nebbia: Da anni non vede una stella». Una notte d’aprile, non visto da nessuno, si mise a cantare un duetto con la luna: proprio come nella Traviata. Spesso, quando è solo, parla coll’ombra come fosse una serva; arriva finanche a calpestarla perché si umilia sempre dinanzi alla luce e non ha tempo di udire i suoi versi. Un tempo disse in giro: «Sono figlio del sole; ho cinque raggi fratelli e una striscia di cielo per sorella». Poi quando si confessa, maltratta l’angelo custode perché non crede al suo cuore: non prende sul serio le parole infarinate dal dolore di chi non conosce. Lei imbroglia la vita con troppa innocenza. Lei disse, una volta, sottovoce: «Beati i miei disguidi perché annunziano la bellezza». A un giglio appassito propose di parlare un minuto di Gesù e a una fanciulla cieca offrì una rosa , dicendole tanti auguri. Perché tanti inganni? Un giorno di maggio vide affacciarsi sua madre morta

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dagli occhi di una gazzella. Fu almeno felice? Ci risulta che spesso, in autunno, lei prega, in silenzio, con le foglie morte, consola rami e tronchi nascosto nella sua ombra. Narrò di fili di pioggia che hanno la voce dei suoi antenati. Offri all’anima, per i suoi giuochi, · una dalia come sorella. W Scrisse lettere anonime ai defunti per avere dettagli precisi sopra i villaggi e la città di Dio. A volte incita il vento alla rivolta contro i fili dell’erba più mansueta. Ma che vuole dal mondo? Spera forse nella solarchia? Vorrebbe scrivere sulla luce; dare un’anima alle farfalle; chiudere nei muri gli usignoli; spezzare per i bimbi l’Iride; suonare, come si suona un’arpa, i raggi di luna a picco sul mare; offrire alle balie viole e rose? La sua nascita è forse un disguido. Dio non sa del suo mestiere d’acrobata; legge di rado il suo cuore perché non ha tempo di sentirsi vivere nella sua voce esiliata. Lo ha lasciato solo, legato a una stella spenta, col petto a tu per tu con la terra. È vero: Lei inventa le parole: giuoca lontano da se stesso come avesse tra le dita il fuoco. Non si umilia che nella rivolta

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perché il suo tempo d’uomo è musica di giorni bianchi. Cammina e ìmbuca il nulla nella sua voce · perché si sente fratello di tutti. Il suo stato è raro ed è, per questo, colpevole di troppa innocenza. Poeta, Si difenda!

Poeta: Se mi avessero impiccato a mezzogiorno, impiccato alla luce che nasconde Dio, avrei gli occhi sbarrati appeso al raggio del sole con un raggio per ogni pupulla: Vedrei più vasta la terra, e tante cose rimaste al buio. Sarei forse un angelo oscuro tra i grumi di luce, alla morte legato dal mio petto trafitto. v Ma sono impiccato al tempo e il cuore batte per me, per voi, nel mondo. È tardi per essere un altro. È presto per morire solo. Lo scheletro mi avverte s che dovrà ancora tremare: umile impiegato della vita, pagato con la paura ad ogni chiusura del giorno. Sulla terra mi sento verme e siamo in troppi a vivere, a portare grovigli di costole e miliardi di voci · colme di parole pugnali. Se Dio vive non lo sanno che i morti, i ciuffi di morti come lucciole

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di là dal buio di se stessi. Ma Dio è assente: Egli ispeziona le Galassie, accovacciato sul fiotto di stelle mansuete toccate dal raggio bianco dei suoi occhi-fulmini. lo porto nel sangue silenzio e luce ed è amara la mia presenza nel vento e nel tempo: sono il prigioniero dalle piaghe invisibili: le piaghe che sanguinano altrove. Sono troppo umano per scomparire; ho nella gola il dolore di tutti e l’innocenza è la mia condanna. È vero: vedo al di là del tempo; nel buio incontro vascelli carichi di stelle e non conosco che il cuore dell’uomo. Ho un popolo di parole consunte e invento me stesso ogni giorno, tento di ifar parlare gli oceani ‘ all’orecchio di Dio, ma resto sempre sconfitto. Gli uomini sanno da millenni la mia ribelle inutilità. Sono talmente solo che mi abituo a vivere coi morti; i morti così muti chiamati soltanto dal mio silenzio. Ce ne vuole di chiaro di luna e di sangue vero sulla terra perché nasca un poeta piantato, ogni giorno, nel cuore di tutti. Ho soltanto il vizio di punirmi con tante parole dimenticate. Viaggio, a volte, col tuono con la mia giovinezza rannicchiata nel terrore di vivere e di veder vivere chi non vive.

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Se voi udiste, la notte, l’urlo che strazia il mio sonno avreste pietà della mia presenza. Voi mi accusate di tanti delitti, di essere un uomo assente: voi mi rimproverate degli inganni, che scattano a ciuffi dalle mie parole. Ma chi di voi ha fissato, per un istante, gli occhi d’un poeta? Le mie vene hanno radici nel caos. Il vento scherza con la mia voce. Nel cuore ho il tuono da cui uscì la speranza del mondo. Ho tanta pazienza che non temo la vita. Ho tanta disperazione che non temo la morte. Quando si nasce poeta in cielo si spegne una stella e non lo sa che Dio. Quando il poeta parla gli uomini fingono di non udire e non lo sanno che i morti. Il poeta fa soltanto attentati ai nemici di ogni innocenza. Accorrono fulmini millenari perché nasca se stesso fino all’eternità. lo dico sì alla vita perché nel mio cuore c’è sempre un altro cuore e l’amore per tutti. Spero e dispero e come il fuoco brucio nel mio stesso sangue. Ma soltanto i poeti sanno a memoria il dolore dei vivi: soltanto i poeti sanno a memoria il silenzio dei morti. ll poeta fa crescere il mondo nel senso della gioia:

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questo mattino che stenta a scendere dal sole perché il sole è ancora innocente. Ci vuole tanta luce per fare due occhi attenti alla miseria umana; e quale sforzo deve compiere il cuore per farsi violenza di tempi propizi. Che attenzione occorre per chiamare gli umili a voce chiara ‘ per dire, ogni giorno, lungo l’infinito, ‘ che l’uomo è libero fino ai confini di Dio. Ad ogni aurora, intanto, qualcuno ci uccide e si nasconde perché la terra non abbia testimoni; ma il sole,_ fraternamente, asciuga sangue e ferite conficca i suoi raggi nel petto e il poeta risorge. Finché c’è un raggio di sole l è sacra la parola del poeta, che fulmina i tiranni e chiama finanche i morti alla rivolta. Mi costa giorni di pena e di buio chiuder la verità nella parola, accompagnare l’uomo per mano come fosse l’orfano di sé. Quanta saggezza deve sbendarmi perché io veda gli orrori perché non mi senta straniero a me stesso. Quando si nasce poeti si può scoprire la felicità, perché poeta vuol dire giovinezza capace di prolungarsi nella vita. Voi non vedete le nostre mani bianche se, da sempre, intenti siete a rapire, avvolti da una notte eterna che ci distanzia dai fiori e da Dio. Domandate alla luna

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dei nostri colloqui sul mistero, perché si può tacere lungo gli evi e scrivere lettere ai morti dove si parla di mille misfatti. Interrogare le foglie e le spighe e gli umili caduti sulle ombre, gli oppressi cacciati finanche dai cimiteri. Fatevi dire dagli usignoli se è vero che il nostro canto può distrarci un istante. Il nostro è un paese punito dove l’alba è l’alba di tutti e il tempo cresce col cuore come una pianta di luce. Il poeta non sogna in luoghi spenti. Il poeta veglia. Il poeta accusa per la purezza che gli avanza. Ciò che vibra e vive _ difende la bellezza. E ci vuole il dolore perché la bellezza dilaghi dove più buio è l’inganno. È tempo che impariate a scoprire tutto il mistero che ci contiene. È tempo d’ubbidire alla purezza delle nostre giornate: sgorghi dal sole un giorno di gioia: come sgorga dal sangue tutto il silenzio della nostra morte.

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da «l DETTI IMMEMORABILI DI R.M. RATTI» Autoritratto Dove sono nato? Non ve lo dico. Sono! Sono un settimino clandestino. Ho due occhi, dieci dita e due piedi. La bocca saluta il naso E mi fa compagnia. Ho duemila capelli . E sul collo due voglie: Una di latte, l’altra di sangue. A un anno belavo; A tre feci un comizio A una zanzara emigrante. Da solo m’innamorai D’una bambola Lenci. Crescevo poco. La testa mi tradiva: Non erano ubbidienti i due piedi. Mettevo un dito sul cuore E pregavo le vene Di darmi del tu. Presi confidenza col silenzio: Scoprii che avevo l’ombra. Mia madre diceva a se stessa: Ho un figlio santo. Ama il bianco del muro: Ma si perde i bottoni. Mi benediva e mi dava una viola. Mi disse una volta: Sei come un filo d’erba. Forse ti pesa l’aria. Tu cresci poco, figlio! Vattene in mezzo ai fiori: Dio ti vegli. Un giorno rimasi solo. Mi chiusi in un tiretto,

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Mi strinsi ai fazzoletti. Poi vidi, fra due lacrime, I miei occhi celesti. Da casa me ne andai Con l’umido nelle tasche E una viola all’occhiello Chi sono? Non ve lo dico. Vi dico che da anni Porto a spasso la vita. E una viola all’occhiello. , E maledico quello che io sono · E quello che non sono.

Dubbio A volte, perplesso, dico a me stesso: spero sia un altro che viva per me. Così sto più tranquillo.

Assenze Io sono fuori di me e fuori di casa. La casa è fuori mano. Il pensiero è fuori di sé, i soldi fuori del portafogli. Dio è fuori della terra e del cielo. Insomma siamo tutti fuori.

Dìlemma Se penso troppo, non parlo. Se parlo troppo, non penso. Se non penso e non parlo è molto meglio.

Crescete e moltiplicatevi La mia stanzuccia da letto è piena di specchi alle pareti. Quando mi spoglio mi vedo dappertutto. Così non so mai qual è il vero Ratti che va a letto.

Alla luna Cara luna, sei l’ultimo bottone della mia lunga camicia da notte.

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Stato civile Ho sette mesi di previta al buio e sessant’anni di premorte alla luce.

Il poema Ho fatto una poesia talmente breve che non la trovo più dove l’ho scritta.

Navigazione A volte, di notte, mi sento nostromo a bordo delle mie scarpe.

Folgorazione Sono seduto e penso. Penso che sono seduto.

Disguidi Quando sono con me la donna va via. Quando viene la donna un altro mi porta via.

Insonnia Quando soffro d’insonnia, metto la sveglia a letto. Le sto vicino, quasi sul comodino, a fare tic-tac fino al mattino.

Il turista . Se non sto a casa sto fuori. Se non sto fuori sono certamente dentro di me a mettere in disordine le idee per il giorno successivo.

Vincite al lotto A volte mi sogno morto: mi dò un terno e vinco; ma sempre in sogno.

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Equinozio d’autunno Quando viene l’autunno e tira vento, mi perdo le cambiali, come l’albero le foglie. Così io vado a letto più tranquillo; ma un po’ ingiallito.

Turni È curioso: quando cado per terra, l’ombra si alza in piedi.

Il disoccupato Avvolto in un lenzuolo, vado a fare il fantasma nel quartiere dei ricchi. Vanno a letto almeno un po’ impauriti.

Lo specchio Mi specchio: da uno divento due. Chiudo gli occhi e non sono più nessuno.

Compleanno Sono un settimino e ad ogni compleanno ho sempre due mesi di meno.

Cortesia . Con lo sbadiglio, io do la buona sera alla mia ombra e me ne vado a letto.

Tattica Quando d’inverno fa freddo, cammino rasente i muri. Vado piano. Quasi sempre i miei creditori mi scambiano per un cappotto appeso a una finestra.

Provvedimento Ho un gallo dormiglione; gli ho comprato una sveglia.

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Smarrimento Sono due giorni che mi cerco. Non ricordo pi첫 dove mi sono messo.

Tavolate al buio Quando gli amici sognano di mangiare non mi invitano mai.

Confessione Seduto davanti allo specchio, e vestito da prete, mi sono confessato.

Fame antica Ho tentato di impiccarmi varie volte. Ma sono troppo leggero.

Preludio e fuga Oggi, alle due, ero uno. Alle tre non ero nessuno.

Vana speranza A volte sto alla finestra sperando che mi venga a trovare, volando, qualche biglietto da mille che ha smarrito il padrone.

Esperimento Mi sono fatto arrestare per sapere se in questura sanno che vivo.

Enigma Quando non mi cerco mi trovo. Se invece mi cerco, trovo sempre un altro al posto mio.

Pudore Mi spoglio al buio. Non voglio che Maria mi veda nudo.

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Sospetti Quando rincaso, la sera, corro subito a specchiarmi. Non si sa mai, potrebbe essere entrato un altro al posto mio.

Indicazione Ho scritto dietro la porta: il campanello è rotto, si prega di abbaiare.

Doppio risveglio Dormivo e sognavo. Sognavo di dormire in un_ altro letto. Al mattino, dovetti svegliarmi due volte.

Miraggio Mi è apparso, in sogno, un biglietto da mille. Non appena gli ho dato del tu, è subito svanito.

In trattoria Ho detto al cameriere: «Scusi, al posto della bistecca potrei avere le trecento lire? Così potrò pagarmi la minestra».

Rimorso È strano: spesso mi prende il rimorso di essere cresciuto al posto di un altro.

La garçonnière Due farfalle bianche si stanno amando sulla mia ombra. Anch’io servo a qualcosa.

Non offendo nessuno Scrivo lettere anonime a tutti: finanche a Dio; ma parlo male soltanto della mia ombra.

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Misteri orfico-onirici È strano, nemmeno quando sogno di mangiare mi vedo seduto a tavola. Sì vede che al posto mio mangia un altro.

Il sogno fisso di un dormiglione Un minuto prima di svegliarmi sogno sempre di essere diventato un gallo che canta. Così mi dò la sveglia da solo.

Il bello addormentato Un creditore mi ha confessato che, quando dormo, io divento bellissimo e a lui, d’incanto, viene la voglia di prestarmi altri soldi.

Prova antropologica dell’esistenza di Ratti Non mi risulta se Dio si sia occupato, qualche volta, di dimostrare, sia pure per scherzo e distrattamente, la mia esistenza. Si divertirebbe sul serio.

Lo stakanovista Quando sto in piedi, m’immagino seduto. Quando sono seduto, m’immagino a letto. Se invece sono a letto, immagino di lavorare. Così posso dormire più tranquillo.

L’asta Nel sogno, mi ero messo all’asta. Offrivano un miliardo. Al colpo del martello mi svegliavo.

Gli eterni turisti Ho saputo dal mio Angelo custode che i soldi mi pensano sempre e mi inviano tanti cordiali saluti da tutte le banche del mondo.

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Delicatezza Poeta timido offresi come amante a nuvola di passaggio.

Esercitazione Dormo, da anni, in una stanza stretta come una bara. Mi abituo, da vivo, ad essere un morto senza troppe esigenze.

La penna d’oca Oggi ho regalato una penna d’oca alla mia mano destra. Ha scritto subito una lettera d’insulti alla mano sinistra, disoccupata dalla nascita.

L’unico libro Leggo il mio pensiero senza sfogliarlo mai. È ormai l’unico libro che riesco a leggere.

Assurde pretese Un mio amico ha sognato che io trovavo un biglietto da mille nella tasca del suo cappotto. Da sveglio, pretendeva che glielo restituissi.

Come una etera Ho un’ombra erotica. Abbraccia tutti gli alberi che incontra.

Lo spione A volte mi fermo di botto e mi spio. Non scopro mai nulla.

Paura Sovente, in punta di piedi, mi nascondo dietro l’ombra. Ha sempre paura di rimanere sola.

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Pretese di un illuso Un amico mi ha detto che in sogno, io, morto, gli davo un bel terno. Pretendeva vincere dimenticando che sono, Dio lodato, ancora vivo.

Delicatezze Mi affretto a vivere perché c’è un altro che vuol prendere assolutamente il mio posto. Povero illuso! Avrà di che divertirsi.

Aspirazione Scrivo per dare un significato al tempo che passa e anche perché il tempo mi dia un significato che resti.

Il comunicante Ho urlato che volevo comunicare con qualcuno. Mi hanno subito rinchiuso in una cabina della Sip.

La tentata evasione Ogni giorno, e in punta di piedi, mi esercito ad evadere da me stesso. Non riesco ancora ad essere definitivamente libero.

Maieutica Penso male: partorisco concetti settimini.

Adozione Non avendo figli, mi sono adottato. Da domani mi chiamerò papà.

Pensierino La storia passa in me, ma io non passerò mai alla storia.

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Illusione Mi nascondo per aiutare gli altri a cercarmi. Ma non mi trovano perché, in verità, essi non mi cercano mai.

Il raggio dimenticato In me ci dev’essere nascosto, non so bene se un raggio di luna o un raggio di sole. Deve averlo dimenticato Dio quando, non visto da nessuno, operò sulla mia nascita.

Minima Non ho mai capito bene perché appena stiamo male ispiriamo al prossimo pietà, fino alla commozione. Non appena, invece, stiamo benino, le stesse pie persone ci augurano quasi di morire.

Un po’ d’ipocrisia Vorrei dire tante verità ma non le dico perché mi ricorderei di essere anch’io una carogna.

Quasi una verità Ho l’età in cui si comincia ad essere guardati più dagli amici già morti che dai pochi amici vivi, che diventano via via nemici.

Misterino È strano: quando penso sul serio non mi vede nessuno. Appena smetto di pensare mi vedono tutti. Ciò vuol dire che divento buffo.

Il vitaiolo Malgrado tanti guai avuti in eredità dai soliti antenati ignoti, in fondo amo questa vita che mi permette di essere noto almeno a me stesso.

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Pensatore igienista Siccome pensavo con le idee un po’ sporche, ho deciso, all’improvviso, di fare un ideiluvio.

Mistero Quando scrivo, non so mai bene se sono io che m’invento poeta è Dio che, nascosto in me, mi aiuta a trovare tante immagini strane.

Celeste desiderio Quanto vorrei essere, per un istante, l’angelo che dà la buona notte a Dio, dopo averla data a tutti i morti della terra.

L’ospìte nascosto M’interrogo e m’interrogo per sapere chi sono e mi risponde sempre uno che non riesco ancora a conoscere personalmente.

Pensiero al galoppo Mi sento sempre diverso per abituarmi a dimenticare chi sono.

Di servizio Quando sto zitto, monto la guardia alla mia ombra, che sta pensando certamente agli affari suoi.

Dalla culla alla bara Perché quando si nasce si è in due ad urlare e quando si muore, invece, si è soli e silenziosi?

Onore al merito Ho dedicato un’ode ai miei occhi per il coraggio che hanno di sopportare la vista di questo che è il «peggiore» dei mondi possibili.

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Ideologia Il mondo non vuole capi politici, ma capi di bestiame. Il mondo non vuole funzionari ma vuole funzionare bene. Il mondo non vuole gerarchi e generali ma vuole generi alimentari sotto archi di pace. Il mondo non vuole tiranni ma vuole che il sole tiri da solo gli anni di tutta la terra.

Decreti lampo All’improvviso, mi sono autorizzato a ispezionare, per tre minuti, il portone chiuso della Banca d’Italia.

Il fantasma lampo Infilato nella mia lunga camicia da notte, terrorizzo per un minuto la mia ombra e vado a letto.

Uomo abbandonato Lasciato solo in fondo ai pantaloni mi sento assolutamente irresponsabile.

Poeta affarista Non mi resta che vendere a me stesso gli ultimi raggi di luna.

Il fisarmonico Sovente, per passare il tempo, premo sui bottoni della mia giacca come sui tasti di una fisarmonica. Ho un cuore musicista; mi suona ad orecchio.

Sono un uomo da posteggio A una cert’ora puzzo di nafta. Invece di rincasare, mi fermo ad un posteggio.

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Amleto anno zero Non so ancora bene se sono un vivo in più o un morto in meno. Ergo: non so davvero dove collocarmi.

I puzzoni In Italia, e anche altrove, tutti parlano di voler concedere la libertà a tutti; ma appena uno dice soltanto per scherzo di voler essere libero di pensare sul serio, sono tutti pronti a denunziarlo come maniaco sessuale.

L’ermafrodita Mentre la mia mano destra lavora, la mano sinistra riscuote per conto suo. Io sono invece al centro, tra capitale e lavoro, immobile.

Il questurino A volte mi interrogo a lungo per conto mio. Ma non mi confesso mai la verità. Non si sa mai: potrei denunziarmi al più vicino Commissariato di Polizia.

Il silenzio è d’oro La mia ombra è più saggia di me: non parla mai. Per prudenza, non fa nemmeno l’eco quando dico soltanto: Io.

Innocenza con aggravante Dopo aver confessato e provato di essere del tutto estraneo all’attentato contro la Banca d’Italia, mi hanno finalmente arrestato come sospetto. Ho detto scherzando che ero il milite ignoto per la prossima guerra.

Tattica superata A volte, per non essere assalito all’improvviso dai creditori, mando in avanposto, agli angoli della via, la mia ombra. Ma non scopre mai nessuno perché ormai i creditori girano in elicottero e mi vedono dovunque.

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Eroìsmo impossibile Ho sognato che la Patria, indignata nel vedermi invaso dalle cambiali, era pronta a morire per me. Era ora!

Turni Di giorno solo, e con somma pagienza, mi faccio compagnia: di notte, a mia insaputa e nel sogno, altri che non conosco, mi fanno compagnia.

Al buio Non sono solo che nel sonno. Appena sogno, invece, mi faccio subito compagnia, ma io non mi vedo mai.

Le cagne Le donne mi fiutano fino alle radici. Forse dal giorno della nascita dev’essere nascosto in me qualche tartufo.

L’ignoto Se è vero che ho un’anima, da tempo deve essere offesa perché dimentico sempre d’interpellarla quando parlo di me e soprattutto di lei.

Il nosocomìo La follia dei santi mi riempie di letizia. Quella degli uomini mi riempie di terrore. La mia, invece, mi diverte da morire.

L ’illuso Appena vedo gli uomini, mi racconto in fretta storie di angeli e per un istante mi nascondo sotto le loro ali.

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Forse… Si doveva nascere vecchi e morire neonati per ñnire veramente in compagnia di Dio.

Provando e riprovando Voglio sragionare per conoscermi meglio el uscire una buona volta dal pensiero.

Regime clericale Ormai apro la bocca soltanto per sbadigliare.

Scelto dalla zecca Ho fatto un bel sogno: ho visto finalmente la mia immagine stampata sulle cambiali.

Legge marziale Se mi muovo da casa, la donna cannone ha avuto l’ordine di far fuoco.

Calore fittizio Quando fa freddo mi sto vicino. M’illudo d’essere in due per riscaldarmi.

Il lieto acquisto Ho comprato, di seconda mano, una bara della mia taglia. Non si sa mai.

L’aquilone · Ho incollato tutte le mie cambiali e ho fatto un immenso aquilone. Sembra un satellite vero.

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Pane e lavoro Il consumismo promette a tutti pane e lavoro. Di ozio non se ne parla mai.

Il decapitato Ho sognato che mi tagliavano la testa. In fondo, la ghigliottina è come una bella donna.

L’archeologo Per me la forchetta è arnese preistorico.

Visite brevi Sono andato di corsa alla Banca d’Italia a dire al cassiere: non si disturbi, stia comodo; non devo riscuotere proprio nulla. Arrivederla a presto.

Delicatezze di un settimino A volte, per non disfare il letto, dormo fra le lenzuola, in un tiretto.

La vacca Sono come la vacca. Mangio una volta al giorno. La sera rumino per tre minuti e vado a letto.

La rotta Nella mia stanza, al buio, accendo un cerino. Mi fa da Stella Polare: mi guida verso il letto.

Il fratello siamese A furia di salutarmi da solo, mi sento fratello siamese del braccio destro.

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Magia Quando voglio vedere molti soldi, mi vesto da prete.

Onestà Sono anni che amministro con scrupolo i miei debiti.

Il dittatore In pubblico, ubbidisco a tutto e a tutti. Faccio il dittatore soltanto in privato: comando almeno sui miei bottoni.

Il saluto Di giorno, quando cammino, sono gli uomini che mi salutano ridendo. Di notte, invece, quando non cammino, son’io che mi saluto e ho voglia quasi di piangere.

Pietà Quando d’inverno, incontro un albero solo e senza foglie, mi fermo, di botto, accanto. Cosi gli faccio compagnia con le braccia aperte, come fossero due rami. Ma tengo chiuse le palme perché le mani, proprio le mie mani, non sembrino due foglie.

Speranza vana Ho deciso di utilizzare tutti gli istanti con la speranza di diventare io stesso una frazione di tempo e uscire finalmente fuori di me.

Primato Prima dell’uno viene lo zero. Ma prima dello zero vengo io.

Domanda Giacché non ho nessun diritto, ho chiesto al presidente della Repubblica se posso considerarmi almeno vice cittadino.

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Opere pie Ho incontrato un mio sosia e l’ho subito denunziato per appropriazione indebita; ma mi son fatto arrestare anch’io colla speranza che al processo mi scambino per l’altro. Ci sarà da divertirsi.

Il pappagallo scostumato Speravo tanto che il mio pappagallo mi chiamasse qualche volta per nome almeno lui. Invece, non fa che ripetere il suo nome e quello dei miei nemici.

Rivoluzione Giacché non posso abolire il rumore, ho abolito il silenzio; parlo sempre da solo, anche nel sonno.

Apicidio Una apina scostumata si è seduta sopra l’orecchio destro. Lo sta succhiando: l’ha scambiato per il calice d’un giglio o d’una calla. C’è poco da succhiare: io non produco nettare, io butto fuori soltanto veleno. Per l’apina, quindi, non c’è scampo.

La tenia Sono sempre solo: sono il verme solitario dell’Universo.

Libero arbitrio del biglietto da mille Il denaro, per me, segue ormai la via dell’esilio, non quella del disonore. Il disonore sarebbe la mia tasca.

Uno e trino . Siamo in tre a dire: Io! RENATO-MARIA-RATTI. Ma nessuno ci ascolta e dimagriamo.

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La sentinella Quando dormo lascio sempre un’idea di sentinella. Prevengo qualche attentato al pensiero.

L ’ospite pensante Quando penso e parlo tutti credono che sia io a pensare. Invece, soltanto io so che è sempre un altro a pensare al posto mio. Forse sarà la mia ombra.

Le lucciole Quando penso a Dio, le idee prendono il volo come tante lucciole. Ergo, se c’è buio penso a Dio.

Prurito mentale · Quando nella mia mente sento un breve prurito, è la verità che mi chiama.

Scambio d’idee Oggi ho pregato un amico filosofo di pensare per conto mio. Appena potrò farlo, penserò per conto suo.

Cose serie A un convegno di filosofia abbiamo tutti dimenticato di parlare un po’ della vita. Ci è mancato il tempo.

Pensiero privato Più vivo e più mi manca il tempo per pensare.

Limiti del pensiero Col mio pensiero posso creare tutti i generi minimi e sommi meno quelli alimentari, s’intende.

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La monade Dalla finestra semiaperta di una monade guardo un millimetro di vita.

La balia Da tre mesi corteggio l’idea madre. Mi sento ancora filosofo poppante.

L’annunciazione È venuta a trovarmi, di corsa, un’idea e mi ha detto che io mi devo cercare. Per ora sono perduto.

La verità Dopo lunga larga e profonda meditazione, ho scoperto che la verità non è altro che una bugia presa sul serio.

Irruzione nel pensatoio Ho acceso la camera oscura del pensatoio e ho trovato un’idea in camicia da notte.

Come in un pollaio Ho pregato un concetto invecchiato di fare il gallo. Al mattino sveglia tutte le idee dormiglione.

Delicatezze metafisiche Ho visto il non Essere addormentato sul pagliericcio del mio pensiero. Mi sono subito allontanato in punta di piedi per non svegliarlo.

Chiaro scuro . Col sole, penso due e anche tre volte. A1 buio, invece, le idee si coricano un minuto prima di me e mi lasciano solo.

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Uomo smarrito Mi cerco da quando sono nato. Sono dunque, ancora, un uomo smarrito. Mi toccherà dare un premio a chi sarà capace di trovarmi.

Le dolci ore Per addolcire le ore metto lo zucchero sul quadrante della sveglia.

Lutto Ho messo il lutto al mignolo. Mi è morto il cardellino.

Vitto eccezionale Mi nutro di miglio e di lattuga. Lotto il digiuno delicatamente.

Chi sono Sono un poeta minimo per tarli. Io dipingo la vita in grigio e viola: Più la divoro e più resto digiuno. Sono un poeta minimo per tarli. Somiglio a Mossadek quando dorme.

Abbonamento Mi sono abbonato a quella strisciolina di sole ch’entra nella mia stanza come la bacchetta delle fate poggiata per terra. Se ci fosse una gabbia potrei fischiare dentro come un merlo.

Il rondone Un rondone con l’ali aperte attaccato è al muro di fronte. Così, come sta, sembra dire, anche lui, abbasso RATTI.

Giuramento Ho giurato a me stesso di fare economia. A mezzogiorno in punto vado a letto. Poi m’addormento. Così non mi vedo e non mangio.

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L’ombra Sono le otto e mi vesto. Mi aspetta giù al portone la mia ombra, svestita.

Eroìsmo È scoppiata la pace e sono caduto! Sono caduto dal letto per la gioia d’essere il primo eroe. Ho salvato me stesso.

Raccomandata con ricevuta senza ritorno Sto per finire gli anni. Bisognerà che scriva… Ch’io scriva al Padre: a quello Eterno. Sarà una cosa seria.

Rinascente Sotto il mio cappello c’è la testa di un altro. Così siamo in due a portare lo stesso vestito.

Lettera smarrita Cara Maria, ti scrivo per dirti che sono Ratti. Se tu mi scriverai dimmi che sei Renato. Io ti risponderò: sono MARIA.

Assenza totale Sono tornato a casa e non c’era nessuno. Non c’ero neppure io.

Titanica Sono finalmente arrivato a fermare il tempo. Ho tolto le lancette al mio orologio.

La spinta Per una spinta che ebbi da fanciullo sono cresciuto un po’ inclinato da una parte.

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Mercato a domicilio Sulle pareti della mia stanza ho dipinto i mercati generali. La mattina compro quello che voglio stando in pigiama.

Filantropia permanente Invece di farci vivere, in Italia ci danno un anticipo di morte per prepararci alla vita eterna.

Perquisizione a domicilio La Polizia ha perquisito la mia stanza e ha trovato l’arma: una forchetta arrugginita. Sono stato lungamente interrogato sul perché della ruggine.

Tutti peripatetici In Italia, le idee restano in casa. Vanno a spasso, pensando, soltanto i piedi e cosce a non finire.

Orgoglio dell’uomo Appena l’uomo mette insieme dieci idee, scavalca Dio e dice di essere lui l’autore del mondo.

Spiegazione In sogno mia madre mi ha detto: figlio mio, tu sei cresciuto dall’altra parte della vita. Per questo sei solo.

Moschicidio Peccato! Ho ucciso due mosche. A mezzogiorno si stavano amando proprio sul mio naso. Erano forse in viaggio di nozze.

Occupazione del calendario Ho dato un nome a tutti i miei organi. Peppino, è il cuore. Giorgio, è il fegato. Eustachio, lo stomaco, Anna, la lingua. Lisetta, la bocca. Gregorio, il

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naso. Sandra, la milza. Felicetta, la mano destra. Clotilde, la mano sinistra. Lucio, l’occhio destro. Germano, l’occhio sinistro. ecc. Ogni giorno, perciò, è l’onomastico di un organo e si festeggia.

Maldicenza in famiglia Mi sono specchiato e ho visto nell’occhio destro una pagliuzza e nell’occhio sinistro una trave. Poi mi sono ricordato che, nel sonno, avevo parlato male, tanto male di me stesso credendo che io fossi un altro.

La luna cogli orecchioni L’altra sera mi sono attardato a guardare la luna rossa, quella grossa grossa, e mi sono detto: povera luna, avrà gli orecchioni anche lei.

Lo spuntino dell’anima Quasi ogni mattina ingoio un’ostia, senza confessarmi. Se non mangio io fa almeno uno spuntino l’anima.

Milionario Ho addobbato le pareti del mio stanzino con mille specchietti. Se sventolo, messo al centro, un solo biglietto da mille, vedo i milioni venirmi incontro da tutte le pareti.

Menù quaresimalista Lunedì: fili d’erba. Martedì: stuzzicadenti: Mercoledì: pagliuzze. Giovedì: miglio. Venerdì: lattuga. Sabato: farfalline. Domenica: ostie.

Dubbio amletico Mi sono ammalato. Sono indeciso se farmi visitare da un medico o da un veterinario.

Il nemico Anche quando sono solo ho sempre paura di qualcuno: ho paura di me stesso come del più feroce nemico.

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La stufa Fa freddo. Per non essere solo e al freddo accendo un cerino. Riscaldo almeno il mignolo e vado a letto.

Trauma Sono andato alla tavola calda e mi sono commosso appena è apparso un pollo cotto sul tavolo del mio vicino.

La gobba È strano! La mia ombra ha la gobba. Forse una volta avevo le ali; ma non l’ho mai saputo.

L ’abisso Disceso nell’abisso della vita, stento a ritrovarmi.

Segreto Per avere gli occhi bianchi come le statue fisso la luna fino all’alba.

Tempo e luogo Per avere contatti col prossimo chiedo a tutti l’ora o il nome di una via che non esiste.

Proselìtismo Per avere seguaci non faccio mai discorsi. Mi metto semplicemente a guardare per aria, incuriosito. Dopo due minuti tutti i passanti la pensano come me.

II lumino da notte Ho messo una lucciola sul comodino. La notte mi fa da lumicino.

Piano regolatore Cammino a passetti brevi. Risparmio almeno centimetri di spazio.

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da «L’IDIOTA», Periodico umoristico satirico antiletterario diretto da Marino Piazzolla, 1969.

Cos’è l’idiota dì Kal - filosofo del dormìveglia Se avessimo dato a questa rivista il titolo «Il Genio» tutti, indi- stintamente, lettori, semilettori e non lettori, avrebbero senz’altro det- to: «Finalmente si è risvegliato lo spirito di nostra gente». Ma noi, semplici italici, siamo partiti dal primo gradino della gerarchia men- tale. Bene inteso, in Italia, nessuno è idiota, tranne una sparuta mi- ‘ noranza di esemplari rari che per fortuna vanno scomparendo. Per non offendere nessuno, perciò, diciamo che idioti siamo rimasti, an- cora noi, condannati a vivere in un’ltalia in cui si assiste, da anni, alla sovraproduzione dei geni. È stabilito sin da ora che quei rari e benemeriti lettori che legge- ranno questa rivistina saranno da noi considerati persone dotate di _ alta intelligenza, dato che questa facoltà, lo pensiamo e lo speriamo di cuore, non è ancora del tutto scomparsa dal nostro «bel paese». Questo periodico, dunque, non propone nulla di straordinario né al nostro presente euforico, né al futuro prossimo o lontano. Noi desideriamo semplicemente essere liberi in un’Italia che li- bera non è mai stata, tranne che durante le notti, quando tutti i citta- dini, dormendo, sognano liberamente. Ebbene, noi aspiriamo a rendere libero anche il nostro stato di veglia. Ma liberi in che senso? Liberi innanzi tutto di frequentare le idee chiare e distinte, di mettere a nudo, senza preoccuparci di tro- varci in regime clericale, le verità che crediamo e vediamo soffocate, ogni giorno, proprio da chi si proclama difensore della democrazia e della libertà, ma che nella vita privata fabbrica manette e nella vita pubblica fa approvare .decreti catenaccio restrittivi di ogni libertà. Noi siamo convinti che gli italiani, i quali hanno fatto secolari indigestioni di schiavitù e di tirannidi, abbiano finalmente diritto a dire e a fare ascoltare verità elementari che in quasi tutti i paesi fanno parte del normale patrimonio civile. Bisogna creare una tradizione libertaria se vogliamo sentirci e farci considerare uomini. Sull’«Itala gente dalle molte vite», c’è molto, moltissimo da di- re. C’è da dire che è un popolo destinato a vivere in un paese dove l’intelligenza è sempre stata processata, in quanto considerata facol- tà pericolosa. Un paese dove chi è civile e ragionaviene subito rubri- cato come sovversivo e incarcerato alla prima occasione. Un paese dove tutti fanno finta di credere in Gesù e nei santi, 109


mentre in so- stanza non credono che a se stessi e non pensano che a far quattrini con qualsiasi mezzo: con la religione, con la politica, con la lettera- tura e col canto, con le reliquie e i ricordini e con le case squillo. Fra gli italiani, perciò, prevalgono ormai i filibustieri, i ladroni, i mangioni, gli intrallazzatori, i letterati fradici, i protettori, i navi- gatori, gli indovini, le chiromanti, i padri di famiglia costretti a vive- re a schiena curva, i giovani che hanno il culto dell’epilessia e dell’urlo; i politicanti che aspirano a fare i tirannelli; le sartine colpite da meningite che scrivono romanzi e poesie, i filosofi che si rubano le idee fra di loro per poi non dir nulla. · Per noi, invece, esiste un piccolo paese che ha avuto i suoi uo- ` mini migliori, da Dante a Gramsci, processati, perseguitati e, nei ca- si più miti, soppressi fisicamente. Esiste un’Italia minima degli artigiani, dei braccianti, degli operai, degli studiosi, dei poeti che hanno scritto versi sul serio e che noi amiamo e infine non pochi operosi borghesi. È l’Italietta clandestina e civile, fatta di gente semplice che beve vino, crea e disserta sull’lnfinito senza mai staccare i piedi dalla terra. Ebbene, è di quella e di questa Italia che «L’Idiota» tenterà di parlare. Diciamo tenterà perché, in un paese inquisitorio come il nostro, il parlar chiaro e dire poche verità, è sempre un rischio, un pericolo, un modo, civile per noi, ma sovversivo per le canaglie. Kal

Cronache di poesia – È uscito un volume color pisello di Oronzo Bronti capo classe dei nuovissimi. I versi di questo poeta allineato a mezzo busto cavalcano a briglie sciolte sulla pagina solitaria. Le vocali sono in ordine sparso pronte per un attacco alla baionetta contro il lettore, caduto in stato di coma lirico in seguito a una martellata dell’aggettivo «duttile» ripetuto tre volte in una strofa.

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Almanacco degli italiani felici di Gop - «Storìco mancìno» Allo scopo d’incrementare i rapporti epistolari tra gli ammiratori, le ammiratrici d’Ita1ia e i lider della politica, i divi del cinema, del varietà, T.V., RAI ecc., si è costituita a Roma — ancora sotto forma clandestina — l’Associazione Nazionale ammiratori e ammi- ratrici appartenenti a tutte le classi sociali e desiderosi di creare un vasto movimento di opinione in modo da incrementare la diffusio- ne, nel nostro luminoso paese, dell’ormai maturo buon gusto in materia di arte, letteratura, spettacolo, giornalismo e politica. L’A.N.A.A., tenterà con tutte le sue forze affinate dalla cultura e da una ormai decennale esperienza, di raccogliere coordinare e smaltire, nei modi più rapidi e moderni, tutta la vasta corrisponden- za che affluirà al centro da tutte le parti d’ltalia e provvederà a ché ogni lettera raggiunga il divo, sia residente in Italia che all’Estero. Perché la nazione prenda conoscenza di questa vasta e comples- sa opera di progresso umano, l’Associazione provvederà a raccoglie- re le lettere più significative in un almanacco che sarà pubblicato come le normali enciclopedie, ogni anno e in ordine alfabetico. La pubblicazione s’intitolerà «Almanacco degli italiani felici» ` e sarà in vendita, a prezzo modicissimo e contrariamente al solito, nelle farmacie della penisola, come un super tranquillante. Dal rica- ’ vato delle vendite che si prevedono eccezionali, l’Associazione pensa destinare una congrua somma, sotto forma di prestiti, agli stati defi- citari e il rimanente sarà invece destinato alla creazione di uno stadio internazionale dove si svolgeranno, annualmente, i ludi dell’ammirazione universale.

Critica letteraria – L’idea madre del romanzo esaminato alla luce della iper- «critica stilistica e semantica è un’idea che s’irradia nelle pagine e subito rientra nei meandri della parola, decantata da una poetica solipsistico-astratta. Il calibro del periodo oscilla tra il numero dodici e il sedici a scoppio ritardato. Eroica la decisione del protagonista di servirsi della sua camicia da notte come bandiera durante lo sciopero della fame proclamato dalla punteggiatura bodoni. L’eroina saluta i lettori dal balcone di uno stile stringato e avulso dai valori fonici ritenuti essenziali agli effetti epifenomenici contenuti nell’aggettivazione esem- plare del fondo pagina, Comunque stiano le idee del protagonista, nell’opera non accade perfettamen- te nulla a causa degli orecchioni di alcuni sostantivi sfuggiti all’autore durante lo sforzo creativo.

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Antologia di Cols - poeta domenicale Inni per nani musichieri Si Fa Dì. Si Va Li Ogni Dì È così.

Di sonno in sonno In un sofà, tant’anni fà, povero nonno cadde nel sonno. Rimase là, su quel sofà, tant’anni fa.

Scherzo rumoroso Giocando all’amore con la donna cannone è partito un colpo per distrazione.

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Il can Del Re Cane Non è. Se non È can. È certo Un Re. Figlio di un Can Cane di un Re.


Inni ebraici ACUTO IN DO BEMOL MAGGIORE Dò o non dò? Se dò dò. Dò poco, per poco, ma dò. Non dò? Mi dò! Dò a me: Sono un Re. DESTINO MOSAICO «Compro per poco ma vendo poco. Vendo per molto sempre quel poco».

PROPOSTA DI AFFARE «Io metto un soldo tu cinque lire. Le cinque lire le prendo io: Le prendo a saldo del soldo mio. Tu guardi il soldo, che resta mio».

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ELEGIA DI UN SOLITARIO

PRELUDIO E FUGA

Alle tre bevo un caffè. Alle sei viene e non viene lei. Alle otto mi tolgo il cappotto. Alle nove il letto si muove, ma lei è altrove.

Oggi, alle due, ero uno. Alle tre non ero nessuno.

Mostre d’arte. Lo scultore Ar ha fatto `una mostra di zampette di grilli alla galleria Vur,

il più piccolo cratere della luna. SCOPONE A DUE Nascosto, all’ombra, con la mia ombra · giuoco a scopone come un beone. lo prendo un tre lei giuoca un re. Poi butto l’otto ma lei di botto fa il quarantotto. _ Se il sette bello lo prende lei io prendo, invece, quattro e due sei. Alla fin fine . con il suo alone ha vinto l’ombra un mio bottone.

Notizie letterarie. Il Robot Iz ha scritto un poema epico-motorizzato di 2.000.000 di versi. Vincerà certamente il premio Storeggio, destinato a incoraggiare, sul piano cosmico, la letteratura sonnifera.

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Dizionario semifìlosofico di FOC - detto il «Tuorlo della Sapienza» DANARO - parola magica che allude, illude e delude sia chi lo possiede sotto forma di banconote, sia chi se lo sogna o lo intravede, a distanza forzata, come un miraggio. Secondo alcuni mistici, il danaro non esiste, anzi esso è una semplice illusione ottica soprattutto di chi lavora. L’italiano, in particolare, lo tratta con speciale simpatia. Per il prete non si deve nominare, ma intascare soltanto. Per il poeta e lo scrittore lo si deve nascondere ben bene sotto le parole in modo che gli altri non riescano mai a vederlo, ma udirlo soltanto cantare. Per i filosofi esso è l’Essere assoluto, il Tutto, l’Archè senza del quale non si pensa, ma soprattutto non si mangia. Per il politico endovenale è la cosa in sé, il motore silenzioso delle azioni e, in modo speciale, delle malazioni quotidiane e su scala da uno a mille milioni. Cosa sarebbe la fauna politica senza la filigrana delle banconote? Un coacervo di deliranti. Per il ladro il danaro è una specie di sirena che incanta e dà un leggero prurito alle mani che diventano prensili per forza di inerzia; Per il ricco il danaro è la ragione delle sue ragioni non ragionate e non ragionanti. Il ricco si sente un po’ il padre naturale, adottivo e legale di tutte le banconote, comprese quelle orfanelle che sono di passaggio nelle tasche dei poveri. Il danaro: c’è chi lo tocca, chi lo ricama, chi lo intravede ad occhi aperti, chi lo palpa soltanto in sogno, chi lo degusta coi polpastrelli, chi lo insegue come un miraggio, chi si accontenta di vederlo, chi lo conta idealmente all’infinito, chi lo nasconde e va a morire altrove, chi lo investe e si fa male lui, chi lo traveste colle parole più dolci, chi lo deposita in banca, chi lo evoca nelle sedute spiritiche e chi lo fiuta come si fiuta un tartufo. C’è chi si occupa con zelo di consumarlo e chi lo ammucchia nei cassettoni. C’è chi per lui vende l’anima, il corpo suo e dei suoi cosiddetti cari. C’è chi lo nomina e si congestiona e chi, seraficamente, lo intasca, col sorriso, e va dicendo in giro che è un francescano. Per il conservatore, il danaro era prima di Dio e della creazione. E prima era il danaro! e poi venne il danaro! e infine verrà il danaro! Per il banchiere il danaro è la forza della vita; anzi il danaro è prima della vita, prima del suo cuore, prima di sua madre, di suo padre, di sua moglie, dei suoi figli, di sua sorella e dell’amico. Il banchiere è il fratello siamese di ogni banconota e morirebbe se la sua mano destra non contasse, da mane a sera, danaro, sempre danaro. 115


Il danaro è l’unico movente che fa uccidere senza distrazione, a colpo sicuro. Col danaro si compra il sole, la luna, il mare, Dio, l’aldilà e l’aldiqua, la terra, la donna intera, a mezzo busto e di pro- filo. Col danaro si comprano le stelle, le case, le cose, gli altri soldi: gli uomini provvisori e interi popoli di passaggio. Col danaro si fan- no paesi più vivi, semivivi e morti e si posson costruire cannoni e missili da fare saltare la terra. Col danaro la donna diventa più donna e l’uomo più imbecille. Davanti ai soldi, dice il proverbio, i ciechi riacquistano la vista; ma io non ci credo perché io sono convinto che i ciechi non vedono nulla, ma il danaro lo vedono, lo hanno sempre visto, perché prima della luce c’era il danaro e prima del danaro liquido c’era il danaro solido, quello che i Teologi chiamano Dio e che i poveri chiamano l’aldilà, l’irraggiungibile aldilà.

Cronaca viola – Il cane dell’On. Scelba, di razza bassotta, è stato improvvisamente colpito da un attacco di orecchioni. La notizia ha seminato una semiviva costernazione tra i cinoñli del quartiere Prati, dove il bassotto è molto noto in quanto usa abbaiare in dialetto siciliano.

NOTIZIE E FESSI I giornalisti scarsi di spirito dicono sempre: bisogna dare al pubblico notizie, notizie. Il pubblico vuole notizie, è affamato di notizie. Il pubblico, infatti, apre i giornali, vede che vi sono le notizie al loro posto, ma non le legge. È felice lo stesso. Il pubblico italiano si annoia di tutto, si annoia finanche di se stesso, figuriamoci delle notizie che parlano della noia degli altri. * Il pubblico, dicono, vuol divertirsi. Ma per divertirsi occorre avere almeno un’oncia di spirito. Se lo spirito manca, il divertimento si af floscia e il pubblico ha soltanto la forza di sbadigliare o di belare in qualche rara occasione. * Anche i fessi, in Italia, trovano mille trucchi per mascherarsi. C’è il fesso che fa il difficile su tutto. Il fesso che dice sempre: ma questo è provinciale. Il fesso che si batte per l’avanguardia a tutti i costi. Il fesso che si tiene informato su tutto meno che su se stesso. C’è il fesso che dice ogni tanto: ma questo è un 116


altro discorso; anche se nessuno parla dice: ma lasciatemi completare il mio pensie- ro. E non deve completare proprio nulla. C’è il fesso che si fa vedere preoccupato per lasciar credere agli altri che sta pensando. C’è il fesso che discute sui massimi sistemi e ti chiede poi una sigaretta. C’è il fesso che dice solennemente di aver scoperto una quinta dimensione. Il fesso che vuol riformare il cinema sol perché sa svi- luppare le fotografie. C’è il fesso che non fa mai nulla e fa credere agli altri che sta preparando il capolavoro. C’è, infine, il fesso che presiede e organizza premi letterari. È inutile continuare la lista: si andrebbe all’infinito e non c’è più gusto. Occorre scoprire i fessi giorno per giorno, col solo aiuto del buon senso e del certificato di libera circolazione. Il beffardo

Cronaca nera – Ugo Spirito, durante una conferenza tenuta alla società filo- sofica per la ricerca del tempo perduto a rincorrere le idee sulla giostra dell’Assolu- to, non ha potuto proseguire la dissertazione sulla «Nuova Epoca» dichiarando di essersi finalmente ricordato di aver dimenticato a casa l’Atto Puro, strumento ne- cessario per stabilire se la «nuova epoca» dovrà venire o se è già avvenuta senza che nessuno se ne sia accorto. L’introduzione è stata comunque applaudita dato che il filosofo ha insistito più volte nel dire che il discorso che avrebbe dovuto fare non sfiorava affatto il proble- ma della filosofia propriamente detta, ma alcuni ricordi sulla infanzia abbandonata sul lastrico dell’Essere.

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da «GLI ANNI DEL SILENZIO» Superstìtì non piangere Superstiti, non piangete La giovine morta. Non appesantite la sua bara Con l’ultimo vostro pianto. Regalatele invece la canzone Che si cantò da sola Quando scoprì l’amore; _ E, più bianca che viva. da un balcone, e Vide tramontare un vero giorno. 1943

Donna Beve se stessa nel gioco · Delle vene e si scopre caverna. Ai suoi passi appoggia L’infantìle luce del corpo; La bocca chiude al segreto D’esser fluida. Sempre il tempo la compone Con occhi di terra: Come un’eco carnosa. Si compiace nel tedio Di crescere belva mansueta Dalle gote festive. La voluttà che ingombra Il suo sangue remoto La colora ai peripli stellari. Si finge di gelo, Immersa nello specchio: Quando uguaglia la Sfinge Col sorriso a penombre. Nessuna mano la trattiene i Colla goccia di sole Chiusa nel ventre A guisa di peccato.

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Così la sua fuga odora, Mentre gli smossi capelli Lasciano il cuore in pena A scrutare se stesso. Scoppia come fiamma ferma; E la notte urla negli occhi Suoi senza macchie. Non sa il suono dell’anche . Nell’irrequieto soggiorno Tra i fiori e le mani Degli uomini suoi schiavi. Poiché si nutre di sorrisi Le bufere chiude nel suo seno: Quando imita le statue E scioglie il tedio Nei colloqui modellatori Della sua presenza. Passa nel tempo Col sogno che la trattiene a Nell’aria come un getto d’acqua. E ha, dell’angelo, La mano leggera E il sonno ingenuo; Della terra ha la febbre p Sconvolta dal vento. Così nelle notti si piega, Sorgiva che non disseta Il malato d’amore; E nasconde sul ventre L’antico serpe A guisa d’amuleto giocondo. Va, coi denti che mordono, Con le labbra che nutrono, Col sesso, aperto al mistero, Ferita da cui sgorga Se stessa, oscura, E il seme che la rende Pianta dolorosa. 1944

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Uomo Ritto da tempo si nutre di terra Col sangue che regge . Il suo respiro buio ` E la carne che s’aggroviglia Intorno al suo cuore di luce. Ignora la matrice Che lo fece solo Con gli occhi di mattino E la voce che si scheggiò Nelle parole ad echi festivi. Cosi la sua infanzia Si dorò al sole, Intenta a modellare Le sue ossa fra i tronchi, Le pietre e l’accidia Che lo bandi dal cielo. Ignora ove andrà Quando inerte gli peserà Solo l’aria: E qualche lagrima, Alla sua notte, Sarà linfa e non altro. Alle sue braccia meste, Che il vento nutre, S’aggrappa la sua stessa vita; E porta nel petto esiliato . Il murmure degli oceani. Nell’occhio, che s’incrina, La notte a veli a veli Si fa quasi ombra. Così si conclude Nella chiara solitudine: Tenta conciliarsi Col Dio ostile Che l’ospita nel suo sogno; Come una fibra dolente. Ma la sua forza cede i Al tempo; Le mani si gelano; La bocca, chiusa sul suo segreto, Imita il vezzo dei saggi.

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Insonnia Insonnia, dal viso informe, Dalla mano buia che lacera: Nutri del tuo silenzio Questo cuore che grida. Tu, dagli orizzonti vuoti Come i precipizi, Sei compagna e taci Nel letto che ti cura. Un uomo ti sente palpitare Come sfinge dalle parole Murate negli abissi; E t’offre gli occhi secchi Come frutto notturno. çrescendo, la mia vita E tua come una preda. 1944

Steppa Sotto la neve alta, Un cuore si riscalda t Nel suo sangue, In un istante. Nella steppa Lo raccoglieranno Con gli occhi di vetro, Nel vento verde dei grani. 1944

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da «VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO» e altre poesie Sonata per una voce d’altro tempo Da un paese che i laghi fanno lievi in fondo a un arco di lumi verranno per gli orecchi a sera flauti e per gli occhi gazzelle che inventan lontananze sere per la pace o accordi per le stelle scese a splendere negli occhi di lepri amiche

Da una cascata a scatti per scale di colori danzando scenderà una dea che fu la giovinezza di un tempo Chi la dipinge è il sole che tramonta e poi per noi di sangue la ricopre È il vecchio sole · Con anni e anni al vertice di fuoco che c’inventa umani Un sole vero per il nostro sangue

Appena è qui per noi la notte s’ode nei muri delle ville il solo pianto Dai muri spesso appena muore un raggio cade l’ombra e s’ode sulla rosa tra un lampo della luna ed il brusio un umile singhiozzo. Lo so che fui

Il tempo nella stanza soffre con noi non l’udiamo che sedendo tra i fiori che se ne vanno e l’acqua che 1’argento smuove in uno specchio che ci fu caro ed ora più non si colma del viso già invecchiato

Anche il rombo degli anni è qui penombra e sbattono gli uccelli alle pareti che si accenderanno nel sogno questa notte per me

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E il sonno sarà cenere negli occhi un paese che sfugge e sotto l’anima per sempre si nasconde tremando Ogni giorno un lamento nel rovistare l’angolo vero per la noia dove taccio col buio ed assaporo la vecchiaia che mi scopre diverso

Soffrire è forse stare accanto a Dio con gli occhi di un’altra vita

Sentire il fuoco che sbatte il sangue i o trovare a sera due parole per l’ombra e per l’attesa

Crescere sul mondo che impaura ci rimanda ai cieli dove la mano è vana se l’osso che s’indurisce sente il freddo delle stagioni in un arto

E così vinto guardo dai miei vetri gli alberi e la notte l’oscurità che scende col suo fiato fino a svegliarmi la memoria per farsi bianca in un ricordo esatto Eppure non m’abbandona è più del sangue che d’un altro cielo È una donna che giunge Nella penombra è lei che sbatte l’aria Scopro ch’è una ferita sul mio costato ed è come se fosse morta per darmi vita

Chi è cenere se ne sta quieta di là dai vetri Non soffia sulle foglie che il buio accende per gli occhi più che soli esatti nel loro tempo qui sulla terra

Quella che vedo fino a tremare con l’aurora quando è nel sogno piange da anni dove la calce imbianca ogni vicenda È vuoto in una tomba

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ed alla luce in ogni istante lamenta la mancanza di fiori sul suo nome

E a volte quando è il giorno che mi ferisce torna alle spalle come un soffio Tremo perché mi sento in un abisso col freddo che mi trascina forse a morire

Qui da millenni tutto il mio silenzio Mi visita il celeste Basterà la rosa il giglio dritto dietro il flauto e l’ora che si fa cadenza Per tutto il cielo gli occhi e nel sereno fra gli uccelli i paesi di un tempo Oltre gli olmi l’anitra già dilata l’ali perché la luce torni sui villaggi ‘ e il vento strappi ai vetri la malinconia Dunque? Perché morire? Ho l’anima fra le dita arpa più penombra E quale gemma mi invaghisce istante per istante dove scopro intera la bellezza d’un verso che sa del mio dolore e ride in armonia coi suoni della notte Perché morire se tutte le aurore sono vere per me? ll mondo non osa escludermi Pazienza mia nell’onde di poche note che s’offrono alla luce Musica di pendì più giovani di me perché sereni ora che trema un fiore al centro di un addio Mi stupisce l’istante e ai morti sorrido per tenerezza se è vero che a rivivere si torna a cicli esatti

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con i millenni nelle vene e un bianco segno negli occhi per la primavera uscita nuova da un singhiozzo quaggiù

Suonerà per l’ombra l’angelo d’un’infanzia ch’io vissi o l’alto suono d’un’eco ai miei mattini d’esule e in me l’amore per i noviluni per esser certo a me stesso dire che ho un nome nuovo a tante stelle

II Scatta l’oscurità Sulla roccia un’ala fa sangue lo so che in alto morirà la notte Notte in cui passa l’anima per ritrovarsi appena in lei s’alza la neve che i picchi ingemma per i lunghi inverni.

Sempre per gli occhi due croci e per il cuore il vento gli anni che sono fiori e polvere da ricordare Da tempo l’alba ha fretta Si ostina a frantumare guglie di rose per chi dispera e sa dei bianchi precipizi in cui la morte acceca la stessa luce

Forse da una galassia ora che il fumo per gli occhi è semplice colore ed il silenzio ripara nel mio tremore giunge soltanto cenere per i mortali Cenere di quel che’fu e mi colpisce in alto una ferita che gettò sangue ai millenni Non so chi sono Lo so Né comprendo i miei passi in terra così vaghi da ferirmi a sera Uomo d’ere nascoste forse altrove So che scrivo e l’ospite mi ascolta o legge ciò che fui nell’ombra chiamando a vivere il pianeta in me fantasma

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Qui mi addolora ciò che si allontana in alto o dentro 1’oscurità dove torno a pentirmi d’esser nato

Ma pur morendo ogni giorno so che ritornerò più lieto alle mie valli dove sarà certo per gli anni luce un tintinnìo d’uccelli agili all’aurora allegri per il mio sangue rami che il gelsomino sulle alture porta quali gemme insepolte

Ombra tu più non m’odi A quest’ora i morti siedono felici fra i raggi che la luna getta per l’infinito I morti sono di là dagli occhi per l’eternità fratelli non più soli come fra le croci quando la pioggia li percuote appena giù calati a sera nella terra

Ora è l’aria a empirli di pianto che nessuno ascolta e lungo il buio in un lampo la vita si dilata È vero i morti a passi d’aria non uditi parlano per chi li pensa

Ieri ancora mobili_ nel sole ieri a sentir vivere la luce stretti agli arti in moto verso i felici luoghi dove scoppia il cuore o si cerca un viso da baciare serenamente

La morte è ladra Con un soffio ci ruba agli occhi che amammo e parte col nostro volto inerte fino a chiuderci di là di là dal buio

Così con noi eternamente dorme

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con noi dorme il silenzio l’aria non viene più sul viso Non c’è rosa che possa intenerirci col suo vecchio colore La rosa è là Ombra più dolore un fiore che non tramanda odori ma il semplice bagliore di quel che fummo un giorno sul pianeta

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da «I FIORI C’INSEGNANO A SORRIDERE»

Rosa rossa innamorata Chi mi guarda s’incanta. Il mio profumo fa delirare finanche i fiori refrattari all’amore. Tutti mi lodano per la bellezza che porto sulle corolle e per i dolci pensieri che ispiro ovunque io mi trovi. L’aria è felice di contenermi e a lei soltanto confido le mie pene d’amo- re. Le api si disputano il mio nettare e i raggi del Sole miportano di lontano il Fuoco che resta a splendere sulle mie corolle. Finanche le farfalle impallidiscono davanti a tutta quella porpora che si affac- cia dai miei petali. Appena sboccio, i`fiori che mi circondano canta. no in coro una lode alla mia bellezza. Il mio bocciuolo si apre lentamente, come avesse paura di offender l’aria. Non vi dico il pudore che sento se nell’aiuola vi sono fiori che s’incantano delle mie profumate nudità. Se io non ci fossi, la terra non sarebbe completamente felice: le mancherebbe il mio colore, il mio profumo, il mio sguardo, in cui tutti gli altri fiori vengono a cercare la loro felicità. Infatti, appena sboccio, m’inebrio del mio stesso desiderio d’amore. Il mio primo pensiero è l’amore. Il mio primo sogno fatto a luce d’alba è l’amore. Le prime parole che pronunzio sono sempre d’amore e il profu- mo le porta in giro per le aiuole, vicine e lontane, finché vanno a posarsi sulle labbra di due amanti. Sbocciare per amore non è certamente di tutti i fiori. Ne so qual- cosa adesso che ho conosciuto quasi tutti i fiori e so di essi virtù e miracoli in fatto di amore. Dovete sapere che, subito dopo la mia brevissima infanzia, essendo continuamente deliziata dall’amore, con- cessi la mia verginità a un Garofano bianco orlato di rosso. Quegli orli rossi non c’erano prima che mi incontrasse. Spuntarono subito dopo i miei baci: ricordo che lo uccisi di baci. Mi tenne presso il suo stelo per minuti e minuti. La nostra luna di miele la passammo al buio e non vi nascondo che fui felice fino al delirio. Infatti, le nostre lunghe ore d’amore furono deliranti a tal punto che, in brevissimo tempo, il povero Garofano dovette chiedermi un periodo di tregua, per ragioni di famiglia. lntuii che il mio amore lo aveva sciupato fino ad immobilizzargli la corolla intima. Il poveretto si trascinava esausto da un’aiuola all’altra, mendicando, a mia insaputa, nettare e gocce di rugiada. Non nascondo che con lui fui troppo esigente. Rimase incantato della mia ormai sopraggiunta giovinezza un Papavero. lo stessa mi vergogno ancora oggi di raccontarvi quel che avvenne tra me e la felice memoria di quel fiore. Ricordo soltanto che io, per un certo periodo, ero 128


irriconoscibile e lui fu colto da steli- te. Lo feci visitare da un Tulipano. Mi fu detto che le condizioni del Papavero erano gravissime. Si trattava di esaurimento progressivo e che ormai lo stelo poteva considerarsi completamente pieghevole. Il Papavero si sentiva impazzire, malgrado io lo consolassi, promet- tendogli che avrei atteso anch’io la morte accanto al suo stelo. Morì di crepacorolle, mentre io ero intenta a passare qualche mi- nuto ricreativo con un Mughetto, venuto a farmi visita. Il Papavero morì con dignità e nel pieno delle facoltà petali. Le sue ultime parole furono: «mi raccomando di essere più ragionevole, altrimenti ster- minerai tutti i fiori, maschi s’intende». Gli risposi: «sarà fatta la tua volontà»; ed egli spirò, benedicendomi. È inutile dirvi che i miei rapporti con il Mughetto erano rapporti fuggitivi e supplementari. Mi interessava, si, ma lo tenevo di riserva, essendo, in verità, poco rispondente alle mie esigenze. Mi fidanzai con un Giacinto. Dovetti accontentarmi. Dissi a me stessa: «in attesa di un fiore più aitante, accontentati di un fiore anemico». Il Giacinto faceva il sentimentale e, qualche volta, rimandava i colloqui d’amore. Si giustificava dicendo che era convalescente. In verità non era mai stato innamorato. ln tutti i modi, vedendolo così g poco impreparato alle campagne amorose, io mi rassegnai, adattandomi naturalmente a colloqui amorosi di ripiego. Il Mughetto era sem- ‘ pre a portata di corolla e non domandava di meglio che di essere servizievole. Mi faceva operazioni di solletico alla corolla clandesti- na e giocavamo all’ape e alla Rosa. A volte io facevo l’ape e lui la Rosa; delle volte invece io restavo Rosa e lui faceva l’ape; si diverti- va un mondo; e una notte rimase proprio a russare, nascosto nella corolla intima. Fu svegliato da un grillo e scappò. Il Giacinto, ingelosito, mi disse: «qui c’era qualcuno». «Ma sarà stata un’ape,», risposi io. «No, no, che io sappia non ci sono api bianche». «Ma chi vuoi che sia a quest’ora, amore mio», risposi al Giacinto che, non lo nascondo, si era un po’ eccitato. Ma lo abbracciai e si calmò. Ora avvenne che il Mughetto fu colto da mughettite parziale. Quando mi era vicino sudava e veniva colto da brevi convulsioni. Mi accorsi che voleva riposarsi. Una sera mi disse: «perché non parlia- mo un po’ di astronomia? Ho qualche petaligiro, e se parliamo di astronomia, questo potrebbe calmarmi». Io gli risposi che avevo da fare nell’aiuola, anzi gli dissi che il Giacinto aveva dei sospetti e che mi faceva sorvegliare da un Semprevivo. Non era vero. Fu una scusa per recarmi a trovare il Semprevivo che, proprio quella mattina, mi aveva dichiarato il suo amore. C’incontrammo al buio e non nascondo che il Semprevivo mi stupì moltissimo. Mi baciava con la rincorsa. Poi si mise a fare il mo- scone intorno alle corolle perché io mi deliziassi. Dopo il giuoco del moscone, fece le flessioni 129


sulla corolla clandestina e io, ricordo be- ne, gridai due volte. Dopo le flessioni usciva e entrava velocemente fra le corolle, mentre il suo stelo giocava a fare il serpente. «Alta scuola», mi sussurrava lui, mentre io sospiravo con dol- cezza. A un tratto lo afferrai per le corolle e gli sussurrai di giocare alla balia. Non domandava di meglio, tanto più che era stato allatta- to artificialmente. Stette in quello stato finché non si addormentò sfinito. Mi morì il Giacinto e allora decisi di mettere su un’aiuola di appuntamenti. Ingaggiai alcune Violette orfanelle, una Mimosa vedova, una Gar- denia ex mantenuta di un Girasole e una Camelia traviata. Gli appuntamenti li fissavo io stessa, ma di notte. Misi davanti all’aiuola due lucciole con luce rossa. Era il segnale convenuto. Non vi dico che affari d’oro. Ero divenuta la confidente di tutti i fiori sposati. Tutto accadeva per il meglio e le mie dipendenti erano felicissime. Di giorno facevano le buone spose e di notte si dedicavano a opere di bene. Una notte, una comitiva di fiori, fra cui notai un Garofano ros- so, alcuni Papaveri e due Narcisi scapoloni, mi portò un Giglio. Appena entrò si fece rosso rosso nel vedere le Violette discinte. Si copriva il calice dietro le corolle dei Papaveri e balbettava di volere andar via. «Questo è un luogo di perdizione!». Sussurrava mentre tremava tutto. «Ma non essere timido», diceva il Garofano, «tanto un giorno o l’altro dovrai pur perdere la tua verginità». «No, non voglio», pregava il Giglio. «Mi avete ingannato e me la pagherete». La Camelia allora si avvicinò e gli mostrò la corolla clandestina. Il Giglio socchiuse il calice e guardò quel lembo della Camelia con immenso stupore. Gli tremava lo stelo e sudava freddo. La Camelia si avvicinò di più e se lo strinse alle corolle. «Lasciamoli soli, lasciamoli soli», dissero tutti gli altri fiori che erano quasi ubriachi di chiaro di luna. Il Giglio non capiva più nulla. La vista della corolla clandestina lo aveva letteralmente ipnotizzato. Rimasero soli per un bel pezzo. Poi la Camelia ritornò e mi disse alla corolla auricolare: «Vai tu, ora; mi ha detto che desidera te». Quando lo abbracciai mi disse: «avrei tanto desiderato che fossi stata tu a farmi perdere la castità». E svenne.

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da «QUINTA GENERAZIONE», nn. 39/40, (1977) (Numero dedicato alla poesia degli Anni Cinquanta).

La Gazzella Con i tuoi occhi dove per un poco il mondo torna al suo primo giorno, riconducimi, tu, mansueta ai boschi, – allorquando palpiti con l’arto rotto, – al dito bianco di Dio. (1953)

Visita Sei venuta dal tuo paese, ove il silenzio da sempre è più antico d’lddio, e non mi riconosci nei miei panni d’uomo. Non riconosci gli occhi e la mia voce sempre piena del tuo nome, madre. Sei venuta con uno scialle d’aria bianca, come quello che mettevi nelle tue domeniche di sposa solitaria, e non mi riconosci fra i miei capelli che si fanno bianchi e già contano i tuoi anni di morta. Sei venuta dalla tua valle, ove il buio è più antico del mondo, e non mi riconosci, ora che sono solo nella mia carne: solo come sei tu nella tua nebbia. Fra me e te, o madre, la distanza è vasta… Una distanza che ci fa luce e che solo chi vive può chiamare Iddio.

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da «SUGLI OCCHI E PER SEMPRE» Sopravvivenze I. a mia madre

Nei tronchi da tempo giace un nodo che fu lamento D’uccello nella nebbia d’anni dimenticati; e l’aria Non al celeste volge la sua gota in allegria con squilli Di rondini incenerite. E il tempo s’addolora sui nidi Che il vento svuota per la notte, quando un raggio di stella Da sé va più lontano o geme sulla terra il filo · D’erba, che fu lieta ai mattini. Già sui muri, nell’inverno, spuntano macchie Di ruggine e gli aloni son facce non più vive Al moto delle vie. Sbattendo un’ombra, che torna A sugger la vita e l’ora già scandita da un campanile È il tocco d’una morta da noi dimenticata. g E qui, se il canto giunge di una fanciulla Che il sonno sveglia nel mezzo della notte, È più dolore che dolcezza e gli occhi bagna Di un pianto il suo delirio; e poi che sbianca All’eco della sua voce sembra calare in noi, Colma di giovinezza, come da un abisso in sé nascosto. Anche le pietre agli usci incise da passi, Ormai soltanto nel silenzio echi di visi andati Di là dal mesto vuoto che l’addio scandisce, Hanno il colore delle cose e mai la luce D’una sera per gli occhi di chi, sperando, accenna Ad un saluto, scava in sé le tracce Pur sia d’un giorno umanamente a noi legato Dal semplice calore·d’un incontro. Ciò che fu non ama che il mistero d’una stele: Un lembo della luna inciso con parole. Sfuggite al sogno in un istante: bianco d’eternità. E qui, sul colle, è neve il mio dolore d’uomo; Il tuo sostare, a sera, dove appena Il vento è murmure di foglie abbandonate E dentro un vuoto lungi, a volo spento, Van lontano dagli occhi avvinti al buio.

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Allora s’ode il mormorio d’un’acqua dentro il petto; E sbigottisce l’anima, che a sé torna da un luogo Non più terreno ma del cielo; e un fiore Immaginato cade da una luce che fu del sole; E non è vero tanto è qui lo strazio per le vene. Torna il brusio in un incavo d’ombra E tocchi albe defunte, appena scorgiil fumo Che a ponente, a cerchio, segue il moto di luna. E torni indietro in un paese, a picco sugli abeti; E se ti è oscura la memoria, un tonfo in lontananza Ti riporta all’infanzia o ai giorni d’una festa Che torna a farsi eco e intacca l’aria, Ma di ferite e poi d’alti lamenti Nel cielo che s’incurva e ti fa bianco Per un istante. E qui tramonti in te. S’ode in un punto della piazza accesa il ticchettio Di due scarpine; e un lembo della veste Pare un’ala per gli occhi ed è visione D’amore, in te cresciuta giorno dopo giorno, ` Perché sia vero il tempo e certo il tuo dolore. Eppure un lembo della notte è vita e altrove moto D’immagini, sorelle d’ogni piaga o vaghi Lumi d’astri in allegria, che getta per il terreno Ciò che strazia e annienta e ricompone, Per una veglia che prolunga, il sogno; e a noi riporta Le stagioni finite. E il labirinto è fatto D’una celeste musica per archi, Che sono uccelli volati con ferite e gemme Sul petto o sulle piume: uccelli veri, Un di toccati e amanti nelle palme Che lo stupore all’aria gettò di scatto Per vederli felici all’infinito. E così parla da un abisso un’arpa, in noi fatta Di vene che mia madre udì battere a sera Per poi dormire sulla fronte o crescere e, in silenzio, Farsi cielo negli occhi appena il sonno Fu la breve tomba per noi lungo la notte. E tutto questo è flusso, un turbinio di note: Dono agli orecchi di conchiglie messe Per sempre a spegnersi in un luogo

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Non ritrovato più. Ma torna il mare E con il mare un’onda che fu volo di vela, ` Vista e non vista in fondo all’orizzonte: Un mare desto in ali di colombe, sospese Di là dal cupo rombo sulle scogliere. E così torna in un ricordo il marmo Ad arco lungo le scalinate fatte con l’affanno E i passeri negli occhi in essi di già volati. Torna l’uscio e, in alto, il viso tra le rose Che il buio a sé spingeva per amore ai trilli D’un mandolino, amico delle stelle felici. Era mia madre sola. Udiva il suono, Udiva in sé la notte e poi la curva ` D’una mesta scala di suoni; e così Bianca tra i capelli udiva, in lontananza, L’ora scandire Gli anni di giovinezza; E s’affidava all’aria come a cercare un vago Segno d’allegria vissuta. . E in sé partiva, udendo le note amiche Perché fosse più dolce il suo dolore Di sposa solitaria. E così visse: madre e amica di un mesto Dileguarsi di stelle in cielo E di canzoni che la notte incise Al suo petto straziato, ormai lontana: Quasi fosse calata in un suo sogno Prossima alla tomba. Chi vive si trascina squilli d’alti mattini O gote di sassi inceneriti appena in sé; L’istante segue ad altro istante e amore Dilaga in noi per una legge arcana. E il mondo si spalanca ad un lontano Turbinio di sfere, vere come gli occhi In cui posano finché la vita è qui, Toccan di luci vaghe Ch’è il loro volo. Oh dove siete visi! Voi che un’ombra trafigge Da una distanza Più nebbia che lamento! Non più dentro la luce; nemmeno peso

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_ Nell’aria il vostro petto. Ed è per me La vostra morte Un po’ la morte mia. Legge è un giorno andarsene tra i fiori; ‘ E il bianco sul viso eterno Mi spinge a ingentilirmi in ogni istante: Quell’ultimo silenzio che una mano Chiude pietosamente sopra gli occhi. O come è vera l’ora che non batte E il cuore lascia in sé, muto per sempre. È un’ora che verrà. Dio forse è questo luogo in uno sguardo Pieno di un tempo fermo. Non più la luce intorno Né il cigolio dell’uscio al dì che l’apre E né lo sfondo azzurro. Così crolliamo in blocco giù con l’ombra Crocifissi al vuoto; e intorno Un luccichio d’occhi venuti a contenerci inerti: Statue che un lume accende in un lamento Di sedia vuota, D’un letto abbandonato Di giorni che seguiranno il viaggio a sera. Chi muore ospita l’angelo sugli occhi; Ode il buio come se udisse Un suono lungo i muri che toccò da vivo. Si ascolta e tace o serra nella voce Tutto il silenzio dell’eternità. Perché morire è andare in un paese Che non fu mai di questa vita. Un paese Che inventa per te e_ per me la stella più lontana: O certamente il bianco della luna, Che ci stupì la prima volta, al cielo rivelata. E sono i morti a giungere Con passi e senza l’eco: I morti rimasti a gemere sugli usci O a tremare la notte tra gli armadi, Fratelli soli della nostra infanzia. E così tace la conchiglia, in una tasca oblio: Tace di là dai vetri il chiù sui tetti

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E già la calce dai muri cade sul viso; Non si ricorderà colei che amammo, Messa a giacere nella sua vecchiezza. Chi muore è pietra dal volto umano E così Dio lo colloca in segreto, forse In una lacrima. Nessuno è più nel sangue. Si è là distesi, L’abito floscio e il vuoto a rattristirlo Per le stagioni che verranno E vuote se ne andranno.

II. Di là dal vuoto d’ogni vena un lume a scatti E poi la pace d’una foglia agli occhi: In umiltà sui visi che la terra, a notte, Sembra straziare o spinge in zone, dove Dormire è stare con un Dio, fanciullo in noi, Forse bagliore arcaico alle pupille, colme Di un buio millenario e d’aria senza fine. E apparirà l’amata in un silenzio d’oro Come in un volo, attenta nella effigie, In un sorriso che svanì dai labbri, calati Dove incontrarli è fremere dentro la notte: Perché non s’ami un’ombra, né la bella Immagine di cenere in una curva Che punge; e la ferita accende ancora in una vaga Presenza di giorni, vivi alla memoria. Viaggio che in noi più non ha dolcezze e forse oblìo È il ripartire: un dialogo in un volo Di case e vele a non finire e un mare Già di suoni ad onde eppure assurdo All’anima, insecchita al mio dolore d’uomo. Amare è stare e poi la riva opaca riscoprire Di là dal vuoto, in un abisso e, infine, Capire il mondo in un addio: sostare in due Ma pur coi morti con i vivi in pena Se amore è cuore che dilata e torna A farsi eterna giovinezza ai visi. Lo stesso giorno è un’ansia che dilata il risveglio

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E ricomincia lo sgomento, al dubbio inciso Da un tremore di mani e d’anni, Crocifissi alle ossa. Eppure, è un dono Il riaprirsi degli occhi, i raggi a picco Con sorpresa d’un rumore, Antico e nuovo al nostro orecchio desto. Il risvegliarsi è un risentirsi umani In un andare col sole: è dare all’aria La stessa pena che distende il tempo e non è danza Andare in cerca, in ogni istante, d’un labirinto Ch’è poi la nostra storia, non mai compiuta. E torna con l’infinìto il volo a squilli _ Dei passeri sui rami: Quando a ferirli è il verde che dilaga Di là dal muto tremolio di foglie. Ed ogni uccello allieta in sé lo spazio Se il viaggio altrove compie per noi Rimasti a terra o dentro: Sostanza che si offusca all’imbrunire. E, qui, pensare se la mente è il bianco paese: Macchia che in sé la luce dilatando Ci aiuta a risalire in un alone di mattina, Partita per sempre dal cielo di Dio. Oh non la noia mi punga al nuovo giorno; Non mi colga, a sera, il mio deserto Che m’ospita relitto più tristezza: vagare Invano in un’arsura di meriggi svaniti. Un lume in alto è la mia gemma e getta Il cuore in sé che ascolta un altro cuore Da me nato com’eco del Dio solo, già Pronto a morire in me perché io viva. E qui, dove la terra è teschio e taciturna Sta una sabbia di millenni, udire i morti: Vederli come stelle sugli occhi e non chiamarli Finché si è soli, ma seguirli e in essi Cercare tracce di pietà vissuta o il bianco Delle giornate aperte al sole; e il tempo Ricomporre in armonia coi visi già dissolti Dove fiorisce il nostro volto opaco Calmo digià sugli usci abbandonati.

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Vivere, sì, non darsi alla mestizia, ma al gentile Profilo di paesi in uno sfondo d’ali e suoni . D’astri non più fantasmi e angelici nei giri Che fanno a cerchio in un sereno andare Per l’infinito. E l’infinito in noi cogliere appena È accesa una corolla o un’ala che spinge La farfalla a rigodersi la celeste curva Che la pone, a sera, sul filo d’erba E il tutto amare in trasparenza Come da una distanza ch’è calore alle vene.

III. Di là dai colli, tinti di ginestre, ascolto un vocìo Che mi fu caro; e torna l’innocenza a ricolmarmi Di stupori ai margini d’un luogo, allora Immenso in uno scampanìo, dolce confine Tra il mio cuore e il mondo. E meditando in me come in un grumo ° Di speranze, ascolto l’essere e il parere, Duri a morire in ogni fibra; e ancora D’una cicala a scatti lungo l’arco riodo Nel tremolìo di luci, tra le foglie: un’ora» Immagine di vita in un fluire di arcane Percezioni. Crescendo, guardo e smarrisco I nessi tra le cose. E cede la mia sostanza D’uomo d’altri mattini. E, pur cedendo, Ritrovo ciò che non colsi quale meraviglia: Immagini di piante e al fianco gli antenati, Tornati in me da una distanza d’astri: – Composte luci fra la terra e il cielo – Ma tutti in fila, in un brusìo, trafitti Da lame d’ombre. E qui l’amore è vento: Apparizione d’un esatto lume Che in Dio trova il suo centro e si dilata. E pur vivendo, un’ira mi regge agli anni Se vivere è morire a poco a poco, cedere All’usura dell’ossa e non sapere ciò che rimane Oltre la mesta scena che si oscura D’un male in noi radice e forse pena

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Da viversi in dannazione. Ho visitato gl’inferi, i mostri acquosi Che getta il buio per i nostri orrori, appena Si assenta il sole e sbatte un’ala contro i vetri Per l’angelo d’esilio, in un barlume Di morte che s’appressa; e non è morte, Ma vano pigolìo di stirpi in noi grovigli · D’albe e sangue digià pietrificati. Ciò che apparve nello spazio è in fuga da millenni: Svanisce e, scavalcando, a noi riappare: Sostanza buia che s’annu1la o inventa Alberi, pietre, uccelli ed acque per l’infinito. Un ritornare al centro d’una sfera E larve d’aria senza più domani. O vanità, celeste vanità, sui lidi E dentro il cuore Se incenerisci; la bellezza s’alza e aiuta il braccio A ricomporla dove fu recisa. E torna il fiore, il pianto, l’alta foglia g Che sbianca e nella morte Indora in un lamento. Ritorna nel giglio inciso il bianco D’una danza e lo zampillo a una fontana Già ripete i millenni al vuoto delle piazze. Ritorna la rosa al colle, gentilezza D’echi e lo svanire si fa per gli occhi Pianto e null’altro. Oltre i cipressi il mare in una macchia che il celeste Dipinge con dita e affida alla memoria appena I morti, a volte, quando è un arco, dal silenzio inciso, Il cielo, vagando spandono, non visti, Un colore che fu, dolce ricordo. Sono soli o partono Col vento, tingendo l’aria di cupa nostalgia. È verità: la morte ci rende inermi. È una ferita che non sana più: Lacrime e lune insieme In un fulgore altrove; alto mistero e poi ‘ Scala di lumi fino ai ciuffi d’astri, Visti e non visti scomparire appena.

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E questa è legge umana che s’uguaglia Al rigoroso giro dei pianeti. E tali giri sono il nostro tempo: un mucchio D’ombre in fuga, e suoni che la mente ascolta Di là da una barriera. Oh! pur gentile Per me per te chiamare i morti a sera Come a una festa di fantasmi che un alone Tinge di pianto antico e poi svanisce. La morte è l’acqua nera e qui nemmeno lmmaginato il sole si scioglie in fumo ` Come fosse tizzo che in un vapore mesto Sparge dovunque fumo e punge, agli occhi, La lacrima non sgorgata o fatta gelo Dal tempo consumata. Sognare è forse disseppellire l’anima in un istante E allora sorge tra pietre e muschi annosi La caverna coi segni che 1’amore incise. Ascolta l’ orecchio murmuri d’ acque il vento Oltre le rocce gli echi tra foglie uccelli D’emigrazione in fondo a squilli e galli Al gelo delle stelle eterne. Di là dall’urlo getta il buio a veli a veli Spettri che un alone di lume sfregia Per gli occhi. Scoppia il sasso ed esce l’uccello Gemma per l’aria ad archi nella nebbia. Sognare è scendere in un punto dove La luce ci distanzia d’un tratto da noi stessi. L’ombra ritrova la sorgente arcana d’un’età. Miraggio della mente. E qui vaghiamo a stento Con lumi a cerchio e visi mai visti al sole Guglie che un vento celeste scuote e ancora Steli con fiori a stella, stuoli di minute lucciole Foglie con ali d’iride Fiamme che sono adolescenti alate Laghi d’acqua turchina su pendii Che torneranno agli occhi sulla terra . Dopo millenni, in altre apparizioni. Chi torna in quell’istante è l’arca in uno scatto D’ansia sepolta

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La cenere che fummo s’agita e un’eco parla Di vite spente in luoghi giunti a visitarci Da lande più che ignorate: fumo nella memoria. D’ogni sogno resta una traccia che l’alba non cancella: Un mulinello d’ombre come a sera il mucchio Dei ricordi intorno a lampade sospese agli usci. Resta la nota muta d’un flauto che fu del tempo: Uno zampillo d’acqua, non vana in aria alata. D’ogni sogno è qui un alone vela sul precipizio: Elica a scatti d’astri in antri, che l’oltre scolpisce. Accese rose d’alti mattutini disseppelliti Da squilli alle contrade, tinte da giade vaghe. Si fa morte un uscio non più buio al sangue. Nel rosso d’alba accenna il canto un gallo spettrale Che fu risveglio ai raggi negli evi che il teschio Serba per l’ore in noi notturne. Giunge Coi murmuri alle sorgenti il cupo zoccolo Che sbatte sulle pietre scintille d’altri meriggi. E così il cielo s’anima di steli anemici Con gigli e visi angelici in noi profili di mattini. ‘ Ciò che l’urna a macchie d’urli serba con polvere Su intagli di pietra corrosa è quiete di millenni. Conca d’echi agli orecchi e velo agli occhi Si spalanca l’arca in sussurrio d’armi E sangue gettano le rocce in un lamento roco D’ossa, ovunque disseppellite. Alla notte è gemma l’ugola d’un usignolo Che infrange vetri e stelle in un lucore esatto Nell’altezza in noi profondità, riudita a stento Su polvere di fiori. Già scoppia il buio . E ci sospinge a tinger di bianco un’oasi: _ Muschio e neve di luna in una muta Caduta di piume od incubi per urli. Di un’alba è qui nell’occhio un segno come di zaffiro Non tornò per anni il vuoto dell’orizzonte a illuminarsi L’acqua tacque ai raggi presso le rocce a picco Non tornò più quel cinguettio tra i rami Né le rose s’alzarono a tinger lo stupore d’aria. Il sole fu sempre un altro, ad ogni istante diverso.

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Non s’udì più quel trotto allontanarsi sui monti. Di quell’alba è qui nell’occhio un segno come di fiore Reciso il dito e nel silenzio un gallo Si rifugia per la sua quiete. Già l’ulivo Sbatte le palme o tace un po’ con l’ombra, Un po’ con le scintille in alto, al dondolìo. Di quell’alba è tomba l’eco d’una colomba andata Per archi nel celeste a squilli, lungo l’ombra Che inventò d’un angelo nel gelo a mattutino. Di quell’aurora l’odore è forse altrove o nel colore Di nube che si trascina squallida una luna: Gemma nel precipizio ai limiti del cielo. Ho camminato per millenni affranto nell’esilio a vita Spiando la terra, udendo le radici e i sassi ’ Dentro le rocce dirmi l’età dei morti in viaggio Per abissi celesti, in me tracce di sogni. Ora vedo secco l’uccello che da un ramo ci chiamò Ferito nella gola dallo stesso canto al sorgere dell’alba Un tempo. Assisto al crollo del1’ora; mi spaventa La finestra spenta che riflette i fiocchi, rigettando · La gioia dei suoi giorni, al sole spalancati. Chi dorme è di sé tomba e fruga in un abisso Età svanite in un lamento d’acque o d’aria In fuga ai limiti dell’Orse. Inoffensivo giace L’uomo tra i muri sprofondato o scava Nell’ombra, che lo copre d’erba millenaria, In cerca di simulacri e monti scesi da Dio. Forse mai qui rifioriranno i picchi di ginestre Che il vento in un meriggio accese per farsi lieto Corsa nel tempo o amore di cose disseminate Lungo la nostra infanzia. Qui non c’è solo filo d’erba o traccia di asfodelo Che fu musica al cuore, tremolìo nel Nulla Appena suonò lo stelo, immagine di gioia. Anche la noia incenerisce l’occhio, nella memoria Volato, e giunge da un’altezza forse per stupirci Un essere che appare e in sé dilegua arcanamente. Questo è il mio mondo. La mia pelle vibra, si distende A percepire il freddo, il mio silenzio e questo

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Andare via dall’anima, ignorando per sempre Il transito per vite non più terrene. Asilo È il fiore che s’ingemma in un ricordo, adesso, In questa valle di spente costellazioni. Fui voce. Mi punì l’arsura, un fumo di tronchi in fiamme. L’acqua andata e luci di là dai mondi Dove il piangere è spento e s’ode il vacuo Soliloquio di fantasmi un giorno, tra le pietre, Lieti di giovinezza. E qui non viste, sovente, Piangono ormai le madri, secche nella pietra Degli usci, abbandonate. O vanamente il tempo Le scuoterà, larve d’insetti, ai mesti mattutini In viaggio per la terra. Più nessuno mi ascolta. Io non odo.· L’aria è sola Sento ed abito un’ombra in me voce d’avi sconfitti. Eccomi al giuoco del pianeta incanutito: un punto Nell’infinito, in me roccia che frana. Guardo il volto Che mi scolpisce rughe per farmi umano forse Agli echi d’altre stagioni che la morte impietra. Non vola foglia. L’occhio si riflette in alto, nella luce ln me silenzio. È tardi. Un’ala getta raggi · E un suono non più umano pare che giunga A me da un luogo dimenticato. Anche l’oblio vanifica ciò che una volta fummo. La parola è certo il suono d’una cosa in moto; Legge che la mente imbianca e nella voce allude A simboli danzanti, quando a intenerirci è il cielo, In noi profondo esilio del Dio che scaccia l’ira O scioglie l’anima per sé. Dormire è un attimo di morte, sconfinare di là Dove la notte è un tonfo di porta sul buio Che ci avviluppa fino all’essenza chiusa in labirinti. Meditare sì, ma non udirmi già io preferisco Ai segni dell’orrore, in questa landa prossima Al freddo eterno della luna. E dove scoprirmi Diverso nell’istante, amare, in una foglia Eleggere il tempo o scomparire in uno spazio in alto Presso le nebulose prive di mattutini? Mi chiama il ventre d’una sposa che ignoro

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E tace il ramo: l’aria già si allunga a un mesto Rintocco d’ora sul campanile. Non torneranno I morti a noi d’intorno se ancora li ferisce Il muto stare dell’uomo nel suo dolore. Addio Geme la vena e l’occhio poi si appanna invano Per ciò che qui finisce e mai più non ritorna A impolverarsi d’ansia.

IV. Non sopporta l’aria la mia presenza d’uomo: Mi aggredisce il freddo. Qui le pietre chiudono Digià il mio scheletro in esilio. Forse un tempo Da una tibia in fuga l’anima rcggerà per sere La pena dei miei giorni al sole. Ascolterà L’urlo lungo l’infanzia nel tugurio dove Scoppiò la vita e cenere si arrese, umanamente. Dal vento nasce in musica il ricordo d’essere stato Per un ciclo di giorni una presenza vana fra le cose. Il vento che fu delirio d’aria e al volto ebbrezza Ora cancella agli occhi un acino di luce. Forse il pianeta ha brividi che ignoro in me: _ Silenzio di foglie nate e poi svanite appena Si tinse il ramo d’un verde arcano, nunzio D’un paradiso estinto, dove gira per sempre Vapore vago di comete ai limiti del cielo. Odo il mio sangue battere alle tempie. Scendo Con ansia al centro d’t1na luce, albore Forse d’un astro azzurro nel suo esilio e il fuoco Mi spaventa, come nei giorni andati l’apparire Nel buio di fantasmi al tremolio dei vetri In altre stanze, dove il sonno apriva Abissi al cuore sbigottito. In me s’agita il tempo, Rinasco ad ogni istante e mi cancello, Ancora vivo, in uno spazio d’urna che ignorerò. Pazienza mi piega alle giornate a stento in un grigiore Di speranze spente. Lo svegliarsi è gesto che si ripete In urto col destino. L’ora invecchia con noi; s’ode Non s’ode l’eco d’una nota. ll sogno è ruga Sulla fronte; il fiore si appassisce in un silenzio

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D’alba dimenticata. Un volto sullo specchio è gelo D’anni negli occhi. Poi vedersi automa In una via senz’aria, dove il chiasso lacera Ombre di foglie sull’asfalto e l’uomo solo Si arrende ai rombi d’una sarabanda. Oggi è prigione il muoversi. Ma reca l’ala al respiro, Forse non più barriera c’è tra il sogno fatto E l’incubo del mondo, in cui si aliena il fiato 4 D’ora in ora. Ormai tutti sconfitti. Ci abbatte L’insonnia ed il torpore. La stessa luce ha piaghe E il verde siiidistanzia di ramo in ramo, altrove. Ciò che sembrava assurdo è certo evento: Lo stare in pace con le cose intorno un’utopia. L’ira ci smuove. È vergogna amare in umiltà Scandalo andarsene col cielo o dilatarsi in Dio; Sedersi dove l’erba ancora sopravvive lieve Nelle pupille. È pioggia la primavera, l’acqua Già fumo velenoso. Il mare è un mostro dalle squame Scure. Finge finanche la dolcezza il fiore; Si sfregia chi non bestemmia. Gesù muore solo Ancora muore di là dalla sua croce Incenerita. Dolore di non più udire a sera una campana o all’alba Gli squilli che, antichi agli orti, i galli, quasi danzando, Offrivano alla luce. Non farfalle ai fili delle avene L’uva è sola, non s’accende il grano Al rosso che il papavero donava ai suoi meriggi. La campagna si svuota e tace in croce l’uliyo Che la cicala, nell’infanzia, all’afa, spingeva in cielo.

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da «L’AMATA NON C’È PIÙ» I. TEMPO Ti chiamo col silenzio. Tu rispondi, Appena il lume, innanzi agli occhi, trema Come fosse stella. Avvolta alla tua notte Palpiti nell’aria: Una presenza è il freddo del tuo viso. Tu sei di là, segreta in uno specchio. Trema la mano in un gentile addio: ` Vuota di te per sempre. E pietra resti dove il vento, sola, Ti sprofonda in me. Ti avvinci al buio E, oltre il vento, forse Odi ancora le foglie. Al murmure infelice, nel mio cuore, Aggiungi soltanto luce in un istante. Somiglia al dolore volato Il tuo volto di ieri. Compagna della luna come al tempo Delle rose improvvise. Non sai chi sei; ma intanto una parola Sale dal petto Dove un lume ai fiori ti ricorda. Nel gelo un filo d’aria Offre la mia distanza All’umile tuo nome. Tra le mani, tu vedi Come appassisce la tua veste rossa. Eppure potresti urlare Ma, in un muto punto, nella mia stanza, Misuri la distanza tra il mio viso E il vuoto della veste. Non mi resta, quaggiù, Che un semplice colore ove tu palpiti

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Come la fiamma d’un antico giorno. Ti chiamo e tu soltanto A A me più non rispondi. Ma resta di te l’impronta sulle dita Che accenna ad una rosa: Rimasta, per me, soltanto ad appassire. Nella luce, stamane, l’umile tuo viso: Un po’ di musica... null’altro! E a volte, quando piove, Vedo gli occhi girare per le stanze. lo penso ai giorni spenti, al tuo sorriso, Preso in un alone Di pioggia eterna. Distante dalla sedia Dove imparo a morire, Ti vedo e non ti chiamo Per tema tu svanisca all’improvviso. Io vicino a un’assenza Tu in un cerchio lucente, Ma più distante: un’ombra volata altrove. Al sommo della notte Sembra che tu venga Come uno scricchiolìo Di mobile invecchiato. Così ti ascolto. Taccio, Immobile nell’oscuro Colore della stanza. E mi travolge il minimo fruscio Come fosse un tremito di vesti Appese ad un ricordo. Allora gli occhi fissano un’effigie, Nel marmo incastonata: Per una ferma eternità d’amore. Tortore sfioreranno, con lento volo, . Il tuo chiaro profilo, dove a notte Vi è un filo di lenta luna. Non dire nulla al vento.

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Non dire chi sei. T’immagino sospesa, Gentile più d’un raggio, sul mio sgomento. Tu, sola, nel chiarore D’un al di là che ignoro. Forse la luce T’è radice segreta. E, muta, viaggi Se una stella ti è vela Dove il cielo s’allunga E al cuore, sopravvissuto, È silenzio d’aurora. Per anni e anni non c’incontreremo Che di rado nel sogno A notte spalancata! Con le vesti lise, in me sommersa, Potrai sentire, Udire, come un tempo, Il battito soltanto; E poi svanire nel mio stesso amore. Tra me vivo e te Null’altro che un infinito silenzio d’astri; . O fiori dove il buio t È l’unica stagione. E ~ Eppure, se ti penso, All’improvviso gli occhi á me rivolgi, Come fossi, d’un tratto, Il rifugio di sempre. Così il freddo mi sfiora La spalla; e mille brividi Dicon la tua presenza, fatta di niente, Ma viva più di quanto Non sia la vita mia. Il luogo dove taci Può condurti a Dio O a viver, come foglia, Sola in un abisso Che mi tenta, stanotte. Mi separa da te

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La grigia e sempre cupa muraglia d’aria O la distanza in cui le stelle stanno Nel loro moto eterno. Ma soffre il giorno In cui ti chiamo con la dolce voce, Dove tu sei presenza Di cose, come te morte all’imbrunire. E il vento ai vetri batte: Come fosse grido d’un ignota Che tanto ti somiglia. Più che la tua bellezza Ora è vera la morte. E adesso vibri, più di quanto fosti Felice sulla terra: vibri in me E per nome ti chiamo, senza dire Quanto sia di te privo. La mia radice d’uomo, Come si fosse insecchita, Scricchiola, ed il sangue Si fa pianto distante Dal volto rimasto a tremare Inciso nella bellezza. Odo un’eco lontana. In silenzio mi dico: Non è la voce sua; E nemmeno l’addio, Strappato per me nell’ora d’agonia. Forse è la voce d’un’ombra Mite, rimasta a vibrare · In quel notturno albore Tragico di galli, · Altissimi nel canto, Dedicato alle stelle. No non è tua la voce Se ti rintani In quella poca polvere che sei. E s’apre, in me, una tenera ferita. In un lampo, il trapasso;

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E l’ora, muta, resta sul guanciale Appena la fioca luce È in un altrove atroce. Intanto s’ode il tenero Bisbiglìo di voci amiche; E ognuno si nasconde In fondo a un lento pianto. Vaga, allora, per l’aria Lo strappo dell’addio Sul volto, taciturno Fino all’eternità. Per chi resta, quanta mestizia Occorre; nella casa _ ‘ Rifare il letto disfatto; Rimettere, bene in vista, Gli oggetti d’ogni giorno E, in un punto, smarriti, Rintracciare, di là, Ma nella stanza vuota, Un tremulo fantasma. S’incomincia così a tacere Ma sugli occhi, e per sempre. A volte, come in delirio Nuovo per il sangue, Sembra che tu venga, in punta d’ala. Resti a distanza, parli Con la mia stessa voce. Ai vetri, allora, batte un vento nuovo E giunge alle mie dita Un brivido e tu passi, t’allontani, Senza che possa toccarti. E così gli anni crollano Sull’ombra. Tu rimani In un incavo buio, col profilo Già dal tempo scavato Forse in un labirinto. E, appena, mi trascino a passi brevi Dove la stanza t’ospita: Tu morta, per sempre, al cuore che t’implora.

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Non sembra vero, mi dico: E chino il capo; penso AIl’aria di te vuota: Così vecchia per sé, Come se tu non fossi Mai vissuta in quella Parte di luce, a te dovuta Dal fatto d’essere stata Viva, una volta. Chi ti ha spenta, lo ignoro: Chi ti ha portata via È quello strano vento Giunto a volte, segreto, Dai picchi della luna. Poi non penso più: Raccolgo il mio silenzio: Sperando d’esserti ancora più vicino. Qui, da me, lasciasti Due scarpine, una vestaglia E sola, sulla polvere, La boccia di profumo Finissimo di rosa. Da tempo un’aria vecchia Isola queste cose; Ed io, da una distanza, In me vertigine, Scopro in quello stare Immobile di oggetti, La tua presenza umana. Mistero! Una parola Dentro la voce dell’uomo. A volte è un precipizio, aperto e chiuso. Ma tu, per me, Sei ritornata ad essere Un mistero. Nascosta Te ne stai, più immota D’una pietra. Non dirai, · A voce bassa, il nome Giunto, per te, una volta: Acqua propizia e pane.

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Nessuno mai saprà A chi ripeti quel nome. E intanto cresce ingenua L’erba per la tua quieta i Eternità, ma altrove. Mi resta un vuoto Come fosse conchiglia, In cui l’eco riascolto, Colmo di meraviglia. Ma sono vecchio, Se ancora, di te, odo, Dolcissimo il tuo nome. . Oh! i tuoi occhi volati, Dove il cielo è assente E t’ospita, segreta, Non altro che una buca Di terra, dove il sole Resta nero per sempre. Ma chi ti chiama, a volte, È una serale malinconia, Che mai ti dice dove Il mio stare è quieto Nel ricordo di te. Io sopraffatto, attendo Un volo soltanto D’uccelli, a mc stranieri; E ascolto, come in un fumo Vago, i tuoi passi andarsene, Muti, dal cuore a Dio. Eppure non c’è luce Di stella sola; qui non v’è Nessuno perché senta Muoversi un ambiguo Andirivieni d’ombre. E manchi tu, cogli occhi Sbarrati, splendida nel vuoto. È quasi un anno che manchi. Già mi strugge, a quest’ora, Un grumo di pensieri

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A te rivolti, a sera, Mentre tu sprofondavi in te, Distrutta da una piaga, E il mondo, intorno, A spegnerti si accingeva. Ma nuovo si fa il dolore Mentre sfugge a me La stessa vita. E cerco Un volto assente, il tuo Che un precipizio inghiotte. E chiusa fosti Nella pietà che sale · Quando si cede all’improvvisa morte. E gli occhi, in cui tu a vivere tornavi, Si sciolsero in un pianto Anonimo sul volto.’ È dolce e qui fa sera. Fossi una lama d’aria, l Starei qui sereno a contemplarti; Ma sei di là, Più intensa alla memoria: Esattamente larva, nebbia e buio. Concluso è un giorno, Come gli altri, grigio. ` Andati giorni altrove, Oltre le vene e gli occhi! Giorno, orrore vacuo, Tu aiuti i morti a farsi più lontani Da chi resta a scaldarsi con il sole. Eppure, cara, Il tuo giorno ignorato ` Soltanto è ferma notte. E, in questa, tu non muti: Non aspetti il domani. Così pura nell’aria, Cosi composta Da farmi dire, stanotte: Tu non sei mai vissuta!

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Dietro la porta, tu. Da questa parte aspetto che tu parli. Ma tu, sepolta in te, tenti di udirmi. Tutto il silenzio mi pesa E il palpito m’ignora. La luce se n’è andata, Ma resta il dito a battere, Ferito all’improvviso. lo potrei morire come te, Ma lasciami tu sperare Ch’io possa udirti. Bussa tu, finalmente: La mia porta è il cuore; E tu, di là, sospiro già d’abisso. Dove tu sei a tessere Silenzio e terra, Galleggia, sul marmo, ferma nella luce, La tua tenera effigie. Tutto per me batte il sole; · Ma tue sono le rose, Messe nell’afa a splendere: Rosse rose per te, Portate a visitarti. Ho almeno l’illusìone Che possa udirmi rievocare un nome, Come un insensato: Il semplice tuo nome Rimasto a fremere con me. Mi sono calato in me Per udire, gentile Musica di tempi andati. Eppure, in quelle note, Certe di lontananze, Ci sei tu, a udire Quanto sia vera l’anima, Se un suono la riconduce Alle sembianze spente, Emerse dal fruscio D’una vita struggente.

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Prima che il sonno Mi colga, stanco Odo uno scricchio E un altro ancora Dove invecchia un armadio. Poi mi giunge all’orecchio, Salita da non so dove, · Vaga dirmi una voce: sono qui. Un attimo! e la mia schiena Si dissolve in brividi: Finché mi pare di vedere, Come in un lampo, Tutto il pallore Del mio viso affranto. Il tuo paese, ormai, Scavato è nel silenzio. Non ci rivedremo Che in due lontane stelle; E il tempo sarà lento per me E tutta la luce per te. Cosi tu sopravvivi; Ed io nell’ombra tua, sepolto forse. Quando si ama Fino a morire L’uno nel cuore dell’altra, La vita scavalca il cielo; La terra si dilata Fino a farsi pianto dimenticato. Non più per te le aurore E le sue rose di seta, Sospese come se il cielo Fosse di là già luce, Alta più dei suoi galli Per gli occhi desti Nella pura luce Del primo albore. Eppure fosti voce di mattutino; Con le mani tra i fiori A cercare te stessa

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O per sentirti viva nel profumo Nuovo delle viole. Ora tocchi corolle fatte Di un niente a picco; Chiusa nel riposo aspetti Che ti svegli diversa In un mattino chiaro oltre la terra. Sei tu di là. Ma sento, Nell’attigua stanza, . Una presenza e poi Soltanto l’infinito. Ai morti, invece, ` Si addice l’eternità; E tu sei qui, Con la notte negli occhi, lucenti Sopra una veste appassita. Ti chiamo; ma non so Se ascolti. E qui ti veglio, Incerto nell’udire Finanche un brusìo Di foglie, come te morte. Non mi resta che una barriera Ed oltre, tu sprofondi: Non so se fatta luminosa O d’ombra scura. Sei murata. E il suono Dei giorni è sordo, Come cieca, tu, Dal sole esclusa. Perdonami fin d’ora. lo non sarò nessuno Senza il lampo di cera Sul tuo viso E il lume delle tue sere. Io qui t’aspetto: Attendo almeno un’eco Di passi misteriosi, Di là da un cielo ignoto.

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Ogni istante, in me Si addensa. E così Tu mi scandisci; Vieni dietro e i passi Sono passi tuoi. Chi muore, impara A respirare con l’ombra, Che all’ombra sua somiglia. Ma se taccio, taci. Se parlo, la mia voce Sembra che sia tua. Eppure, tu respiri Con me. Mi spingi, Dalla tua distanza, A pensarti. Sei vera Più d’un tempo. Senti? Il ricordo di te, stanotte, È già valanga. E cosi tu mi conduci Verso l’immensità. Un punto, un solo punto , Di luce opaca, immagino La dimora distante. Oh! se dovessi perderlo, Ne morirei. Mi basta così poco Per offrirti un fiore; null’altro Darti che un fiore: ‘ Memoria mia struggente. Viene, da non so dove, Brevissimo un istante. Ecco il cuore arrestarsi: D’un tratto arrestarsi. Il corpo è là, E qui volato il viso: Gli arti quieti. Se n’è andata l’aria, Come fosse succhiata Da un impeto improvviso.

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Gli occhi restan soli; E la luce, di qua, Non sa che farsene Di noi. Continua il mondo: Vortice e null’altro. Così, per te, la notte Senza più stelle. La notte ferma In cui l’aurora · · È un semplice ricordo Di vita trapassata. Altrove, non ci si accorge Di nulla. Resta qualcuno a chiamarti, Come ti fossi appena allontanata. Galleggia, dove più puro è il cielo, Quel semplice viso di luna: – Luce e tremore insieme – In cui l’occhio, per sé, Scopre una bianca eternità: Chiarore visto appena, per l’aria, Accompagnare i morti. E, fra quei morti, tu, Così distante da me Che stento il volo a seguire Dal mio abisso di vivo. Forse un raggio vago, Epigrafe si addice Al tuo vagare Senza che tu possa conservare, o cara, Nulla di più umano. Non ti pesa, stasera, Il vestito che indossi: Vestito di ricordi e cenere. Non è certo di gala, Né porta, agli orli, Biancospini o merletti. No, non ti pesa se il silenzio È l’ospite in attesa: Un silenzio nascosto!

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E teme di sciupare, a quest’ora, La tua composta immagine: Umile sposa della eternità. È certo che starò qui, Dal mio posto di vivo, A chiamarti. Poi a chiamarti Ancora. Saremo in due: La voce mia ed io. Perché tu non soffra Nel luogo dove i morti, Davvero soli E l’orizzonte s’allunga Fino a Dio, deserto, È certo che starò, Innanzi al tuo ritratto. Starò a chiamarti, silenziosamente: Così per farti, ancora, Dolente compagnia. A me non torneranno I giorni del tuo sorriso; Né a me tu, quasi in volo, A dirmi: sono altrove, Con gli occhi cancellati E tutta l’ombra sul viso. Non so più che farmene Del tempo, e vano sento Il risveglio o l’aprirsi Degli occhi sul vuoto, In cui mi sembra sprofondare Senza che possa dirti: Aiutami, tu aiutami: Già, nel petto, oscura Tutta la vita. Potrei, in un istante, Cancellarmi; poi svanire: Gli occhi, nei tuoi, Come al tempo del sole, I Alto sui nostri visi. Ma tu, di là, più rapida d’un lampo,

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Ti collochi al mio fianco; E in un gentile Gesto di pietĂ mi abbracci Ed al mio orecchio, In un sommesso mormorio, Mi esorti e dici: No, non spegnere la vita; Io vivo in essa. Vivo Nel sangue che ti batte, E non mi fa morire. Roma, 1979

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da «PARABOLE DELL’ANGELO DI CENERE» Sappiamo di noi quel tanto che una cetonia sa d’una rosa. Verrà l’ape un mattino a suggere impazzita la pagina bianca. E non sarà il suo giglio. Tornano i morti con occhi d’aria e nelle mani rami di pesco dai fiori freddi per le nostre notti. La rosa è nella donna, la donna è ancora fuori dalla rosa. Il sangue sa il sole a memoria e ci aiuta a morire. Lascia quel velo: si riveli il tuo nudo nello specchio. Con due note d’arpa s’è fulminata la notte. Al di là una luce e poi il tuo volto intriso nella nebbia. Mi segue l’aria all’insaputa dei passi. Un filo sottile, mi cuce le vene, in un baleno. Al capezzale c’è un altro che tanto mi somiglia. Le ore, levrieri bianchi al galoppo. Nel corpo,

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già tutto il gelo degli astri. Battendo per me, il cuore vola di là del sangue. Cielo, mettiti di profilo e naviga con due stelle di faccia. Nel sogno vedo un cipresso nuovo sulla tua morte. Notte, vivo col tuo silenzio dentro l’eternità. Il tempo, privo di colore, è nelle ossa a incidermi. Non grido. Un’unghia appena. Sul dito nata, rosea, minuscola luna. Scrivo parole… morte nella voce. Alzo la mano: ma è l’aria a salutarmi. In un punto, stasera, il mio rifugio. Colgo un suono di passi subito cancellati. Guardo, nella mia stanza, i muri: provo gli occhi. Due fili bianchi spezzati dentro le pupille. I vetri, a picco alle finestre, fanno gelida compagnia.

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Quanto disordine da me: ho una voglia matta di rinascere. Ad ogni istante scoppia nelle vie il cuore ch’è dentro: m’ignora. Gli anni, gli anni mi hanno ridotto all’osso. Sogni d’oro! Sotto il cuscino la luna. Per terra, una foglia saluta il mio passo mettendosi di sbieco. Ogni giorno mi salvo toccando pietre inanimate. Nel vuoto, io pieno, mi sento a mio agio. Viene una sola striscia di carta grigia a farmi compagnia. Ho l’acqua alla gola. Da qualche parte scambiano me per un pesce. Anima, dammi un’oncia di te per quando verranno a prendermi. Ti do gli occhi: dammi tu la luce per guardarli.

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da «DOLORE GRECO» Non a me torna amore E vita mi fa solo, A immagine di tronco Che autunno spoglia Per il cupo inverno. Mi strazia il giorno che sorge E anche l’aurora E gelo per il mio sangue. I Agli occhi luce E presagio d’ombra; E m’abbandona il mondo. Ormai sera: Già buia la mia storia d’uomo.

Rintocco d’ora Punge il mio orecchio E, lontanando, il tempo Mi sprofonda Nell’abisso degli anni. Naufrago in me, sospirando.

Cupe note ascolto E mi strugge Canto di fanciulla infelice Di là dal cielo.

Dolcezza inonda l’anima E, in me, svanendo Ascolto, sul ramo d’ombra, Un usignolo che fu. E mi ferisce tenero pigolìo: Dolore in me sepolto.

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E vita mi sbianca: Abbandonato il debole respiro, · Mi lascia vuoto.

Mi preme dolore di giorni E speranza si abbuia. Trema il tempo che ignoro E notte mi svuota di sonno: Dolcezza d’amore mi fa solo. Vita è rapido volo. Già morte mi colma d’ombra.

Acqua di stella Imbianca del suo raggio Il lume tenero degli occhi. Mi travolge sgomento Per l’infinito. Cenere fino al cuore Debole che batte, Mi colmo di stupore e tremo.

Nell’ora che notte avvolge Ai rami delle stelle Lungo le vie che il buio Già diserta svanendo, Si spengono lampade e lumi Al primo baluginìo. Chi veglia ascolta Se stesso morire E, insonne, quasi abbandonato, Si abbraccia a un’ombra, gemendo.

Tronchi l’inverno crocifigge al cielo I rami sollevando. E così immobili,

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Sognano foglie nuove, Quasi pregando, al vento Che mai Ii scuote, a notte. E la bellezza muta dei vinti Li avvolge, lungo Le lente piogge Umanamente.

Mi accompagna l’eco D’una campana E, dentro, il riso d’una fanciulla, Apparsa non so se in sogno O a un remoto balcone, Al mio borgo, Una sera di festa.

Nebbia s’addensa E quasi cieche le pupille all’ombra i Di palpebre impaurite, l Si destano dentro a fremere, Come in un precipizio, Defunte primavere, E fiamme di fiori Accese all’infinito.

Più che il lume del sole Ora mi accende e resta La luce Iontanissima di Dio.

Non rifiorisce il sangue Se per stanchezza batte O gli anni della vecchiezza Brucia lasciando In me che l’odo scorrere, Mesta una danza d’ombre Un tempo immagini d’amore.

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Dall’inflnito giungono A risvegliarmi uccelli Dai colori leggiadri, agili al volo. Ma non più m’allieta ll canto loro in cielo Se appena mi ascolto vivere, Deserto al mio risveglio.

Foglie l’autunno abbatte Di là dai tronchi e porpora Calpesto andando Per vie che ignoro, Fino a sentirmi ramo Se appena tremando saluto Le mie antiche illusioni.

Negli abissi del cielo Festeggia il suo tramonto, Violata, per sempre, la luna. E cosi l’aria, Lucente più che mai, Me copre, fino a ferirmi, Del vacuo brusio Che lancian sul pianeta Due sagome danzanti Dove il bianco di luna ancora Si colma d’infinito.

Per anni rimasta al caldo Fra le vene impigliata: A guisa di fantasma tenero, Con l’ansia di morire in me Ad ogni sogno che tu accendi E che tu stessa spegni.

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Sii tu felice serba nel sorriso Letizia di chiaro giorno. Amore volge alla fine E illusione raggela. Già vecchiezza è in agguato.

In fuga l’istante In vortici di tempo. Mi lascia inerte lo stupore e il capo Sul petto abbandono: Come a voler dormire, sfinito, Sull’ombra che avanza E a sé mi avvolge A immagine di madre.

Udire In un lontano murmure d’onde, Il caldo suono d’un flauto E ingenuo, come un tempo a riva, Accogliere sugli occhi un ramo Altissimo di stelle e bianco Svanire, poi, dall’anima rapito.

Note di lontana musica Mi colmano d’anni spenti E in me, preso d’angoscia, Morire ascolto, nuovamente, Amori in me felici Quanto il lume del sole.

Ancora un giorno Declinando, Me ferisce, subitamente.

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E un raggio, Nel sangue buio perdendosi, Sarà lume un tempo A me, dimenticata Polvere mortale.

A notte, di là dai vetri E in quell’antica oscurità Che sbatte com’ala stanca, Sugl’occhi s’agita una mano. E quell’addio mi punge, Coprendomi d’insonnia Fino all’aurora.

Insensato amore Mi schianta E, inerme, in me tremando Sento, lmitando la rosa e appassendo, V ll profumo del cuore.

Mi colga Se pur diserto quest’ansia amara d’essere, Altissima una luce; Che il meriggio colmi d’echi sereni Il mio orecchio smarrito. Mi giunga, ma di lontano E in uno spicchio d’aria volando, Il cuculo a intenerirmi; Ch’io svanisca così, Colpito a morte, Nelle sue brevi note.

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Se ne vola ogni sera E fumo si addensa Come nel cuore A supplicarmi spettri Da una distanza d’anni. E come se una musica Me ferisse, Morendo, con l’ultima sua nota.

Della terra In me null’altro resterà Che un debole bruslo d’ombre infelici E in fondo ad un abisso il gallo Che mi destò alla vita.

Giorno per giorno Amore mi scava E invecchia, nel sangue, ‘ Ardore d’anni svaniti. D’ogni bacio mi resta Un vago senso di morte. Se ne vola dagli occhi La bellezza e resto Prossimo a finire.

Di me, in un luogo che ignoro Resterà cenere, Al buio dimenticata. lo per millenni, di là dal cielo, Sfiorerò stelle spente E null’altro.

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Giunge, da un’altezza Di gelide nebulose, Luce di morte stelle V E arcane lontananze Di vaghe sfere, A noi, in ere andate Di là dalla memoria, Lumi felici nella notte.

L’alba ha strozzato il gallo Nel buio d’un ricordo. Più di nessuno, Il cielo viaggia Di là dal mio sgomento.

Non mi ricorderanno i tronchi E le foglie nemmeno. Non gli autunni mi faranno Pietosa la terra o l’aria, Colma di uccelli, sbattuti Dal vento, a me straniero Per sempre.

Orrore mi coglie E istante mi punge Fino a svuotarmi di pietà. Intanto I morti a notte battono Ai vetri, Mesti di spenta giovinezza.

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Non voli di felici uccelli Né rondini lungo Varia, Ferma alla bianca Immagine del tempo. Resta un brusìo, vacuo Pianto di vene. Già il passo E quello dei fantasmi.

Non è festa per gli occhi Il sorgere dell’aurora. A sera, Ov’era l’astro dell’amore in cielo, Spunta cupa la noia. In fuga gli uccelli al tocco Del mattutino. Già dentro il petto l’anima è in esilio.

Terra fa sangue Già si scavano tane Per ombre sole. Ormai vecchi si nasce per la morte. Da vivi si palpa e al buio Uno scheletro inquieto.

Non v’è istante Che al mio silenzio non giunga Tremore di rapida morte.

Notte se n’è volata! E per millenni lo resterò Di là dall’abisso d’alba.

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Non vedrò Stuoli di colombe: Un tempo amiche della mia innocenza.

Già freddo E cenere, tra foglie, L’ultimo usignolo. In esilio ogni rosa: Sulle soglie i galli Non destano più nessuno.

Non più stupore Di poeta, luna! Non più sola per gli occhi: Silenzio di pietre, tu, Nelle mani dell’uomo.

Mi desta stupore Di pietra E, altrove, Stella che non tramonta. S’agita il tempo: Nelle mie vene Eco di musica perduta.

D’un usignolo che fu Resti, sulla mia cenere, Una nota E d’un felice amore, Nitido, Il silenzio.

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Il rapimento È qui nella pelle il tempo: nei capelli Il debole suono della morte; E già conduce al buio ll piede privo di forza. Potessi in un istante, per me Rapire 1’adolescenza dal cielo O il fuoco degli anni E amare fino a scomparire, vivo ancora.

L’indlfferenza Vengono i giorni veloci; Le ore stanche nel mio corpo Che si allena alla morte, Anche se, in alto, cammina Lo stesso sole della giovinezza.

La passeggiata Dopo la breve passeggiata, Nell’altro che la fierezza vacua di me E un’anima di nessuno.

Se gli dei sono veri Non spetta dirlo alla mia voce Con parole non mie. Dalla loro dimora Mi divide la luce, Dove torno a ferirmi Sapendo di morire. Gli dèi lassù · Gli dèi compatti col silenzio Possono decretare Finanche l’assurdo: Punirmi con la mia stessa mano E tacere, nel marmo tacere

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Oltre il giorno e la notte. Gli dèi si possono immaginare, Soltanto immaginare! E il loro luogo è bianco Di un bianco vero, Che può congiungersì, dilagando, Al nostro volto di morti.

Voci dal buio I. Figlio, non ho più peso e sono voce Nel tempo che tu guidi in vita; appena Reggo l’ombra nel vento in ogni notte, Quando più taci, stretto alla speranza , Di sognarmi lontana. Attendo in pena Così, fra un raggio e l’altro; e ti rivedo, Fanciullo, sempre, nelle vie del giorno, Portarmi viva nella tua pietà. II. Qui il sonno vola dalle mie pupille E non dà pace il buio anche se l’ombra Vibra all’amore che fu vivo un tempo. E lo ti seguo la sera e tu non m’odi Quando vai solo e la tua strada è accesa Dalla remota luce della luna. III. lo sono solo, amico! e ancora brucia L’ultima goccia del mio sangue, invano Entro me stesso vado. Tu non sai Cos’è la solitudine dei morti, Dove non brilla raggio e il tempo è vuoto E l’eco della vita ci trafigge Di luna in luna fino al vasto lddio. IV. Appena è sera sento che tu vibri E speri nella vita anche se il cuore E noia muta sul tuo passo, figlio.

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O non pensare al vuoto se il tuo sangue Fluisce; e imbianchi rapido nei giorni. Qui non c’è dato mai veder la luce Entro le buie stanze, ove su noi Cresce il silenzio e non ha volto il sonno, Che chiuse il cuore e soffocò l’amore. V. La città nostra è folta d’ombre sole E mai nessuno s’alza come un tempo Nel lume d’alba; e più la nostra voce Torna con suono umano a dirci addio. VI. Dolce è per te l’età di giovinezza, Ora che maggio in luce mite vibra Negli occhi ove già vola il cielo e il sole E il tuo paese che fa lieti i giorni. Qui la stagione è nera e il cuore è sciolto Nel vago abisso che il tuo sonno schiude, Quando sul capo è fiaba a te la notte E brucia l’Orsa timida nel buio. 1953-1954

Portatemi l’adolescente Dai sandali leggeri E dalle lunghe ciglia. Che un raggio del roseto Lasci una dolce ombra Sul suo viso; E che la voce canti, Per me che invecchio, La più breve favola d’amore. 1953

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Mi venga una fanciulla E abbia trecce Fin sui casti fianchi E mi sorrida, Con dolci lagrime sugli occhi, Presa d’amore. 1953

Il sonno le chiuse gli occhi E sulle guance Soffiò finché il tepore I Fu fiamma fin sulla fronte. La palma poi su11’anca Depose, finché il sogno La schiuse donna Col palpito nel fianco. 1953

Morte di giovinetta Poiché la luna fu bagliore ai vetri Della tua stanza, il canto cessò Del chiù sul pino favoloso. Con gli occhi tuoi 1a morte Prese a giocare. E li trovò si belli Che in essi sparve. E fu di luce l’ultimo tuo istante. 1953

Oltre i vetri scolora… Oltre i vetri scolora un’aria antica Ed è un’eco la notte nella stanza Ora taci, disfatta Nel sonno che l’amore Fa più profondo. E pare morte, Il mattutino a me che veglio e solo Vedrò svanire Il tuo piccolo piede; e gli occhi accesi, Ccndurti, spensierata, ad altri amori.

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da «QUINTA GENERAZlONE», nn. 103/104, 1983. La vita è un urlo La vita è un urlo: né il tempo la ricompone. Poi vanno ad appartarsi le nostre ossa. Quanti raggi sfatti In questi occhi per un fiore di cenere che avrà di noi soltanto una distanza amara di stagioni. Non tornerà il dolore né la mano all’addio così poca è la terra dove si cresce pentiti. Quanti giorni nel cuore e quanti passi pronti a calpestare l’ombra che ci accompagna. Non vale essere nati con tanta carne punita per quel silenzio che saremo un giorno. Roma, 1956

Vertigine che m’avanza No, non andare di là cogli occhi vuoti rivolti ai miei, di secca terra, qui presso il fantasma, vinto da una luce segreta, ma stupore già della mia vita. Io ti ricorderò se i limiti del cielo tu varchi, con ali buie, in un istante, per me soltanto abisso. No, non andare se ti pesa l’aria se qui più calda è l’umile tua fossa di pietra nuda. Dammi la pietà sul niente a picco: vertigine del tempo che m’avanza. Roma, 1980

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da «AMORE GRECO» Silenzio improvviso, tu, null’altro che silenzio d’ora volata altrove. Così mi resti accanto ma non parli”. lasci che il muro d’aria ti nasconda ancora di là dalle pupille. Di là dal mio stupore ombra soltanto. Sei tutta dentro l’anima e veleggi ma verso gli occhi affranti colmi dei tuoi. Stanotte, il mio orecchio è conchiglia. Ascolta, al di là dal cielo, parola che mai della tua voce fu mia musica terrena. E m’accontento, insensato, della sua eco.

Ti scolpirò con una lama d’aria: quella che il sole irrora di luce pura. Tu veglierai con rose e viole di luce viva sul mio sepolcro. Sei tu morta, come un lampo, sparita. Perdonami se me colpisce brama di giovinetta che a te somiglia. Ho ancora vene, accese da sangue in subbuglio. 179


E ancora, preso d‘amore, tremo nel tempo che m’avanza Sono a me stesso relitto: ma giovane è il cuore. In me sepolta tu: viva nell’altra che ti rassomiglia.

Pietra tu nel tempo ti vesti d’aria. Immobile resta l’ansia nell’ora di scintille al sole. Tuo segreto negli anni. Sei muta con occhi bianchi nel marmo che t’abbaglia e dolcemente il cielo ti riflette. Unicamente sua. Un’ombra ti copre il capo. Lascia un velo sul viso abbandonato appena. E ti conduce per mano il cielo digià sbiancato verso la dolce morte in agguato. Sei piu viva d’un raggio. A me fai luce appena il seno vibra sotto le dita, timide più d’un suono d’arpa fatta d’echi: d’aria vertiginosa.

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Un serto di rose intrecci, con mani liete, per chi t’ama e svanisce appena tu per nome lo chiami e resti sola. Tu di luce sul prato a tu per tu con l’ombra di fitto buio. Nel mezzo della notte così cara alla luna, tua custode: ancella per l’infinito. Hai ciglia lunghe per gli occhi che gettan sul tuo profilo un lume per farti dolce negli anni. Avida nell’amplesso.

Sei di vetro sottile. Tutta la notte è tua. Le stelle sciolte in un tremore d’acque luminose come lo sguardo acceso, per il mio amore.

Puro fu il cielo Sul tuo viso un lume giocò cogli occhi… Fino a svanire in quel tremore estremo del primo albore. Non mai dimenticata negli anni, lunghi sul fantasma di te, amato fino a sentirti gemere nel sogno. 181


O lontana e crudele: scheggia amara nel petto dove impietri. Ogni notte.

Tu come in un pozzo per i miei sensi accesi dalla tua bocca. In me rimasta, ferita che non sana.

Sei l’amore Spento negli anni. L’altra faccia tu sei ove si stampa e vive il mio vecchio dolore. Fu l’aurora a svegliarla Bianco velo m’avvolse in un istante. Stanotte tremo… Antico. Mi sento lume di stella estrema, priva di luce e millenni. Sogno il sepolcro mio e tu statua tra i fiori. Con il profilo di lenta luna al tramonto sulla cenere buia. Fu un grido a svegliarmi Brividi m’invasero fino a sbiancarmi. 182


Mi vidi nell’aria opaca, brancolare. Il vuoto me colse interamente suo.

Che una mano gentile spinga la giovinetta a sedersi sul petto. Sarà l’ultima aurora per me che invecchio. Il suo bacio un addio.

Fu il mare a rigettarla a riva Era la statua d’una che tanto amai prima di essere vivo. Prima d’evi nascosti nel mio segreto d’uomo. Sei col raggio al tramonto Ti fai tronco. Anche nell’incavo d’un lume per i millenni. Portatemi chi trema… Donna colma d’amore e fiori, per il seno puro di statua. Non vista prima d’ora. L’alba sarà lenta. Il letto capriccio d’onda di mare insorto . dal breve amplesso. Gli dei sono andati di là dai loro veli. C’è un odore qui di cielo vuoto.

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Gli dèi svaniti f nel mio sguardo. Appena. Di nessuno la terra. Alto il grido, in me naufragio: tenera allegria.

Salgo dagli inferi. Gli occhi a me fuligginosi toccan macchie sui muri che luce rischiara e fa precisa l’alba. Che un dio mi salvi unto come io sono di buio, sepolto in me. Casta luce di stella gli occhi rapì. E cosi notte cara mi fu nel tempo. Mi trafisse il mattino col suo fischio. Nuovo altrove il mio viso. È gelo quel vecchio albore di luna sul petto inerme. Mi aggrappo alla fanciullezza. ln essa canto.

T’amo e grido che ho stelle per i tuoi occhi. Frutti nuovi per la tua bocca acerba. Non andare, fanciulla, se il peplo t’imbianca e l’ora è istante arcano. Trafitto giaccio ed è l’amore tuo mio fino all’eternità.

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da «LO STRAPPO» Te ne andasti e fu la luce a farsi bellezza quieta sul tuo viso di cera definitiva. E mentre il silenzio fu soltanto tuo, io ero altrove a immaginarti con tutto il sole ad abbagliarmi quasi a cullare insensato i raggi nel mio dolore per te. E in quell’istante bianco sentivo la tua morte distante, col petto vuoto sia del mio che del tuo cuore trafitto. Fu un attimo… smarrito vidi tante cose fuggire da me. Finanche un volo di colombo in alto e al centro dell’aria portarsi via un lembo dell’ombra tua, appena distesa alle mie spalle curve: come un presentimento atroce della tua morte. Fu in alto che il cielo, tante volte nostro, fu macchia scura per gli occhi. Di già io non sapevo a chi parlare della tua scomparsa, amore.

VI Tu di là ma viva col tremore fra le tue dita sottili e gli occhi neri di tempo dove ti viene incontro uno specchio che a me dona il tuo volto così distante e mai preciso quando è il sogno

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a riportarti a galla da un vortice di luce nera interamente mia. Non posso che averti un po’ vicina quando è la calda notte e farti emergere come tu fosti. Così ti fai sgomento, amore mai; nasci proprio da me benché tu esista in uno spazio tanto diverso dal mio. Pur vecchi tra fili bianchi, noi distaccati con visi deformati, ma sempre nostri, noi c’incontriamo tu col tuo abisso profondo più del mio, al centro d’un sonno duro. Non è l’amore a legarci, ma il freddo dell’età cresciuta lentamente. E non serve a nessuno di noi due ricordarci al buio fantasmi soli. Siamo da tempo naufraghi vivi ma come se fossimo già morti.

Prima della soglia oscura 1976-83 Stasera i compagni di strada sono semplici nomi che incontro, stampati nell’aria grigia della mia vecchiaia. Come poeta dicon che sono vecchio, immagini d’altri tempi ho deposto in versi antichi per farmi perdonare la mia presenza d’uomo che ha scelto verità e bellezza. Da me non c’è l’ospizio di parole baldracche, né l’uso disumano del sentire le cose senza il consenso del cuore.

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Ho scelto la libertà d’essere l’ultimo dei poeti non di moda, senza l’onere di servire, da sciocco, le vuote e sempre stupide ideologie. Ho servito l’uomo e ciò che è in lui a me anche appartiene: la giovinezza, la gioia, l’amore, tutta la vita nuda di menzogne. L’acqua freschezza semina e gli occhi sciacqua, stamane.

Sarò… Sarò fumo di neve squame d’oro sull’ape o fulmine con rami appesi a un tuono ‘ di me più festeggiato. Sarò vena di vento o controcanto d’un’eco fra due rocce: fiore di fuoco sarò ma al centro d’un addio. Non mi vedrà la luce anch’essa cieca dopo che il sole sarà morto ai limiti d’un monte chiamato notte. Sarò tronco contorto d’un ulivo scolpito e subito lasciato alle sue palme perché il vento le smuova colme del rosso acceso dalla sera. Diranno di me che fui scontroso amante della mia ombra, morta già prima che nascessi sconfitto dalla vita.

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da «UN PO’ DI MERAVIGLIOSO» Il fu magico specchio (Apparizioni) Dopo di me nello specchio il volto d’un gorilla la rosa dal gambo allungato il pesce d’oro al centro il trifoglio che ha freddo libero dalla rugiada. Dopo di me nello specchio il pavone a tre code il piccolo gallo cedrone il martin pescatore che becca le onde del mare e si lamenta volando. Dopo di me nello specchio la donna fata nuda l’occhio sacro dell’angeIo l’abete con neve rossa un frammento del polo il volto del bimbo che fui il volto che sarò. Dopo di me nello specchio Narciso accecato la fiamma nera scoppiata il merlo che vola dentro e si fa di cristallo. La fanciulla col velo sul pube e l’arazzo a bandiera. Dopo di me nello specchio la barca di neve e la vela un ramo di stelle a colori il drago con sette teste gli occhi fosforescenti un raggio di sole vero farsi arcobaleno.

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Dopo di me nello specchio la tàngara fiammeggiante le vanessa assassina Charlot sgambettante Hitler sanguinante con gli occhi pugnali. Dopo di me nello specchio tante macchie di sangue agli orli e al centro d’una falce Stalin scortato da un sole nero. Dopo di me nello specchio la rosa canuta il fungo atomico il bimbo focomelico la rondine tutta bianca l’iride a zig-zag ‘ e poi il pianeta senz’ombra i visi con le piaghe il sole sfregiato. lo di nuovo e per sempre crocifisso a me stesso.

Le mie vite anteriori a Rosita Toros

Un poeta che si rispetti è stato sempre qualcuno. Porta dentro il tempo gli istanti messi insieme l’anima come un prisma se giuoca all’eternità. Io fui poeta greco vidi nel cuore gli dèi e Saffo inginocchiata supplicarli al tramonto. Udii il suo canto la vidi ferita dea colmarsi d’amore e morte foglie sul capo vidi, piangendo.

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Fui gallo in Asia uccello del Paradiso fra le pagode e farfalla di giada in un tempio ch’ebbe specchi per muri un Budda d’oro al centro. Fui Faraone in Egitto e feci l’eco ogni notte nel vuoto delle Piramidi. . Sposai per capriccio una mummia divorziai da una Sfinge gelosa del mio sorriso. Fui caldeo dal petto di bronzo e abete per un giorno in un giardino pensile sopra un lago. Fui mago fra i Sumeri e predissi numeri perfetti da misurare distanze vertiginose. Poi tornai nella Grecia. Fui adepto pitagorico amico di Pitagora dalla fronte tripla e dagli occhi abbaglianti, Scrissi versi d’oro su papiri misurai le distanze fui finanche la retta d’un teorema e il tre perfetto inventai parlando col maestro. Poi fui Laocoonte immagine di strazio amore scolpito nel marmo eterno. Fui fra gli Assiri inventai segni con pietre e qui scrissi ideogrammi nitidi per profeti canuti amici delle mie mani un giorno matrici di geroglifici

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presso gli egizi. Fui fenicio astuto mercante d’oro e d’odalische dalle ali ad arpa dalla liscia pelle dagli occhi come stelle accesi. Fui anche per un istante fantasma etrusco dèmone che veglia sul passaggio del tempo, ascoltando di notte i morti. Fui toro sacro mi uccise un fulmine cervo infuocato in un lampo. Fui rosa Fui profumo di giglio e colore colto da luminose dita di fanciulla. Fui quercia col tremito tra le foglie e l’arsura del sole alle radici. Fu uccello-lira mi uccise un colore opaco di cobalto mutato in vento. Fui cavallo bianco sopra un prato del Libano. Mi rapi una lama non so se dell’aurora o della luna. Fui gemma d’ambra sul capo d’una regina morta per troppo amore. Fui luce colore suono e poi profumo in una sola treccia di donna amata soltanto dalla sua ombra.

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Fui mercante di gemme rapite ai Sultani sepolti e alle fanciulle schiave destinate agli amplessi. Fui merlo bianco rondine blu con arabeschi d’iride sul capo. Fui colomba celeste filo d’erba turchino anima di foglia rossa sopra una stele funebre di neve. Fui brezza fino al tramonto tremolai sui rami brivido mi feci per una sposa bambina. Fui sultano d’Arabia ebbi mille e una sposa come le mille e una notte tutte per me avido fino al midollo accecato d’amore di giovani pubi e seni limpide gocce di sole. Fui re di Roma l’ottavo quello occulto rimasto sepolto vivo perché Sibilla. Fui indovino e pur cieco leggevo il cielo parlavo con la luce con l’istante dall’ali minute e bianche. Fui finanche lapide di sarcofago illustre più greco che romano e forse etrusco con usignoli accesi dal loro Canto

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su in cima a cipressi di marmo tinto di fili a colori caduti da una ellisse. Fui papa nell’era media vestito di bianco fino al capo e benedissi la gente col segno della Croce. Fui Signore e Principe amico di Leonardo Fui con Bruno sul rogo e cembalo in un salone del Re Sole. Fui dotto con Ficino accanto a Raffaello e disegnai con mano maga volti di dee e giovanette timide per troppo amore. Fui rosa tea trifoglio e gelsomino in Arabia. Fui alchimista occulto e conobbi Cagliostro che barattava segreti con l’al di là . Fui infine poeta e veggente e vidi la notte bianca farsi lama sonora per i miei versi discesi da non so dove.

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da «SlNFONlE» Sinfonia buffa per l’estate a Carlo Belli

I. TEMPO È venuta l’upupa alle otto e il cuculo se n’è andato alle nove. È venuta una gazza con ritardo e ha beccato la melograna piena di rubini. Alle dieci due raggi hanno trafitto il melo. Ho visto i pettirossi scattare., Si sono accese le foglie! Sotto il volo delle Vanesse una cetonia ha sedotto una rosa per tre gocce di brina. Ora canta il cardellino sul campanile di un ramo. A quest’ora la dalia si mette in decolté, nei pressi del cipresso che porta la tuba e un frak di zecca. Anche la terra, in un minuto, compie cerimonie tra calabroni vedovi e mimose spavalde. Che diresti se udissi il giglio fare l’urlatore di turno perdere il filo d’oro dal collo? L’ugola di una cornacchia spreme note atonali nei pressi di un faggio baritono in pensione. Ci vorrebbe un ciclamino tra le zampe di un cardellino. Allora sentiresti le coccinelle fare le pettegole sul dorso di tre cicale. Con l’odore dei fichi spaccati

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si potrebbero attrarre i fringuelli, ladri di paglia e di lana nascosti tra foglie coriste. All’istante scatta un frullo in si minore e si curva; ma è l’uva che gioca con l’ape ghiottona. Scherza il ramo. con una farfalla in camicia da notte ‘ Mentre le formiche fanno da note popolari dietro il funerale d’un’albicocca. Escono i moschini dal tronco e fanno una crociata. Tre rose canzonettiste appena viste da un merlo dottore giurano amore eterno al profumo che va; ma l’upupa dice no a un mandorlo che la chiama e intanto s’amano alla follia una viola scolara e un furbo semprevivo, che in una goccia di rugiada si specchia soltanto di profilo. La gazza, intanto, borseggia un grillo morto schiacciato da un corallo: goccia di sangue cocciuto senza calore. Si azzuffa con la colomba infermiera un merlo dongiovanni. Due mosconi ubriachi di mosto si sfidano a duello: testimoni un raggio che ha marinato il sole e una vespa squillo. Le ortiche non dicono nulla e nemmeno una tela di ragno che sbuca da pietre cornute. Una farfalla danzatrice d’opera buffa, ascolta estasiata un gallo che fa i gorgheggi.

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Il gallo prova e riprova il suo squillo dietro un cespuglio: fa l’acuto d’ufficio, fuori orario: prova l’ultima nota per domani. Che dire delle margherite sartine? Tra i fili d’erba ricamano fazzolettini da mettere sullo stelo a mezzogiorno. È inutile sgridarle col ciuffo di sole minuto nascosto nello specchietto. Insistono a dondolarsi: provano il sorriso che il prato farà a una nuvola, vedova dall’eternità. Una dozzina di foglie sguattere si affacciano a un ruscello stanno lavando i broccati di tre rose cocotte e i calzini di un giglio tenore che fa sovente il do di petalo. Per far ridere l’ulivo un merlo impara il solfeggio con due note soltanto mentre una cicala neonata borbotta appena la sillaba già. Ma quali note il picchio ripassa appeso al tronco? Saluta il sole a picco? Riesce soltanto a far dire al tronco di leva: trentatre? abile per la prossima primavera. Una camelia va sposa a un garofano guappo oratore sindacalista venuto dal confine coatto. Mille mughetti fanno da confetti la viola e il semprevivo testimoni la cetonia officia con una pianeta fiammante. I fili d’erba sono tutti invitati al braccio delle margherite? Chi suona l’inno nuziale?

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Tre fanelli e un moscone. Una cicala fa l’arpa, in disparte; segue, dall’alto, il velo della sposa. Dietro un sasso che fa da cattedrale un papavero lenone si recide lo stelo per gelosia ‘ poi confida il suo amore a una violetta beghina. Ma la camelia sviene soccorsa da un cardellino che mette il fischietto da parte e canta le esequie al povero papavero suicida. La festa riprende tra mille fiammelle bianche: le farfalline. Un olivo pieno di raggi tra le frasche accese fa da lampadario d’eccezione e il giglio, solenne, intona il predicozzo occasionale. Un moscone ghiottone fa due rutti e si nasconde dice che il miele è poco vuole sfregiare l’ape regina. Intanto s’ode un applauso prolungato. Viene dalle foglie del fico ` che fa da sala da pranzo ai merli, ai pettirossi. Un narciso poco invertito fa il brindisi di rito a una rosa ruffiana. Per farsi ammirare da tutti si toglie camicia e sottana. Chi resta in bikini è una gardenia. Essa fa tre inchini e dice a una pansè: ti scorderai di me? II. TEMPO Sono il vivo di turno.

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ho le mani distratte ho rubato cogli occhi. Mi dico: ladro di luce, Roma scoppia; d’un tratto v si porta il cielo a brandelli, visita la vita col rombo. Mette in disparte le nubi e traffica, ossuta, con l’eternità. A mattutino, se la stella ha freddo e il cielo gocciola brina, sbadiglia la cattedrale il silenzio si fa di zaffiro contro le scope degli spazzini. A quest’ora il rosso di sole ` è uno squillo sui tetti; l’aurora ha oro da vendere ai vetri delle finestre. Occorrerà tacere nella via portarsi sugli occhi ladri la luna che sbianca la luna dell’alba senza il rossetto. Da tutti i campanili s’indovina il gioco dei muri rosei come squilli d’arance. Che bellezza udire il suono di un uscio o l’arpa di una finestra a conchiglia messa a far luce sul seno d’una statua guardiana. Roma ha gli alberi obesi; è un veliero di cupole rosse ma prende il largo nel suono dei tiglì. S’odono i suoi portoni ronzare come tanti mosconi. A un’ora che è un volo di rosa mentre il cielo mastica il giglio ch’è dentro l’aurora, scattano le persiane: le prime fioraie vanno in fila

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perdendo corolle a migliaia. Si tengono dritti i cavalli galoppa il selciato e la via è una lunga criniera. Che dire delle fontane? hanno sete di pietre complotta l’acqua coll’acqua. Hanno la voce che bela e la lingua di spruzzi. Ecco l’arco dei pini e le micce dei fiori a due a due in fila composta. Le rondini, a quest’ora, si fanno schegge in altezza e il cielo è tutto un sillabario scomposto per il fanciullo di lana. Chi si affaccia sul chiasso incontra il vento e l’odore dei vetri incontra la luce e il campanile che fa l’acrobata tenendo in pugno una croce. Non verrà la nebbia e il muschio sarà felice. Con tanta porpora vagabonda Basta il disguido d’un minuto che una piazza spicchi il volo con mille cappelli da prete. Ed eccovi, signori, il primo gatto soriano sbucato da un portone guardiano. Porta a letto la notte fosforica rimasta accesa negli occhi. Eppure non ci sono colombe da mettere a volare da una casa all’altra. Qui non ci sono galli da fare squillare contro le vetrate. Non ci sono grattacieli da far dondolare come giganti incatenati. C’è il tunnel del sole

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e il cielo che spreme la luce quando scattano le sveglie e ogni minuto è una mosca messa a ronzare all’orecchio. Mi alzo con la pelle che sa di lenzuolo cotto. Mi tocco i capelli e canto una vecchia canzone dinanzi allo specchio. Qui non ci sono laghi o farfalle qui ci sono donne soltanto come fiamme che portano occhi ammanettati da una muta bellezza. III. TEMPO Eccovi un giorno col sole di sbieco. Eccovi dieci nuvole-cattedrali e un fiume di galli cedroni volati dalle vetrate. Cercate di seguire l’ugula di una cupola c toccate la vena di un marmo ad ala piovuto al galoppo, cavallo sciolto che ha venti criniere e un nitrito sirena. Nei muri a foglie scivola un’acqua viola cogli occhi di mille colombi. S’ode il brio dei vetri in cui soffia la luce merletto d’aria e di neve. Col sibilo del vento mette oro la spiga e si cuoce la foglia felice nel becco di un merlo a due code. S’ode un rombo nei tronchi e sette pietre a sfera giuocano ai pianeti

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nel turbine di farfalle vestite di rosso. Sono fiammelle: anime di papaveri in cerca di colori o di piume canore. Può darsi che un ramo suoni come un flauto L e chiami a raccolta le cingallegre o le gazze in pigiama. Lungo le vigne i fili che vanno da palo a palo formano un suono sottile d’arpe parallele e ciuffi d’api mordono le note d’oro dell’ali fra chicchi d’uva e girini. Nelle ville patrizie i pavoni suonano il mattutino e giuocano alle vetrate con le code esaltate da mille bolle d’iride: minuto firmamento volo a ruota di vanesse. Il sole potrebbe spaccarsi: melograna. Uscirebbero uccelli di fuoco tangare fiammeggianti o micce di garofani da fare un vascello di ragnatele colore del sangue. A quest’ora snella come un levriero le vie di fili d’erba fanno, dovunque, musica e i ciottoli borbottano come quaglie ferite. Chi vede l’arco del cielo può indossare una tuta soffiare nel cavo d’una conchiglia. Può illudere l’aria: dire che è mare folto di mosche bianche. Può strappare la nube criniera, mettere il biancospino al posto di un’onda.

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Ecco l’istante del cuculo lettore di vocali: maestro alle frasche alunne che fanno una verde barriera e cantano in coro spremendo alle gole di mille fringuelli. Negli orti i mosconi coprono di corolle il loro dorso imitando le rose ‘ e tre note solenni accendono un raggio infilato a una vespa. Chi suona l’ocarina è una rondine in do vedova di guerra ingoiata da un volo a freccia. Un melo dice di sì a una cornacchia in chiave di fa. Poi giunge un merlo, distratto cantastorie e non osa volare. Una farfalla atalanta porta sulle ali al guinzaglio due note in minore tolte a una breve elegia. Ed eccovi il cipresso, pastore di tombe pascolare i morti a mezz’aria agro del vento. Chiama la sera sorella e si perde nel fuoco di un angelo porpora. A due a due le stelle s’accendono fra l’erbe del cielo. S’accende la luna camelia e si ricorda del mondo come un’ombra che fa da cappa a tutto il sangue del sole. Più tardi la luna a imbuto

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sarà la tomba di un serafino: lo squillo che sveglia il quartiere dei grilli. Intanto i filari degli olmì giuocano al trenino e le lucciole in volo fanno da finestrini se fischia il trenino nel ventre del monte. Che dire dei nidi quando la luce di luna accende le frasche quando l`olivo fa da lampadario nel mezzo del prato? Una lìbellula ci dirà se è crocifissa trasparente che va da una foglia a un’anima senza badare al verde de1l’aria che la sostiene. E ora udite il chiù... Udite come si dispera punto da un raggio come da una spina nel dire soltanto mai più. Roma 1959

Rapsodia in minore a Enzio Cetrangolu

La terra lasciata indietro Ha la voce del vento: È terra che si fa cielo una sera Sul bianco della criniera! È filo di luce negli occhi O volo di colombi. Sai che l’infanzia chiama Ed è tutta un paese: Nuvola di gigli Tra uccelli di fuoco Volati dal sole, all’istante.

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Il Sud che tu ricordi È il buio di una grotta, L’ortica tinta di viola A un’ora della vita. Sul tuo paese giace Il ciuffo di stelle ingenue Tace il fantasma sui vetri Quando scocca la notte E irrompe un urlo: il fornaio. Sovente è la luna a chiamarti E laggiù te ne vai. Laggiù rintracci ll fanciullo che scotta Nell’aria dei giuochi E riscopri la calce Le macchie del cielo L’ombra che fanno le case Quando suona il sole All’arpa dei raggi. Quant’alberi fratelli Sanno del tuo fantasma E pregano con le foglie: Celebrano il mattutino. Chi vive con l’ombra È sa che il suo silenzio È soltanto pazienza, Torna dove il silenzio È il moto d’un fiore O il nero di un sasso. Il fanciullo che fosti Ha l’abito a colori. Chiuso nel giorno di festa Palpita coll’aria Perché la madre è là Seduta sull’uscio, Più fata che madre. Tu ricordi e la notte Spingi col dito il colombo Che va dall’occhio a una stella. Sai che il roseto è secco E odori per te la luna

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Perché si faccia camelia Per il tuo sonno d’ingenuo. Chi suona è una chitarra ~ Secca nel vicolo schiuso. Si stacca dal suono La fata che amasti. Il tempo è il tuo paese E qui riposi. Riposi con l’ombra dell’erba E ti ascolti nel grillo Ti tocchi una ruga E appare una domenica. Chi ti saluta è il gallo Chiuso nel grumo di piume Dove squilla il mattino. Chi ti saluta è il fumo Quando il vespro suona Per l’aria o nelle vie. E la pace si stacca da un’ape Per farsi colomba. Quanti giorni vuoti Ti fanno l’eco Perché pieno resti il giorno Che del tuo primo Contare le grotte e le foglie: La porpora fiorita Sui vigneti d’autunno. Tornare indietro è vita Udire il mandolino o una fontana È dirsi appena: una volta! Come tutto questo si fa strazio E completa il vivere Ti colloca tra i lumi Che furono sempre accesi. So che ricordi i muri Del vecchio cimitero E ascolti piangere gli armadi Nel vuoto di una casa Che fu luogo di sogni. Ascolti l’aria accovacciata Sui cespugli e palpiti

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Col primo fiorire della sera Apparsa con il belato d’una capra. Vivere altrove . È anche tornare al paese lntatto in una bolla. Qui giuoca l’lride ll tremolio d’un lume Il dolce stare d’un balcone All’ora in cui la notte È un urlo dell’aria E ogni muro , Offre la calce alla luna: Ed è muro che soffre. ll Sud ha tante rughe Alberi che buttan sangue E pietre come lamenti Da popolare il tempo. Ricordi le piazze accese E l’odore di menta La macchia del pettirosso Sul rantolo del rospo. Ricordi il vento sui cenci E tocchi l’ombra Come si tocca la madre Che non è più. Al paese C’è la tristezza volata Dal cuore che non sa Tutto il colore celeste Che ospita il Dio solo. La vita è pietra e cenere. E tu lo sai; ti cerchi Dove l’occhio ritorna a volare E si fa un nido Sui fili di paglia che il sole Incrocia sulla luce. La poesia è sempre Un’ala ferita e ci accompagna Per non smarrirci. Tu sai quando ritorna Nei cicli segreti, E ti basta la penna

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Per salpare dal cuore Ai luoghi della tua terra Il Sud è una piaga Con ciuffi di merli e chitarre. ll Sud è un grumo Di calce che s’alza Lungo i muri di sole. Ricordi la mosca Sul morto di profilo E gli specchi unti I letti appassiti Nel buio che suona E si fa cicatrice. Il Sud è tuo Per tutta l’aria che piange Sul petto degli uccelli E negli occhi, lmpiccati alla luce. ll Sud è uno straccio Che si fa ricordare Per i tufi accesi di lebbra Per le cicale intente A pestare aria di calce. Ricordi i balconi accesi Di verdi foglie e insegui Il fischio Uscito nero al fornaio. Ricordi gli ulivi crocifissi E i vecchi appesi al sole Col tanfo nelle tasche E il rantolo nei bronchi. Quanti morti fanno Da pietre pazienti ai nostri paesi avviliti E il tempo si fa ruggine Sull’erba al primo tocco D’uria vecchia campana. Tu ricordi i merletti e le rose. Tu sai! Deserta è una finestra Sai che alle contrade Ogni ciuffo di ortica

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Nasconde un orco; Tutte le fasi del raggio Sanno il colore del cielo Fermo negli occhi Come una macchia Del Dio dimenticato. Tu ricordi e cammini Tra gli echi degli armadi Nei tonfi dei portoni funebri. Ti ricordi e vai nel senso Dei giorni finiti Felice di udire il fanciullo Che ti lasciò per essere Innocente sulle cime O negli orti che fanno Della terra uno squillo. Tutto quello che sei Lo devi ai giuochi del sole E al sibilo del vento Contro le foglie impazzite: Con l’eco della tua voce. Le foglie posate nell’aria La luna che vedi È rustica macchia d’aria: Una luna ossuta Fiorita al sommo del colle Dove la sera colava Col tonfo lieve d’un velo Mentre alle frasche Tornava il chiù per fare Mesta l’ora di notte. Chi suona è un cieco Sull’umido sasso nella via Che porta ai fossi Dove bolle l’acqua piovana . E torna a brillare una nube. Paese è la tua memoria E ti fai muto: Fantasma gentile a te stesso All’ora in cui dal cuore d Evade la vita:

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Unico suono d’arpa . Che t’accompagna e sa. Anche tu ricordi il trillo Del passero cieco Unto soltanto di cielo. Ricordi e bruci Con l’ombra che si distacca E muore nella voce Ad ogni stagione andata. Un giorno ritornerai E tua sarà la morte La morte che si ripete Ad ogni tramonto E porta in cima una croce: Mite segno del nostro Umano apparire, Figli sconfitti dal dolore. 1962

Già nevica sul pianeta a mio fratello

(Sinfonia N. 2) È notte questa che scende con la neve; ed a me pare che s’alzi l’aria fino ai picchi, al sommo d’una nebulosa. Il buio ha macchie che l’occhio misura dalla sua tana. Sembra vento l’anima e mi è straniera la voce, come fossi, in un istante, io stesso un esule nel gelo. E intanto i globi spaventano il deserto che dall’alto s’irradia con ciuffi di stelle che il cielo ha incenerito. Quale stanchezza di millenni trascina il sangue, e colloca il mio volto al centro d’un’ora ch’io forse vissi e accenna a un luogo ch’io vidi come in un sogno    un tempo. No, non mi ritrovo in questo fondo che la neve imbianca se un fiocco, bagnandomi le palpebre, si muta in una goccia di stella, esplosa di là dal mio silenzio. Eppure se mi guardo

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passare dall’ombra ai lumi, ascolto l’eco d’una voce. Chi è morto già mi chiama ed è la mano a salutarlo come da un abisso in cui sono e non sono vivo per tante luci: più amore che pazienza: un uomo in ansia di vivere quaggiù dove la terra che mi regge si mescola, più bianca, ai grani in moto ` nelle galassie. Dolore di non esser ricordato né da una foglia, né da raggio opaco di pianeta che un giorno esploderà, s’infiammerà. Suona il freddo che incalza e penso ai vetri di ghiaccio sulle case in alto e agli alberi fantasmi, che la notte inchioda. Su questo viale in quiete, hanno parvenze di croci. Sopra i rami cade la neve con dolcezza. Anche il mio corpo è tronco e finalmente scopro cipressi e abeti con me invecchiati, come se il mondo, in me ricordo, mi cingesse d’ellissi in fuga o come se la terra stesse cambiando lentamente in luna l’oscuro giro che già da sempre vana la rende per l’infinito.

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da «AGALMATA» Afrodite callipigia (dalle belle natiche) ln un gesto di danza sollevi il peplo e mostri agli occhi le tue belle cosce d’alabastro e il tuo profilo candido alla luce. Sei pronta per l’amplesso e fremi tutta fin nelle trecce amabili sul collo.

Nozze di Era e Zeus Era sorride a Zeus e gli offre il braccio gli occhi bianchi e il suo tenero amore improvviso. Zeus l’attira a sé per amarla baciarla colmarla di notte fonda fino all’aurora. Amore e Psiche Arde sulle due facce un lume e quasi il bacio le labbra accosta ed improvviso l un rossore dilaga sopra i volti e gli occhi avvince ad una dolce voglia d’amore. Pieno il tempo d’anima in un lampo sfiora i corpi di pietra e aurora s’alza sul mondo.

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da «IL PIANETA NERO» Lo ha deciso il capo Oggi primo gennaio dell’anno duemila siamo riusciti a spaccare la luna in due Abbiamo una scala fatta di scheletri potremo finalmente salire fino al sole Lo ha deciso il capo Il pianeta è servito Ogni uomo ha la sua cella la sua razione d’immondizia Lo ha deciso il capo Abbiamo abbassato il livello dei mari e offriamo gratis pane di sterco Ogni fanciullo avrà la sua razione di mosche e d’acqua inquinata Lo ha deciso il capo Chi partorisce di venerdì avrà per dono carbone di cocco e fette di nebbia dura Lo ha deciso il capo Da oggi sono in vendita ovunque lingue di poeti cervelli di filosofi e scienziati trippe di politici cuori di generali Lo ha deciso il capo Occorre seminare uranio invece di grano Bere schiuma di pantani friggere trote morte arrostire rocce di frane Lo ha deciso il capo È vietato parlare per non inquinare il prossimo chiuso negli alveari È vietato crescere senza autorizzazione

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Lo ha deciso il capo È vietato respirare per non rubare ossigeno alle pietre È vietato specchiarsi per non scoprirsi mostri Lo ha deciso il capo Giacché gli alberi sono morti occorre che i più volenterosi si piantino nei parchi e tengano aperte le braccia Lo ha deciso il capo È vietato sputare per non offendere la polvere secca È vietato aprire la bocca finanche per sbadigliare Lo ha deciso il capo Giacché gli scheletri sono assai occorre fare scale utilitarie per salire sugli altri pianeti Lo ha deciso il capo È vietato morire senza un’ordinanza È vietato mangiare sabbia È vietato mangiare alghe Lo ha deciso il capo Giacché non ci sono più pesci gli uomini più tristi abiteranno il mare per farsi pescare Lo ha deciso il capo Da oggi è in vigore il coprifuoco Occorre che la terra faccia silenzio per un decennio (pare stiano in giro i marziani) Lo ha deciso il capo È vietato salutarsi È vietato ricordarsi d’essere stati innamorati È vietato pregare col solo pensiero Lo ha deciso il capo

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Da oggi va in vigore la legge che riduce gli anni di vita ed è vietato finanche defecare per non far crescere le immondizie Lo ha deciso il capo Giacché non c’è più erba è vietato rubare muschio o ingoiare saliva Lo ha deciso il capo Giacché siamo in troppi Giacché lo spazio è razionato si ordina di accorciarsi un centimetro al giorno Lo ha deciso il capo È vietato allungare le braccia per non infastidire il vicino È vietato fare passi non oltre il centimetro Lo ha deciso il capo Le donne dal culo caldo covino per tre mesi e mezzo una dozzina di ciottoli bianchi e tre pietre lunari Lo ha deciso il capo Giacché la puzza aumenta si ordina di trattenere il respiro almeno per cinque minuti ogni ora Lo ha deciso il capo Di giorno e di notte è vietato far chiasso per non infastidire le macchine a mezzo servizio Lo ha deciso il capo È severamente vietato di sognare in piedi seduti o sdraiati È vietato farsi illusioni al buio o alla luce Lo ha deciso il capo Occorre denunziare d’urgenza

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le ore di sonno e il tempo sprecato a pensare di vivere o di morire Lo ha deciso il capo Giacché siamo in molti è premiato con medaglia invisibile chi si ammazza all’improvviso Lo ha deciso il capo Giacché la terra è tutta una piaga si ordina di offrire ovatta allo stato e garza per le crocerossine Lo ha deciso il capo Giacché abbiamo due mezze lune si ordina di non guardare il cielo per non rimpiangere la luna quand’era una e piena Lo ha deciso il capo È vietato riscaldarsi con i raggi del sole che stanno per ritirarsi Lo ha deciso il capo Sono vietate le feste gli onomastici e i compleanni perché è vietato sapere gli anni che abbiamo Lo ha deciso il capo Giacché siamo in troppi è permesso soltanto di impazzire un’ora prima di morire L’anima deve dimenticare di essere stata viva sulla terra Lo ha deciso il capo

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La puzza del denaro Ode lorda e «metafisica»

Il danaro puzza di zolfo puzza di sterco duro di sterco molle Puzza di mestruo solidificato puzza d’acqua sulfurea È una sirena muta che beve la sua orina e la lascia bere agli altri Chi vede il danaro ha 48 pupille come le mosche Parola magica che allude illude e delude sia chi lo possiede sotto forma di banconote sia chi lo sogna o lo intravvede a distanza forzata come un miraggio Da quando ho ereditato io stesso mi sento stereo Le donne mi annusano come tanti puenter mi cercano quando dormo mi cercano se son sveglio Le attrae la fetida filigrana si coprono la vagina danzante con biglietti da centomila e d’altri tagli purché soldi Secondo alcuni mistici il danaro non esiste – beati loro – anzi esso è una semplice illusione ottica soprattutto di chi lavora L’italiano in particolare lo tratta con speciale simpatia Per Preti e filosofi non si deve nominare invano ma soltanto incassare

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Per il poeta o lo scrittore lo si deve ben bene nascondere sotto le parole in modo che gli altri non riescano mai a vederlo di faccia o di profilo ma udirlo soltanto cantare! Per il metafisico: esso è l’Essere assoluto il Tutto: l’Arché senza del quale non si pensa ma soprattutto non s’incassa e non si mangia Per il politico endovenale il danaro è la cosa in sé il motore silenzioso delle azioni e in modo speciale delle malazioni quotidiane e su scala da uno a mille milioni. Cosa sarebbe mai la fauna politica ideologica e soldologica senza la filigrana delle banconote? un coacervo di deliranti. Per il ladro – e ce ne sono tanti – il danaro è una specie di sirena che incanta senza che canti e dà un prurito alle mani che diventano prensili per forza d’inerzia. Per il ricco il danaro è la ragione non ragionante e non ragionata. Il ricco si sente un po’ il padre naturale adottivo e legale di tutte le banconote comprese quelle orfanelle che sono soltanto di passaggio nei taschini dei poveri nelle tasche di chi lavora. Il danaro! c’è chi lo tocca Chi lo ricama Chi lo intravede ad occhi aperti

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Chi lo palpa soltanto nel sogno Chi lo degusta coi polpastrelli Chi lo insegue come un miraggio Chi si contenta di vederlo Chi lo conta idealmente all’infinito Chi lo investe e si fa male lui Chi lo deposita in banca Chi lo evoca nelle sedute spiritiche e chi lo fiuta soltanto come si fiuta un tartufo. C’è chi si occupa con zelo di consumarlo e chi lo ammucchia nei cassettoni. C’è chi per lui vende l’anima e il corpo di suo padre il corpo dei suoi cosiddetti cari. C’è chi lo nomina e si congestiona e chi seraficamente lo intasca col sorriso e va dicendo in giro che è un francescano. Per il conservatore il danaro era prima di Dio e della creazione E prima era il danaro e poi venne il danaro e infine verrà il danaro. Per il banchiere il danaro è la forza della vita; anzi il danaro è prima della vita prima del suo cuore prima di sua madre di suo padre di sua moglie e dei figli prima di sua sorella e dell’amico

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Il banchiere è il fratello siamese di ogni banconota e morirebbe se la sua mano destra non contasse da mane a sera danaro sempre danaro. Il danaro è l’unico movente che fa uccidere senza distrazione e a colpo sicuro. Col danaro si compra il sole la luna il mare l’aldilà e l’aldiqua la terra la donna intera a mezzo busto: la donna di profilo. Col danaro si comprano le stelle le case le cose gli altri soldi gli uomini provvisori e interi popoli di passaggio. Col danaro si fanno paesi più vivi semivivi e morti e si possono costruire cannoni e missili da fare saltare la terra. Col danaro la donna diventa più donna e l’uomo più imbecille. Davanti ai soldi – dice il proverbio – i ciechi riacquistano la vista ma io non ci credo perché sono convinto che i ciechi non vedono nulla ma il danaro lo vedono lo hanno sempre visto perché prima della luce

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era il danaro e prima del danaro liquido c’era il danaro solido quello che i preti chiamano “Dio” e che i poveri chiamano l’aldilà l’irraggiungibile aldilà

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Il critico letterario

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da “IL PICCOLO”, 21/5/1959

NARRATORI D’OGGI Alberto Moravia Vi sono scrittori che fanno convergere il loro stile in un senso piuttosto comodo, cioè verso la rappresentazione o invenzione di una realtà che si lascia sistemare, con eleganza, nel tessuto linguistico; e allora la prosa, circoscritta, offre tutto di sé, si allinea in direzione della forma, sorretta appena da un esiguo contenuto. In tal modo si hanno scrittori che, avendo quasi poco da inventare in senso narrativo, non potendo cioè adattare la lingua alla architettura di una realtà umana ricca, varia e complessa, sembra che si esibiscano, prodigiosamente, sollevando la lingua a tutte le arditezze dello stile, fissando sulla pagina, più che il pathos di un mondo vero e proprio, lo splendore di una sintassi che è frutto di raffinate esigenze formali. Vi sono, invece, scrittori, e sono rari nella storia della letteratura italiana (non bisogna dimenticare che la nostra lingua, per tradizione aulica, è una costante tentazione verso lo stile) che spontaneamente costringono la lingua a dar vita a quelle trame narrative verosimili che insorgono, in modo necessario, dalla fantasia dello scrittore e ci danno la rappresentazione di un mondo inquadrabile in una precisa società. Alberto Moravia appartiene a questa seconda famiglia di scrittori. Per questo narratore, la lingua è sempre in funzione della realtà fantastica: la espressione nasce direttamente dalla concretezza di un contenuto. Quando la trama di una vicenda si è delineata e si è caricata di una fatalità umana che è il frutto di una indagine sull’uomo, inserito in un certo ambiente, il filo narrativo si svolge con una implicita naturalezza. Moravia sa che è il contenuto e la presenza dei personaggi, non considerati mai romanticamente, che danno alla narrazione una forma non aulica, ma decisamente legittima. Il suo problema, perciò, non è quello della scrittura, ma quello più spontaneo e anche più complesso della narrazione. Egli infatti narra in virtù di una segreta e ricca vena fabulatoria; e, più che seguire le parole, segue i fatti, le vicende, i sentimenti dei personaggi, l’urto delle passioni e la condizione obiettiva di un ambiente. Segue accortamente le idee nel loro sorgere e nella loro unificazione, e narra con la immediatezza e la discrezione di chi viene senz’altro attratto dal fenomeno umano. Sceglie perciò la vita alla contemplazione statica di ciò che si lascia congelare nella forma. Una volta colto, nella sua pienezza, il destino di un personaggio, lo segue, lo ricalca nel suo ambiente, 223


mette in rilievo il tessuto sociale in cui si trova inserito e ne studia il comportamento, come può fare uno psicologo o un sociologo. Ma se per lui è importante l’ambiente, al centro di ogni vicenda restano artisticamente i personaggi. Moravia non perde mai di vista la vita comune, l’eccezionalità di ciò che non è eccezionale; e scoprirà la profondità delle vicende che sembrano banali, ma sono invece piene di quella carica esistenziale che acquista rilievo e plasticità in qualsiasi momento della narrazione. E una dose di sommesso scetticismo gli serve soprattutto per liberarsi da posizioni romantiche. Egli è infatti attratto dalla realtà oggettiva, ma senza arrivare mai al romanzo corale o sociale. Per questo narratore, ripeto, la esistenza dell’individuo resta al centro di ogni vicenda e di ogni dramma. In quasi tutti i suoi racconti e nei romanzi, dagli “Indifferenti” alla “Ciociara”, il narratore è per lui un’analisi spregiudicata dell’uomo assalito da due forze elementari e quasi piene di mistero: l’elemento sessuale che insorge come una indimenticabile fatalità in qualsiasi momento e con un suo naturale alibi; e la catena del rapporto sociale, in cui l’uomo si sente costretto a perdere la sua carica individuale per patteggiare con altri uomini sul piano dei bisogni elementari. In tal modo, il personaggio, che poi finisce con l’essere un uomo della grigia e interessante cronaca quotidiana, viene visto con una intelligenza illuminata dà certe leggi di Freud, e sollevato, nell’avventura umana, da quel pathos che attinge vigore da una visione della vita e dalla cultura in cui, accanto a Boccaccio, si trova la concezione illuministica dell’uomo, Dostojewski, Balzac, Zola, Verga e certo Pirandello. A Moravia, perciò, interessa il borghese, ma soprattutto il piccolo borghese, che nella società italiana rappresenta, nelle forme alienate, l’individuo che si avventura e paga, come contropartita della sua ostacolata libertà, una impreveduta sconfitta. Moravia predilige gli antieroi, s’inspira cioè a personaggi modesti che escono dalla vita e ricadono subito, vinti dalla vita, dove l’amore resta sempre ai limiti del calcolo e della passione repressa ed ostacolata. Il suo intento è quello però di far gravare su questa vicenda il peso delle convenzioni, delle superstizioni, di una psicologia insomma impoverita, ma denunziata sempre con un asciutto rigore di illuminista. Dico illuminista perché penso che Moravia analizzi la psicologia del borghese o del piccolo borghese della nostra società, in gran parte clericalizzata, con una intelligenza critica di intonazione razionalistica. Il suo individualismo, del resto, dialetticamente si giustifica in questo senso. Lo scrittore crede più potente la natura, che è sempre genuina e autentica, alle incrostazioni della società. Infatti, la società italiana è per Moravia affetta da quella superstizione che rende più oscuro e ipocritamente peccaminoso ogni rapporto erotico. Il sensualismo che si riscontra nei suoi romanzi o nei suoi racconti è un sensualismo di ordine oggettivo, scoperto, nelle forme più 224


inibite, nella società che egli studia e analizza. Di qui la sua esigenza di moralità quasi settecentesca: un moralismo reso distaccato da un misto di sottintesa pietà e di requisitoria. Boccaccio e Dostojewski si ritrovano perciò fusi nella sua narrativa come i due filtri attraverso cui è passata l’arte dell’indagine spregiudicata d’ogni psicologia, sia essa riferita a una società, sia essa scoperta, come nucleo tarato, nel fondo della coscienza individuale. Ed è anche questa la ragione per cui Moravia non è un manzoniano. Egli non può accettare una psicologia manipolata dalla ideologia contro-riformistica. Manzoni è per Moravia un costruttore di automi, cioè uno scrittore di genio che gradualmente altera, per ragioni ideologiche, la natura del personaggio, il quale finisce col non raggiungere mai quella universalità che soltanto la saggia spregiudicatezza artistica può raggiungere. In questo narratore italiano, ma tipicamente romano, c’è dunque la ricerca di un pathos che è un misto di verità e di forza spontanea. Ogni sua narrazione prevede quindi un senso orizzontale; è fatta di elementi essenziali, con una lingua sintatticamente povera, ma viva, ricca di fatti, di cose, di scene, di vibrazione umana; costruita con descrizioni realistiche e con una lieve e giustificata mania antiletteraria. I suoi dialoghi sono secchi, sostenuti da una sostanziale amarezza che è tutto l’umore scettico dello scrittore, il quale, quasi in contraddizione con sé, ha invece una leale fede nell’uomo libero, nell’individuo che può sollevarsi sulla fatalità sessuale, sociale ed economica, spogliandosi di ogni ipocrisia, di conformismo e di superstizione. Il suo stile, perciò, è teso umanamente verso la nuda narrazione, senza la minima compiacenza formalistica. Ed è qui il merito di Moravia, il quale ha avuto il coraggio di interrompere una tradizione aulica che rischiava di confinare la nostra lingua e il romanzo in una eterna arcadia. Le analisi di Moravia, come quelle del Boccaccio, del Verga, del Pirandello e dello Svevo, sono analisi fatte sulla società italiana, romana soprattutto. Ma sono analisi fatte con uno spirito laico, discutibile, forse, nei suoi eccessi, ma salutare agli effetti di una tradizione narrativa che è quasi iniziata con un nuovo e personale stile. Ed ecco come si spiega l’esposizione razionale della favola con personaggi, che non sono mai l’autore, non s’identificano umanamente con l’autore, ma restano oggettivamente fantasmi verosimili, tutti tratti da un ambiente che li carica dei suoi vizi, delle sue manie, qualità o tare profonde. La poesia, per Moravia, si trova nel fondo genuino della natura umana, come bisogno di libertà e di autentica lealtà. E questo fondo di poesia Moravia lo ha scoperto, come residuo ineliminabile, nella vita di tanti operai, artigiani, impiegati, borghesi e piccoli borghesi; in quegli ambienti romani in cui è vivo un remoto e pagano amore per la vita, ma dove le sovrastrutture ideologiche, anche se sono cause di drammi e di fallimenti, restano sempre cenere sopra un fuoco originario. 225


Il moralismo di Moravia, perciò, oscilla tra una poesia che è rintracciabile al centro dell’esistenza più naturale e la fede tutta anticlericale in una società italiana capace di liberarsi dalle rovine ideologiche soffocatrici degli istinti o delle idee più rispettabili. Nei romanzi di Moravia non c’è mai idillio; non c’è elegia; non c e abbandono alle impennate dell’estro; ma calma costruzione, scarto del frasario illustre, articolazione di un vocabolario che ci fa quasi palpare i vestiti, i capelli, le carni di personaggi che non hanno mai un destino esemplare, ma sono come noi li vediamo quotidianamente nelle strade, nelle case, nelle chiese, nelle piazze, nei cinema: uomini carichi di un bisogno di vivere e di amare per essere riamati. A questo punto si può chiedere se un tale problema di natura artistica e sociale non sia più astratto che storico. Certo Moravia, per ragioni senz’altro artistiche, considera fonte di poesia più la natura che la storia. Ma egli, da illuminista aperto, intende anche i problemi della vita sociale moderna: vede cioè l’uomo della natura inserito, in modo non indifferente, nel mondo della storia. Ritrova perciò la società riflessa nel personaggio in preda alle passioni elementari, ma quasi sempre tragedia. E sembra spietato per un eccesso di lealtà macerata; diffida con pudore per eccesso di riservatezza. Certa sua titubanza nasce da un segreto eccesso di fiducia forse non pagato con altrettanta fiducia. La sua propensione al sensualismo è forse la nostalgia di un rapporto erotico più profondo e più umano. La sua predilezione per il personaggio antieroico deriva dal fatto che, sia superstizione che eroismo sono prodotti di una società falsa, in cui l’uomo autentico, semplice e libero, non circola ancora come prodotto genuino. La tendenza a redigere razionalisticamente i suoi racconti scaturisce in fondo da una potente facoltà fabulatrice, che trova nella analisi un argine e una ragione d’essere. Comunque, questo grande narratore italiano ed europeo descrive per liberarsi dalla inquietitudine e da un costante senso di colpa che non è suo, ma della società nella quale vive con la coscienza di quelle cause che sono le matrici della stessa crisi. E narra più per fatalità che per esibizionismo letterario. Sembra privo di una qualsiasi idealità, mentre invece crede nell’uomo emancipato, nella natura rispettata da qualsiasi istituzione civile; e crede soprattutt6 nell’avventura umana con la certezza elementare del moralista e l’impegno civile di dire la verità delle cose e dei fatti. Ha perciò la spregiudicatezza di un indagatore discreto e sente la esigenza di un umanesimo moderno, fondato sulle leggi della vita, liberata, s’intende, dal sentimento di colpa e strappata, con i metodi propri della libertà, ad ogni tipo di alienazione.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 21/5/1961

NOTERELLE DI REVISIONE CRITICA Lo spirito classico di Leopardi In un paese come l’Italia, distintosi dagli altri per aver ripetutamente, nella storia, dato rilievo alla sua tradizione di cultura umanistica, lo spirito del classicismo è stato quasi sempre deformato da interpretazioni e concetti che tutto ci hanno spiegato in modo più o meno convincente tranne il carattere reale del mondo antico, quale fu sentito ed espresso da quegli autori di opere poetiche e artistiche che, per aver dato una profonda e complessa interpretazione della realtà, furono e sono raggruppati sotto la definizione di autori classici. L’esigenza di una tale qualificazione, se non fu sentita e compresa con matura consapevolezza da tutto l’Umanesimo, che pur criticamente aveva scoperto il valore e la funzione umana dell’arte antica per contrapporla a tutto lo spirito del Medioevo, fu isolata e compresa profondamente e in modo più dialettico durante il periodo romantico, e precisamente in un momento in cui tutta la speculazione filosofica e ogni attività artistica celebrarono l’autonomia dell’individuo, contrapponendola alla natura, alla realtà delle cose e dei fatti umani, all’ordine delle istituzioni civili e a quel rapporto morale e religioso che, anticamente, costituì per gli scrittori classici il piano della reale ricerca di ogni equilibrio umano e la misura di un’arte in cui necessità e libertà venivano assunte in un’unica dimensione. Fu la filosofia e l’estetica del romanticismo a isolare e allontanare nel tempo lo spirito classico per ritenerlo dialetticamente superato da una sorta di furore creativo, razionale e irrazionale insieme, che poneva l’uomo artista nella condizione di una più spontanea e libera avventura, affinché egli, coll’arte, prendesse coscienza della sua solitudine, della sua terrena infelicità in un mondo ostile ai suoi impulsi e ai suoi sogni e perché conferisse alla stessa creazione un carattere di instabilità e di vaghezza, quale non si era mai riscontrato nella tradizione classica, intessuta invece di visioni più limpide ed armoniose della realtà, con la quale lo spirito degli scrittori e dei poeti mantenne rapporti costanti e vigili, proprio per dare alla creazione il carattere della durata. La critica letteraria e la filosofia romantica, in sostanza, commisero un gravissimo errore di giudizio, non solo, ma di prospettiva e di comprensione, confondendo, in modo quasi barbaro, lo spirito classico con il neo-classicismo (gusto accademico formalistico) che non aveva, storicamente, nessun rapporto con quel potente intuito della vita e del mondo che noi possiamo scoprire studiando 227


attentamente, e con senso illuminato, tutta l’arte del passato, antica solo cronologicamente, ma attuale proprio in virtù di una operante e luminosa sintesi tra l’uomo e il mondo, tra la fantasia e il pensiero, tra il cuore del poeta e tutti i segreti della vita vissuta sempre con un senso di altissimo equilibrio. A salvarci dall’equivoco in cui si dibatteva la cultura italiana ed europea, ormai permeata in tutti i sensi dal fatto di dover essere romantica a tutti i costi pur di far Irionfare un’arte definitivamente libera, singolare e patetica per essere soltanto lamento di una coscienza infelice e sola, Leopardi, sin da giovane non solo aveva fatto il processo a tutta la cultura del suo tempo, ma aveva, altresì, per miracolosa affinità con gli autori antichi, assimilato l’essenza del classicismo e scritto pensieri e canti e meditazioni nelle quali ritornava a stabilirsi il rapporto dell’uomo con la natura e il senso vero e reale delle cose. Senza muovere da alcuna istanza metafisica, senza nessun impeto di ribellione fallace, privo quasi di fanatismo individualistico, pur chiuso nella convinzione che il mondo e la realtà delle cose sono dominati da leggi luttuose e funeste, egli sa che l’avventura umana non può placarsi in uno strappo arbitrario compiuto dall’uomo in virtù di una presuntuosa disobbedienza alla necessità, approfondisce costantemente il rapporto tra il suo pensiero, abissale e creativo in ogni sua meditazione, con la natura, con la vita degli altri uomini, con la realtà totale, nella quale si trova inserito per destino e con la quale comunica giungendo a riflessioni che sembrano appunto antichissime, perché attuali e, senza dubbio alcuno, modernissime. In Leopardi, lo Spirito Classico si ripresenta nella sua totalità anche quando il suo cuore sembra necessariamente influenzato da certo pathos romantico, e anche quando egli da autentico sapiente che legge nelle cose, prende coscienza dallo stesso Romanticismo e con questa coscienza si muove nel tempo per recuperare, con più forza, lo spirito degli autori antichi, mentre si esprime, costruisce, pensa e interpreta fatti e stati d’animo con sereno distacco, proprio come nella natura di un autore classico. L’opera di Leopardi, contrariamente a quanto dimostrò il Croce nel suo discutibile saggio, ne è tutta condizionata da una potente capacità speculativa; e si capisce che questa capacità speculativa dev’essere intesa nel senso classico, cioè meditazione sul reale fatta con quella accortezza fondamentale che non rende i pensieri simboli astratti di una presuntuosa ragione, ma li presenta come sereni giudizi sulle cose, come esperienze fissate in un ordine linguistico e sintattico che rivela l’intima struttura architettonica della ragione stessa, la quale non mistifica il rapporto dell’uomo con la realtà in un gergo che rivela soltanto quanto povero diventi il pensiero idealistico quando presume di risolvere in sé tutto il reale. Leopardi, al contrario degli artisti, dei poeti e dei filosofi romantici italiani e di altri paesi d’Europa, pensa costantemente, riflette con accortezza e vigilanza 228


gigantesca perché sa che i due elementi della meditazione, la realtà e l’uomo, devono coesistere proprio nel momento in cui l’uomo prende coscienza dei suoi limiti e con tale coscienza si distende nella realtà naturale ed umana con la sola ansia di chiarire in modo profondo questo tragico urto, arrivando a ordinare ogni idea e sentimento in una costruzione solida, oggettivata in parole che diventano quasi personaggi talmente sono veri, talmente vibrano della sua stessa umanità collocandosi, in modo altamente musicale, sulla pagina destinata a sopravvivere. Questo poeta capì che il segreto della sopravvivenza di ogni testo poetico o filosofico deve la sua consistenza a una armoniosa sintassi della mente, la quale, per conservare il suo vigore creativo e meditativo, deve necessariamente lasciarsi visitare dalle infinite e molteplici visioni della vita reale, articolarsi con esse fino a scoprirne i nessi più dolorosi e più veri, senza mai cedere a impetuosi gesti di miscredenza, sia nella natura che nella realtà umana, dalla quale il poeta attinge serenamente tutte le vibrazioni per fissarle poi in un testo poetico o in un comprensivo testo di prosa con il fine di consolare l’uomo, anche quando egli racconta all’uomo la dolorosa vicenda di tutta la natura e della stessa storia umana.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 19/2/1961

I VINCITORI DELLA PENNA D’ORO Profilo di Emilio Cecchi Il prosatore Pur costantemente incline alla esigenza di rendere originale ogni intuizione, Cecchi non si abbandona mai all’estetismo, non si lascia mai sorprendere dall’artificio; e misura l’effetto stilistico fino all’estremo limite, come fosse preso dal profondo dovere di rispettare le esigenze del tempo: dare cioè alla frase una durata ed una giustificazione. E quando il paesaggio o il personaggio che lo colpisce si fanno invadenti, quando la vicenda lo assale attraverso tutti i sensi, egli provoca la fantasia, allieta la descrizione con suoni e figure che emergo-no da una lontananza spirituale con un tono che appartiene sia alla parola che al pensiero. Egli può scrivere su tutto; esplora il fondo vario di un continente come i segreti di un libro per scoprirvi l’essenza: per indicarci, con un lessico modulato, la sua qualità. Ogni frase, allora, risulta inventata; ogni immagine è l’espressione di una ritrovata realtà; tutti gli umori e le cadenze scaturiscono da una disposizione dell’intelligenza critica e dalla intensità dell’istinto poetico; come se in lui fosse desta sia una facoltà critica che una facoltà medianica. Ecco le ragioni genuine che rendono il suo stile teso, contratto, animato da un allarme logico e da un’alta tonalità lirica. Emilio Cecchi è uno scrittore tipicamente italiano, se si fa eccezione di certa segreta ironia: quell’arte delle sfumature che è degli anglosassoni. Sa dove dosare il tono elegiaco e dove accendere quello ironico e fantastico. Prolunga l’idillio nella favola e corregge il sentimento con un controllo logico. Se evoca paesi lontani, figure di donne, personaggi della fanciullezza, oggetti reali o dipinti, non si abbandona mai a riferimenti banali. La sua prosa tocca sempre l’esenziale; vibra cioè, in uno spazio che accoglie solo ciò che si rivela con familiarità e ciò che propende all’enigma in un tempo che trascina con sé l’onda di un sentimento assoluto. E anche quando lo scrittore sembra che indugi sulle cose quasi insignificanti, in verità scopre quei rapporti profondi e complessi che legano le immagini a tutta la vita. L’opera critica Se con la prosa Emilio Cecchi ha contribuito ad arricchire di nuove possi230


bilità sintattiche ed espressive la lingua italiana, nel campo della critica ha dimostrato di filtrare gli elementi di un libro come si filtrano gli elementi di un paesaggio o di un personaggio. Infatti, al culmine di una lettura attenta, fatta con rigorosa pazienza e con spirito duttile, Cecchi colloca il suo cauto giudizio critico, senza pertanto dedurre da una teoria estetica congegnata a priori quegli elementi di valutazione che, in sostanza, invitano il critico a capire in modo più profondo, anche se meno dottrinario, l’autentica poetica di uno scrittore e di un poeta. Questa condizione di elevato ed intelligente liberalismo estetico, che può sembrare un limite, si è invece mostrata efficacissima proprio sul piano della obiettività del giudizio; ed ha permesso al critico la invenzione, saggio per saggio, di un linguaggio aderente alla sostanza ed allo stile di una opera d’arte; un giudicare per impressioni vere e meditazioni, senza mai cadere nel formulano dogmatico dei critici legati direttamente ed indirettamente ad una ideologia. E c’è qui da credere che Cecchi, contrariamente a ciò che ha fatto per la critica letteraria Benedetto Croce, ha certamente considerato più che l’autonomia dell’arte, ciò che lo avrebbe legato alla teoria dei distinti, la concreta complessività dell’arte intesa come atto dello spirito. E non si tratta qui di sfumatura filosofica, ma di una reale apertura verso una intelligente comprensione di tutte le arti, e in particolar modo di quella fenomenologia d’uno o più stili in cui si matura, in modo genuino, la genesi della creazione. Arriva all’estetica forse attraverso Leibniz e Bergson; ha cioè come zona autentica di indagine critica quelle forze segrete - percezioni ed intuizioni che rivelano la irrepetibilità del fatto poetico. E Leibniz e Bergson non sono semplici presupposti filosofici di natura astrattamente spiritualistica, ma sono tangenti che hanno aiutato il critico a penetrare quella vaga inquietudine umana che si riscatterà, attraverso la poetica, in un determinato stile. Il concetto dell’arte L’arte è per Cecchi innanzitutto architettura, stile e invenzione intensa; e va perciò giudicata in virtù di questa sua natura, qualitativamente diversa dalle istanze ideologiche o storicistiche che sono d’or-dine pratico. L’arte è sì nella storia, ma ha una interna dialettica -piano della autenticità irrepetibile - e va giudicata con gli elementi espressivi che le sono propri. Il giudizio critico si muove mettendo in rilievo tutti i valori della forma; e, via via che si completa, dallo stile passa a capire l’intenzione, il mondo recondito di un poeta, fino a toccare quello slancio interno che è poi la storia di un autore, non riportabile a nessuna ragione ideologica. Soltanto avendo una concezione qualitativa della creazione, Cecchi è 231


riuscito, molto meglio degli altri critici, a individuare il valore artistico di una poesia, di un romanzo, di un quadro o di un paesaggio. Si può però obiettare che anche questo è un metodo, e, come tale, va inserito in un momento della cultura italiana ed europea. Ma c e metodo e metodo. Se un metodo deve avere come obiettivo la sistematica alterazione di un artista sol perché i contenuti e lo stile di questo artista non rispondono ai canoni ideologici coi quali si crede di poter giudicare ciò che ideologico non è, tale metodo è fondamentalmente errato. Si veda a tal proposito il saggio critico del Cecchi sul Pascoli e quello di Croce sullo stesso poeta. Cecchi scopre la poesia del Pascoli, mentre Croce costretto ad essere coerente alla sua estetica o al suo metodo critico molto discutibile - non soltanto la stronca, ma proprio nei giudizi in cui pare più incline all’indulgenza, non fa che ricalcare il giudizio precedentemente espresso sul Pascoli dal Cecchi. E mentre il Croce, rimasto legato alla sua critica limitativa e, diciamolo pure, restrittiva, scrisse saggi esteticamente poco validi su Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, ilolderlin e su altri poeIti autentici, Cecchi, che non si è mai allontanato dalla originaria sapienza letteraria ereditata con amore, gusto ed equilibrio da Leopardi e dai saggisti inglesi, organizzò il suo lavoro di scrittore e di critico su idee suggerite da una cautela esemplare e da un positiva precauzione, frutto, questa, di una profonda e varia esperienza di artista, di uomo e di studioso. E si può senz’altro aggiungere che l’assenza in Cecchi di un’estetica aprioristica come quella del Croce, costituì e costituisce ancora oggi il segno di una apertura umana e spirituale verso le possibilità più valide non soltanto della letteratura, ma di tutte le arti le quali, sempre, rendono memorabile qualsiasi civiltà.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 12/6/1960

POETI DI IERI E DI OGGI Eugenio Montale Non è assolutamente possibile, nel limitato spazio di un articolo, dar rilievo e dimensione a una poesia così complessa e segreta come quella di Eugenio Montale. Mancheremmo di modestia se tentassimo di concretare in un breve saggio le qualità, gli umori, le scoperte, le inquietudini e le oscurità spontanee e volute di un poeta che in questa prima metà di secolo, ha, con pudore e controllatissima saggezza, dato alla storia della poesia italiana un suono tutto moderno e significati complessi, cadenze indimenticabili corrispondenti allo spirito non soltanto tipico del nostro popolo, ma comune alla sensibilità moderna europea. Ed è impossibile anche precisare, con riferimenti alla tradizione lirica italiana ed europea, quale sia in realtà quella sostanza, lirica ed umana, da cui Montale ha preso l’avvio per incidere con spirito decisamente libero ed artisticamente cauto il suo mondo; quei ritmi arditi e sepolti che dànno alla sua poesia chiaroscuri e barlumi improvvisi, come fossero lampi di un dramma interiore destinato a incenerirsi in un potente diario esistenziale. Nella lirica di questo poeta, che ha scavato in se stesso una materia ribollente e apparentemente alogica, c’è in realtà tutta la storia di un uomo che a un’epoca di crisi è legato soltanto da una costante delusione e da una profonda esigenza di solitudine illuminata. Dagli “Ossi di seppia” alla “Bufera” l’itinerario lirico si presenta oscillante fra la passione di un vasto discorso cosmico, ove lo spirito può naufragare e ritrovarsi dolente a misurare l’asprezza, la nudità della condizione umana e naturale, e la intima segreta esigenza di chiudere in ritmi densi una vicenda che è della memoria e dell’amore sconfitto, ma sollevata sul piano del mito. Montale colloca i suoi ideali di uomo moderno, e in esilio, su quel cielo platonico che dovrà affascinarlo, fargli udire quella musica muta che è della cenere; fargli scoprire il sommesso lamento di Petrarca che agostinianamente proietta la sua complessa passione in un canto raccolto fino al pudore e alla luce. Poi verrà la scoperta di quel pessimismo senza sistema in cui brucia, solenne e fitta di antichi singhiozzi, la lirica del Leopardi. Del Bergson, neoplotiniano sottile e pieno d’ombre, assimilerà la violenza libertaria e creatrice dell’intuizione, bruciata questa volta in un paesaggio d’immagini dolenti e misteriose. Si è parlato di Pascoli, di certa reminiscenza Gozzaniana che avrebbe accentuato in lui l’intimismo della solitudine e la sfiducia nella vita. Lo si è 233


voluto apparentare a Sbarbaro per quel comune destino che collocò innanzi allo sgomento dei due poeti liguri lo stesso paesaggio pieno di sorprese oggettive e di frantumata desolazione. Ma in realtà, Montale si nutre di ben altra sapienza poetica e di una filologia che è consona al suo mondo di uomo, scettico su tutto ciò che appartiene alla storia, ma che resta fedele, in modo nuovo, a una sorta di confessione che, pur avendo tutti i crismi del pudore e della di-screzione, si dilata in un diario potente, sconcertante per quei trapassi lirici che sono il sottofondo di ogni sua poesia. Montale crede nella bellezza che è propria della poesia contemporanea: una poesia priva di adorazioni teologiche e di incantesimi; una poesia che nasce dalla sconfitta e dalla coscienza che l’uomo ha di considerarsi come il rifugio più serio in cui si recuperano tutte le sue libertà. Il poeta moderno può insegnare senza messaggi; creare senza alcuna gioia; scavare in sé la parola per ripetersela nel più casto silenzio; credere nelle immagini, le quali salutano dal loro abisso ogni creatura che ha scoperto il male del mondo e si distanzia da Dio per cercarlo forse in modo più tragico. Coi fantasmi di Montale, perciò, si viaggia a ritroso; forse in un tempo che è della morte, ma soprattutto è dentro la vita come squallore e accidente: un tempo che si dissecca nel silenzio delle cose, e pur vibra nel male che fu rumore aspro in fondo alla natura. E il rumore sommesso scandisce gli eventi, si fa stortura in un paesaggio che nasce da una luce improvvisa e subito svanisce in un tempo ancora più buio, dove scende a far musica, a comporre suoni con cadenze umane, sì che la vita oscilla tra una desolazione pietrificata e uno sgomento metafisico colto come unico destino. La poesia sembra consistere in un abbaglio che è dello spazio deserto e delle forze contratte negli oggetti; e dove sembra che il terrore devasti ogni esistenza, là subito sorge un senso di elegia, arida per il suo essere dentro ciò che soffre per vanificarsi dentro la memoria che inventa se stessa e si fa piena di simboli segreti. In questo poeta la vocazione si dibatte dunque tra “frasi stancate” e umori improvvisi che gettano sul paesaggio il sentimento della precarietà; quella luce distante in cui le cose sono e non sono, tanto è l’antico sconforto dell’uomo; il quale altro non ha davanti a sé che il modo di narrare, come in un cupo monologo, l’interna avventura di ciò che vive. Ma il fondo misterioso di questa poesia, aspra soltanto nella sua densa e plastica apparenza, è forse da ricercarsi in un vigile e lievitante senso di distacco dalla storia: quella solitudine che è senza dubbio la dimensione più delicata nel dar rilievo a tutta l’esistenza, e soprattutto a scorgere nel mondo i segni di una sottostante distruzione e ineffabile ricreazione cosmica. Montale, infatti, affronta gli eventi e gli elementi come se dovesse collocarsi in essi e ricordarli a se stesso, seguirli e commentarli con invenzioni che sono 234


poi la ragione stessa di ciò che accade. Allora il paesaggio si dilata e soffre nei suoi particolari; cerca esso stesso le parole dure, quelle in cui si fa più vivo il silenzio e il dolore; l’asprezza o quella dimessa cadenza che rispecchia l’interno divenire di una realtà totale. La vita e la morte sono in fondo un unico male, che del poeta fanno un uomo quasi offeso, ma collocato al centro di emozioni fugaci; un universo palpitante negli angoli più impensati, dove la parola serve a denunciare l’amore e il delitto; il murmure del mare che racconta o l’ala della farfalla che, una sera, sarà “per sempre” / con le cose che chiudono in un giro / sicuro come il giorno, e la memoria / in sé le cresce, sole vive d’una / vita che dispari sotterra: insieme I coi volti familiari che oggi sperde / non più il sonno ma un’altra noia; accanto / ai muri antichi, ai lidi, alla tartana / che imbarcava / tronchi di pino a riva ad ogni mese. / Al segno del torrente che discende / ancora al mare e la sua via si scava”. È questo, forse, uno dei frammenti più alti della poesia Montaliana; e della lirica europea moderna. Lo stile è di una tale purezza e potenza che trattiene il pathos di una musica che è luce e insieme dolcissima epigrafe da mettere sulla vita, che è poi l’antico dolore della terra. Ma in Montale il pessimismo si fa quasi sempre deserto, si apparenta subito allo strazio in sordina delle cose, coesiste col silenzio di tanta materia, abbandonata a un male che la corrode, per poi farsi voce umana, cadenza dimessa e quasi discontinua nella coscienza di chi medita su ogni metamorfosi. Ecco la ragione della apparente oscurità di Montale. Se ogni esistenza è tensione interna che presto si disseccherà in una catena di fenomeni desolati e desolanti, il male della vita non può che presentarsi in modo oscuro e sotterraneo: collocato in uno spazio che brucia all’interno della realtà. E Montale è sempre preoccupato di indicare le cose perché le fa essere e le fa svanire. E su questo svanire, la memoria non può che allargare il suo orizzonte fino alla morte. Poesia dunque oscura, ma concreta: logica per quel tanto di verità misteriosa che è nella natura e nello spirito dell’uomo, ma potentemente plastica come è plastica sempre l’esistenza. In questo universo di amari distacchi e di terribili vanificazioni, l’amore è l’addio, gli affetti e gli animali, i fiori e gli uccelli, il mare e il vento s’intrecciano e scontano quasi una identica fine, ora facendosi lamento, ora presentandosi come apparizioni di una vita remota. Ma è il remoto di un tempo allucinante: ricordo misterioso di paesaggi e di volti amati e dissolti nel nulla. E davanti a questo nulla, che è poi la matrice del male conficcato in ogni esistenza, appare per l’uomo la noia. Sulla terra, l’attesa di finire si fa noia; e in questa noia l’uomo dispera e incontra se stesso fino a scoprirsi poeta. Ed è proprio nella noia che si riflette il 235


nulla che ci attende prima e poi: tutto ciò che accade è prescritto da una dissolta fatalità che accomuna e livella tutti mentre l’uomo acquista coscienza della sua discretissima solitudine. Ed alla noia subentra la mania di delirare per salvarsi da un muto naufragio. Se l’esistenza è destinata a vanificarsi, se essa è autodistruzione, resta la poesia a registrare le percezioni ditale strazio: di questo strappo del cosmo per ritornare al caos. In Montale, perciò, l’idea del caos assume la violenza della verità e della realtà. Scoprire perciò la vita è alta funzione poetica; ma la scoperta è immagine che piange e subito si dissecca: è un lampo che brucia il mondo fenomenico. Con Montale, la sostanza della lirica italiana, che è sostanza di amore e di disperazione, si fa canto dissonante in virtù delle cose che in esso sorgono ad evocare il dolore sordo della vita. La lingua cessa di essere suono illustre, e musica di solo sentimento per diventare una lingua fatta di “lettere fruste”, perché arido e triste è il paesaggio evocato o scolpito in tutta la sua plastica oggettività. E questa una lezione estrema o quasi conclusiva, dove l’alta melanconia di un Petrarca o di un Leopardi scende dal piedistallo e si fa lamento sobrio, cadenza quotidiana intorno a una realtà che brulica e si vanifica. E anche quando la evocazione della morte si fa serena, essa sale comunque da quell’abisso buio che è la coscienza moderna. Una coscienza non più eroica, non più sostenuta dalla fede, ma illuminata appena da un virile scetticismo, che dà alle cose, e soprattutto alla poesia, una misura potente, formalmente sofferta ma lontana. In questa lontananza fatta di suoni aspri e di brusii in sordina, fa luce una lirica ricca di suggestione e di nuova sofferenza. La poesia di Montale, come la lirica dei nostri poeti più amati, ci aiuta, ancora una volta, a scoprire la vita e ad avere almeno un’ultima fede nella bellezza, anche se questa bellezza sale dal pianto di tante cose nate e subito svanite.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 13/8/1950

Poesie marginali di Sandro Penna e Fuoco Bianco di Adriano Grande Nel modesto libricino, dovizioso di spazii bianchi e dove il silenzio sembra incombere come un tiranno metafisico su ogni appunto lirico, le parole di Penna tremano, sembrano quasi, accoppiate in gruppi di due o tre versi, adolescenti vestiti a nero e lasciati a sognare sulla neve. Se il motivo dominante di queste lievi annotazioni non fosse di natura eroticamente ossessiva; se l’impegno del poeta fosse stato più ricco di linfa umana e di vibrazioni spirituali, certi tremori lirici avrebbero raggiunto una consistenza emotiva più sorprendente. Il giuoco poetico si sarebbe allora arricchito di sfumature e tratti della vita altamente belli e seducenti come le tentazioni e gli abbandoni di certi amori proibiti. Ma, trattandosi di un poeta a cui è fortemente connaturata una sensibilità lineare ed enucleata intorno ad esili motivi di origine sentimentale e sensuale, non possiamo non mettere in rilievo quella melodia genuina e quasi sempre pura che certi strapPi del cuore lasciano cadere sulla pagina quali segni limpidi di una felicità durata pochi attimi. Sandro Penna è infatti il poeta predi-sposto sempre a bearsi di rari, misteriosi e fugaci istanti della vita; e di essi, quasi rapito, ne rivive, con grande economia di parole e di ritmi, le sole, gli echi, le ultime impronte, la estrema nota, quasi un tonfo, un bagliore, per poi scomparire nell’ombra: Indi rivolto il viso verso il guanciale - sorrideva a se stesso, con beato rossore. Ci troviamo davanti ad una di quelle espressioni liriche in cui l’autenticità supplisce la fantasia e l’ampiezza della composizione. Penna sa trarre dai momenti della sua biografia, dalle sue notturne tappe, trasalimenti incantati e finissime nostalgie. Frasi e immagini, lasciate a vibrare lungo le sue peregrinazioni di uomo inquieto, ci suggeriscono squarci come questo: E poi non solo. Resta - la dolce compagnia - di luminose ingenue bugie. Sono, queste, sfumature che s’illuminano in un linguaggio semplice, fatto di pause e di aderenza ai moti di una trasparente fantasia: Viene l’autunno sonnolento. Brillano - dietro i lucenti vetri due lucenti occhi. 237


Annotazione lirica, sì, ma l’immagine è poeticamente conclusa anche se frammentaria. Penna non riesce a liberarsi dai motivi messi in fondo ad ogni turbamento immaginoso ed umano. Egli si affida alla conclusione. Quel che gli interessa non è tanto l’architettura della poesia, quanto la chiusura, l’ultimo tremolio di sillabe: ciò che vive in fondo, come un addio. Viaggiava per la terra - come un giovane Iddio - colui che non aveva - amori sulla terra. La semplicità di questi versi è fine a se stessa; si riempie invece di spazio, di aria, di musica in sordina. Ma la virtù letteraria maggiormente connaturata alla sensibilità di Penna si trova in momenti di acre nostalgia e di desolato distacco. In questi istanti egli sa raggiungere la poesia più trasparente, resa calda dal tono di sincerità umana: Forse la lenta tua malinconia si perde - se nella notte ad un veloce - treno l’affidi. L’aria di canto è trattenuta, si ritrova cristallina nella vibrazione di poche sillabe sgorgate senza alcuna preoccupazione intellettualistica. Poi Penna dirà a qualcuno: Non è la timidezza che tu celi, forse un sogno - confuso degli dèi? Lungo il Tevere, egli trova l’atmosfera propizia alle sue evasioni di uomo e di poeta; in certe ore dense di freschezza notturna e di silenziosa tristezza ci dirà: Straripa nell’umida notte in silenzio - il fiume. - Addio secco vigore della mia gioventù. Sarà ancora lungo il buio di certe ore: Oh nella notte il cane - che abbaia di lontano. - Di giorno è solo il cane - che ti lecca la mano. Questo frammento conserva nella sua icastica precisione un’onda musicale sorprendente. Poi, soffermandosi ad osservare il paesaggio del fiume, il poeta sembra che mormori a se stesso:

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Lento sorridi al riflettore, attento, - amore in elemosina chiedendo. - Di me non sai. Non sai della tua eco - entro una barca vuota, ombra nell’ombra. Nei versi circola una chiarezza ricca di brividi e di riflessi; vi èmusica, tono, bellezza di attimi che sfuggono lasciando dietro i passi del poeta un ticchettio arcano e, a volte, desolatamente umano. Presso una fontana, invece, uno stato d’animo si piegherà come lo stesso getto dell’acqua: Se trasalisce - il fermo getto - della fontana, - la tramontana - curva il mio cuore - verso un ardore - già maledetto. Con questa lirica, esile e cantabile come un’ aria antica, Penna affida al bianco dell’opuscolo i suoi fugaci tremori di vagabondo e di poeta. La sua arte, nata da un bisogno di semplificazione e di musica, si conserva pura ma non poeticamente sufficiente alle complesse esigenze della vita interiore. Se in questo poeta vi sono accenti di finissimo canto che può a volte ricordarci i più genuini lirici greci, non possiamo ridurre l’invenzione poetica, che richiede una più profonda consapevolezza dell’esperienza umana e dei mezzi espressivi, a un breve delirio di espressioni che possono spesso frantumare la personalità del poeta in un pulviscolo lirico prezioso ma non poeticamente concluso. Da Penna vorremmo un maggiore impegno ed una lirica che sappia dirci, con musica più estesa e con ritmi più ampi, la tristezza del suo vagabondaggio terreno. *** Affidarsi alla memoria implica quasi sempre una sosta dell’esistenza entro se stessa, come se le ombre e gli echi lasciati lungo il tempo dovessero, ad un tratto, ravvivare, con tono felice, un’età già vissuta e bruciata in quella specie di limbo terrestre che, per virtù di inquietudine e di noia, da noi sempre più si distanzia. Non a tutti gli uomini è concesso il privilegio di ricostruirsi oltre l’ora in cui si vive o di proiettarsi come sostanza affinata in uno spazio che non vibra più, uno spazio che, se appare deserto nei primi lampi dell’evocazione, si popola via via di uno sfondo di grazia e di disperazione. E precisamente in questi versi di Adriano Grande che l’età realmente lieta, entro cui si muove la memoria adulta, si staglia come zona favolosa e illimpidisce di sé ricordi e paesaggi di una terra sommersa a poco a poco dalle stagioni, ingrate ma vissute con l’amarezza propria degli anni maturi, senza mai perdere quel tono di gentilezza musicale, che alle parole confida vigore e durata. Il paesaggio è qui ritrovato e quindi rivisto attraverso lo spessore di una pena quotidiana non del tutto accettata, ma sentita e, a volte, scontata con un senso di umiltà: quasi con un rasserenato dolore che induce il cuore umano a giudicare fatale il corso del tempo e la stessa paura di dissolversi con lo spegnersi delle 239


stagioni. In tal modo il passato, inteso come un’arcana e notturna distensione dell’anima, si riordma, si ripresenta nella sua luce incorrotta, ridiventa bagliore, atmosfera, paradiso che presto si spegnerà in quella particolare musica, propria delle cose spente, per predisporre la coscienza lirica al richiamo di se stessa. In queste poesie, perciò, se non vi è sapore di cenere: se il disegno ritmico entro cui si svolge e si matura il ricostruirsi delle immagini non si lacera in asprezze di sapore letterario, la stessa biografia si presenta come nuda sostanza lirica. Via via che il ricordo si conclude in pause sommesse, una specie di cadenza monotona si adegua alla freschezza umana delle sensazioni, lasciando libero, tra parola e parola, un motivo, remoto come le cose evocate e rimpiante. Ecco come si ricompone un’ora della adolescenza mal-certa. E lo squarcio di un mattino fattosi abbaglio e legato simbolicamente al vento più aspro: “Tramontana”. La tramontana ti porta i mattini di fanciullezza, al gelo sulle fontane, a quando, con le dita spaccate dai geloni, pulivi le vetrine del merciaio e t’incantavi a contemplar le frange delle sciarpe di seta che ad ogni colpo del tuo strofinaccio salivano dal fondo verso i vetri come fibre marine nell’acquario. In un’altra lirica “Stupore”, il dissidio tra lo stato di grazia, generato dalle percezioni più lievi e più rare, e il rumoroso orrore della vita si presenta con maggiore evidenza, fino a conferire la poeticità unicamente a certe atmosfere intraviste e dissolte con gli improvvisi stupori della innocenza spenta: Piante ch’io vidi e lievi piume d’uccelli; gocce di rugiada splendenti sopra fiori intravveduti oltre cancelli; fiati di nebbia rosa all’alba vaganti ove, stringendosi, svanisce la strada. Intanto correre pe’l mondo su rombanti ruote, soltanto questo la memoria raccolse. Questo trova l’acuto mio dolore 240


che scava e scava in fondo al tormentato cuore per darsi aiuto: solo in incorrotto, fanciullesco stupore. La lirica “Luna” sembra invece nata da un sereno indugio nella malinconia, la quale non lascia se non vaghissime immagini di sé nel cuore che mal sopporta il peso degli anni ed è avido d’incantesimi, di diafane apparizioni. Anche la noia diventa trasparente, si polverizza, respira con l’aria ritornata vergine, si fa disperato incanto sugli occhi dell’uomo, intento a scoprire liricamente il proprio destino: Quando la luna com’è lieve! Quasi traspare sull’azzurro del meriggio lavato da una pioggia. Solo questo del mondo oggi ti piace, nella vita ti riconforta. E tutto il resto è oscuro peso che grava su antiche ferite non mai rimarginate: sullo strappo da cui nascendo fosti offeso... Addio azzurro lindo, addio soffio di luna! In quasi tutte le liriche di questo poeta lo sfondo paesaggistico si regge quasi sempre in virtù di una segreta esperienza spirituale, mai disgiunta dalle cose più vive e dal senso del tempo. Si ritrova altresì, accanto alla testimonianza di una matura vita interiore, il rispetto per la natura e per certe dolorose tappe che l’uomo, anche se non sempre autenticamente poeta, sogguarda con occhi puri, trasferendole in un mondo di gradevoli e musicali segni lirici.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 20/1/1963

Marotta e le donne Le antenate (ancora vive in una drammatica e mai estinta famiglia poetica) de “Le Milanesi” (Ed. Bompiani, 1962) sono “Le Madri”, opera che Marotta scrisse, anni or sono, allorché sua madre, dai luoghi misteriosi della morte e della memoria, tornò a ricordargli che i segreti del sangue sono le sole ombre distese innanzi alla vita di ciascuno di noi e che la verità d’ogni vicenda umana s’identifica colla bellezza a patto di non tramutarsi in seducenti finzioni letterarie, ma di rivivere, nelle parole, le tragiche invenzioni del destino. In ognuna di queste “Milanesi”, fantasmi gentili che sembrano vivere sognando, ma che riescono a fare dei loro sogni una vicenda reale costretta nel dolore vivo e nelle illusioni, Marotta ha scoperto, nei momenti alti e felici della narrazione, la madre qual essa è in una società meridionale (la donna del Sud che si trapianta al Nord) e con sé trascina un cuore spalancato alle lusinghe, agli inganni, alle speranze, ai propositi di trasformare le zone banali dell’esistenza in una serie di atti poetici, di fatti quotidiani proiettati in una zona di luce dove si scoprono, stampate sul negativo del vuoto, storie intense di personaggi sconfitti o illusi di aver vinto se stessi o il mondo. In questo libro ritmicamente contratto, dove la parola acquista la vibrazione dell’anima femminile, guadagnando vigore in uno stile che ha la forza della poesia umana inventata dall’uomo, Marotta si moltiplica come in tanti specchi che, per incantesimo, non riflettano più la sua immagine esteriore, ma il fantasma sempre caldo e in lui nascosto della madre, di sua madre, sdoppiata in tanti ritratti femminili. Ritratti che parlano da un fondo luminoso, dove si riesce a individuare il punto in cui la esistenza, selezionandosi, si fa poesia e dove la poesia non può essere altro che racconto nudo, straziante, a volte estroso perché più pieghevole ai moti del cuore, in altri momenti elegia, e, quasi sempre, distaccata rievocazione. I personaggi che Marotta ci offre come dolci compagni delle nostre sere sono anche dentro di noi perché li abbiamo visti, conosciuti, amati, lasciati soli in un punto del nostro tempo umano, al paese, in famiglia, nelle case degli altri, nel mondo dove si usa ancora vivere e delirare quasi dietro gli aspetti aspri della vita. Sono personaggi che scelgono soltanto i movimenti poetici proprio perché sembrano più lontani dalla poesia. E dato che la poesia dell’esistenza si avvicina a noi attraverso la presenza fisica o metafisica della donna (quanto èpoeticamente drammatico lo sperare e il disperare della donna - fanciulla, sposa, amante, madre) Marotta ha scoperto in queste “Milanesi”, che possono 242


essere benissimo napoletane, sarde o siciliane, donne e madri di una società che conserva e rispetta certe profonde illusioni che poi vengono a farsi luce negli occhi, nei gesti, nelle parole, nella carità. Il retroterra di Marotta è quell’antichissimo delirio che è vivo e presente dove c e un uomo che organizza la sua realtà in modo estroso perché ha un vecchio dolore da nascondere o da confessare in un racconto denso di riferimenti agli attimi poetici dell’esistere. E non è forse quest’altro personaggio “Concetta”, l’amalfitana che, dopo aver dialogato con se stessa e col fantasma del suo uomo, morto, sepolto oltre il buio degli ultimi ceri smoccolati, sta delirando? Concetta si dà soltanto coraggio. Ha qualcosa che la consolerà nel tempo: “Me ne tornerò ad Amalfi, con Lorenzo, s’intende... appena e come le usanze di qui lo consentiranno. Eh, Lorenzo? Il cimitero di Amalfi è un giardino: protetto dalle rocce e intiepidito, quando il sole gli manca, da un mare lanoso. Io verrò tutti i giorni da te, col mio lavoro d’uncinetto. Amalfi ti scalderà, benedetto, con i succhi e gli umori suoi. Parleremo, finalmente”. IMarotta sa benissimo che un’amalfitana, davanti alla morte del più caro dei congiunti, dice queste e altre frasi. Le dice perché è così. La morte, al Sud, rende poeti i sopravvissuti e distrugge, d’un tratto, gli aspetti banali, volgari della vita. E il Sud parla in Marotta, più che attraverso Napoli, attraverso sua madre. È un Sud che sorge dal sangue e da una memoria solitariamente tragica: come un grumo di cose vere e sognate, in una regione dell’infanzia o della giovinezza. Poi viene il prestigio dello stile a permettere uno scavo adeguato alla forza dei ricordi e delle emozioni. I grandi scrittori, per istinto, sanno che i loro personaggi più veri si trovano in fondo alle viscere delle donne, queste creature così consapevolmente poetiche perché più degli uomini pregne del sangue che fa eterna la natura.

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Il «francesista»

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Su Mégean E VOI TIRANDO IL MIO Nella lirica di Méjean s’incontrano spesso versi che si qualificano ironici, ma che sono potentemente poetici: sembra che queste im magini sorridano con l’infinito. Il tempo e lo spazio si dissolvono in un magma lucente, in cui l’uomopoeta, familiare agli astri, avvicina, anzi porta sulla terra un senso profondo di nostalgia stellare e di naufragio confessato con humor cantante: «È semplicissimo! Sono «naufragato sulla terra «la Terra non è il mio paese «Il mio paese è a delle miglia d’anni-luce «ho dovuto fare un errore di Galassia Ma dove la parola acquista una segreta dolcezza tutta trattenuta da un rigore plastico è nella rappresentazione della donna. E la sua bellezza, più che descritta, sembra che si distenda, inventata, nella luce d’un paesaggio ricordato. Amore e giovinezza s’intrecciano nelgiuoco di una sensualità felice; e uno stupore sorgivo sembra che facciadanzare i gesti, resi teneri dalla grazia e da un disegno melodico, lineare, animato: DAIGO-MORTE lo sganciavo il suo reggiseno: il giovanile seno ne sbocciò che venne a rifugiarsi nella mia palma più dolce che la polpa d’un frutto Poi si profila una scena nella quale si sente, si odora la presenza della natura e di un rarefatto intreccio di cespugli e carne, di erbe e gioia erotica svanita. E la lasciai interamente nuda nei cespugli di un rovo Come la reggevano le erbe frementi al vento amoroso? La freschezza di questi versi accentua il tremore delle cose come se il tutto avesse un cuore all’unisono con le creature amanti. Ed è il poeta a soffiare sulle immagini la sua voce: una voce che giunge da una lontananza trepidante per 247


farsi presenza leggiadra fra gli elementi. Anche l’amore è verità che insegna a vivere e ad abitare poeticamente i giorni colmi di grazia e di tremore agreste. D’ACQUA E DI TEMPO Dopo lustri di mistificazione informale e di sterili automatismi da inferi, finalmente la certezza che la poesia è vita dell’anima in ascesa: pudore e conoscenza di un mondo che vive e vibra nella parola: personaggio e simbolo di una costante meditazione sui sentimenti autentici e sul destino terreno e celeste dell’uomo: Quando saranno appassite le parole sfiorite che la parola fiore non dirà più la freschezza alle gote il profumo d’una vita votata al sole e che viva non sarà più parola d’onda a carezzar la terra che un sorriso non potrà più esser l’incanto dell’aprile appena avrà perduto il suo potere l’amore su ogni vita vivente io verrò a resuscitare ogni cosa con un sola parola per fartene dono il poeta è colui che nomina e dà alle cose il loro esatto nome Ed è in quest’area di verità e di trasfigurazione che Méjean orchestra i suoi viaggi nel “tempo chiaro” e nella dimensione della morte. Ne sgorga una poesia solare che ci lava dalle sozzure di un soggiomo E precario. Ed è in questi versi che scattano zampilli di un’acqua antica, dove la musica è il segno più evidente d’ogni terrena evocazione, Méjean intreccia all’elegia la musica potente, in alto sollevata, per meglio ordinare significati e toni in un intreccio lirico da sinfonia. E ogni verso, in questo che è senz’altro un canto, si distende con equilibrio, con timbri e vibrazioni di una freschezza assoluta: «Il lago nascosto fra le alte rocce il piccolo lago perduto aveva un’acqua sì pura m? che ci avrebbe condotti 1 e per un sentiero di cielo 248


verso un tempo che avremmo potuto vivere sulla terra» Questo poeta meridiano e solitario conosce i segreti e le malie delle cose che, dopo il caos, nomina con il loro «esatto nome». In tal modo la poesia si riscatta dalla provocata, voluta decadenza, per mi recuperare «la vita vivente»: quella vecchia luce in cui fanno naufragio le verità di sempre. Mistero e pazienza umana si allineano in questa lirica stupenda, dove i simboli hanno il suono dell’etermtà che si fa incanto e amore sopra una terra messa in allarme da ciò che è e da ciò che sarà nelle molteplici metamorfosi della durata e, ancor più, fra gli spazi siderali, con un peso lieve di anni luce e il costante miracolo di un’acqua, di un lago che in sé conserva segreti e trapassi da un’era all’altra: come se si trattasse di una dilatazione dell’esistenza nella bellezza: «Ma quell’istante d’eternità vissuta nell’acqua del lago ignorato sarebbe rimasto lui fuori dal tempo così piegato sull’acqua pura io non li avevo d’un tratto visti i miei occhi che si vedevano vederti?» E s’alza, sulle macerie della vita e della morte, la tenera speranza di sopravvivere, onde rivedersi, per virtù d’amore, «nell’aurora nuova», anche se questa aurora spunterà «ai limiti della Galassia». Ma tale miracolo è possibile soltanto se, filtrati fino allo strazio i sentimenti di un tempo, il verbo ritorna alla sua origine ontologica. È qui che s’alza di nuovo il poeta su se stesso per darsi la legge e la favella, idonea, appena è in armonia con la memoria, a stabilire un rapporto tra il tempo consumato e il tempo da riempire di vita «sotto un sole sconosciuto»: «Se noi non speriamo in nient’altro noi speriamo nel Tempo Noi aspetteremo per rivederci Nuovi noi due nelI’aurora nuova anche se da qui è lontanissimo dalla nostra Terra dolce e calda anche se è per un sol giorno ai limiti delle Galassie a delle migliaia d’anni luce 249


e sotto un sole sconosciuto Sì! noi l’avremo l’eterna pazienza per attenderci nel Tempo» L’ALBERO GUERCIO Tutta la poesia di Méjean si struttura sopra e in una favella in- cantatrice per i suoi movimenti lieti e le sue invenzioni inaspettate. Nulla di astruso, di arbitrario, di gratuito: ogni parola, ogni imma- . gine, ogni cosa, sono collocate, senza alcuna stravaganza, in un luo- go lirico fatto di nuovissimi rapporti semantici, fonetici, prosodici. Infatti: «Presso l’albergo un’acqua morta dove putrefece un avanzo di giorno» Ma dove la capacità critica o riflessiva del poeta si dilata con I rigore è nel: IL VENDITORE AMBULANTE «Dei miei abissi chi ne vuole? Ve li lascerei per quasi nulla Poiché non resterò non più d’una mezza giornata su questa piazza!» Sono versi pieni di una calma disperazione e di uno scetticismo che non tradisce mai la poesia. Qui affiora l’ironia di Méjean. Un’i- ronia conquistata in tanti anni di meditazione e di pazienza creativa. In questo mondo tutto si può vendere, finanche gli abissi. Un altro esempio di cinetica lirica si scopre nella poesia: SETE «A Sète le navi passano tra le case e vanno a gettare l’ancora in città» Il paesaggio è quasi da fiaba. Le immagini vivono nel moto e danno movimento alla stessa vita. Vi è in questi versi una felice narrazione che si conclude come in un quadro fiammingo. La lezione di Apollinaire è stata bene assimilata: quella simultaneità delle cose nello spazio e quella contemporaneità cantata dalla strada:

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«Ai loro alberi i padiglioni e gli orifiamme sono la canzone che canta la strada» PERCHE? A Méjean non sfugge nessun evento: ogni fenomeno, terribile o idilliaco, è oggetto e soggetto di poesia. E non poteva sfuggire dalla sua attenzione ad alto livello meditativo la stessa guerra. Ogni vero poeta resta ferito dalla disarmonia, dalla disumanità, dall’orrore. Il poeta difende l’Essere ed è, da sempre, l’apologeta dell’amore. Il poeta nasce da sempre cristiano ed è il nemico proprio di ogni istinto belluino. La sua guerra è il silenzio; le sue bombe sono di luce; i suoi proiettili sono fiori; le sue bombe scoppiano ad ogni squillo di gallo o lamento di donna amata. Ecco le ragioni del suo «Perché» Lungo il mare mormorante ma con Alle spiagge dell’eternità «Perché In uno strazio di motori folli In una furia d’eliche In un fracasso di terremoto In una esplosione schiacciante D’acciaio di Napaln di fiamme Hanno essi cancellata dal mondo La nostra notte?» Le guerre sono assolutamente idiote e assurde, ma di un assurdo che disonora l’uomo. La bestialità, dunque, trionfa perché cancella dal mondo la notte dei poeti, per sempre. Chi ci ridarà la calma dell’universo in cui gli astri sono i fratelli di ogni umana contemplazione poetica? Soltanto la poesia non uccide, e non sarà mai strazio, fracasso, terremoto, perché la vita è sacra e vuole la sua razione di silenzio, di dolore, di bellezza, perché l’uomo continui a sperare e il poeta ad accrescere le ombre e le luci della terra. TUTTO È MASCHERA ln ogni poesia di questo poeta confluiscono oscurità abissali e chiarissime conoscenze di luoghi e di cose. Chi è nell’Essere e in esso scava per cercarsi e conoscersi fino alle più tenui sfumature dell’esistere un giorno del suo itinerario umano e poetico scoprirà che «Tutto è maschera»:

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L’albero è una maschera lo me ne servo Per vegliare La brezza è una maschera lo me ne servo Per carezzare La notte è una maschera lo me ne servo Per amare Si tratta di una maschera che si presenta sulla scena della terra e del cosmo. La commedia non è soltanto degli uomini ma dello stesso infini- to, in cui soltanto il poeta ha diritto al suo felice naufragio La pioggia è una maschera Io me ne servo Per gioire L’acqua è una maschera · lo me ne servo Per fuggire Un giorno scopriremo che gli eventi e le cose sono se stesse e il loro contrario, o addirittura l’essenza di una terza realtà che soltanto il poeta recupera, come se si trattasse di frammenti celesti caduti ancora infuocati tra le mani del poeta, E in ogni istante il poeta si maschera con un elemento della natura: ll vento è una maschera lo me ne servo Per dimenticare La fiamma è una maschera lo me ne servo Per conoscere Si maschera per arricchirsi e arricchirci dal profondo. Magnifica occasione l’esistenza: ci si può mascherare fino alla morte, che è poi l’ultima maschera. Ma quel che resta di essenziale al poeta è di scoprire che: Il verbo e una maschera lo me ne servo Per essere 252


LA PIETRA Soltanto il poeta penetra le cose e ne rivive l’apparente o il nascosto mistero. Nulla di più patetico del silenzio delle cose che sembrano inanimate. Nulla di più tragico d’una pietra. È il nostro essere futuro. La nostra ombra solida. Senza vita, è là, davanti agli occhi, vecchia come il dolore dell’uomo e del mondo: «C’è Nel cuore della pietra Una passione Che dorme» È vero, «nel cuore della pietra c’è una passione che dorme». Non si risveglierà mai. E questo ci affascina perché è la barriera del mistero «Una passione fossilizzata Dall’origine dell’uomo E che nulla Né creatura Né formula magica Né lacrima Risveglierà» Ma la pietra ha vissuto per millenni con l’uomo. Noi non sappiamo nulla di lei. L’ignoriamo e c’ignora. È un po’ l’immagine del nostro stato di quiete: forse è la stessa morte che si presenta come frammento. Ma il poeta che riesce a penetrare nel cuore della pietra scopre che essa ha un cuore: un cuore che, pur non battendo da tempo immemorabile, vuol vivere «E pertanto C’è Nel cuore della pietra Qualcosa di muto Di morto Che vuol vivere» Arrivare a costruire delle vibrazioni altamente poetiche sulla pietra significa usare la poesia come opera di ascesi accorata. Méjean, da poeta autentico e geniale, ha vissuto, in un attimo, questo antico se- greto di un oggetto muto. Siamo oltre la dimensione tolemaica. L’universo è policentrico e la poesia s’appressa ad inaugurare l’era di una logica a più dimensioni umane. Dove invece 253


un ritmo di danza, da Pastorale di Beethoven, si alterna a una cadenza lieve di suoni sommessi è in «CANTADISSO» Già il titolo: CANTATE DEI SENTIERI E DELLE CONTRADE DI MAGGIO sveglia i ricordi di antiche feste, di riti agresti ricuperati da un’imma- ginazione poetica di alta qualità tutta protesa a distillare nella parola la vecchia gioia della terra, di una Provenza calda e cristallina insieme: «Per uscire poco a poco dal sogno tu non hai che seguire il gaio cigolìo d’un telaio che ronza meglio d’un’ape contro il vetro» Una musica nuova che ha le radici nel ricordo e nell’amore. E qui il poeta anima dall’intemo il paesaggio che viene, più che descritto, narrato, animato fin nelle più tenui sfumature: «Guarda! i giovani gesti degli alberi che la brezza de l’alba allunga con i suoi fremiti» Tutto vibra e s’inventa in movenze da cui si sprigiona grazia e allegrezza e quella segreta magia che conferisce bellezza: «Il quadro della finestra ingabbia una fontana canora» Così, l’altalena tra la luce e l’ombra, dimensioni nelle quali Méjean colloca le sue immagini, resta sempre aderente, in modo esem- plare, allo spettacolo suscitato dal racconto: «Come annegati Noi precipitiamo insieme nei bassifondi dell’ombra» Poesia che s’ingemma in cristalli e in luoghi della memoria, recuperata 254


simultaneamente al movimento di un presente di pura struttura ontologica. In questo clima di pureua georgica, dove gli steli dei fiori e delle erbe vengono resi frementi dalla bontà eterna del luogo, si dilata il senso della festa; ma si tratta di una festa che è della terra e del cosmo, fino a coinvolgere Dio in un tripudio di luci: «Ma per festeggiarti il cielo subito ci offre la sua coppa fresca il suo vino di Dio I tutto frizzante di stelle» E qui l’intreccio lirico si trasñgura con stupendi simboli di un’arte tutta nuova. La stessa gioia s’intema nelle cose e canta: «Alla locanda dove noi sostiamo il pesce rosso nel suo boccale inventa e disfa per te i suoi mappamondi» Poi scoppia l’allegria; ed ogni evento è toccato da una comune musica, da un intreccio di gesti che sono gesti d’amore: «La fisarmonica che un musicista appoggia sulle ginocchia tende il collo per leccarti il viso» Tutto il creato è per questo Poeta un motivo lirico che gli permette di ritrovare l’originario, quell’Uno che tiene in armonia le cose: come se un afflato fraterno fosse dentro il tutto: «Sulla punta delle stelle che la notte carda la sua lana» In queste «cantate» c’è il libero viaggio dell’anima attraverso i lumi altissimi delle stelle fino alle opacità della pesanteua: eterno moto dalla luce all’ombra: «O che un primo raggio scioglie nuovamente la matassa dell’ombra» E, dai grumi dell’ombra che il giomo discioglie, si passa a udire il suono dell’aurora: un suono che gli antichi custodi del mattutino, i galli, seminano per 255


l’universo. Tornando ad esaminare i segni potenti di una poesia tragica ed ironica che serpeggia nell’«Almanacco strappato» si scopre che Méjean accetta e condanna la storia degli uomini. In questa poesia, che a volte raggiunge il terribile: «BlAFRA» si rappresenta un esempio modello. Eraclito torna a riascoltarsi in questa fiaba allucinante e vera: «Non sono che dei fanciulli che giuocano a fare delle scimmiotterie alla faccia della propria ·vita» È la «storia delle vittime» direbbe Simone Weil, la mente cristiana più alta di questo nostro secolo di assassini e di belve: «Per riportare il concorso delle smorfie» È vero! in questa nostra epoca di atrocità senza soluzioni, la guerra è come un’epidemia che elimina e nulla insegna: «Per schernire l’infelicità d’essere nati al tempo in cui i padri sono assassinati» Nulla sfugge al destino che sbrana le esistenze su qualsiasi latitudine. Cosi la guerra o il genocidio diventa un giuoco, ma un giuoco che è soltanto massacro: «vestendosi ognuno della sua piccola pelle nera» L’Africa dell’infanzia scimmiotta la morte raffinata insegnata dai «buoni giganti bianchi» assetati soltanto di sangue: «E giuocando nel mezzo del cerchio dei buoni giganti bianchi a non esserer che un gentile scheletro che cammina» 256


E il giuoco, in verità, è danza macabra in un punto in cui la pietà è totalmente assente e Parte della vita si riduce a un «gentile scheletro che cammina». Attento a leggere nel mistero che s’insinua negli eventi, Méjean usa un’ottica lirica di primissimo piano. Egli qui si apparenta, senza che ci sia alcuna influenza, con Superville: «IL SENTIERO» rappresenta uno scorcio di questa esplorazione che culmina in una sorta di sbigottimento: «Di memoria ancestrale un solo uomo è pervenuto tino alla sommità». È come un brevissimo racconto in cui il personaggio è come un’ombra ignota: «Ma a prima vista un uomo come gli altri un uomo come voi e me che non conosceva nessuno al villaggio e che giammai qualcuno considerò» Potrebbe trattarsi dello stesso poeta o di uno di quei luminosi vagabondi curatori della sola bellezza. In «TUTTO È NEI LIBRI» Méjean scopre la quasi vanità della cultura soffocatrice della verità. Una cultura che dissecca la vita e dimentica di scoprire l’Essere. Infatti: «Tutto è nei libri – meno quel gusto di felicità dinanzi all’esaltazione dorata di quest’alba mai vista cosi prima d’oggi» Soltanto la poesia, anzi unicamente il poeta, può scrivere e può vivere parole e creato unitamente alle sue abissali amozioni. Soltanto il poeta registra con gentilezza che: «Tutto è nei libri – meno la risposta a tanti “perché?” dinanzi all’orrore di questa vita che gode nel divorare 257


se stessa» Verità e bellezza in alto, e, in basso, «questa vita che gode nel divorare se stessa». Méjean si colloca sempre sul giusto osservatorio e, con distaccata capacità meditativa, popola il suo e il nostro mistero, d’immagini vissute e dolorose. Il problema di Dio non poteva essere trascurato da questo poeta, il quale, come ho già dimostrato, recupera, in un tempo di sciocche diavolerie, il Sacro. In «CIO CHE DICEVA IL MISCREDENTE» c’è la rappresentazione di un Dio che, pur non essendo negato, è presentato come un Dio «sordo e muto»: «Dio chiuso nel suo desiderio di vivere è sordo e muto» È il dilemma perenne tra la immanenza e la trascendenza. Il miscredente incalza con questo inciso: «Dio occupato ‘ a godere delle sue vite innumerevoli» Siamo a una distanza abissale fra l’uomo e questo Dio intento: «a incalzare i suoi miliardi di prede o a fuggire smarrito dinanzi ai suoi miliardi di gole che la fame fa impazzire è spietato» Problema sottile di Teologia negativa, anzi distruttiva. Il miseredente è un uomo e, come tale, è convinto che: «Occorre che l’uomo 1’aiuti a preferire la vita dello spirito e gl’insegni infine la Sua morale» Ma la morale dell’uomo è queHa vera? Forse il miscredente commette un errore di prospettiva. Può mai l’uomo, distruttore caparbio della propria 258


esistenza, essere capace di dire: «Tale è il nostro compito! Aiutare Dio a rivelarsi noi ci riveleremo all’istante a noi stessi» L’esistente è orgoglio e confusione. L’Essere non può essere spietato se è vero che da lui emana la potenza e l’amore. «E può anche darsi — chi sa col tempo? — che tutto ciò che noi avremo fatto per lui egli lo faccia per noi al centuplo» Il problema va ribaltato. Soltanto chi ama Dio può scoprirsi, un giorno, illuminato. Questa è la Grazia. LA PALUDE Ogni autentico poeta sceglie le percezioni più segrete per renderle rare agli occhi; ma qui si tratta degli occhi interiori, gli occhi che l’anima accende per sé, per la sua eternità sulla terra o altrove. E così giunge da una distanza abissale quella trasfigurazione in cui si coglie simultaneamente la realtà e l’irreale: un magma che abbaglia e induce il poeta a precisare: «Quello d’un grillo sotto la pietra ñssa una frontiera alla notte» Qui si tratta di un rimescolamento di emozioni che, fissate dalla poesia nel verbo, modificano la vita «È la tua notte ed è la mia questo spazio della paura di cui l’orribile pantano si stende dal nostro animo al suolo» Il paesaggio è quello della notte; la paura fa da sfondo e incalza fino a farsi visione. È la palude simbolo: la palude matrice di sogni e d’incubi: 259


«Con le sue canne la sua acqua . senza murmure con il suo fango dove si agitano verrni e larve i ma da dove può sgorgare un canto» Ma pur tuffato in questo inferno, compresso in una visione, il poeta ascolta; può ancora udire il fruscio d’una parola. E qui ritorna la fede nella poesia. Terrore e liberazione. Méjean conosce i legami tra l’Essere e l’apparenza: strazio della paura. Ma la parola salva perché è voce dell’Essere: riflesso dell’Uno: «Se si anima qualche parola anche recata dal vento» Nella poesia: «QUESTI PICCOLI, PERO» si può senz’altro scoprire come, in questo poeta, la dimensione tragica della vita conserva un lampo d’ironia; ma d’un’ironia che ci lascia pensosi: «Quando quel crepi-la-fame di pellicano per donare il cibo a suoi piccoli con un orribile colpo di becco si fece Kara-kiri “Bé, gridarono i piccoli facendo il labbrone “della trippa! “ancora della trippa!”» Nella creazione accade di tutto: può scoprirsi finanche una terribile confusione tra la vita e la mo1·te: l’amore e l’indifferenza. È l’allegra immagine di una terribile contraddizione, viva nelle radici. Cosi la poesia ci aiuta a guardare a fondo: a scoprire i luoghi inaccessibili del destino, del caso, della misericordia, del vuoto e del pieno: della pesantezza e della Grazia. Ognuno di noi è sulla scena. Si esiste. Ci si agita. Si lotta. Si brucia, ma: «Dietro la facciata del suo castelletto un uomo presta vita e voce alle, sue marionette»

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Tutte marionette! Così l’esistenza è un giuoco di fili, un attendere che qualcuno dia vita e voce a noi che ci muoviamo sopra una scena aperta. E così: «Un uomo al quale uno sconosciuto in silenzio tira i fili» Si può andare fino all’infinito alla ricerca di quello sconosciuto che tira i fili. Una catena che darebbe le vertigini. Per chi ama Dio, è facile individuare 1o sconosciuto. Anassimandro parlò per primo di un dio nascosto. E, in verità, Dio è sconosciuto per chi ama farsi tirare i fili; egli è nascosto per chi non·vuol cercare. E così l’esistere resta uno stare definitivamente fuori da Dio. Ma chi ha ricevuto la rivelazione dell’Essere ed «abita poeticamente questo mondo» non ha più ragione di continuare a restare un esistente distante, lontanis- simo da quell’Essere che, pur sconosciuto, si è rivelato nella poesia. Da Parmenide passiamo a Platone: siamo sempre tra l’apparenza e l’Essere. Méjean conosce bene la lezione dei greci in quanto ha radici provenzali. E i poeti provenzali sembrano o sono certamente gli eredi o i continuatori del pensiero greco. Un pensiero che non ammette equivoci: o la verità o l’opinare fino all’infinito, fino alla pazzia: «Quando il prigioniero uscì dalla sua caverna ove non poteva che interpretare le ombre» La meditazione si svolge come un racconto tutto tondo, a scorcio tra l’ombra e la luce. È come un lento risveglio: «Riconobbe nel grande giorno che tutto quello ch’egli aveva potuto pensare supporre indovinare nei suoi ragionamenti più ricercati ‘ nei suoi pensieri più fini nei suoi discorsi più sottili non era al cospetto d’un raggio di sole ‘ Che fumo vano»

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È la prima volta nella storia della poesia che una visione poetica si colma, anzi aderisce ad una concezione filosofica di altissimo livello: «sFino al momento in cui venuta la notte sotto la cupola ghiacciata delle stelle seppe ch’egli aveva soltanto scambiato caverna per grotta» Ma quel che più conta in questa poesia è l’epilogo . ll prigioniero ha infatti scambiato caverna per grotta; e non è un errore di scart sa importanza. Molti contemporanei, senza che siano consapevoli dr ciò che accade dentro, allegramente, con estro quasi rivoluzionario — i surrealisti, per esempio — scambiano caverna per grotta. La presenza dei motivi poetici che Méjean fruga quasi con os- sessione: come volesse arricchirsi delle sostanze più segrete: l’essenza del nostro vivere alla luce è qui: «SE ANCORA NON VI FOSSE...» «Sì! ma nello stesso tempo quanti altri in me — intrusi? antenati? — si battono per intravvedere» Un poeta che sconcerta: si ricerca dentro ed è in questa oscura profondità dell’esistere che si bruciano le più vuote asserzioni di una cultura che, dallo sciocco positivismo, è passata alla pratica di un delirante quanto criminale materialismo. Ma: «Un giorno una poesia perfetta renderà forse tutte le altre inutili esaurirà tutte le trovate possibili abolirà ogni parola vivente e nella sua perfezione insopportabile concluderà la nostra storia e il tempo» Con la poesia perfetta si chiude il ciclo umano; la poesia «concluderà la nostra storia e il tempo». Come può essere altrimenti? Dalla sua altezza, che è umiltà di uomo e di creatore, il poeta, esiliato su questa terra, si augura questa «perfezione insopportabile». Può trattarsi di una profezia come di una profonda 262


lacerazione dell’Essere. E, malgrado questa segreta disperazione, il poeta torna a contemplare gli eventi di sempre. Si chiamano l’alba e la sera: la pura giornata umana che si distende, come tovaglia di luce lungo l’infinito, lo attrae nella sua orbita. Fatalità? Méjean sa semplicemente che la poesia è un messaggio etico ed estetico: un ritorno felice alla «vita che vive se stessa»: «quando la notte decolla come un areostato pure il mattino si offre come una bolla di latte freddo» Freschezza del mattino che inizia per infiammare il volto dell’uomo e riconduce il suo animo alla speranza, alla sua «SERA»: Così: «Questo vecchio piano tu sai ch’esso accoglie le nostre tristezze in qucsta camera ove l’ombra» Si ritorna a perlustrare il mistero che s’insinua tra la vita e la morte: «E il piano come una roccia nell’ombra dove rifioriscono le onde in spruzzi di schiuma tintinnante» Anche il poeta è «come una roccia nell’ombra» perché obbedisce, infallibile, alla sua legge: «Ma ora in questa camera per liberare i nostri ricordi da una minaccia di notte non c’è più che la tua musica spenta» Siamo nel pieno di una mortale elegia esplosa sull’amore, questa «spenta musica» che ci conduce al silenzio. E che altro può darci il silenzio se non è un invito a una gioiosa morte? E René Méjean, poeta delle cose che sempre si muovono in archi di danza, e sempre ritornano al loro posto naturale ed arcano, sa che l’antico «canto del gallo» è qui, sulla terra, a destarci dal sonno, a pulirci: «Fino all’ora in cui il canto del gallo le farà sparire zampillando con un raggio di sole 263


all’orlo delle ñnestre» Gentile pigolio di note e di squilli che sono le tracce incancellabili del tempo. E in questo luogo di dolore e di rimpianto, torna, da un abisso che il poeta ha già esplorato, la luce. E con la luce torna la vita, non più disperazione, ma limpida creazione in un susseguirsi d’immagini veramente libere. Il poeta si riscatta sempre e ardisce ascol- tarsi anche quando ]’universo lo impaura. Tragedia ed ironia intrec- ciano l’umano gioco di rifare il mondo, a immagine e somiglianza di Dio. E Méjean, questo Trovatore del XX secolo, accende sull’uo- mo la sua lievitante accorata elegia: un che di mesto e di gioioso che la sua Provenza, come sempre fa il sole, irradia sulla nostra impauri- ta esistenza di esiliati a vita. (inedito)

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da «LA FIERA LETTERARIA», 29/ 10/ 1961.

Ricordi parigini VALÉRY SU MALLARMÉ Quando uscii dalla metropolitana, mi soffermai ad osservare uno di quei vecchi straccioni parigini che festeggiano le domeniche ubria- candosi. Brandiva una bottiglia vuota e, tra frasi sconnesse, decla- mava versi di grandi poeti. Era una domenica di agosto del 1939 e la città, nel sole desolato, era spopolata. Si sprigionava dall’afa un «senso di deserto. Tutti guardavano un po’ storditi dal caldo ein una quasi ebete curiosità, l’ubriaco che gesticolava; poi ognuno, abboz- zando una smorfia indefinibile, riprendeva il suo cammino. lo proseguii per Via de Ville—Juste, verso la casa di Valéry. Nel modesto e raccolto appartamento egli mi accolse con affa- bilità, ma tuttavia sorvegliato. Mi fece accomodare nel suo studio; era arredato di un mobilio semplice, ma levigato. C’era un odore di pulito; un senso geometrico dominava in quell’ordine. Una statua d’alabastro ——— credo l’Ebe — dall’alto di un armadio di mogano, ve- gliava sulla penombra dove il riposo fermo dell’antico si associava, con grazia, allo sfavillio di un tappeto vivace, rosso, mi pare, disteso sul pavimento. Una luce si diffuse in quel silenzio da una lampada sepolta in un abatjour di pergamena color d’oro. Mi parlò subito in lingua italiana — sua madre era genovese — e in tal modo mi impedì che lo ringraziassi della sua cortesia in un francese che avrebbe forse offeso il suo finissimo orecchio. Il rapporto si era fatto sensibilmente più cordiale; ero riuscito a riavvici- nare al poeta il critico e poeta Jean Royère — già da tempo appartato e rimasto indifferente ai successi dell’amico più fortunato —. Tra Va- léry e Royère c’era stata l’ombra di Mallarmé ed una vivace contesa per quella ch’essi chiamavano l’eredità del grande scomparso. Il Royère aveva rivelato alla Francia e all’Europa nella sua precisa esegesi l’arte di Mallarmé, molto tempo prima dello stesso Thibaudet e quasi simultaneamente all’esigua ma efficacissima scoperta fatta da Valéry. Parlando infatti dei meriti di Royère, fu proprio Valéry a giudicare con spontanea obiettività la funzione e l’influenza dei saggi del vecchio critico sulla lirica contemporanea. «Royère, soggiunse, poteva essere ormai considerato il padre dell’Ermetismo moderno, avendo ricavato, dalla poesia e dalla poetica di Mallarmé, tutti gli elementi estetici essenziali all’Ermetismo». Mi accorsi che Valéry m’impediva, con molto garbo, di fare allusione a lui e alla sua poesia, non solo per pudore ma per evitare altresì dei punti nevralgici. 265


Capì, in fondo, che dalla conversazione piuttosto generica e a cenni sulla poesia italiana contemporanea, saremmo tornati all’argomento da lui preferito con quel suo trattenuto entusiasmo. Ritorno infatti sulle sue labbra, leggermente sensuali, il nome di Mallarmé. Gli chiesi: «A me sembra che senza l’Après Midi d’un Faune e l’Erodiade la poesia contemporanea sarebbe stata diversa. E com- presi nella poesia contemporanea proprio quell’ossessione lirica che · si era imposta, come un imperativo insopprimibile, alla sua poeti- ca». Dissi queste parole certo per costringerlo a qualche confessione e ad una più precisa dichiarazione. Nuovamente i suoi occhi di nume tutelare della poesia francese luccicarono appoggiati alle borse delle orbite in un impasto preciso di rughe che gli scendevano dalla fronte per irrigarsi sul volto fino agli angoli della bocca. Con la mano scar- na si toccò i baffi a triangolo, candidi sotto il naso; e il volto si fece più umano. Con quel tono grave, il poeta che in altra occasione de- clamò il frammento del suo Narciso, mi parlò delle sere passate in casa di Mallarmé. «La mia giovinezza fu allietata dal suo incantesimo!» disse. «Da Mallarmé ho imparato molto; egli solo m’indicò la via dif- ficile che conduce alla poesia. Vi meraviglia forse sapereiche a Mal- larme non interessava affatto l’elemento umano? Nella sua arte, altamente lirica, si procedeva da una specie di brusio cupo che albeg- giava nelle parole e finiva, per via magica, nel riposare in un silenzio assoluto. Egli cercava gli accordi estremi della nostra lingua. E ci si mise con sapienza e con candore raro! Fu un architetto del sensibile e dell’intelligibile. La sua tecnica non conosceva nessun battito di emo- tività immediata; egli, angosciosamente, lavorava con lo squallore delle idee, avendo a disposizione i rapporti lirici più selezionati. Era un asceta del linguaggio; un mistico della lirica senza aggettivo. In tal modo gli fu permesso creare una poesia difficile. In lui, credo, l’intelletto era riuscito a sostituire, ad assorbire la sensibilità fino a raggiungere l’incanto fermo in cui le cose partecipano all’estasi. Quale attenzione per la grazia di un suono, di una pausa. La musica del verso se la creò nella meditazione delle sue notti amare. E riuscì a trasmettere alla poesia la sua stessa solitudine, che ai facili critici sem- brò indizio di decadenza. Nessuno meglio di Mallarmé comprese la pena intellettuale del suo tempo». «Egli era talmente convinto di essere uno dei rari custodi della poesia che portò questa certezza fino nel suo sepolcro. Anche la sua morte resta un fatto altamente poetico». «In realtà, attraverso Mallarmé — diceva Valery — io scoprii me stesso: anche perché fra me e lui già nasceva un’affi11ità di gusto, e quella filiazione sotterranea che ci aiutò nella ricerca di una poesia assoluta. Alcuni critici contemporanei sono stati ingiusti verso que- sta qualità di Mallarmé. Qualità che gli veniva certamente dai mistici e da Plotino, da lui adorato con tanta 266


segreta sapienza. Amavo in lui proprio quella Partecipazione minuziosa dell’intelligenza al fatto poetico. Era un idealista del momento felice, e in lui, nella sua poe-— sia, c’è questa speranza che si pietrifica nel verso, rimanendo come il motivo della sua poetica, mai assente, mai disgiunta dalla poesia. Tutta questa ostinatezza per il meraviglioso incise profondamente sui miei venti anni. E pensai che se Mallarmé non fosse esistito, io l’avrei dovuto inventare, talmente me lo sentivo presente nello spirito. Egli era ormai oggetto del mio viaggio poetico attraverso la vita». Mentre Valéry parlava con una voce che a volte pareva assumere i toni dell’enfasi, mi convincevo sempre più che la Giovane Parca era nata dal grembo incestuoso di Erodiade. Il motivo antico di un unico sogno fatto da due figli dello stesso tempo.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 9/4/1961

LA PERSONA E IL DESTINO Meditazioni di Simone Weil Raramente ci accade di scoprire come le accensioni mentali provocate in noi da uno scrittore sono non solo di natura eccezionale, ma destinate a sconvolgere, cogli anni, la direzione del nostro spirito. Si tratta, ben inteso, di scrittori sapienti, sospesi, con un sesto senso, tra i segreti della vita umana e le verità abissali che ci rimandano a Dio. Essi, infatti, più che affidarsi al prestigio della parola, i incarnano il pensiero; e, durante la loro umile esistenza, si rassegnano soltanto a trasmetterci la sola verità. Simone Weil appartiene a questa famiglia di anime. Più che sfiorare la terra e la sua storia, essa sembra salire dalle profondità della vita e inserirsi, con pudore e discrezione, nell’ordine delle nostre idee, per illuminarle in un modo che sembra quasi definitivo. La storia di questa creatura rara, è una storia di muto dolore e di saggezza nascosta in esperienze terribili, fatte in un mondo terribile come il nostro. Il paesaggio umano che si presentò alla meditazione di questa figlia luminosa del nostro secolo fu ed è ancora un paesaggio di tragiche contraddizioni, di sfaldamento morale, di predicazioni assurde, di lotte nel buio, di stragi, di insanabili inquietudini, di oltraggio sistematico alla verità e di odio verso gli uomini. Occorreva perciò la presenza di uno spirito calato nel cuore dal reale con la sola ansia di dirci semplicemente come stanno le cose e le idee. E Simone Weil fu questo spirito: forza del vecchio ordine mentale messa a disposizione del nostro tempo, ma soprattutto innanzi alla nostra disordinata angoscia di vivi. Sentiamola: «Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e quello solo. Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli scienziati hanno cosi stra namente usurpato il posto dei sacerdoti, il pubblico riconosce, con una compiacenza che non ha alcun fondamento nella ragione, che le facoltà artistiche e scientifiche sono sacre... Questo, generalmen- te, è considerato evidente, sebbene sia ben lungi dall’esserlo». È un pensiero che tende a qualificare, in un modo tutto segreto, l’assenza stessa del sacro. La Weil, attraverso il recupero di una sapienza anti- chissima, riesce a dimostrarci due piani distinti: il valore della perso- na come singolarità espansiva, a volte contraddittoria e velleitaria, e il valore di un mondo, perfetto in sé. Si tratta di una realtà eterna che armonicamente racchiude, come simbolo, l’anonimo, cioè il sa- cro. Ma si tratta, ben inteso, di una impersonalità che scende sulla terra attraverso l’uomo. Il sacro si 268


incarna e si rivela come bellezza e verità. Una bellezza e una verità che servono a svegliarci il ricordo della perfezione e ci suggeriscono l’idea che, al di là e al di sopra de- gli uomini, esiste platonicamente una sfera di enti impersonali. Seguiamo la Weil nell’atto di cogliere tali valori: «Il canto gregoriano, le chiese romaniche, l’Iliade, la invenzione della geometria, non sono state, nelle persone attraverso le quali queste cose sono pas- sate per giungere tino a noi, occasioni di espandersi. La scienza, Parte, la letteratura, la filosofia, che sono forme del libero espandersi della persona, costituiscono un dominio in cui si possono raggiungere esi- ti clamorosi, gloriosi, che fanno vivere certi nomi durante migliaia di anni. Ma al di sopra di tale dominio, molto al di sopra, separato da esso da un abisso, ve n’è un altro: ove sono situate le cose di primissimo ordine. Quelle cose sono essenzialmente anonime. È un caso se il nome di quelli si è conservato o perduto: anche se si è conservato, essi sono entrati ne1l’anonimato. La loro persona è scomparsa. La verità e la bellezza abitano questo dominio delle cose im- I personali ed anonime. E questo dominio è sacro». Sono idee che gettano una luce nuova sulla interiorità dell’uomo. Se il sacro è anonimo, impersonale, ciò vuol dire che la stessa persona è un transito, un centro di confluenza tra il sacro e il profano della mondanità. Qui la critica è decisamente rivolta contro le forme di un umanismo assoluto e, soprattutto, contro la storia che tende ad affermare l’anonimato mondano e non quello delle pure idee, separate da noi da un abisso. La Weil si preoccupa essenzialmente di affermare che là dove si rivela perfezione, la persona scompare: dove invece è presente l’errore, esiste il marchio della persona, la quale porta in sé una originaria contraddittorietà. Infatti «se un ragazzo fa un’addizione e la sbaglia, l’errore porta il marchio della sua per sona. Se procede in modo perfettamente corretto, la sua persona è assente da tutta l’operazione. La perfezione è impersonale. La per- sona, in noi, è la parte in noi dell’errore e del passato. Tutto lo sfor- zo dei mistici ha sempre mirato ad una condizione in cui non rimanga più nella loro anima nessuna parte che dica «io». Ma ciò non significa che l’uomo non conservi nella sua radice profonda la presenza del sacro. Anzi, è proprio la meditazione più solitaria e altamente silenziosa che ci rimanda, grado per grado, a cogliere ciò che in noi è impersonale: radice sacra che ci lega ad una realtà eterna e perfetta. Procedendo nella sua indagine di natura iniziatica, la Weil, parlando sempre della personalità, ci dice: «Ma la parte dell’anima che dice “noi” è ancora, infinitamente, più pericolosa. Il passaggio nel- l’impersonale non si opera se non per mezzo di una attenzione di qua- lità rara, e che non è possibile se non nella solitudine. Non soltanto la solitudine di fatto, ma la solitudine morale. Essa non si compie mai nell’uomo che pensa come membro di una collettività, come parte di un noi». La meditazione che tende a recuperare il sacro segue un ordine tutto suo: 269


esige cioè il solo passaggio dialettico che va dalla persona che medita al sacro, che, nella stessa persona, opera in senso impersonale. Ciò vuol dire che ogni forma di collettivismo è principio di caos. Si può anzi dire, secondo la Weil, che umanismo e comunismo, avendo l’uno in un certo senso assolutizzato la persona e l’altro assolutizzato la collettività, si trovino dialetticamente fuori del sacro. Con la differenza sostanziale che mentre la persona, intesa in senso cristiano, è più vicina al sacro, anzi è il transito verso il sacro, la col- lettività è tagliata fuori definitivamente dal sacro, perché rappresenta la affermazione dell’errore e del caos. «Gli uomini in collettività non hanno accesso all’impersona1e, nemmeno nelle sue forme inferiori. Un’addizione si opera in uno spirito che dimentica momenta- neamente l’esistenza di ogni altro spirito. Il personale è l’apporto dell’impersonale, ma vi è un passaggio dall’uno all’altro. Non vi è passaggio, invece, dal collettivo all’impersonale. Bisogna che una col- lettività si dissolva prima in persone separate perché si renda possibile 1’accesso all’impersonale. Solo in questo senso la persona partecipa al sacro più della collettività. Dice ancora la Weil: «Non solo la collettività è aliena al sacro, ma smarrisce, perché fornisce di esso una falsa imitazione. L’errore che attribuisce alla collettività un carattere sacro è l’idolatria; ed è in ogni tempo, in ogni paese, il crimine più diffuso. Colui agli occhi del quale solo conta l’espandersi della persona ha interamente perduto il senso del sacro. È difficile sapere quali dei due errori sia il peggiore… Dal punto di vista spirituale, la lotta della Germania del 1940 e la Francia del 1940, era principalmente la lotta non tra la barbarie e la civiltà, non tra il male e il bene, ma tra il primo errore (la collettività) e il secondo, cioè la singolarità individuale». Questa idea chiarisce in modo geniale le tre condizioni dell’esi- stenza umana. Non vi può essere, cioè né predominio della persona, né un predominio della collettività. La verità originaria è costituita dal sacro che vive in ogni persona, ma con la persona non si identifica. La Weil insiste nel sapiente tentativo di superare la crisi del no- stro tempo. Una crisi terribile in fondo alla quale può esserci o la ñne dell’uomo o l’inizio di una irradiazione concreta della pietà. Ma quali saranno le condizioni fondamentali che nella persona umana creeranno il passaggio dalla singolarità al sacro? Una profonda attenzione su noi stessi ci suggerisce che la persona è «cosa senza conforto» perché volendo affermarsi distrugge necessariamente il sacro ` che è negli altri uomini. L’umiltà deve sostituire il prestigio; il silenzio, il chiasso prepotente del discorso imperativo. Fede cioè nella propria impersonalità al posto dell’orgoglio espansivo e mortificante. Vi è nella nostra anima, che porta un nome e un suo irremovibi- le destino, una parte impersonale che misteriosamente germina il sa- cro, anzi è essa stessa il sacro. Saperla trovare significa stare nella verità e nella bellezza, cioè stare al 270


caldo. Perché la perfezione che- ci trascende, non è, come si può erroneamente credere, freddo eter- no, ma calore che dà vita alla stessa vita.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 28/8/1949

GIDE NEL MILLENOVECENTOTRENTOTTO Visita ad un utopista “Nel mio socialismo non C’è posto per la giustizia imposta oggettivamente. Io ho sempre difeso la libertà dell’individuo e ho preferito la giustizia sentita, espressa come atto di amore, di fraternità umana, alla giustizia fredda e anonima dello “Stato”. Ero allora redattore della rivista “Arts et Idées” diretta dal segretario d’André Gide, Lucien Combelle, un giovane la cui qualità di critico erano affini, per acutezza di stile e perspicacità, a quelle di Remy Gourmont. Nella primavera del 1937, mi pare vi pubblicai un saggio su Pirandello. L’amico Combelle mi disse che Gide lo aveva letto (come pure un altro su Valéry), e che s’era espresso, a proposito, in modo che mi riuscì assai lusinghiero. Nacque in me la speranza di conoscerlo personalmente. Gli fui presentato qualche giorno dopo. Prima di giungere al suo studio, dovetti attraversare dei corridoi in cui migliaia di volumi sembravano fare scorta al mio silenzioso passaggio. Lo trovai comodamente seduto su una poltrona. Mi accolse con semplicità affabile. Fumava ed era vestito di velluto marrone. Il cranio calvo e sotto i due folti sopraccigli grigi gli occhietti sfavillarono nella stanza illuminata. Espressi subito, timidamente, la mia ammirazione per il libro che avevo riletto di recente: La Porte Etroite. Gli dissi che il pathos infuso in quelle pagine, il segreto mistico, mi avevan comunicato emozioni nuove. Gide mi ringraziò con un sorriso e disse: “Ho sentito molto il tema di questo libro; l’argomento è, in sostanza, la mia stessa esistenza di cristiano”. Le sue parole destarono in me un vivo interesse. Benché timido e titubante, osai fargli delle domande sulla sua opera. Mi rispose amichevolmente, con semplicità, con simpatica indulgenza. “Generalmente”, dissi, “limitando il giudizio sulla vostra arte muovendo da Oscar Wilde e, in certo modo, da Dostoijewsky”. “Estetismo e psicologismo sono termini imprecisi e insufficienti”, mi rispose Gide. “Evidentemente, la critica francese ed europea ha trascurato l’elemento giansenista e, per così dire, rivoluzionario, che costituisce l’essenza delle mie opere. Non nego una certa influenza, anzi affinità con Oscar Wilde; ma io ho lavorato sempre alla ricerca di una soggettività più complessa. Il mio cristianesimo è quello della colpa e della rivolta. Io sono con l’uomo assoluto e contro 272


ogni grigio conformismo; qui c’è lo sforzo per costruire l’uomo e la sua libertà terrena. In questo il mio maestro immediato è Gesù, più dello stesso Nietzsche, dal quale ho per così dire imparato l’arte della rivolta”. “Infatti”, replicai, “nella vostra apparente serenità c’è un’agitazione sotterranea che costituisce la vostra migliore umanità. Il dramma di Gesù è in fondo il dramma di ogni uomo che si pone alla ricerca di Dio. In questa prova si incontra il mondo, la terra che si complica, la storia”. “ Per questa ragione io curo la sensibilità esasperata e la mia arte lotta tra un misticismo raccolto e la razionalità dalle situazioni umane vissute drammaticamente. Nelle Nourritures terrestres il problema era la ricerca di una sostanza poetica decisamente panteistica. La natura io la sentii misticamente, anche perché dovevo appagare una sincera valutazione della terra. In quel libro mi liberai dal paganesimo gioioso venutomi da Nietzsche, attraverso Oscar Wilde. Poi il mio spirito fu preso da problemi più umani e mi accinsi alla ricerca dell’uomo e dei suoi segni più concreti: la sua rivolta da ogni conformismo ipocrita e la sua libertà dalla colpa. Gesù fu il mio grande amico in questo modesto e limpido viaggio attraverso la storia interiore dell’europeo cristiano. La mia opera di moralista resta il tentativo oserei dire frammentario di questo desiderio di chiarezza e di disperata analisi. Si trattava di disgregare l’elemento appassito dalla polla ancora sana del messaggio più vero. L’anarchia di Gesù mi sedusse fino a farmi rinnegare una morale logora che, in realtà, aveva offeso la purezza di quel linguaggio preciso. E allora pensai a compiere una piccola rivoluzione. Fui additato come uno scandalo perché suggerii le vie della sincerità, cosa molto difficile in una Europa filistea e accasciata da un bigottismo ottuso. Fui additato come esempio d’immoralità e di corruzione, mentre, in fondo, nei miei libri si veniva ordinando non solo lo stile della lingua francese, ma si delineava la persona cristiana in un atteggiamento di sana violenza. Non ho mai tollerato la mistificazione di una civiltà che ha preso come suo elemento l’oppressione attraverso la ipocrisia e la paura. Per questa stessa ragione, ad un dato momento della mia vita, mi orientai verso il socialismo. Non ero stato mai un convertito a questa idea. I borghesi - come sempre - si sono sbagliati nel giudicarmi un convertito o un neofita del marxismo. Nel mio socialismo tuttavia non c’è posto per la giustizia imposta oggettivamente. Io ho sempre difeso la libertà dell’individuo e ho preferito la giustizia sentita, espressa come atto di amore, di fraternità umana, alla giustizia fredda e anonima dello “Stato”. I posteri soltanto giudicheranno questa mia preferenza o, se volete, distinzione: tra creazione esteriore dell’elemento sociale e creazione di una umanità nuova attraverso una creazione interiore della persona dell’uomo non ancora definitivamente cristiano”. A questo punto lo scrittore si 273


fece silenzioso e inforcò gli occhiali per leggermi alcuni frammenti inediti del suo Journal. Quando fu stanco mi accorsi che desiderava rimaner solo. Scambiammo qualche altra frase; poi, ringraziandolo di quell’accoglienza veramente cordiale, ci salutammo. A casa, quando stesi l’articolo, mi convinsi che Gide doveva essere aggiunto alla già ricca compagnia degli utopisti, dei poeti che ingenuamente credono nella virtù dell’amore e nella rivolta come espressioni individuali. Mi convinsi anche che il suo socialismo borghese era fuori della storia e completamente assente dalla crudele lotta di classe, che in quel periodo, in Francia e nel mondo, si esasperava proprio in virtù di un accentuato reazionarismo delle borghesie fasciste.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 23/4/1961

UN’ACUTA INDAGINE CRITICA DI GIANNI NICOLETTI La bellezza di Baudelaire In nessun poeta moderno come in Baudelaire poetica e poesia si fondono in una unitaria visione della vita come arte e dell’arte come vita nella Bellezza. Ma quale fu, per questo poeta attento a tutte le scoperte del gusto, o della forma considerata in senso assoluto, la sorgente stessa della vita e della Bellezza? Gianni Nicoletti, nel suo acuto e dotto saggio Poesia in Baudelaire (Ca’ Diedo Editore in Venezia) è riuscito a dimostrare che sia “Les Fleures du Mal” quanto “Les Petits poèmes en prose” sono il fiore di una fantasia perfetta in se. “Ciò che ci introduce abbastanza bene, mi sembra, a mostrare come tutto in Baudelaire sia Bellezza, - e la Bellezza il simbolo del suo tutto”. Alla radice del poetare, dell’atto poetico per eccellenza, noi troviamo quella immaginazione creativa che per Baudelaire è “la reine des facultés... qui a enseigné à l’homme le sens morale de la couleur, du contour, du son et du parfum”. In Baudelaire, osserva il Nicoletti, “la Bellezza svincolata dai fini estrinseci diventa attività unificatrice, massima libertà: ovvero, l’universalità dell’io si concretizza come legislazione morale, siccome il gusto è atteggiamento originale e personale. Baudelaire realizza questa sua visione con il simbolo degli occhi, con il guardare: “tu contiens dans ton oeil le couchant et l’aurore”. La Bellezza, perciò, contempla se stessa: guarda il mondo con i suoi occhi, che sono poi gli occhi antichi e sempre nuovi del poeta. Infatti: “Nulla c’è al di fuori del poeta, - non il dolore, non gli stracci, non le piaghe, non i vizi, non il male: tutto è poeta. Tutto è la sua coscienza, tutto èla sua esperienza. Baudelaire non riconosce bensì conosce, cioè nasce e vive insieme alla sua creatura”. Per questa via sarà sempre il poeta a illuminare gli oggetti con la forza della sua immaginazione creativa, la quale fa compiere al poeta Baudelaire “la rivoluzione copernicana della poesia moderna”. Soltanto la fantasia e un sotterraneo amore per la Bellezza spingono Baudelaire a rivivere, soltanto simbolicamente, le terribili cadute nel vizio. Il male, per questo poeta che ordina in ritmi solenni il suo dolore di uomo tramutandolo in gioia contemplativa, non scaturisce da una disarmonia oggettiva. Non è il male la lontananza assoluta e dualistica dal bene; esso è invece il riflesso di una coscienza che, attraverso la Bellezza, si è posta al di là del bene e del male. Come tutti i puri che apparentemente sembrano disgregarsi nell’attesa di un’esistenza adeguata alla propria purezza, Baudelaire divenne l’interprete armonioso 275


di una colpa non commessa, ma di cui sentì la presenza fisica. Come i solitari, abituati ai penosi e consolanti soliloqui sul proprio destino in questo mondo, Baudelaire decifra poeticamente la nausea ed esprime sempre un desiderio di vita nella Bellezza. Come i più ricchi di castità originaria, sembra dire il Nicoletti, questo poeta partecipò idealmente a un’ingenua corruzione, salvandosi in virtù di una soccorrevole magia che gli sale dal cuore, ma soprattutto gli nasce da una immaginazione libera, e nello stesso tempo controllata dal rigore e dal gusto. E nell’innocenza vigile della noia, Baudelaire non cessò mai di fissare la malinconica presenza della Bellezza. Inventò infatti suggestive penombre per collocarle su ciò che corre allo sfacelo. Si distendono, nel panorama di una bellezza umana e immota, donne che si accasciano nelle voluttà proibite; paesaggi che si annebbiano, pazienti vecchine, stordite da una forma di dimenticanza. In una costante ricezione visiva, olfattiva e auditiva, Baudelaire accolse i risultati dello stordimento terrestre e il male come un manicheo riapparso, sotto le spoglie di un sonnambulo delicatissimo, nell’epoca della lussuria più fluida e del culto per la Bellezza in sé. Sembra allora che i suoi scorci riecheggino una dannazione non del tutto scomparsa. E il poeta si aggrappa a se stesso, a quella esistenza che sembra senza salvezza, ma che in realtà è redenta dalla innocenza. Si direbbe che lo spirito di questo poeta sia quello di un masochista, candido per un eccesso di terrore infantile e che la sua sensualità si neghi ai processi normali della maturità. Pertanto, occorre dire che il suo cattolicesimo non fu dogmaticamente rigoroso. Perdute le esigenze moraleggianti, divenne attitudine estetica nella scelta del proprio destino. Baudelaire fu infatti cattolico fino a quando non giunse alla scoperta della Bellezza: occorreva cioè dimenticare, nella malinconia, quel rimorso che in lui era a volte pentimento di credente e, a volte, attitudine alla creazione poetica. Si salvò dalla monotonia terribile dell’esistenza in virtù di un paziente lavoro di costruttore orfico. I suoi bassorilievi sono infatti mobili, pur rimanendo pregni di quell’atmosfera accidiosa di uno stanco amore, mai consumato fino in fondo. E non si sa se fu il vizio oggettivo a creare il suo genio angelico o se fu il rimorso di esser nato a proiettare fuori di sé la Bellezza. Nessuno fu più contemporaneo di lui d’una epoca matura per essere esaltata in una lingua armoniosa, in una forma adeguata ai paesaggi apollinei. Di qui il sorgere di certi ritmi, solenni come gli addii di una creatura in esilio, e le apparizioni irreali di una vita che, pure apparentemente in isfacelo, si immobilizzò nella Bellezza. Baudelaire conobbe dunque tutti i segreti dell’ombra e della luce e non dimenticò mai che il sogno più vivo si realizza in un perpetuo dormiveglia dello spirito. Così poté liberamente, e con l’estrema disciplina del visionario consapevole, ordinare le sue donne dannate e i suoi tramonti gocciolanti angoscia sui 276


muri appassiti della metro-poli. Ecco perché i suoi cieli sono lontani; in essi c e un senso di distanza, un’assenza~della banalità quotidiana. I suoi versi, architettati nella loro armoniosa solitudine, sono quasi permeati di sangue e di ricordi. Baudelaire, infatti, ebbe la esatta intuizione di ciò che il poeta rappresenta fra gli uomini; e non se ne rammaricò, predestinandosi, in tal modo, a comporre elegie per gli amori perduti, per le castità sepolte e per l’ordine proprio di tutte le utopie. Come uomo fu convinto di trovarsi nello stato di una spaventevole attesa; seppe cioè che l’unico rimedio stava nel costruirsi l’universo sempre aereo e plastico delle sillabe, in cui corre l’altra vita: il flusso della Bellezza. E arrivò alla consapevolezza di scavare nella propria lingua il suo vero paradiso. Nacque così la sua poesia, mortificata soltanto dalla illusoria presenza del vizio e del dolore, ma rallegrata da una luce ferma. In tutta la sua poesia affiora la nostalgia cristiana in toni di serena musica, dove il senso della natura si scioglie nel gusto amaro di soffrire per tutte le creature. Infatti, da questi fiori maledetti e dai suoi poemi in prosa si sprigiona un solo profumo: quello delle primavere non più umane, ma sommerse nel paradiso ritrovato della Bellezza. Baudelaire avverti inoltre l’abissale distanza fra quel che si è quaggiù e quel che si può o si potrebbe essere in un mondo che soltanto l’immaginazione o il sogno annunzia con l’accento disperato di chi lo rimpiange in uno stato quasi ineffabile. E egli non fu come Dante che tentò di sostituirsi a Dio. Amò invece rimanere suddito nel girone di terra. E volle disperarsi coi propri simili, accomunandosi ad essi fraternamente, offrendo loro il dono più alto della vita: la Bellezza.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 30/ 12/ 1962

Le Figaro Philippe Barrès pubblica, nel «Figaro Littéraire» dcll’8 dicem- bre, un articolo dal titolo: «Barrès aveva trovato 150 franchi al mese per Verlaine». Si tratta di memorie, aneddoti e inediti del periodo letterario intorno al 1900. Interessanti le lettere, inedite s’intende, che si scambiarono Barrès, France e Verlaine. Ecco due lettere di A. France a Barrès: «Ho letto di voi in una piccola rivista delle cronache di uno stile mordente e conciso che stimo assai. Fortificate la vostra salute e dedicatemi la vostra indulgenza; non mancherò di leggere il Voltaire ogni settimana. Quanto al quasi ro- manzo (sotto l’occhio del Barrès), ne sono curioso. Mia moglie è sen- sibile al vostro ricordo. Pregate la signora vostra madre di gradire i miei omaggi molto rispettosi». A. France. E un po’ più tardi: «Caro amico, posso pensare qualche bene di me stesso, ora che vi ho ispirato questa pagina incantevole. La vostra lode è una carez- za da cui non mi difendo, ed è cogli occhi chiusi facendo le fusa che io vi ringrazio, dilettandomene. Credete alla mia gratitudine e per- donatemi se divento un po’ orgoglioso: sarà per colpa vostra. Il vostro ammiratore e amico. Anatole France». Ed ecco una lettera di Verlaine a Barrès: «Signore, – Devo (perché pesanti preoccupazioni uccidono la mia memoria) ringraziarvi delle parole amabilissime che mi consa- crate nel primo numero delle «Macchie d’inchiostro»? Vi ripeterò in questo caso l’espressione del perfetto piacere che mi ha procurato il vostro articolo su Baudelaire e della parte che riservate alla mia personalità letteraria in questo curioso studio. Siate dunque molto amabile per non dimenticare di inviarmi il vostro periodico. A voi, Paul Verlaine». Sono lettere che documentano la civiltà, la cortesia, il buon gusto · di una società letteraria che ha e conserva, come suo fondamento incli- minabile, la solidarietà e il riconoscimento de]l’ingegno. Valori che han- no fatto universale e unitaria la cultura francese sia di ieri come di oggi.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 27/ 1/ 1963

Esprit Nella rivista Esprit (N. 312 nouvelle série) è apparso un saggio di Luc Decaunes dal titolo «René Char e la poesia fortificata». Si tratta di una originale analisi della personalità, della poetica e della poesia di René Char viste secondo un metodo che è psicologi- co ed estetico insieme. S’individua nel poeta, innanzitutto, una vo- cazione alla solitudine, quella solitudine che è la condizione necessaria per una più attenta meditazione sul destino dell’uomo e sulla funzio- ne del linguaggio poetico quale si è costituito nella poesia francese di questo secolo. Scrive il Decaunes: «Passati gli anni d’apprendi- stato, l’ardente compagnia surrealista, noi l’abbiamo visto ben pre- sto appartarsi, prendere possesso di un territorio esclusivo, sorvegliato da uno sguardo ombroso, e rifiutarsi ai compromessi in uso nelle col- lettività. Con il nutrimento dell’essere e del pensiero, questa tenden- za profonda all’allontanamento non ha fatto che affermarsi. E con ciò si vuol forse dire che Char si è distaccato da mondo che lo cir- conda? Io lo sento, al contrario, più attento che mai all’avventura umana. E come potrebbe egli essere diverso da colui che un tempo scriveva: Noi non saremo mai troppo attenti alle attitudini, alla cru- deltà, alle convenzioni, alle invenzioni, alle ferite, alla bellezza, ai giuochi di questo fanciullo, vivente vicino a noi con le sue tre mani, che si chiama il presente. Ma questa attenzione scrupolosa è oggi quella del testimonio piut- tosto che quella del partecipe. Colui che osserva, comprende lo spet- tacolo e ne ricava una lezione. René Char ha voluto occupare un luogo troppo eccezionale perché la sua parola possa condurre lontano. Per- tanto, pochi scrittori della sua generazione sono stati, come lui, pre- senti quand’era necessario. Ma era l’uomo che agiva, teneva il suo rango e la sua fierezza». Il dovere del poeta è ben altro: non diventa scrittore pubblico che per caso. La sua missione è nel creare la bellezza che rende conto di tutto. Char lo dice assai bene: La bellezza fa il suo letto sublime da sola, stranamente costruisce la notorietà fra gli uomini, accanto ad essi, ma in disparte. Ci troviamo dunque al cospetto di un poeta che subordina la sen- sibilità a una esigenza metafisica: un’esigenza che ci conduce lonta- ni, in una realtà segreta dalla quale sorgono i fantasmi consolatori de1l’avventura umana. Infatti, nel suo ultimo libro La parola in arci- pelago, Char enuncia questo aforisma che è abbastanza indicativo. Un poeta deve lasciare tracce del suo passaggio, non prove. Solo le tracce fanno sognare. 279


Siamo alla poetica delle delicatezze astratte, della sensibilità che suggerisce l’incanto e si nasconde nei segreti di un’anima platonica- mente intesa. Solo le tracce fanno sognare. Ma quali tracce? Qual è dunque la natura più o meno arcana capace di provocare il sogno? L’uomo del ventesimo secolo, assediato da una realtà violenta alienata, cerca inconsapevolmente nella poesia un luogo ideale dove proiettare la sua reale o immaginaria sconfitta. René Char, attraverso una simbologia concreta e metafisicamente efficace, non vuole altro che presentare la poesia del nostro tempo come un messaggio indiretto, filtrato da una capacità meditativa soc- corritrice dell’uomo, di un tipo d’uo1no quasi distrutto dal presente ma aiutato, sia pure lievemente, dalla speranza in un tempo che non si è ancora collocato nella storia e nella coscienza. È questo il segno di una grandezza ritrovata nella umiltà e nella discrezione dolente della solitudine. Siamo al cospetto di un poeta presente al suo tempo, ma ricco di verità nuove, a volte tragicamente sussurrate come tracce: segni precisi di un avvenire senza equivoci e senza la vecchia ipocrisia che ricatta il destino e avvilisce chi tenta di aiutare, nella luce, l’uomo.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 24/ 2/ 1963

Esprit Il saggista Christophe Calmy pubblica un articolo dal titolo suggestivo: «Flaubert e il nihilismo di sinistra». Si tratta di una analisi che tende a dimostrare come lo spirito estetizzante costituisca oggi la sostanza di fondo per molti intellettuali di sinistra. Flaubert, secondo Calmy, esercita ancora una profonda suggestione sulla intelligenza dello scrittore che resta, malgrado la sua problematica rivoluzionaria, legata a quel nihilismo che è poi l’unica punta avan- zata della ideologia borghese, di cui Flaubert rappresenterebbe, sul piano del1’arte, un modello ineguagliabile. «La sinistra d’oggi», scrive Calmy, «è una sinistra di esteti: noi vogliamo sempre pensare come semidei, ma anche vivere da borghesi. L’intellighentzia francese si ripiegò sulle sue specialità diverse, senza tentare d’integrarle in una visione e una volontà comune – ciò che si chiamava un tempo rivoluzione, ciò che potrebbe avere oggi tutt’altro nome, ma che non esiste, che attende di essere inventato. Il “nuovo romanzo”, la “nouvelle vague” cinematografica, per attenersi ad essi, sono, qualunque sia il loro merito, largamente staccati dalla vita e dalla storia. La politica sembra essere ridiventata l’affare di specialisti: Flaubert, quando leggeva Renan diceva che il governo avrebbe dovuto essere “una parte dell’Istituto”. E, in Francia, l’Istituto è il centro della cultura ufficiale e solenne. «Si è rientrati in se stessi, mettendo la propria dimissione sul con- to del P.C., di un altro asino del mulino. La sinistra d’oggi somiglia all’antico esercito austroungarico del 1918: si diserta da ogni parte. Infatti, oltre a delle eccezioni notabili, lo scetticismo ha conquistato gli spiriti; chi oserebbe oggigiorno proclamare la sua volontà di “tra- sformare il mondo”? «L’ironia di Flaubert è in noi, e anche il suo nihilismo. Questa dimissione agli intellettuali francesi è parallela a, o conseguente, all’abdicazione dell’intero popolo francese».

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La nouvelle Revue Françoise La nouvelle Revue Françoise del mese di febbraio pubblica: «J ournalier» di Marcel J ouhandeau; «Quinte» di Marcel Moreau; «Vocu de Richesse» di Jean Cassou; «La liberté en feuilles» di Jean Philippe Salabreuil; «L’espace Proustien» di Georges Poules; «Sur une éducation sentimentale» di Marcel Arland e un interessante sag- gio «Arte Alienazione» di Jean Revol. «L’arte – scrive Revol – esige una devozione totale: i mostri usciti dal “sonno della ragione” trascinano anche un principio di esaltazione. Lo spirito si sente irresistibilmente spinto, dal movimento proprio della coscienza, a sondare l’ignoto minacciante in cui il suo destino affonda le sue radici. La grazia e la maledizione sarebbero così vicine che lottare per la propria salvezza contro i demoni non sarebbe che esaurirsi contro il suo doppio, come gli eroi di Hoffma11n, accanirsi contro la propria sostanza, come il William Wilson di Poe? Se non altro lo sforzo creativo è una volontà di esorcismo».

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da «LA FIERA LETTERARlA», 31/3/1963

Esprit Gran parte degli articoli di fondo del n. 315 del mese di marzo è dedicata a «Tei1hard de Chardin e il Personalismo». Si tratta di un dibattito al quale hanno collaborato Jean Marie Domenach, Jac- ques Natanson, Max De Ceccatty, Marc Jussieu, René Puchen. Marc Jussieu conclude il suo intervento: «Per riassumermi, trovo in Teilhard un rischio e una fortuna: – Il rischio è di essere utilizzato in fretta e senza discernimento per colmare il vuoto intellettuale (filosofico) della nostra società di consumazione; – La fortuna, è di fornire gli elementi di una spiritualità per il nostro tempo. Resta da ricavare la filosofia, la teologia di questa spiritualità, parola, a mio avviso, troppo svalutata). Né questa filosofia, né questa teologia sono nell’opera di Teilhard. Ma quest’opera sprigiona delle energie che possono condurvici. Si tratta meno, a mio giudizio, di dissertare su Teilhard, che di dissertare a partireda Teilhard.

N.R.F. —— Saggi interessanti di André Pieyre de Mandriargues «La camera rossa»; Jean Starobinski: «L’inchiostro della malinconìa»; Georges Poulet: «Lo spazio proustiano (fine)».

La Table Ronde La Table Ronde –· del mese di marzo è dedicata alla «Civiltà del nulla». Georges M.M. Cottier scrive nel suo saggio: «Eclisse dell’essere e ambiguità del nulla». Non è per caso che l’uomo trema davanti al trionfo atomico e che è terrorizzato come uno schiavo dalla propria potenza». E, alludendo alla tecnica: «Meravigliandoci con i suoi pre- stigi, la ragione tecnica ha favorito l’ob1io dell’essere. Ma questo oblio non è fatale, purché si sappia ascoltare la lezione d’umiltà che ci amministra lo spettacolo dei nostri poteri accumulati. Aggiungiarno che non bisogna opporre ragione a pensiero; la ragione tecnica è ragio- ne, la ragione è pensiero, ed è in questa unità che ci è offerta la fortuna di rinnovarci con le sorgenti. E poi, i soffi dal nulla non sono i soli a ispirare la nostra civiltà». Nel n. 1853 del mese di marzo, Pierre Grimal pubblica un articolo dal titolo 283


suggestivo: «L’uomo e il Mito». «Il mito, come la scienza — dice Grimal — ha come ambizione, di spiegare il modo, di renderei fenomeni intellegibili. Come la scienza, il mito intende fornire gli uomini di un modo di agire sull’universo, di assicurarsene il possesso spirituale e materiale». «Dinanzi a un uni- verso pieno d’incertezze e di misteri, il mito interviene per introdurre l’umano: le nubi del cielo, la luce del sole, le tempeste del mare, tutto questo umano perde buona parte del suo carattere terrificante, dal momento in cui si crede discernervi delle intenzioni, una sensibilità, una ragione analoghe a quelle di cui ogni individuo fa una esperienza quotidiana». «Uno dei caratteri fondamentali del mito è un legame stabilito tra il passato e il presente. Molinowski scriveva nel 1926: “Il mito quale esiste in una umanità primitiva, cioè a dire nella sua forma vi- vente e spontanea, non è soltanto una storia, ma una realtà vissuta. Esso non appartiene all’ordine della finzione, come i romanzi dei nostri giorni, ma è una realtà vivente, alla quale si crede sia arrivata altre volte, in tempi primordiali, e che, da allora, essa continua a esercita- re un’azione sul mondo e sul destino degli uomini”. «Gli eroi che noi ammiriamo si legano spontaneamente ai miti; e si sa che, senza Achille e senza l’Iliade, Alessandro non avrebbe senza dubbio intrapreso la conquista dell’Oriente. L’adolescenza, in tutti i tempi, si è data dei miti, che l’età matura, talvolta, ha avuto il coraggio di realizzare».

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da «LA FIERA LETTER/\RIA», 30/9/1962

La Table Ronde La Table Ronde, la nota rivista europea di ricerca cristiana pub- blicata a Parigi, nel numero 176 del Settembre 1962 ha dedicato il primo gruppo di articoli al 250° anniversario della nascita di G. Giacomo Rousseau. André Ravier, nel saggio, «Emile est-il chrétien?» analizza a fondo il pensiero del saggista ginevrino intorno al problema religioso. Secondo il Ravier, la sensibilità di Emilio è fondata su una visione · ottimistica della originaria natura umana più che su una concezione drammatica e pessimistica della stessa struttura dell’uomo. Infatti: «Ciò che impedisce la sensibilità, secondo Rousseau, di essere una sensibilità cristiana è precisamente la sua concezione dell’amore di sé. L’atto di carità che Gian Giacomo insegna ad Emilio non è l’atto di amore cristiano che dice: “Dio mio, io Vi amo; ed amo il mio prossimo come me stesso per l’amore che sento per Voi”, bensì: “Dio mio, io amo voi e il mio prossimo per l’amore che sento per me”. Così “un’anima che si chiude in se stessa, che è totalmente imper- meabile al sentimento del peccato e al bisogno della salvezza, anche se essa percepisce ancora in fondo a sé, come fu il caso di Gian Giacomo, un reale desiderio di Dio, non ha la sensibilità cristiana. Per non aver aperto il suo amore di sé sull’amore di Un Altro e sull’amo- re degli altri, Gian Giacomo, il cui cuore pertanto aspira verso Dio, più che verso Cristo, ha chiuso l’uomo nuovo in un egotismotragico”» . Charles Baudouin, nel saggio «Pellegrinaggi» analizza invece il desiderio di pace e di solitudine che tormenta Rousseau. È nell’Isola di S. Pietro che il filosofo, conquistata la sua interiorità, potrà confessare: «mi sembrava che in questa isola io sarei stato più separato dagli uomini, più al sicuro dai loro oltraggi, più dimenticato da essi, più predisposto, in una parola, alle dolcezze dell’ozio e della vita contemplativa». Baudoin concluderà che «quando si è seguito Rousseau con af- fetto nella sua corsa dolorosa, quando si è dedicato a questo grande inesperto di genio l’affetto che si concede ad un fanciullo sgomento, si partecipa alla sua consolazione di sentirsi accostato infine alle rive della serenità». Manuel de Dieguez dedica il suo saggio al «Rousseau autobiografico». Anche questo articolo esplora a fondo il dramma, le contraddizioni e le illusioni che in Rousseau sono la causa di storture interiori sempre più che palesi. La colpa di Rousseau – dice Manuel de Dieguez non è in questa pretesa che non si smentisce mai, di credersi il migliore degli uomini? – L’iniquità che gli è stata fatta è senza esempio nella storia del genere umano! Nella ottava passeggiata, 285


Rous- seau scrive ancora: «Io che mi sentivo degno di amore e di stima, io che mi’ credevo onorato, amato come meritavo d’esserlo...». Jacques Vier, nell’acuta analisi «Gian Giacomo Rousseau e il Teatro» dimostra che «la debolezza e la forza di Rousseau è di aver privato l’assalto diretto contro la Chiesa e lo Stato d’una società e, se si vuole, uno Stato nello Stato di cui egli aveva cominciato a far parte. Non bisogna dunque parlare di un divorzio di Gian Giacomo con la filosofia, la letteratura o il teatro, ma di una riconquista: ne- cessità colossale di Titano fulminato». Vier scopre che «un grande presentimento spazia sulla lettera al D’Alambert: la paura che un gior- no il mondo non appartenga che a delle ombre. Questo timore del . vampirismo del teatro e dei misfatti delle «sale oscure» schiera prov- I visoriamente Gian Giacomo Rousseau presso quei grandi difensori dell’Essere, nemici accaniti della scena, che furono Sant’Agostino e Boussuet.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 14/4/1963

Arts Nel numero 909 del 2 aprile, Julien Green, intervistato da Stani- slas Fumet, afferma: «Ciò che ho voluto fare, è il mio esame di coscienza». Alla domanda del Fumet «ll senso artistico ha in voi preceduto il meccanismo intellettuale?», Green risponde: «Sì, ho vo- luto discendere nella mia infanzia come in una miniera ed esplorarla con una piccola luce». · Fumet: «E questa piccola luce ci ha scoperto un mondo che, sotto i nostri occhi, si mette a rivivere. È straordinario, come essa faccia apparire tutto, come è preoccupata dalla giustezza dei dettagli». Green: «Contrariamente all’opinione ricevuta, io credo che ogni verità è buona per il solo fatto che essa è la verità, che essa sia bella o che non lo sia; ma c’è questo di particolare, è che una verità nasco- sta può essere brutta e, venuta alla luce, diventa bella se è la verità d’un uomo che si confida lui stesso». Fumet: «Ciò che sorprenderà nella vostra dichiarazione, è la estensione della vostra innocenza. Prendo in prestito a Rimbaud la frase: “Misuriamo l’estensione della nostra innocenza”». Green: «Ho una passione per Rimbaud. Mi sembra che non lo si comprenda per quel che era». Fumet: «Ho pensato che ci fossero certe analogie tra William Blake e voi». Green: «Io credo che Dio agisca fortemente sull’infanzia degli uomini. Vi è in questo qualcosa che non posso che intravvedere; ma di cui sono persuaso. La piccola infanzia è un periodo di grazie qua- si continue, mi sembra. Di qui la mia curiosità per l’alba della vita, della mia vita. È in quel momento veramente che Dio interviene più visibilmente, se si può vedere – ma non si vede che se si è attenti. Il fanciullo soltanto potrebbe portare testimonianza se egli ne fosse capace. Non lo è, ma divenuto uomo, può ricordarsi di certi minuti che hanno contato, certi minuti in cui si è avuto un incontro con Dio». Fumet: «Certi minuti, avete detto. Essi sono magistralmente segnalati in più pagine di “Partire prima del giorno”. E noi leggiamo: “Io giocavo per terra e, in un linguaggio informe, un linguaggio che inventavo, parlavo da solo o a qualcuno che credevo di vedere. Di quegli armi oscuri, conservo il ricordo d’un minuto di rapimento quale non l’ho mai conosciuto da allora. Dobbiamo dire queste cose o con- servarle per noi? Ci fu un momento, in quella camera, in cui, vol- gendo la testa verso la finestra scorsi il cielo nero nel quale brillava qualche stella. Quali parole usare per discutere ciò che sfugge al linguaggio? Quel minuto fu forse il più importante della mia vita e non so che dirne. Ero solo 287


in quella camera senza luce, e lo sguardo ri- volto verso il cielo provai ciò che non posso chiamare che uno slan- cio d’amore. Ho amato in questo mondo, ma giammai come in quel breve momento, e non sapevo chi amavo. Pertanto, sapevo che qualcuno era là e che vedendomi, mi amava”». Il dialogo continua con torio intenso sia nelle domande acute e pertinenti che nelle risposte profonde e patetiche che sono la testi- monianza di uno stile e di una fede eccezionali.

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da «LA FIERA LETTERARIA», 5/5/1963

La Table Ronde Nel numero 183 de «La Table Ronde» Gabriel Marcel pubblica un saggio, Imago Dei, dedicato a Max Picard, il noto pensatore che in questi ultimi anni ha pubblicato opere di un valore filosofico ecce- zionale: «L’uomo del nulla», «Il mondo del silenzio», «Delle città distrutte», «Il mondo inalterabile», opere che hanno analizzato pro- fondamente la condizione umana quale si è venuta rivelando alla me- ditazione del nostro tempo. Il saggio di Marcel è in sostanza «Una introduzione ma soprat- tutto un commento alle idee centrali che animano tutta l’opera filo- sofica e teologica del Picard». Prendendo in esame «La fuga davanti a Dio», Marcel cita que- sto passo significativo: «In ogni tempo, l’uomo è fuggito dinanzi a Dio, ma ecco ciò che distingue la fuga attuale da tutte le altre. Un tempo la credenza era universale, era presente innanzi all’individuo, ‘ essa era là come un mondo oggettivo della credenza: la fuga, al con- trario, non interveniva che negli individui, e ciò perché tale indivi- duo si separava attraverso un atto di decisione dal mondo della credenza... Oggi, è il contrario. E la credenza, in quanto mondo este- riore oggettivo, è distrutta. L’uomo individuale deve in ogni momento crearsi di nuovo la credenza attraverso un atto di decisione in ciò che si separa dal mondo della fuga, poiché oggi è la fuga e non più la credenza che è là, come un mondo oggettivo...». «Tutto, in questo mondo, non è più presente che sotto lo spazio della fuga». E Marcel, analizzando sempre più profondamente la me- ditazione teologica di Picard, spiega: «L’uomo vive sulla terra, è sulla terra che si sviluppa e si compie. Ma fra tutti gli esseri è il solo che abbia il potere di separarsi, se si può dire, da ciò che appare come decorso o come svolgimento; è come se egli si contraesse in una pre- senza realizzata in un istante». «Non arriveremo a dire che egli è così nella eternità, ma piuttosto che si colloca al posto dove il tempo e l’eternità si incontrano». Infatti, Picard scrive: «Per il divino è come se l’uomo fosse in congedo dal cielo quando si trova presso ciò che è temporale; e per il temporale è come se l’uomo fosse in congedo dalla terra quando è vicino all’eternità, e tutti e due si rallegrano di questo incontro quag- giù, nella presenza». «Se la presenza di Dio – dice Marcel – è irradiante, il viso umano anche sprigiona una irradiazione e questa presenza illuminante del volto umano è come il fuoco attenuato smorzato della eternità divina». 289


11 saggio di Marcel spiega e sviluppa altri aspetti del pensiero teo- logico di Picard, filosofo che, secondo il giudizio sostanziale dato dal grande esistenzialista francese: «Ascolta’, riflette e le sue risposte, sempre sagaci, sorgono dal fondo di questa plenitudine di vita, di fede vissuta, di amore che è in lui: ed è ben per questo che Picard appartiene a una costellazione di cui nessun astronomo non saprebbe precisare la figura e anche la collocazione: poiché essa è tutta spi- rituale e rivolta verso Dio solo». *** Sempre nel numero della rivista già citata, è apparso un interessante scritto di R. M. Albérès, dal titolo: «I grandi studi letterari». Si tratta di saggi critici su tre autori. L’uno è dedicato all’opera di Jean Pierre Richard «L’universo immaginario di Mallarmé» (Ed. du Seuil); l’altro è dedicato all’opera di Claude Vigée: «Rivolta ed Elogi» (Ed. Josè Corti) e il terzo è dedicato a un’opera tedesca di Karl August Horst. «L’unìverso immaginario di Mallarmé» – dice Albérès – «è un brillante studio letterario dell’arte della sfumatura, se posso spo- sare queste due espressioni; esso richiede, all’analisi discorsiva e verbale, ciò che si chiede abitualmente a un’a]tra arte. È una mirabile Sinfonia Mallarmeana in la minore, per la quale la musica sarebbe un linguaggio ancora più agevole del discorso sapiente». Rivolta ed elogi – dice Albérès – è in fondo un libro a due facce: rivolta, ma anche elogi, cioè a dire, malgrado tutto, ricerca di una mediazione, sforzo – in poesia – per ritrovare un impossibile amore del mondo, quale si è manifestato, per esempio, in Camus.

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Il polemista

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da «Jean-Paul Sartre, intellettuale massificato», 1973 Nel supplemento del settimanale “L’Espresso” dell’11 febbraio 1973 (n. 6) apparve una intervista di Pierre Bérrichou, fatta a Jean-Paul Sartre a proposito della contestazione giovanile in campo internazionale. Trascrivo la presentazione, pubblicata da “L’Espresso” come introduzione a tale importante intervista, dai titolo Due tre modi di fare il profeta. QUESTA TESTIMONIANZA “Questo eccezionale documento umano trasferisce il lettore al centro della officina ideologica di Jean-Paul Sartre, il quale a sessantasette anni resta uno dei personaggi più inquieti della intellighenzia europea. L’intervista trabocca di dichiarazioni, confidenze, confessioni di cui lo stesso scrittore tiene a sottolineare la spontaneità imprevedibile e perfino contraddittoria. “A differenza di tanti altri intellettuali di alta statura e dotati d’intenzioni profetiche, qui Sartre si scopre con una prodigalità quasi temeraria. Si capisce subito che egli è il primo ad appassionarsi come artista al tema autobiografico che anima queste pagine, e a cogliere quel tanto di ambiguità che è connessa alla propria attuale funzione sociale. La storia ch’egli racconta è quella di un intellettuale borghese supernutrito di cultura classica che volontariamente s’è scelto un ruolo di iconoclasta, ma ha la vaga coscienza che fra le icone destinate alla distruzione ce ne sono alcune (forse anche molte) la cui poiverizzazione gli darebbe dolore. Ma questo non toglie valore alla sua testimonianza; al contrario ne esalta la drammatica vivacità. “Le illustrazioni che accompagnano il testo di questa intervista di Pierre Bérrichou Sartre (tratta dall’ultimo numero della rivista “Esquire”) appartengono al vasto archivio di materiale fotografico che Germano Facetti ha messo insieme per la Storia delle rivoluzioni dei Fratelli Fabbri. Le immagini scelte si riferiscono alla rivoluzione cinese”. La prosa qui citata non ha bisogno, per ora, di alcun commento. Il lettore avrà modo di farlo da sé, leggendo sia le risposte di Sartre a Bérrichou che i miei commenti alle risposte di Sartre. Non appartengo all’intellighenzia europea. Anzi, sono addirittura un intellettuale di terza categoria, cioè un preintellettuale ignoto e ignorato, ma non da Sartre, con il quale ho avuto, nel corso di circa venti anni e benché saltuariamente, incontri e scambi d’idee su questioni sia culturali sia politiche. Non posso comunque dire di essere stato un suo amico. Nei nostri incontri romani, semplicemente egli si intratteneva volentieri a conversare (a volte per delle ore) 293


con me. Ho letto molte delle sue opere e posso inoltre dire che Sartre, per quel che può valere il mio giudizio di modesto lettore di testi filosofici e letterari, è uno studioso dal vivace talento speculativo e critico; ma è soprattutto dotato di una quasi ossessionante capacità analitica, in filosofia come in letteratura. E così. Ma non è questa l’occasione perché io esprima giudizi più estensivi ed approfonditi sulla sua opera. Inizierò senz’altro col citare la prima domanda che Pierre Bérrichou pone a Sartre: “È cominciata agli inizi degli anni sessanta nelle università americane; verso il 1965 è passata in Germania; poi ha colpito la Francia; infine, la contestazione giovanile è diventata un fenomeno internazionale. Si può dire che, dopo il maggio 1968, nulla è più stato come prima. “Questo enorme sommovimento non ha risparmiato neppure lei. Anzi lei stesso ne è stato scosso al punto da rivedere gran parte delle sue posizioni politiche, letterarie, filosofiche. In che modo lei, Sartre, è cambiato?”. “Nel maggio 1968 - risponde Sartre a Pierre Bérrichou - non capii nulla”. E come poteva capire se, da sempre, gli intellettuali, per capire un fenomeno politico devono, per lo meno, attendere un minimo di venti anni? Conosco bene Sartre: è un intellettuale che an-ticipa con disinvoltura e con ritardo gli eventi storici; combina idee siamesi: “marxismo-esistenzialismo”, “individuo-massa”. Affronta i problemi con quella noiosa serietà che spesso lo costringe ad essere un umorista involontario. Dice: “Non sapevo in quale misura le modifiche in corso stessero modificando anche me”. In realtà, nel ’68, i giovani di Parigi recitarono semplicemente: si divertirono a giocare alla rivoluzione, come attori sulla scena. Una scena da prove generali. Di rivoluzionario c’erano le grinte, le bandiere, le barbe, i capelli e alcune studentesse premurose di fare l’amore. La rivoluzione è un fenomeno pericoloso e tragico: quando essa scoppia, sconvolge, va avanti con o senza i giovani, più o meno drogati di letture nichiliste o di oppio. Ma procediamo. Sempre alludendo alle modifiche in corso, Sartre dice: “Mi interessavo, sapevo che stava succedendo qualcosa di importante, che anch’io, in certo modo, ero chiamato in causa dai giovani senza che neppure lo sapessero, e addirittura senza che essi pensassero esplicitamente a me”. Come è evidente, in quel 1968 nessun giovane sapeva cosa fare. Tipica esplosione d’infantilismo politico di una gioventù mentalmente non idonea ad assimilare alcuna forma di cultura o di anticultura. I giovani, sia in Francia sia altrove, o sono geniali, e sono pochi, o sono rabbiosamente stupidi. Pensano alla rivoluzione come a un vizio ereditario: un blasone nobiliare su cui si può dissertare all’infinito. In fondo, o sono degli edonisti o vogliono rompere qualcosa: i vetri, le macchine, i negozi; bruciare soprattutto i libri che, per essi, 294


sono un rompicapo inutile. Nascono borghesi; ma odiano la borghesia perché impedisce loro di essere liberi... di drogarsi o di fare all’amore. E Sartre continua: “Ma quando andai a parlare alla Sorbona a metà del maggio ‘68, fui accolto benissimo (È accertato invece che molti giovani lo fischiarono). Quindi doveva essere qualcos’altro” (allude a una frase precedente in cui dice: “Pensavo che si trattasse di un atteggiamento critico contro gli anziani”). “Ma che cosa? Non avrei potuto dirlo. Così non capii nulla del maggio 1968”. E come poteva essere diversamente? Non c’era nulla da capire. Sì, c’era da capire che quelle azioni convulse e caotiche erano il risultato di una situazione sociale che aveva permesso a cervelli non certamente predisposti allo studio di usare gli strumenti della cultura a scopo falsamente “rivoluzionario”. Troppi studenti e poco studio. I giovani intellettuali, oggi, si agitano rabbiosamente perché, in fondo, non desiderano che rivoluzionare per pescare nel torbido o, col pretesto di liberare gli uomini dal sistema borghese, finiscono col diventare più terribili degli stessi borghesi. Il cuore a sinistra, ma il portafogli a destra. Si tratta di un processo di incretinimento progressivo. E Sartre, lucido verso se stesso, riprende: “Cominciai a capire a poco a poco, verso il 1969, che quel che si criticava in tutti noi, in me e negli altri, era fondamentalmente l’intellettuale classico, figura che avendo a disposizione un certo potere (e qui Sartre non volendo allude agli intellettuali che nel sistema borghese si arricchiscono; non si riferisce, s’intende, a tanti artisti, scrittori, poeti e filosofi ecc., che non hanno mai avuto alcun potere; e la storia, antica e nuova, ce lo dimostra) se n’è servito per acquistare cognizioni che ha trasformato ingiustamente in potere.” Ma quasi tutti quei giovani studenti che oggi si agitano e criticano l’”intellettuale classico” non aspirano forse a trasformare, domani, “le loro cognizioni in potere”? Ciò è nella natura umana sotto qualsiasi regime o sistema. Accade in Occidente come accade in Oriente. Accade finanche a Sartre che, se non dovesse più smerciare le sue voluminose opere fra i borghesi, le smercerebbe fra i suoi giovani compagni. Si è potenti anche quando si rinunzia apparentemente alla volontà di potenza. Insomma - egli dice - si criticavano: “Tutti coloro che credono di lavorare per il bene universale in nome della cultura universale”. Dovrebbe essere così, ma non lo èper la semplice ragione che, di universale, esiste soltanto una ipocrita intenzione, una ipocrita filosofia. In realtà, l’uomo opera sempre in senso privato: soprattutto l’intellettuale rivoluzionario, il quale, il più delle volte, non è che un apprendista tiranno. O i quattrini -cioè il potere economico - o il potere politico e quindi la frusta. Abbiamo sempre a che fare con dei lupi travestiti da asceti liberatori. I giovani studenti del ’68, fra cinque anni o dieci, o saranno ricoverati in cliniche per drogati, o eserciteranno, con cinismo, una professione ben reddi295


tizia. S’integreranno nel vecchio o nel nuovo sistema. È stato così per Sartre intellettuale privilegiato e ricco di valuta pregiata nel sistema borghese, come per l’intellettuale russo o cinese integrato negli ingranaggi del potere comunista. E ciò accade perché non è vero che gli uomini siano ùguali. Essi sono diversi, sempre e dovunque. Finché ci saranno queste diversità di fondo, ci sarà lo Stato: capitalistico o comunista che sia. Lo Stato nasce e vegeta perché c’è una diversità negli uomini. E il diverso aspira al potere. A meno che non si tratti di un uomo eccezionale come Francesco d’Assisi, che riesce, da solo o con pochi frati, a vivere fuori da un qualsiasi Stato, ivi compreso lo Stato ecclesiastico. Ed è qui l’utopia ingannatrice dell’intellettuale rivoluzionario. Lo Stato o si distrugge con la santità - che è la più profonda delle rivoluzioni - checché ne pensi l’ateo J.- P. Sartre - o lo si riafferma, più feroce che mai, con la rivoluzione. Ma seguiamo il filosofo nella sua analisi a una dimensione. “Un medico studia una malattia per l’umanità intera e nello stesso tempo sa che la sua cultura gli è stata data da una classe particolare - la borghesia - e che, in un modo o nell’altro, tutto quel che potrà fare per il bene universale verrà dissipato, deviato, frenato dal debito che egli ha contratto nei confronti della borghesia.” Questa affermazione è molto buffa. Ragioniamo. Il borghese, si sa, mangia molto e va quindi soggetto al diabete o alla gotta; alla cirrosi come alla colite o all’artrite. Se egli venisse a conoscenza che c’è un patologo che sta facendo delle ricerche per guarire codesti organi che tanto l’affliggono, farebbe tutto il possibile per impedire che una tale ricerca medica vada in porto. Io non sono un borghese come Sartre: sono un contadino; ma sono convinto che non ci sarà mai un borghese così stupido da impedire a uno scienziato di scoprire un farmaco per liberarlo dalla epatite o dal diabete. Per quali ragioni misteriose la borghesia, che in se stessa può, talvolta, essere anche una classe detestabile, debba ostacolare un uomo di cultura nel portare a termine una scoperta che, pur guarendo il borghese in particolare, finirà col guarire anche i non borghesi, afflitti da ben altri mali? E qui si potrebbe citare un interminabile elenco di studiosi e scienziati che, sia pure “borghesemente”, lavorano in senso universale. La penicillina si vende in tutto il mondo: come si vendono gli antibiotici e le pomate (sono infinite) per curare le emorroidi o l’artrosi. E Sartre conclude il periodo (non storico certamente) dicendo: “Perciò - quel medico - non è più quello che avrebbe dovuto essere, un “tecnico della conoscenza pratica”, come l’ho definito, ma un uomo diviso tra la teorica universalità del suo operare e i freni particolaristici che ha dentro di sé”. A parte la solita fumosa prosa del filosofo pedante che usa formule stantie e noiose, queste parole non dicono nulla perché, nell’insieme, costituiscono una 296


menzogna. Sartre dimentica che, proprio operando in senso particolare, si finisce con l’operare, sia pure indirettamente o senza proporselo in senso filosofico, sul piano di una universalità più estesa. Pasteur, Fleming e tanti, tanti altri scienziati hanno operato in questo senso. Ma seguiamo il pensatore: “Soffre di questo (allude all’intellettuale che ha contratto il debito verso la borghesia); di lui si può dire che ha una coscienza infelice: è ad un tempo universale nella sua conoscenza (ed è già parecchio) e particolare quanto ai fini della sua conoscenza. Questa contraddizione nella sua natura lo conduce ad una visione delh società diversa da quella che gli si sarebbe voluta dare”. Ed ecco sbucare fuori l’hegeliana coscienza infelice. I filosofi, noiosi fino all’ossessione, mancano di immaginazione e di umorismo, ma finiscono col crearlo involontariamente, per non dire ipocritamente. Posso capire che un gobbo abbia la coscienza infelice. Capisco la coscienza infelice di un malfattore o di uno strabico che vede le immagini divergenti o convergenti, ma la coscienza infelice di un medico o di un qualsiasi altro professionista non so proprio immaginarmela. No, la coscienza infelice ha ben altre origini: l’invidia, la gelosia, i vari complessi, le frustrazioni, il sadismo o il masochismo; la bruttezza fisica, l’impotenza sessuale, la vecchiaia, i sequestri, ecc. ecc. Essa è sempre esistita e continuerà ad esistere malgrado l’ottimismo rivoluzionario di Sartre. Anche Hegel parlava di coscienza infelice; ma lui era felicissimo d’inventarsi tutto, compreso Dio, e di risolvere, beatamente, ogni tragica contraddizione: come se egli fosse un vero mago. Ma Hegel incarnava l’Assoluto, cioè lo stato assoluto1. Ma seguiamo il neo giovanotto Jean-Paul: “In genere l’intellettuale classico è favorevole alla soppressione dei particolarismi a cui lo limita la società (e qui Sartre avrebbe fatto meglio a dire marxisticamente la classe dominante, perché la società comprende dominatori e dominati) e così si trasforma in critico della società stessa. Questo non impedisce di essere borghese perché trae vantaggio dalla propria coscienza infelice.” Sicché l’intellettuale, critico o rivoluzionario, mette a frutto e a usufrutto la propria coscienza infelicé. Questa si tramuta, poi, in oro. Siamo al superamento di Mida. La coscienza infelice diventa la banca dell’io. Il rivoluzionario vi deposita i suoi milioni. E vive, s’in-grassa; e ogni tanto la coscienza infelice si fa viva con un rutto, come per dire all’intellettuale critico: sono qui, tutta tua! E perché allora non stampare i buoni del tesoro della “coscienza infelice”? È una specie di banca Rothschild. La coscienza infelice è una zecca da cui il possessore, felice più che mai, attinge moneta pregiata per organizzare allegramente 1   La “coscienza infelice” è una mistificazione filosofica che sconfina, in sostanza, nella ipocrisia e nell’ambiguità di un comportamento intellettualistico e astratto, e per tale ragione è immaginabile, ma non reale.

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gite turistiche o i ludi della tavola. Sempre umoristi questi filosofi in fregola di sovvertimenti. Ma non basta: “L’intellettuale classico e borghese (Sartre per esempio) diventa uno che parla nei comizi ed è applaudito, che scrive libri (e quanti libri) sui mali della società, ed è applaudito (gli applausi non costano nulla a nessuno), che lotta per il bene universale (dopo aver messo al sicuro, nelle banche estere, i beni personali) conservando nello stesso tempo la sua posizione privilegiata: insomma ‘l’intellettuale’”. Ed ecco sbucare fuori la tipica figura dell’intellettuale mezzadro, dotato di una redditizia coscienza infelice. L’intellettuale! Questa parola fa paura, ma nello stesso tempo fa pena. L’intellettuale di oggi è un misto di fessaggine, di pederastia e di mutria. Pur non avendo capito nulla, né di sé, né degli altri, si presenta come l’oracolo degli oracoli. Usa un linguaggio ricercato, astruso, quasi da ebete: con la convinzione di mettere a posto il mondo, e invece non mette a posto nemmeno se stesso. E l’intellettuale, nostro contemporaneo, sta quasi collocato sempre a sinistra (mangia però a destra), vuol fare la “rivoluzione”, ma spera assicurarsi che non gli venga tolto nulla. Non è mai illuminato dall’intelligenza che è ben altra facoltà, rivoluzionaria in se stessa ma senza ricorrere a proclami di sorta. L’intellettuale d’oggi, invece, parla sempre. Ciarla da un trespolo: come i pappagalli. Per lui un comizio è un trespolo. Una tavola rotonda è una buona occasione per vomitarti addosso il suo narcisismo. Ha letto tutto e non ha capito, assimilato nulla. Ha la mente piena, stracarica di formule, schemi, parole d’ordine e di disordine, ma soprattutto trabocchevole di stupidità. Invece di fare cartesianamente uso delle idee chiare, evidenti e distinte, si trova dentro idee quasi sempre al buio, poco evidenti e discinte. È il classico logoteca, ideologo venuto fuori dal volgo -e il volgo può essere sia borghese sia proletario -. Ripete fino alla nausea le sue ossessioni scambiate per messaggi di salvezza. In realtà non salva nessuno, perché l’intellettuale moderno è in un perenne stato di naufragio. Naufraga nella sua immensa imbecillità. In un mondo di minorati mentali, a destra, al centro come a sinistra, basta un comizio per rendere famoso e ricco l’ultimo idiota del globo. Ma Sartre si confessa, quasi còlto da un senso di colpa: “Anch’io, come molti altri, sono stato un intellettuale classico fino al 1968: partecipavo alle manifestazioni, ogni tanto ci si picchiava - e di solito erano i poliziotti a picchiare - partecipavo a riunioni, eravamo contro la guerra d’Algeria, eravamo “dalla parte delle masse”; ma qualcosa c’impediva sempre di far tutt’uno con le masse. Ed è proprio questo che i giovani scopersero nel 1968: non volevano più intellettuali che si offrissero, loro malgrado, come guide. Intellettuali di quel genere cercavano d’illuminare le masse, ma le loro parole raggiungevano gli ascoltatori da un punto di vista completamente diverso. Erano 298


individui che sdipanavano idee, come risultato della loro privata conoscenza per altri individui non sintonizzati sulla loro stessa lunghezza d’onda”. Sicché fino al 1968, Sartre era rimasto un intellettuale classico. Poi, tra un comizio e una baruffa con la polizia a causa della guerra di Algeria, scende dal piedistallo classico e si massifica. Si fa tutt’uno con le masse. Fenomeno veramente eccezionale per un intellettuale classico. Ma quale divinità umana o celeste ha mai stabilito che le masse - ammettendo che ce ne siano realmente (in concreto esistono soltanto individui che possono essere soli, a casa, o, in compagnia di altri individui, in luogo pubblico) - rappresentino la verità? Se esiste il termine massa - ed è una parola orribile: un vocabolo che fa paura: è come pensare d’essere impastati col cemento armato. Sartre nel 1968 scoprì il nuovo oceano: l’Oceano Massa. E qui fece naufragio. Smise di fare da guida turistica nel mondo delle idee e si arruolò come intellettuale semplice: cioè ideologo di complemento. Spense la sua centrale di illuminazione e andò a ficcarsi umilmente fra gli interstizi bui delle masse. Io, per parte mia, rispetto, difendo tutti gli uomini, di qualsiasi classe o razza, ma separatamente. Quando essi si massificano vuol dire che dietro di loro c’è qualcuno che tira i fili. E gli uomini, massificati, non sono più uomini, ma marionette più o meno pericolose a se stesse e agli altri. La massa non ragiona, si muove come una marea. Non sa tacere, ma urla. Non ha più controlli, perché si mostrifica fino all’inverosimile per la ragione che non esistono problemi di massa. Essa èun’astrazione. E Sartre lo sa benissimo. Ma egli dice che i giovani non volevano più gli “individui pieni di privata conoscenza” perché essi, i giovani, “non erano sintonizzati sulla loro stessa lunghezza d’onda”. E già. I giovani erano invece per l’ammucchiamento anonimo e per l’abolizione di tutto. Io che sono invece nato in campagna, sono rimasto sempre allo stato di preintellettuale; e di questa condizione ne sono felice. Non mi sono perciò mai posto il problema di passare dalla posizione verticale d’intellettuale classico alla posizione orizzontale di intellettuale massificato. Sono stato giovane e ho avuto e ho idee che oscillano tra la rivoluzione, quella seria (interiore per me e per gli altri), e il buon senso. Già io stesso, da solo ben inteso, mi considero una massa. Basta che rifletta su tutti i miei organi e sui personaggi che invento per accettarmi come un essere umanocollettivo. Sono andato oltre Marx. Sono per il collettivismo privato: garantisce una buona dose di libertà e quella giustizia possibile che non troverà mai posto nelle società massificate o collettivistiche, dove lo stato continua ad essere uno Stato e l’uomo uno schiavo, non dei suoi simili, ma dei gerarchi, dei burocrati, degli ideologi, dei funzionari di partito e di altri noiosissimi e pericolosi individui. Io vedo certi giovani di oggi come tanti involontari aspiranti torturatori. 299


Quando si agitano un po’ troppo, o sotto l’effetto della droga o di un coito mancato, incominciano a farmi sorgere il sospetto che siano apprendisti boia o i Saint-Just o gli Stalin di domani. E penso altresì che l’intelligenza umana non sia né classica, né alla mano come vorrebbe Sartre. Essa è rivoluzionaria nella sua essenza in quanto si rifiuta di accettare le imposture di qualsiasi ideologia, sia di destra sia di sinistra. L’intelligenza diffida sempre ed esplora la realtà: non illumina ma consiglia. Non è né dei giovani, per la semplice ragione che i giovani, ricchi di ormoni, sono portati o alla retorica patriottica o alla demagogia rivoluzionaria; e non è nemmeno una prerogativa degli adulti, spesso rimbecilliti dall’assenza in essi di senso critico. E i giovani sono generosi nella misura in cui la loro generosità è in perfetto equilibrio con il loro egoismo. Altro che massificarsi con giovanotti in fregola di trasformare una rivoluzione in una macabra rappresentazione scenica: proprio come le beffe goliardiche, il carnevale o il linciaggio. E ho anche scoperto, vivendo in mezzo a loro per circa trent’anni, che molti di essi, oggi, sono arrabbiati perché non si sentono realmente giovani. Nascono un po’ vecchietti, acidi e predisposti a odiare gli anziani. E si odia sempre l’uomo che si considera coetaneo. Ma Sartre direbbe che è colpa del sistema borghese se i giovani di oggi sono precocemente invecchiati o nemici di qualsiasi potere. Molti di questi giovani, però, sono borghesi. Cioè hanno vissuto e vivono nel benessere. Quindi deve dedursi che è il benessere borghese a trasformarsi in microbo rivoluzionario? Ma allora qui siamo tutti vittime di un inganno? I giovani del 1968 erano figli di professionisti, banchieri, bottegai, possidenti, industriali, erano i figli della borghesia. E perché allora si agitarono? Si agitarono per la semplice ragione che borghesi e proletari, cioè capitalismo e collettivismo da tempo sono le due facce dello stesso mostro: la Rivoluzione industriale, nata dalla scienza e sviluppatasi con la tecnologia. Ci si agita, in fondo, intorno al mito della “Produzione”. Ma Sartre non vede tutto questo. Egli vede le masse e i giovani che rifiutano le vecchie guide, illuminate più o meno a giorno. E come fare di questi tempi una rivoluzione se già, da anni, ne esiste una che, giorno per giorno, trasforma il mondo e gli stessi uomini, dentro e fuori? Sartre, per capire queste verità elementari, ha bisogno che passino ancora due o tre lustri. È un filosofo a vela, non a scoppio o a reazione. Si perde, o si distrae strada facendo. Pensa se deve optare per l’esistenzialismo o per il marxismo. Il nostro piccolo Amleto, in fondo, si diverte anche lui a giocare ad una rivoluzione ermafrodita. E dell’impegno, cosa ne pensa il nostro Socrate moderno, il quale ha finalmente scoperto che la maieutica - cioè il parto del concetto - può essere benissimo sostituita dall’aborto mentale o fisico legalizzato? Egli risponde, scusandosi come se avesse detto, a suo tempo, una bugia: 300


“Sì (ero per l’impegno) e allora non me ne rendevo conto.” A questo punto sono costretto a pensare che Sartre non si è reso mai conto di nulla. Ma allora la cultura, l’esperienza, la riflessione non gli sono servite proprio a nulla? Se ad ogni tappa della sua libresca esistenza non si è reso conto mai di nulla, come può rendersi conto di ciò che accade oggi se egli ha ormai rinunziato a pensare? Vogliamo sperare che il fatto di essersi dimesso da intellettuale classico lo aiuti a pensare seriamente. Con le masse si pensa meglio: cioè non si pensa affatto, perché la massa non pensa, ma si agita, in quanto agitata, irrazionalmente. Secondo Sartre “l’impegno artistico” proclamato a suo tempo “è proprio l’immagine dell’intellettuale classico: gode dei suoi comodi (allude, s’intende, a sé) possiede un appartamento (allude sempre a se stesso) non vive troppo malamente, da bravo piccolo borghese”: (conosco personalmente molti intellettuali non classici ma rivoluzionari che sono miliardari. Anzi, a un amico il quale mi esortava a spostarmi a sinistra gli risposi: “Oggi non potrei più farlo: mi mancano i mezzi” “e siccome è uno scrittore può impegnare le sue opere, cioè, “dar consigli alle masse”. In nome di che?” Sicché l’intellettuale classico cessa d’impegnarsi e si dimette dalla funzione di consigliere generale delle masse. Sartre, cioè, si riconosce un passato di chiromante delle masse. Oggi, però, è tutto tuffato nel magma delle masse. È un rabdomante della rivoluzione. Va in giro col pendolo. E per tale ragione i poliziotti, consigliati a suo tempo da De Gaulle, non lo arrestano. Lo scambiano volentieri per un cantastorie innocuo: lo trattano come se fosse un filosofo ancora minorenne. E l’Amleto si domanda: “E perché mai - le masse - dovrebbero dargli retta? Proprio questo è assolutamente inconcepibile per i giovani di oggi, almeno per quelli che frequento”. È giusto, molto esatto che le masse o i giovani non accettino consigli dall’intellettuale classico impegnato. Ma non possono accettarli non perché si trovino innanzi a un “intellettuale classico impegnato”, ma perché le masse - come tali - non possono pensare. Possono pensare soltanto quando si sciolgono e ritornano ad essere uomini singoli, separati e distinti con i loro problemi complicatissimi e tragici. Da soli si pensa meglio e si ha la calma per poter capire che la causa della tragedia umana oggi va collocata altrove e non in una pagliacciata di piazza. Io perciò sono per gli uomini singoli e isolati, mai per le masse. Ogni uomo è un mondo. Un mondo che viene offeso da tutti: dalla scienza, dalla politica, dai noiosi ideologi, dai burocrati, dai banchieri, dagli industriali, dai capi politici, di qualsiasi colore, dai tiranni e dai demagoghi. Dagli intellettuali classici come dai rivoluzionari in veste di lenoni. E tutto questo accade per fatalità perché la scienza, deterministica nella sua essenza, è contro l’uomo poiché ha provocato la rivoluzione industriale permanente, nella quale non c’è più posto per altri tipi di rivoluzione. La rivoluzione a braccio dei 301


giovani fa ridere davanti ai cosiddetti “progressi tecnologici”. Ma seguiamo il sermone del nuovo messia in blue jeans: “Non solo la funzione dell’intellettuale è completamente diversa dalla loro (allude ai giovani), la stessa natura dell’intellettuale èmessa in causa, perché in essa qualcosa non funziona”. Ed ecco affiorare uno sprazzo d’idealismo o soggettivismo sartriano. Sartre prende sempre se stesso come prototipo dell’intellettuale classico. Ma che può sapere lui di ciò che pensano realmente i giovani o di quello che pensano intellettuali che non si proclamano né classici e né rivoluzionari? Ma perché mai l’intellettuale classico e no non funziona? E Sartre: “La coscienza infelice, appunto: l’intellettuale non deve più aggrapparsi ad essa come se fosse un privilegio. Deve invece liberarsene”. A parte il fatto che esistono migliaia e migliaia di intellettuali - intelligenti però - che non si sono mai aggrappati alla “coscienza infelice” per fare l’altalena o la ginnastica filosofica da camera. Ma quegli stessi intellettuali non hanno mai considerato la loro coscienza infelice come un privilegio, per la semplice ragione che, in essi, la coscienza non è mai esistita come coscienza infelice. Cioè non l’hanno mai avuta sotto forma di fondo monetario come l’ha avuta Sartre. E l’ex ontologo aggiunge con il sussiego del profeta: “Per far questo ci sono due modi: tapparsi gli occhi e andare politicamente a destra, cioè verso gente che ci fa sentire splendidamente unici, oppure andare verso le masse, mescolarsi con esse e quindi chiedere le stesse cose che chiedono. In questo caso l’intellettuale non è più uno che detta programmi, che decide, che definisce necessità e desideri. Lo fanno le masse e una volta che esse hanno deciso, l’intellettuale cercherà di esprimere quelle decisioni in una lingua che, naturalmente, sarà spesso la lingua delle masse stesse, appena appena riscritta in bella copia”. Qui siamo ormai in piena farsa che si recita sopra una situazione tragica, che è poi la condizione umana. Che grande umorista, malgré lui, questo pensatore massificato. Dunque, niente programmi, niente consigli, niente sedute medianiche con le forze dell’intelletto, niente suggerimenti o desideri di sorta. L’intellettuale di tipo nuovo è un calligrafo:. mette in bella copia e basta. Deve limitarsi ad essere il messo comunale o il bidello delle masse. Egli tace, ascolta, origlia, ode la lingua, più o meno scorretta delle masse, e la mette in bella copia. Come i monaci medioevali che, pazientemente, trascrivevano a mano e in bella copia i testi antichi. Il nuovo intellettuale è semplicemente uno scrivano, collocato a un angolo di strada con penna, calamaio e carta; e sta lì a correggere, o anche a scorreggere, 302


gli strafalcioni eruttati dalle masse in agitazione permanente. La prospettiva mi alletta. Avrò almeno quella funzione che la borghesia mi ha sempre negata perché non dotato di coscienza infelice. Del resto, da giovane, trascrivevo in bella copia, e in lingua comprensibile, le frasi d’amore che i commilitoni mi suggerivano perché le scrivessi alle loro fidanzate. Su questo piano ho una discreta esperienza di scrivano. Però, sono indeciso se accettare questa scomoda funzione di mettere in bella copia il vuoto linguistico delle masse. “Ma allora l’intellettuale sarà un mediatore?”. Sartre risponde in modo assiomatico: “Per il momento, il ruolo dell’intellettuale non è che questo. Quale sarà domani, non posso dirlo, ma oggi il nostro posto è unicamente quello di mediatori. Mi riferisco soltanto all’impegno politico”. Non volendo, però, Sartre ha promosso l’intellettuale da semplice scrivano a mediatore: cioè sensale. Ci avviciniamo alla funzione del lenone o del paraninfo. Anche il paraninfo è un mediatore. Combina matrimoni. Sartre ha una voglia matta di scherzare col fuoco. A meno che egli non identifichi le masse con “l’Essere” e l’intellettuale con “il Nulla”. E qui ci sarebbe coerenza con il Sartre esistenzialista. Le masse sono “L’In Sé”. La coscienza infelice massificata è “Il Per Sé”. Dunque: chi fa per sé fa per tre. Poi aggiunge sornionamente: “Vedremo poi se questo concetto incontra difficoltà o se può andare bene, nella realtà”. Certo, non è un compito facile assegnare all’intellettuale massificato la funzione di semplice mediatore. In genere, i mediatori, nella sfera economica, hanno diritto a delle percentuali sugli affari conclusi. Ma come tutti i filosofi ghiotti di concetti, Sartre afferma che proverà e riproverà, galileianamente, se questo concetto “può andar bene, nella realtà”. Quindi occorre aspettare. Sartre non ha fretta. Ogni ipotesi esige una lenta verifica. Ma la realtà di cui parla Sartre è il libro dei sogni: cioè la smorfia. E i concetti non danno i numeri per vincere alla lotteria di classe. I concettivori vanno soggetti a delirio, spesso. E nel delirio la realtà non è più realtà, ma allucinazione. Ed ecco quindi il nuovo intellettuale, a mezzadria tra le masse povere e la ricca borghesia, adoratrice ed esaltatrice della fu coscienza infelice dell’intellettuale classico massificato. E Sartre, umilmente, si confessa all’intervistatore: “Non dimentichi che ho sessantasette anni e che, dunque, rappresento il classico intellettuale invecchiato nella routine (diritti di autore e incassi di provenienze varie). La mia coscienza infelice ha avuto tutto il tempo di svilupparsi e di ingrassare!” (Finalmente una verità che fa onore al filosofo, massi303


ficatosi, per il momento, con il pensiero e con il solo corpo, avendo lasciato, in banca, la coscienza infelice sotto forma di banconote.) “Perciò ovviamente, non posso cambiare con la stessa naturalezza con cui cambia chi ha vent’anni. Ma nell’istante in cui ho sentito che l’impegno non bastava più, ho cambiato comportamento. Oggi sono molto più vicino alle masse, spesso addirittura “con” le masse: voglio dire fisicamente insieme con loro. E lì che bisogna essere.” Ma l’interlocutore incalza: “Per far cosa?” E Sartre: “Semplicissimamente, non faccio più le stesse cose di prima. Mi occupo adesso continuamente di trovare un tetto a inquilini arbitrariamente sfrattati, o semplicemente alloggiati in catapecchie.” Sembra di ascoltare una di quelle vecchie signore che si dedicano alle opere pie. Ma questo e ben poco. Anche mogli dei banchieri o degli industriali, per varie e vaghe ragioni risolvono questi casi dolorosi. Fanno entrare nell’ospizio il vecchio mendicante; ricoverano l’orfanello; fanno l’elemosina ai finti ciechi o possono anche trovare un alloggio a una povera madre di famiglia sfrattata. Ma per Sartre tutto questo è poco: è talmente poco che non andrebbe nemmeno dichiarato. E come se un milionario dicesse: ho dato oggi cinque lire a un povero sciancato: “da questo momento non faccio più le cose di prima.” Ma Sartre allunga la lista delle beneficenze: “Devo andare a manifestazioni su questi temi e ci vado. Di solito mi chiedono di fare una dichiarazione, e io la faccio”. Costa così poco. È come se si distribuissero strette di mano o frasi di auguri. “Succede una cosa piuttosto strana: tutti coloro con cui lavoro hanno come me orrore del divismo, ma da un certo punto di vista mi sfruttano come un divo e io cinicamente acconsento.” Ma anche questo è un modo per stare a galla. Divismo e antidivismo sono fratelli di latte. Sanno ambedue di esibizionismo. Sartre è nato divo. Desidera che si parli di lui sia tra i borghesi sia tra i giovani. È un modo per immortalarsi da vivo. Rifiuta il premio Nobel perché il rifiuto gli rende, sul piano editoriale, più soldi e più notorietà dello stesso premio. Dietro ogni “ontologo” si nasconde il “soldologo” e l’ambizioso. L’intellettuale a mezzadria è un divo ermafrodito, degno di essere immortalato da Prassitele. Infatti: “Non vado alle manifestazioni semplicemente per aiutare i senzatetto a trovarsi una casa”. (Ha detto “a trovarsi una casa”; e qui c’è da pensare che la presenza di Sartre fra i senza tetto sia un pungolo affinché codeste povere persone si diano da fare per trovarsi, da sole, ben inteso, un tetto qualsiasi). “Invitano la stampa e ci sono anch’io, con il mio nome. Faccio la mia parte, e i miei amici fanno la loro, che è di aiutare gli sfrattati a (trovarsi un tetto)”. 304


Siamo sul piano della calcolata filantropia. E io ho sempre sospettato di cinismo i filantropi. Si proclamano generosi per liberarsi da un senso di colpa. La filantropia rasenta il paternalismo e, a voi te, il bigottismo, che è la coscienza marcia di chi sa di sfruttare qualcuno o qualcosa. Francesco di Assisi faceva molto, ma molto di più di Sartre. Non fu innanzitutto un filantropo. Semplicemente amava le creature, tutte. E ai senza tetto avrebbe dato il suo tetto. Ai senza pane, il suo pane. E se non avesse avuto pane, cioè nulla da dare come vitto, avrebbe detto a frate Leone o a un altro: venderemo la Bibbia e così potremo aiutare questa povera donna che ha fame. La filantropia, invece, è la religione dei rivoluzionari con la polizza di assicurazione. E poi, poi, con la filantropia e l’intelletto rivolto a sinistra s’incassano miliardi. Questa è la mistificazione più cinica de “I tempi moderni”. Infatti, subito dopo, il piccolo Danton aggiunge: “Metto a frutto la mia notorietà. In questo momento al governo non fa comodo arrestarmi, e io ne approfitto per proteggere le dimostrazioni.” La Polizia francese è veramente ammirevole. Non arresta Sartre per la semplice ragione che non lo ritiene pericoloso e anche perché, in fondo, si diverte a vederlo. E Sartre continua: “L’altro giorno alla Goutte d’or (anche i luoghi pubblici, per Sartre, sono midacee gocce d’oro) ho parlato a operai immigrati. C’erano duecento poliziotti, con le camionette pronte dietro l’angolo (fa pensare Charlot fra i poliziotti), ma non hanno fatto neanche una mossa: “C’è Sartre, giù le mani!” (Divertentissimo!) E naturalmente nessuno mi ha messo le mani addosso. Ho avuto la possibilità di parlare, l’hanno avuta anche altri, ma a un certo punto abbiamo sentito dire da uno dei poliziotti: “Aspettiamo se ne vada lui, e poi piomberemo sugli altri””. La frase mi sembra inventata. Comunque, accettandola per vera, c’è &empre da ridere per il modo come, a Parigi, la polizia riesca a divertirsi alle spalle di Sartre. “Risultato: sono stato l’ultimo ad andarmene.”. Beati gli ultimi poiché saranno i primi! Questa scena mi ricorda una barzelletta che Petrolini raccontava spesso. Un oratore, rimasto solo in una sala, continuava a parlare. Fu avvicinato dall’inserviente che doveva rincasare. Maestro, disse rispettosamente costui all’infaticabile oratore: quando avrà finito di parlare, spenga la luce. L’interruttore si trova a destra uscendo. “Da principio - racconta Sartre - andavo ai comizi e sentivo gli amici dire: “sempre la stessa storia del divismo”. Adesso capiscono. Per loro io non sono un divo: mi danno del tu (e anche questo costa ben poco), andiamo d’accordo. Ma essi capiscono anche che le cose con la borghesia vanno in questo modo e noi ne approfitteremo finché ne varrà la pena. Per il momento funziona.” E io penso che le cose continueranno a funzionare così in eterno dal 305


momento che questa specie di rivoluzione si risolve in una delle solite chiacchierate pubbliche dove si sprecano parole, parole, soltanto parole. E si può mai pensare ad una borghesia che lasci liberamente circolare o presiedere comizi un rivoluzionario serio? Finché si chiacchiera, le cose non mutano, mai, anche per gli sfrattati e i senza tetto. I comizi, soprattutto quando durano per anni, sono un palliativo, uno “sfogatoio rivoluzionario.” Ed è un bene per tutti. “Comunque - aggiunge Sartre quasi per darsi coraggio - ci sono sette processi in corso contro di me come direttore di La cause du peuple, ma per ora sembra che non ne vogliano far di nulla.” Sembra di udire un personaggio di Pirandello o, per essere più attuali, un divertente fantasma di Jonesco. “L’istruttoria è chiusa, ormai, potrei essere processato domani, ma evidentemente non è un argomento all’ordine del giorno. Il primo processo, che non ha avuto neppure un’udienza, risale al giugno 1971.” Ma si capisce bene, troppo bene che i borghesi non processeranno mai Sartre. Perché privarsi di tanto divertimento? Chissà come e quanto rideranno per il fatto che il filosofo non riesca ancora a diventare un martire della “cause du peuple”. Non lo arrestano, non lo processano, lo lasciano circolare e parlare perché vogliono divertirsi. Cinismo contro cinismo. Sartre che spera di diventare, da un giorno all’altro, martire della rivoluzione, e la borghesia che gli nega questo ambitissimo privilegio. E Sartre ha il coraggio, involontariamente umoristico, di raccontare tutto questo come se si trattasse di una cosa seria. L’interlocutore gli domanda: “Lei ha cambiato anche modo di vestire. Gente che ride a vederla in giro, alla sua età, vestito come quelli di sinistra..”. E il giovanissimo Sartre - dico giovanissimo perché Sartre, essendo nato vecchio, via via che esiste, si avvia verso la beata condizione di neonato risponde: “Lo so. L’immagine dell’intellettuale classico con colletto, giacca e cravatta, non mi è mai piaciuta. Mi ci sono trovato a mio agio soltanto di estate quando potevo togliermi la giacca (ma chi gli avrebbe mai impedito di togliersela anche d’inverno o di autunno?) e mettermi in maniche corte”. Ma c’è bisogno di arrivare alla soglia dei settant’anni per indossare indumenti di proprio gradimento? Io ho sempre vestito nel modo più bizzarro. Per esempio, all’età di sette anni indossavo i panciotti di mio nonno che erano più lunghi della mia giacca e me ne andavo in giro con la massima naturalezza. Mi sono vestito alla russa, messo cravatte che sembravano corvi attaccati al collo. Mi radevo i capelli col rasoio e ungevo il mio cranio con olio di ricino. A quindici anni, pur avendo un’altezza quasi nanesca, indossai i pantaloni lunghi di un mio zio per illudermi di essere diventato un giovanotto e avere così libero accesso nelle case chiuse. Ma invece 306


il nostro Jean-Paul si compiace di raccontarci come ha compiuto la sua prima e grande rivoluzione sul piano degli indumenti, intimi o da parata. “Ora che ho abbandonato i più profondi principi di quella mia coscienza infelice, ho cambiato anche modo di vestire.” E già, prima, con la coscienza infelice, egli era costretto a indossare vestiti luttuosi o in grigio-fumo. Trattandosi di un classico intellettuale, dotato di una coscienza infelice straricca di principi profondi, non poteva che vestire di nero, con cravatta a palline nere, gli occhiali cerchiati di nero e le giacche a doppio petto con fazzolettino, nero, al taschino. Infatti “non porto più giacche, ma giubbotti, come questo che ho oggi. Non porto più quei vestiti che si comprano dal sarto (si èmesso a lottare non soltanto contro i borghesi, ma anche contro i poveri artigiani) ma jeans e camicie sportive, che si possono comprare in qualsiasi negozio”. In quale stato deve potersi ridurre un filosofo che, avendo avuto il dono di essere nato vecchio, ebbe, un tempo, commercio e scambi con idee di un certo peso. Ma oggi, che desolazione! La rivoluzione passa dai sarti ai supermarket. Sartre giubbottista somiglia a un mio personaggio che dice, modestamente: “Giacché non posso rivoltare il mondo, mi sono rivoltato la giacca”. Ma il mio personaggio non ha avuto la fortuna - e che fortuna - di possedere una redditizia coscienza infelice. Ma seguiamo Sartre, giovanile guardarobiero di se stesso. “A Venezia nell’estate del ’68 (sembra che evochi una grande data rivoluzionaria) comprai il giubbotto che porto oggi. Adesso èun po’ rovinato, ma allora aveva un bell’aspetto (dunque, l’eleganza piace ancora al nostro pensatore con camicia a mezze maniche?) E quando lo comprai mi dissi: d’ora in poi porterò soltanto roba come questa. Era subito dopo le dimostrazioni di maggio, e pensai: (ancora un barlume di pensiero classico ma felice) “finalmente, alla mia età, ho acquistato la libertà di vestirmi””. Come se prima andasse in giro povero e nudo, proprio come la filosofia. Ma come può un intellettuale ridursi a tanto? Non riconosco più Sartre, filosofo che affermò, forse senza accorgersene, che noi esistenti siamo condannati alla libertà sin dalla nascita. Ed egli acquista questa benedetta libertà, ivi compresa quella di vestirsi, alla fausta età di 67 anni? Non credevo proprio che arrivasse a tanto questo classico intellettuale che noi, malgrado i suoi attuali capricci di ragazzotto, continuiamo a stimare, per quel che ha scritto quando era veramente vecchio e rivoluzionario meno esibizionista. Ma seguiamolo nella sua odissea vestiaria: “Per anni avevo pensato (è un po’ troppo per un filosofo) che l’abito borghese, giacca e pantaloni in accordo, camicia bianca, cravatta, fosse orribile, ma allora avrei detto soltanto: è orribile, ma bisogna che lo porti, altrimenti mi prendono 307


per un matto! Insomma mi ero rassegnato. Adesso non mi rassegno più”. Ho conosciuto e conosco una infinità di borghesi che, da anni, indossano giubotti camiciole, vanno in giro in slips, si vestono insomma come loro garba. Io stesso, del resto - l’ho già detto - ho sempre indossato indumenti di mia fantasia. E questo mi è accaduto perché non sono nato vecchio, ma ho percorso la cronologica gerarchia delle età con una coscienza poetica e non infelice. Sono un poeta, il più ignorato, e questo mi ha salvato, dico: mi ha reso libero sin dalla infanzia. Ma Sartre è un filosofo e i filosofi, si sa, mentre sono miliardari d’idee o di concetti, sono assolutamente poveri di immaginazione e di umorismo. Nascono col complesso del lutto stretto, si sentono i gerenti responsabili, e anche irresponsabili, del dolore universale. Ma, vivendo e avvicinandosi a l’età lieta della puerizia, possono permettersi certe stravaganze. Meglio tardi che mai nel disporre della propria libertà. E l’interlocutore incalza: “Rifiutare di vestire l’uniforme della borghesia, certo... Ma basta secondo lei a causare davvero preoccupazioni tra le file della borghesia?” E Sartre giubbottista risponde: “No certo. Ma la borghesia ha molti altri motivi di preoccupazione. Si sente e si vede ogni giorno. Non ha più ideologia”. E questo, francamente, per essa è un bene. Si è liberata finalmente di un enorme e ingombrante e inutile peso mentale. I borghesi devono pensare a produrre, a sfruttare e ad arricchirsi. Certe ideologie le regalano a Sartre e compagni perché ne facciano scorpacciate nei libri o nei comizi. La borghesia ha le macchine, le banche e il potere politico. Agli intellettuali classici e rivoluzionari regala volentieri gli spuntini ideologici. “L’ideologia borghese risale all’Ottocento.” Si potrebbe farla risalire anche al Settecento e perché non al Cinquecento e a prima? “Oggi tutto quello che la borghesia può fare è inventare leggi: è il suo modo di combattere.” E su questo punto ci sarebbe da smentire Sartre. Se la borghesia è ancora padrona della struttura, in molti paesi e anche in Francia, se non è padrona, orienta, dirige in una certa direzione le sue sovrastrutture, cioè le ideologie. Esistono anche oggi ideologi borghesi, dotati, naturalmente, di coscienza felice, dal momento che sono, totocorda, con la classe che li nutre, li alleva e li ingrassa. Ma continuiamo ad ascoltare il maestro in blue-jeans: “Ma siccome si trova perseguitata da giovani che sono non meno borghesi di lei - molti maoisti sono borghesi - così ha inventato un nuovo razzismo, il razzismo antigiovanile “. Ma quei giovani maoisti che in Europa si agitano fanno invece esattamente il giuoco della borghesia. Lenin, che s’intendeva di queste 308


cose, non sarebbe d’accordo sulla sartriana tesi. Ogni estremismo, soprattutto oggi che sono in crisi finanche i sistemi economici collettivistici, in Russia e in Cina, resta una grave forma d’infantilismo politico. E Sartre arriva proprio in tempo per fare da balia a questi turbolenti maoisti senza la Cina e senza Mao, ma con Citroén e conti in banca. Poi, a me sembra che vada inoltre precisato se sia nato prima il razzismo degli anziani contro i giovani, o il razzismo di questi ultimi contro gli anziani. La verità è che i giovani, come ho già detto, si sentono già vecchi, non sono cioè in regola con l’età come non è in regola con l’età lo stesso Sartre. E i giovani hanno inventato la moda dell’antianzianità, avendo dentro di loro una vecchiaia precoce. Mentre gli adulti, rimasti dentro un po’ giovanili, s’illudono di fare concorrenza ai giovani. t tutto. Il razzismo se lo inventa Sartre, che si trucca da giovane per non essere scambiato per anziano. La borghesia, in tutto questo, c’entra e non c’entra. La lotta di generazioni è sempre esistita. Ma si è ingigantita nell’era dei consumi e della libera circolazione della droga, in polvere e in parole. “Che pensa - dice l’intervistante - di questa definitiva frattura tra le forze rivoluzionarie e l’Unione Sovietica? Dopo tutto lei èstato per trent’anni compagno di strada dei comunisti...” E Jean-Paul: “Trent’anni. Mi pare un po’ troppo”. E a questo punto Sartre evoca i vari periodi di vicinanza e di distacco dai comunisti. Parla di pace e di guerra con il P.C.F. E a tal proposito devo fare anch’io una precisazione. Ho conosciuto personalmente Sartre e ho avuto con lui lunghe cordiali conversazioni. Lo stimavo per un complesso di ragioni. Si era nel 1949. Eravamo seduti al caffè Berardo. La conversazione durò circa tre ore e si parlò naturalmente di politica, in particolare e in generale. Sartre mi raccontò dei suoi dissensi con i comunisti francesi, dogmatici, non fedeli interpreti del metodo di lotta marxistica e di altre controversie ideologiche. Si parlò infine della Russia. Sartre ne criticò la politica, ma sembrava preoccupato della piega che stava prendendo il comunismo nel mondo. Io gli dissi di non meravigliarsi, di non amareggiarsi troppo. Non c’era più nulla di rivoluzionario da aspettarsi dalla Russia. L’Unione Sovietica, attraverso una rivoluzione, - dissi - è ormai uno Stato come gli altri, se non più potente degli altri. E uno Stato, obbiettivamente parlando, ha le sue ragioni che non sono più le ragioni ideologiche e rivoluzionarie. Dalla Russia, dissi, c’è da aspettarsi tutto quello che può fare uno Stato basato sulla forza. Dicevo questo non per criticarla, ma perché volevo indurre Sartre a non illudersi sulla “ragione rivoluzionaria”. Precisai ancora che i partiti comunisti nel mondo erano fatalmente destinati ad essere influenzati più che dalla ideologia rivoluzionaria, dalla politica estera di uno Stato, che si riteneva, e si ritiene appunto perché forte, guida dei partiti comunisti. Sono i guai della 309


rivoluzione in un solo paese e della teoria dello “Stato guida”. “Guida”, s’intende, che, in quel periodo, s’identificava con Stalin. E Stalin - dissi - è uno statista e, per di più, un dittatore che “difende” gl’interessi “del popolo russo” come del resto fanno normalmente i Capi degli Stati borghesi. Sartre era in parte d’accordo, ma restava legato al mito della rivoluzione mondiale. Espressi i miei dubbi e arrivai a prospettare, ed era logico che me lo prospettassi, che la Russia, ormai, disporrà di vita e di morte di tutti quegli Stati in cui il comunismo è stato imposto senza rivoluzione, cioè d’ufficio e in seguito agli accordi di Yalta. Sarebbe troppo rischioso per la Russia non disporre della vita degli altri paesi socialisti. Gli risposi che ciò era nella natura delle rivoluzioni importate e imposte di autorità. Non c’era da meravigliarsi se un giorno o l’altro, qualora si fosse verificato qualche evento antirusso - non anticomunista - in una delle repubbliche popolari dell’Est, noi avremmo assistito a un intervento armato della Russia in quel paese. Sartre non voleva credere; per lui, ideologo in buona fede, la Russia era, sì, pericolosa, ma non sarebbe arrivata a tanto. C’erano, in fondo, anche i partiti comunisti dell’occidente. Ed io incalzai ricordandogli, più che Hegel e Marx, Machiavelli. Uno Stato è sempre uno Stato di forza, sia per i propri sudditi-cittadini, che per gli altri Stati che ritiene più deboli. Marx non c’entra più. Né l’internazionale comunista può sfuggire a questa ferrea legge dello Stato-forza, che si proclama “Stato guida”. La Russia, gli dissi, non tradisce nessuno. Difenderà la sua forma di “Stato socialista” nel modo più risoluto. E poi non dimentichi Stalin. Con Stalin si scherza poco. Prima di essere un ideologo, egli è uno statista e, per giunta, un dittatore temibile e molto sospettoso. Lei si è illuso credendo che fosse possibile la dittatura del proletariato quando una rivoluzione crea, di fatto e sempre, uno Stato più potente di quello che distrugge. “Ma allora il comunismo nel mondo è definitivamente compromesso!” disse Sartre. Si capisce che è compromesso. E così. “Ma allora il marxismo è stato tradito?” Non è stato tradito. C’è da dire soltanto che Marx si sbagliava circa la natura della rivoluzione, che avrebbe abolito lo Stato. Lo Stato è insopprimibile perché è nella natura umana, illuminata o non illuminata da principi di giustizia o di libertà. L’istituto del potere, l’esercizio del potere, prevalgono (ero in parte d’accordo con lui sul piano morale e ideologico ma il buon senso e la storia mi face310


vano dissentire da lui sul piano politico e quindi storico). E gli dissi anche -con quello scetticismo tipico di chi ha di recente fatta una esperienza politica basata sull’ingenua speranza nella possibilità di una rivoluzione in Italia - che, secondo me, molti rivoluzionari, in fondo, non sono che degli apprendisti tiranni. Sartre dissenti perché era invece convinto che le cose sarebbero ben presto mutate. Le cose invece si svolsero come avevo previsto senza dare a tale previsione alcun carattere di profezia. Non ero troppo filosofo né troppo “intellettuale classico” per continuare a credere alle illusioni rivoluzionarie di qualsiasi tipo. Oggi, Sartre, rispondendo al suo interlocutore dice: “Non mi rappacificai con loro (allude ai comunisti francesi) fin verso il 1951-52, ma questa pace finì nel momento in cui i carri armati russi entrarono a Budapest... l’intervento sovietico mi riuscì intollerabile perché si esercitava ai danni di un paese libero ed alleato. Per questo ruppi con i comunisti”. Quindi rotture e rappacificazioni, ritorni all’ovile e poi di nuovo fughe. E tutto questo per voler sostituire alla politica l’ideologia. Sartre ha bisogno di queste ingenuità per sentirsi a volte solidale e a volte ostile a qualcuno o a qualcosa. Non vuole assolutamente capire che qualsiasi Stato è uno Stato di forza. E che lo Stato segue la ragion politica e non quella ideologica o rivoluzionaria. Sartre, dunque, esce ed entra dalla solidarietà con i comunisti perché egli, in realtà, si batte contro i mulini a vento di una ipotetica caotica, “rigeneratrice” rivoluzione mondiale. E non sa che anche se questa rivoluzione di tipo nuovo dovesse verificarsi, a distanza di pochi anni sorgerebbe uno Stato ancora più tirannico, mostruoso, regolato, s’intende, dai rivoluzionari politici. I quali faranno fuori, a rivoluzione compiuta o durante la stessa guerra civile, gl’intellettuali rivoluzionari rimasti allo stato onirico, come per dire ingenuamente delusi. E su questo punto la storia dei processi, delle soppressioni, dei campi di sterminio e di concentramento instaurati nei paesi dove le rivoluzioni non soltanto eliminano la classe dominante, cioè la borghesia, ma inceneriscono, con un pericolosissimo fanatismo, gli stessi compagni di strada che osano opporsi alla volontà di potenza dei politici, ci offre tristissimi insegnamenti. E Sartre, che è dotato di una potentissima e noiosa capacità analitica (alle sintesi arriva dopo dieci anni, ma per dire che si è sbagliato) racconta a Pierre Bérrichou i suoi viaggi turistici in Russia, i suoi rapporti con scrittori e artisti russi, nonché i suoi incontri con Kruscev. Si dilunga nel dar rilievo al cattivo gusto artistico diffuso nell’Unione Sovietica e ai violentissimi discorsi fatti da Kruscev agli scrittori russi. Finalmente, dopo tanti viaggi di andata e ritorno nell’U.R.S.S., Sartre dice: “Nel corso di parecchi viaggi in Russia, il mio disappunto crebbe e si approfondì”. 311


Modestamente, in quel lontano 1949 mi ero permesso di esprimere il mio pensiero proprio nella direzione del disappunto. E non sono mai stato in Russia. Siccome sono poeta, intuisco, immagino ed è ovvio che preveda. Sartre è un filosofo e deve perdere tempo a sperimentare di persona - non ha fantasia, né artistica e né politica -. E un valente filosofo che ha scritto voluminosi trattati, romanzi e opere teatrali di una certa noiosa qualità. “Così, anche prima della invasione della Cecoslovacchia, l’U.R.S.S. per me era finita. Sperai naturalmente (e ingenuamente aggiungo io) che non sarebbe entrata in Praga, ma sperare non significa nulla: c’erano almeno due o tre possibilità che l’avrebbero fatto. Dopo ho cessato ogni comunicazione con loro, non c’era proprio più nessun motivo”. E perché attendere così a lungo quando c’era benissimo da prevedere tutto? Ho il dubbio che Sartre conosca bene i filosofi, ma conosce assai male Machiavelli e la storia. E ci sarebbe poi da ricordargli Hobbes. E a questo punto devo fare un secondo riferimento ai miei personali rapporti con Sartre. Eravano seduti al caffè Rosati, in Piazza del Popolo, qualche giorno dopo che De Gaulle era stato eletto presidente della Repubblica Francese. Sartre, naturalmente, era gongolante di gioia: non per De Gaulle presidente, ma perché aveva pubblicato sull’Express parigino (l’articolo fu poi pubblicato dall’Espresso di Roma) uno sfottente ritratto del generale. Io personalmente, non stimo troppo i generali che fanno politica. Ma stimavo e ritenevo De Gaulle, più che un generale, un uomo di Stato. Aveva molti requisiti per esserlo. Colto, onesto, coraggioso, signore, liberale, democratico, molto di più di quanto non lo siano i democratici di professione. E lo ritenevo dotato del senso reale della Storia. Lo giudicavo però con distacco. La discussione con Sartre si animò. Gli feci capire che non era onesto, culturalmente e politicamente, criticare e burlarsi di un uomo pubblico appena due giorni dopo la sua elezione a Capo dello Stato. Bisogna attenderlo alla prova. Dissi a Sartre che avrebbe fatto molto meglio a fare il processo a quella miriade di radicali che dal 1934 in poi condussero la Francia, e intesi dire anche gli stessi lavoratori, alla rovina. E compresi, fra i responsabili di tanti disastri causati alla Francia, anche i socialisti di Blum e i comunisti di Torhez. In fondo, il mio giudizio su De Gaulle era sereno e non mosso né da motivi ideologici, né da spirito partigiano. Era un uomo di Stato che principiava il suo mandato. Avremmo, perciò, dovuto aspettare per giudicarlo o per burlarci di lui. Sartre capì bene che il mio dissenso era mosso da obiettività politica e da semplice buona fede. Ma a Sartre, come non garba il buon Dio, non garba nessun capo di Stato. Ma io - gli dissi - i capi non li amo in quanto capi: li accetto perché essi 312


sono, per fatalità, l’incarnazione dello Stato. Anch’io sarei per l’abolizione di qualsiasi Stato. Ma, come fare? Ci sarà sempre un uomo più astuto degli altri, rivoluzionario o reazionario, che dirà sempre, tacendo o parlando come il Re Sole: “Lo Stato sono io!” Da quell’animata ma cortese discussione, ebbi ancora l’occasione d’incontrare Sartre durante un convegno della Comunità europea degli scrittori. In seguito, non ci siamo più incontrati. Dopo aver dichiarato di aver cessato ogni comunicazione con la Russia, Sartre si sofferma a criticare Nixon, la politica estera cinese. A fare distinzioni tra politica e diplomazia: rivoluzione sociale e rivoluzione economica. E poi di nuovo la Cina di Mao, i rapporti tra Russia e America e Russia e Cina. Accetta talune cose, ne nega altre. Mao va bene all’interno, ma sbaglia sulla politica estera. La solita confusione per non voler capire lo Stato, gli uomini, la storia, i rivoluzionari, gli ideologi, gli intellettuali, classici o massificati. Non vuole saperne dello Stato. Ma gli Stati sono là, sulla terra, nati dai fascismi o dai comunismi. E gli uomini di Stato fanno quello che hanno sempre fatto gli uomini di Stato: giostrare, fare patti, alleanze, scambi, guerre, armistizi, trattati commerciali, importare, esportare. E Sartre, invece, enumera, noiosamente, i soliti schemi classisti: borghesia, masse, rivoluzione culturale. Infatti il nuovo oracolo, per il filosofo, è oggi la Massa. Questa immensa società anonima composta di uomini livellàti che devono agire, fare, giudicare, processare. Rousseau era più chiaro: parlava di “Volontà Generale”. Sartre, che è un materialista di tipo nuovo, usa il termine “Massa”, come può usarlo un fisico. Un tempo in Italia, si diceva: “Mussolini ha sempre ragione”. E finì male: finì con l’aver torto. E oggi, con Sartre, possiamo mai dire: “La Massa ha sempre ragione?”. Ma perché, chi lo ha stabilito? È come dire che l’Oceano Pacifico ha sempre ragione sol perché è più vasto del Mediterraneo. Alla qualità, il massista Sartre sostituisce la quantità. Spera nelle future rivoluzioni culturali. Ma non vuol capire che le rivoluzioni, oggi giorno e nel mondo, le compie soltanto la tecnica. La dialettica si è spostata dalla storia umana alla storia dei minerali, manufatti dalla tecnologia associata al lavoro umano, il quale sarà via via sostituito dal lavoro delle macchine, queste nuove e pericolosissime abitanti del globo. La rivoluzione viene dalle viscere della terra e passa per i calcoli infinitesimali delle macchine elettroniche. Come tutto ciò che afferma Sartre, e altri intellettuali, è terribilmente ottocentesco: “socialismo” “progresso”, democrazia, razzismo, rivoluzione, comizi, barricate, fascismo, polizia, ideologie, masse ecc. Siamo ancora all’età tolemaica del pensiero politico. Ci si agita ignorando gli uomini condizionati dal 313


mostruoso “progresso” tecnologico e ignorando che il mondo sta impazzendo per eccesso di stupidità e per il moltiplicarsi di abitanti angosciati. Ma Sartre perde il suo tempo a dire che non è un maoista perché ha ormai più di trent’anni e non può più battersi contro la polizia. Sicché il maoismo consiste soltanto nel picchiarsi con la polizia? Anch’io posso dire: non sono un maoista: ma non per la stessa ragione. Mao è una personalità politica della Cina, e io lo giustifico perché ha fatto una rivoluzione seria e guida, più o meno bene, il suo popolo. Ma io sono un italiano e vivo in un contesto sociale e storico che non è quello cinese. Essere in Europa maoisti non significa nulla: è soltanto scioccamente e politicamente assurdo. Ma anche lo stesso Mao è condizionato dallo sviluppo tecnologico e scientifico. Anche lui dovrà fare i conti con i cinesi che aumentano, con le macchine e con i compagni concorrenti che hanno voluto, vogliono o vorranno strappargli il potere. Dopo aver giudicato e non giudicato russi e cinesi, i quali «sono e non sono “comunisti”», Sartre risponde a Pierre Bérrichou sulla politica di Israele. E anche questo Stato viene in parte giustificato e in parte messo sotto accusa. Insomma, per il filosofo massificato non va nulla. Funzionano bene soltanto le pantere nere in America le quali sono coraggiose perché si battono, ammazzano gli americani. Fanno saltare in aria le case - “e mica una, un mucchio”, “si ammazzano” per tenersi in esercizio. Dice: “Le pantere nere” hanno già ammazzato molti dei loro Capi, si uccidono fra loro. C’è anche del semplice gangsterismo - la pura violenza americana - che non può essere trasformato in azione politica”. E anche in questo settore la faccenda rivoluzionaria non funziona per infantilismo, criminalità e mancanza di coesione.

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da “FERMENTI”, nn. 1/2, 1976

Su Pasolini In un paese evoluto in cui ci fossero una cultura aperta e un costume aperti si dovrebbe ottenere dalla TV che ha trasmesso il dibattito sulla morte di Pasolini l’intero resoconto perché si possa avere la possibilità di sviluppare un’ampia e spregiudicata discussione sull’argomento stesso. In tal modo si presenterebbe l’occasione di fare intervenire tanti di quegli intellettuali che in Italia sono tagliati fuori dalla politica o dalla cultura ufficiale composta di narcisisti veri e propri che hanno svisato più o meno le ragioni della morte di Pasolini. Nessuno dei presenti al dibattito ha avuto il coraggio di denunziare che in Italia, il tabù sessuale ha reso l’omosessualità sullo stesso piano del peccato originale senza tener conto che ben altre tare più gravi affliggono e deteriorano la nostra caotica società civile. Perciò diventa grave il fatto che Pasolini sia stato ucciso per ragioni delicatamente private e che divengono, quindi, esecrabili, mentre non diventano delitti la speculazione edilizia, i ministri che rubano, lo sfruttamento degli operai, lo strapotere dei vari centri di potere politici e culturali, le varie mafie, le ipocrisie praticate da tutti gli ideologi, la violenza, l’aver messo le masse nell’impossibilità di controllare le malefatte della classe dirigente e la demagogia delle opposizioni, di accettare l’ipocrisia come norma di buon costume, il farci diventare complici di un andazzo politico-sociale-morale che sta dilagando e che ha trasformato la società in un coacervo di delitti che sono molto più gravi della pratica dell’omosessualità. Dal dibattito non è emersa nessuna verità oggettiva e si è, invece, confuso la sacralità della cultura con l’assassinio vero e proprio. Il fatto che la morte di Pasolini comunque sarà spiegata, analizzata, giudicata dalla Magistratura non dà il diritto a nessuno di scagliare la prima pietra sia contro l’ucciso che contro l’uccisore. La tragicità dell’evento anziché promuovere un discorso più vasto sulle condizioni attuali dell’Italia si è dispersa in bizantinismi narcisistici fuori luogo. Tranne qualche raro felice intervento, il dibattito si è svolto all’italiana e cioè in senso trombonistico opinabile e spesse volte deviante dalle ragioni più serie che costituiscono il fondamento della tragedia e del valore culturale di Pasolini. Nessuno mette in dubbio che Pasolini sia stato un uomo coraggioso, capace di sensibilizzare la critica ad una società corrotta molto di più di quanto non sia la vita, l’esistenza di un omosessuale. C’è da dire inoltre che il tempo, con l’aiuto di sempre più vaste discussioni, metterà in rilievo il valore autentico di Pasolini, scrittore, poeta, saggista e regista. 315


Tutto questo accade e non può essere diversamente in un paese in cui non c’è stata una lunga tradizione di cultura libertaria. Alcuni dicono morte squallida, altri fanno vita squallida.

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da «PUNTO INTERROGATIVO», gennaio-febbraio 1977.

La cultura che ha fallito Roma, palazzo del Grillo, cioè la casa romana di Renato Guttu- so, siciliano, pittore, sulla scena della cronaca artistica italiana da quarant’anni. Guttuso è stato nel gruppo di «Corrente» durante il fascismo e il suo impegno di «pittore civile» («Ma io non credo che un artista impegnato debba dipingere soltanto temi impegnati. Non esiste l’artista impegnato, poi. Esiste l’uomo impegnato. E io mi sento impegnato anche quando dipingo girasoli o donne...») non si scandisce soltanto su alcuni quadri ormai famosi (dalla Crocifissione del premio Bergamo, sotto il fascismo, all’Occupazione delle terre, alla _ Battaglia del Ponte ammiraglio, ai Funerali di Togliatti) ma su tutta una produzione che lo pone fuori delle mode («Oggi do scandalo ai raffinati, agli Argan e alle Bucarelli. Ieri davo scandalo a quelli che si dicevano i filistei»)1. Diciamo che il nostro punto di partenza, in questi incontri con uomini della cultura, di varia estrazione e varia formazione, è la fa- mosa dichiarazione, chiamiamola cosi, di Vittorini: «La cultura al potere», cioè l ’utopia di Vittorini, nel calore del dopoguerra, della Liberazione., la sua speranza che potesse nascere in Italia una so- cietà, una democrazia verificata sulla cultura... GUTTUSO: «Era la speranza di tutti, in quel momento. O l’illusione di tuni...». Certo, ma noi oggi ci troviamo a vivere, con angoscia e forse con paura, in un paese la cui classe dirigente (e non soltanto la classe dirigente politica in senso stretto) è profondamente incolta, o meglio a-colta. E questo si riflette, a nostro giudizio, in ogni cosa, anche nelle piccole cose quotidiane, nelle piccole cose pratiche. E allora crediamo di poter dire che la crisi attuale del nostro paese è prima di tutto una crisi di cultura. GUTTUSO: «Non credo ci sia nessunissimo dubbio su questo. Non si può non essere pienamente d’accordo su una diagnosi di questo tipo. Ma va anche detto subito che quella di molti, quella di Vittorini fu una illusione. E quando Vittorini si accorse che la sua era stata un’illu- sione, un’illusione e non un errore, lo sai molto bene, e lo sappiamo tutti, tutti noi che abbiamo conosciuto e amato Vittorini, rimase pa- ralizzato. Per vent’anni. Quella di Vittorini fu un’illusione molto simile a quella dei gio- vani del   Intervista sull’“Europeo”, 24 giugno 1973.

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maggio, nella quale tutti fummo un po’, o tanto, coinvolti. Io, sai, sono un vecchio gentiluomo ubriacone e sono uno che ormai dovrebbe essere saggio, ma fui a’nch’io preso da quella cosa straordi- naria. Allora ero professore ad Amburgo. La mia scuola era, non ti dico che casino che era... incredibile. E allora, che cosa si doveva fare? Si aiutavano i giovani a fare i ma- nifesti. Io dovevo tenere un corso di pittura. Era impossibile e quin- di non l’ho tenuto. Ma anche quella -fu un’illusione. Molto simile a · quella di Vittorini. Nel ’45». Innanzi tutto c’è da dire che in Italia è stata ed è una illusione la stessa vita. Tutti, più o meno, abbiamo paura, o tentiamo di vive- re, ma nessuno vive: perché è una illusione la verità, il sentimento della autonomia, cioè la libertà. È una utopia la stessa cultura sotto qualsiasi regime. Anzi mai la cultura è stata così sottoposta a con- trollo, indiretto s’intende, come nel periodo che va dalla caduta del fascismo ad oggi. È strano: in una Nazione ove nessuno pensa o sa pensare tutti ambiscono ad avere la libertà di pensiero. In un paese dove pochi sanno parlare — cioè parlare per poter dire la verità — tutti esigono la libertà di parola. In un paese dove pochissimi amano o rispettano la lingua italiana, tutti vogliono la libertà di esprimersi e di scrivere. In un paese dove tutto è controllato direttamente o in- direttamente dalle centrali economico-politiche e clericali, tutti esi- gono la libertà d’informazione. La verità è che dalla caduta del fascismo ad oggi tutto è andato decadendo per la semplice ragione che, una volta ottenuta «la libertà», nessuno si è rivelato maturo e all’altezza di usarla sul piano del pensiero, della parola, scritta e par- lata. C’è stata, si, la libertà di associazione: ma quale catastrofe. Un’associazipne, per dirla con Leopardi, «di baron fottuti contro l’i- ` solato». E per isolato Leopardi intendeva l’autentico spirito libero, l’artista, il poeta svincolato da qualsiasi remora ideologica, da qual- siasi conformismo. La verità èche gli italiani sono dei raffinati con formisti. Si rivelarono conformisti sotto il fascismo, si rivelarono conformisti sotto l’antifascismo. E il conformismo è la malattia delle mez- ze tacche, degli intellettuali narcisisti, degli uomini che, una volta ottenuta la libertà, non solo si rivelano vuoti di tutto, ma calcolano con astuzia le loro scelte politiche perché sia protetto il loro vuoto culturale e la loro impotenza creativa, una impotenza di fondo, che non può mai far emergere un valore, sia che si tratti di dittatura, sia che si tratti di democrazia. Se nel dopoguerra si mostrarono medio- cri e incapaci gli stessi uomini politici, è altrettanto vero che si mo- strarono incapaci e impreparati gli stessi uomini di cultura, — scrittori — artisti — filosofi - poeti - saggisti — i quali s’illusero che la libertà potesse compiere il miracolo di far venir fuori dalle loro meningi quel che in verità non esisteva. E si verificò e tutt’ora si verifica il fatto di constatare che in fondo, in fondo, gli uomini di cultura che si schierarono con gli antifascisti provenivano, in 318


quanto uomini di cultura, dallo stesso fascismo. E questi uomini, che durante il ventennio ebbero almeno la libertà di essere artisti, cioè se stessi, senza che nessuno l’obbligasse a fare arte di propaganda, caduto il fascismo e quasi presi dall’euforia di una falsa libertà, credettero di fare arte libera, mentre in realtà comin- ciavano a fare arte asservita a un’ideologia ben precisa. Altro che arte libera! Se il fascismo, grossolanamente, lasciava circolare slo- gan su una pretesa arte fascista in realtà, poi, si verificava il fenome- no opposto e cioè che tutti, nella letteratura e nell’arte, cercavano la libertà di continuare a scrivere o a dipingere ciò che fascista non era certamente. E fu questa la ragione per cui il fascismo non negò loro il diritto di cittadinanza nel mondo della cultura. Togliatti, invece, osò ostacolare Vittorini perché non ritenuto allineato, «culturalmente», ideologicamente alla linea del partito. E nacque il caso Vittorini, un caso che non avrebbe potuto mai verifi- carsi sotto il fascismo. Ma la matrice umana e culturale di Vittorini era tutt’altro di quella dei giovani del maggio. Anche se era un autodidatta, le sue radici erano, mi pare, nel terreno della tradizione illuministica, positiva, razionale... GUTTUSO: «Mentre la matrice del maggio era spontaneistica e irrazionalistica. “La fantasia al potere”, non “La cultura al potere...”». Certo… GUTTUSO: «...Vittorini s’era messo a studiare matematica, a un certo pun- to. Proprio mentre Quasimodo si metteva a studiare il greco... Ma guarda che la spinta che c’era nel Vittorini del ’45 era una spinta poe- tica, lirica, era una spinta dell’immaginazione. Lui pensava, utopi- sticamente, che la cultura fosse l’unica matrice di un potere “giusto” per gli uomini. E fu subito deluso. Alla fine non diceva neppure che era un cammino lungo. Diceva che era una strada chiusa. E allora fu costretto a scindere la “ragione poetica” dalla “ragione civile”. Quando disse: “Io sono un servitore della ragione poetica”, sanci la sua crisi, come condizione permanente e tragica. E non riuscì a scrivere. Il risultato fu che non riuscì neppure a “servìre” , come avreb- be voluto, la “ragione poetica”». Ciò che dice Guttuso è falso e quindi un po’ ipocrita. Se Vittori- ni optò per la «ragione poetica», la quale è senza dubbio una ragio- ne profondamente politica, fu perché·scoprì, intuì per istinto o per sapienza, che in Italia il problema politico numero uno è il problema ` della cultura. Con un popolo di analfabeti c’è da cominciare dall’Ab- becedario e non dall’università. Togliatti, da quella volpe spregiudi- cata e cinica, lo sapeva bene. Ma preferì la politica delle piazze alla cultura, cioè al vuoto delle coscienze, e nelle piazze e nei comizi, queste università delle fazioni e degli odi, si accentuò, si aggravò l’analfa- betismo degli italiani, coltivato sia dal clero nero che da vari cleri lai- ci e rossi. 319


Vittorini, nelle sue modeste pretese, non s’illuse: mise semplice- mente il dito sulla piaga. Una piaga che doveva restar tale per espli- cita volontà di quanti in Italia, allora, preferirono il gregge a una comunità di uomini civili. E la cultura di questi anni è fallita non perché è stata una cultura vera e propria ma è fallita per la semplice ragione che non c’è mai stata cultura. Il compromesso, la demago- gia, l’arte di propaganda camuffata dalla pretesa dell’impegno, il con- formismo, Parrivismo, il potere, i soldi, il privilegio, i premi, il narcisismo di tanti premiati e osannati non è cultura ma bivacco. Una specie di fascismo peggiorato. I partiti politici non hanno provocato cultura per la ragione che i loro leaders non erano uomini di cultura ma sensali, più o meno scaltri, delle varie classi, disorientate dalla guerra. Ricordo che in quegli anni ci si batteva unicamente per essere i primi della classe nell’a1nbito della ideologia e della lotta politica, che era una lotta per privilegi di qualsiasi natura. Si creavano gerarchie fasulle e discriminazioni nefaste. Si faceva a gara a chi doveva dar prova di maggiore attaccamento alla ideologia, ideologia che, in quel periodo, si identificava con le direttive di Togliatti, cioè di Sta- lin. Gli intellettuali di sinistra, illusi di essersi liberati dal peso di una dittatura sui generis come quella di Mussolini, ingenuamente o per calcolo, si ritrovarono a servire un tiranno molto più pericoloso di Mussolini. Ma si trattò di un tiranno lontano e che veniva rappre- sentato dalle azioni e dalle parole suadentì di Palmiro Togliatti, il quale si presentò agli intellettuali italiani in veste di fine dicitore, di raffinato filologo, addirittura di cruscante. Doveva essere il suo ruo- lo. Fare una politica che af fascinasse gli uomini di cultura. Uno spec- chietto per allodole. Perché, in verità, ai politici interessa la cultura che volontariamente si mette a servizio di una ideologia. Ma l’ideo- logia fu mal servita, per la semplice ragione che quegl’intellettuali, anziché usare la libertà e il senso critico per farsi una vera e propria cultura — come del resto era nell’intenzione di Vittorini — si schie- rarono nella lotta politica come tanti analfabeti e della storia d’Italia e della stessa ideologia marxistica, ritenuta, naturalmente, infallib`i- le. E un’ideologia s’infiacchisce quando viene sostenuta da intellettuali orecchianti. E a Togliatti interessavano più gli intellettuali orecchianti, cioè ben predisposti al conformismo e alle linee del par- tito, anziché intellettuali colti e a conoscenza della politica di Stalin, in Italia e nel mondo. Il piano di Togliatti era chiaro: formare un forte partito comu- nista acritico e disponibile per le manovre di politica estera della Russia di Stalin. Una cultura seria avrebbe potuto far nascere uno spirito critico, sarebbero venuti fuori eretici ed eresie. Si sarebbe riscoperto un uomo di cultura marxistica, cioè A. Gramsci, che i compagni «più illustri» si affrettarono a dichiarare superato. Superato perché non in odore di santità presso Stalin e presso lo stesso Togliatti. I partiti hanno perduto il rapporto... 320


Ma il primo scontro che quella che lu dici l ’illusione di Vittorini ebbe con lo realtà fu uno scontro... GUTTUSO: «Con una burocrazia. Bisogna però pensare a tante cose. Togliatti veniva dall?Unione Sovietica. Togliatti era veramente un uomo di cultura italiana nel senso classico della parola... però veniva dalla Unione Sovietica ed era quindi abituato a una prassi molto diversa. Poi era giornalista. E quindi un passionale. Quel Togliatti razionalista di cui parla Bocca non è vero. Togliatti quando voleva dire una cosa la diceva, fosse o non fosse producente... L’attacco a Vittorini fu un attacco. .. diciamo che si lasciò trascinare, anche perché vide il pericolo che “Politecnico” diventasse un luogo di sbracamento e questo sbracamento avesse il crisma del partito. E allora volle fre- nare e non lo fece bene. E Alicata contribuì molto a farlo andar ma- le, perché più impulsivo, meno misurato”. E Vittorini allora reagì in modo passionale... “se mi attaccate, allora me ne vado... non sono disposto a suonare il piffero...”. E Togliatti rispose male a sua volta. .. Certo che per capire il comportamento non politico di Vittorini, la sua risposta “poetica” a Togliatti, bisogna ricordare da quali esperienze usciva Vittorini. Vittorini si era formato sotto il fascismo, in un clima culturale tutto particolare. Quanti anni hai?». Quarantacìnque. GUTTUSO: «Bene. Tu hai conosciuto e vissuto, pur molto giovane, gli anni del dopoguerra, il ’45... lo ho sessantun anni e ho vissuto sotto`il fascismo e so che cosa era la nostra tensione culturale e la nostra at- tenzione culturale... che cosa si desiderava, che cosa si sperava. .. Ve- devarno niente, non potevamo andare all’estero, non arrivavano riviste tranne che clandestinamente,. io ho letto il primo libro di Silone. Fonmmam, perché l’aveva una ragazza rumena incontrata a Capri. .. Fontumara in francese. .. Poi, non so, entrò un libro di Thomas Mann che si intitolava Avertìssement à l’Europe... fu un libro che ci colpì molto. Poi si cercava di leggere tutto quello che si poteva di una cul- tura che a noi mancava, perché la nostra cultura, e non da pochi de- cenni, da secoli, era una cultura di accademia, una cultura staccata dalla vita, cattedratica, arcadica...». L’urto fra Vittorini e Togliatti fu un urto non tra uno scrittore e un politico, non un urto tra un poeta e la burocrazia, ma fu lo scontro fra due tipi d’importazione politica del problema italiano. Vittorini, cioè, rappresentava la realtà politica e culturale italiana, quella reale, quindi storica e concreta, Togliatti invece rappresentava il tipo di politica sovrapposta alla situazione storica e reale. Togliatti, in- somma, metteva a servizio della ragione ideologica — la politica di Stalin — la sua ragione e la sua passione nei momenti di maggior attrito. Togliatti, come tutti gli ideologi, era un razionalista a senso unico. Non era cioè un critico 321


e nemmeno un autocritico. Aveva un mandato e questo mandato veniva da un uomo che egli temeva e sti mava come suo capo. A Togliatti non_ interessava il piano culturale di Vittorini, ma voleva semplicemente che questo piano fosse a sen- so unico, cioè diretto da lui, cioè indirettamente da Stalin. Fra Togliatti, Alicata e compagni, il più onesto, e politicamente e culturalmente inserito nella realtà italiana era senz’alcun dubbio Vittori- ni. Una onestà di uomo civile che prende coscienza del preoccupante passivo culturale e quindi politico della società italiana. Comunque il caso Vittorini, pur denunziando una frattura fra sensibilità civile e culturale da una parte e direzione politico-ideologica dall’altra, fu un caso modesto e circoscritto nell’ambito della sola pubblicistica. Ma bastò a denunziare lo strapotere di Togliatti, il quale avrebbe fatto molto meglio a occuparsi di cose politicamente molto più estese, an- ziché inquisire su una questione letteraria che avrebbe .senz’altro por- tato al provincialismo della cultura italiana, ivi compresa la neo cultura comunista. Cultura che in quel periodo, per colmo d’ironia, era rap- presentata da transfughi del fascismo, e cioè Ingrao, Alicata, Laiolo e tanti altri intellettuali, divenuti, dall’oggi all’indomani, esecutori ortodossi dell’ideologia marxistal . Il povero Vittorini, che in realtà era stato uno scrittore antifa- scista, s’illuse che la linea culturale del P.C.I. fosse ispirata a criteri di libertà e di critica. E non è esatto quello che dice Guttuso circa il pericolo d’uno sbracamento operato in nome del partito comuni- · sta. Lo sbracamento è venuto dopo, con una cultura addomesticata e fondata su parole d’ordine e di slogan a ripetizione e di errori ma- domali, riconosciuti dallo stesso Togliatti. Questi errori erano comun- que dovuti al fatto che la politica svolta da Togliatti era in sostanza diretta, a distanza, da Stalin o dalla linea stalinista che, in quel pe- riodo e sul piano culturale, si ispirava alle direttive di Zdanof, teori- co dell’estetica marxistica. Basti pensare ai continui cambiamenti di atteggiamento nei confronti dell’arte o nei riguardi della Jugoslavia per avere un’idea del come gli uomini di cultura marxistica fossero costretti a cambiare, d’ufficio, atteggiamenti e comportamenti dall’oggi all’indomani su ordinazione. Ma si pensava ad ubbidire per- ché Togliatti, ormai, era divenuto il migliore, in tutto: in politica, in letteratura, in filologia, in giornalismo, in saggistica, in oratoria e in strategia. In quest’uomo politico, in verità, operavano due co- scienze: l’una, segreta e legata, non si sa se per terrore o convinzione profonda, alle direttive di Stalin, l’altra, quella ufficiale, tutta espressa in bonomia, in sorrisi, in dissertazioni o addirittura in disquisizioni filologiche. Una filologia ch’era in parte un fatto di vera cultura e in parte uno stratagemma tattico per mascherare le sue vere inten- zioni politiche, almeno in quel periodo stalinista. L’Episodio del Politecnico divenne un caso nazionale per la semplice ragione 322


che occorreva stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di autonomia culturale. Occorreva dare un esempio: non si poteva- no ammettere quelle che in gergo marxistico, o meglio Stalinista, ve- nivano considerate eventuali deviazioni o, come dice Guttuso, con termine spregiativo e inesatto, sbracamenti. Magari, in quel perio- do, ci fossero stati in Italia altri casi come il Politecnico e altri «sbra, camenti». A quest’ora avremmo avuto una cultura moderna e non una cultura che, a giudizio dello stesso Guttuso (beneficiato in tutto dal partito comunista) ha fallito. Il guaio secolare della cultura libe- ra in Italia è quello di vederla condannata o dalla Curia romana o dai cialtroni che militano nei partiti politici, convinti di far politica sol perché hanno una tessera e si conformano, pecorinamente, alle direttive dei gruppi di potere. Vittorini non fu un ingenuo e nemme- no politicamente uno sprovveduto. Prese onestamente coscienza del grande vuoto, del dilettantismo, del narcisismo, della mancanza di umiltà degli intellettuali italiani, ivi compresi gli intellettuali politici, che gravava sulla cultura italiana. E credette, come credemmo un po’ tutti, alla possibilità d’iniziare con mezzi e intenti modesti, quel la- voro di critica e di analisi di tutti i problemi insoluti della società ita- liana. E capì che si trattava di un lavoro colossale, superiore alle sue forze, ma che doveva pur avere un inizio. E non mi parve che in que- sto fosse velleitario: fu semplicemente un coraggioso e modesto arti- giano: molto più serio di tanti intellettuali ossequiosi che credettero opportuno fare o continuare a far carriera nelle file del P.C.I. come del resto avevano già fatto durante il fascismo. E Togliatti preferì questi ultimi a Vittorini. Preferi i conformisti: essi provenivano da una buona scuola totalitaria ed erano, per tal ragione, più idonei ad accettare qualsiasi direttiva piovuta dall’alto. Era questo il concetto di democrazia, che Togliatti propinava a coloro che di democrazia non avevano la più lontana idea, provenienti, com’erano, dai Guf, dai Littoriali, dalle scuole di mistica fascista, dalle befane del Min- culpol o da altri enti e confederazioni ben redditizie in onori, premi, riconoscimenti e quattrini. E il povero Vittorini, che in verità fu uno scrittore sensibile e intelligente, senza per questo essere né un genio e nemmeno un pensatore, si ritirò in buon ordine: risucchiato dalla sua «ragione poetica» che, occorre dirlo con coraggio, in quegli an- ni costituì una verità,- storica, politica e culturale. E, come sempre accade in questo paese di scomuniche, di condanne, di processi e di anatemi, non ci fu nessun altro caso analogo. Il Politecnico fu sepolto e la genia dei conformisti, impegnati a far carriera e a mietere onori, riconoscimenti e protezioni, si ingrosso. Quale cultura nuova poteva mai nascere da gente che ha paura fi- nanche della propria ombra? La cultura seria è critica, opposizione, anzi è sempre all’opposizione di forze che culturali non sono. Di for- ze a cui non è gradita la verità. La cultura fallisce quando si lega a un qualsiasi potere, sia ideologico che politico. Essa richiede 323


corag- gio, rischio, autonomia, spregiudicatezza, preparazione soprattutto, apertura mentale, spirito di tolleranza, uso dialettico della libertà di giudizio; e richiede anche la presa di coscienza del contesto storico in cui l’intellttuale opera. E Guttuso ci viene a raccontare che du- rante il ventennio fascista si vietava tutto; che non si poteva andare all’estero, che non si potevano leggere i libri di Thomas Mann. Pure ammettendo tali divieti, ma santo Dio, esistevano le biblioteche, cioè milioni di libri italiani e stranieri. E in Italia c’erano scrittori che li- beramente operavano e che potevano collocarsi sul piano di Thomas Mann: Pirandello, in tono minore Bontempelli, Cecchi, Cardarelli, lo stesso Ungaretti, scopertosi, dopo la caduta del fascismo, uomo di sinistra, dimenticando spudoratamente di aver ricevuto da Mus- solini in persona onori e gloria, posti, titolo e la nomina ad accade- mico d’Italia. C’era Tilgher, Buonaiuti, Renzi, Panzini, Papini, lo stesso Malaparte, e perché no lo stesso Guttuso, che il fascismo non gli impose mai di dipingere opere ispirate al fascismo. Altro che ansia di cultura. Le proibizioni del fascismo si limitavano al solo settore politi- co. Del resto in Russia avveniva e avviene di peggio. E questo era fermento culturale, magari in gruppi ristretti. Era ansia di cultura. E quindi era già cultura”. GUTTUSO: «Guarda, c’era Firenze. C’erano le “Giubbe ros- se”. Io ricordo che quand’ero ragazzo se riuscivo ad avere cinquan- ta lire andavo a Firenze per passare una sera a un tavolino delle “Giubbe rosse” dove c’era Montale, Timpanaro, Gadda... Vittorini non c’era più... ma c’era Rosai... le sole persone colte e civili che ci fossero in Italia. Poi ci fu un’altra cosa. Che noi, voglio dire noi giovani, anche se ci sentivamo portati a posizioni di rottura, erava- mo sempre influenzati dal crocianesimo, perché il crocianesimo era l’unica cosa che c’era e quindi il filtro attraverso cui si vedevano le cose, per quanto si reagisse, perché noi eravano coscienti di questo, era Benedetto Croce. .. si viveva in quella atmosfera, perché ai nostri occhi Croce era l’antifascismo. E questo spiega anche un certo modo di essere antifascisti... è il caso di Montale, è il caso di Morandi. Cioè di persone che si ritirarono, che si chiusero nella loro scorza di- cendo: “lo cercherò di dipingere meglio che posso. Io cercherò di scrivere meglio che posso. E questo mi salverà dalla contaminazio- ne”. A questo punto, noi reagivamo... Il gruppo di Corrente fu il gruppo che reagì più aperta1nente... a Corrente appartennero Vitto- rini, Sereni, Gatto, Manzù, Birolli, io, Fontana e tanti altri... Live- ramente ci fu un tentativo di inserire un discorso che fino allora nella cultura italiana non s’era fatto. C’era stato a livello del futurismo... ma per il resto ciò che era avvenuto in Italia in pittura era sempre metafisica, astrazione, insomma, non partecipazione. Noi sostene- vamo chiaramente... ci sono anche i nostri scritti. . . ci fu un numero di Prospettive intitolato PAURA DELLA PITTURA, che feci io... che poi significava “paura dell’uomo...”. ` 324


La grande forza di Corrente (e non soltanto di Corrente ma di tutte le altre esperienze culturali vive che si animarono sotto il fasci- smo) fu che non sapendo nulla o quasi nulla di ciò che si faceva fuori d’Ita1ia, non avendo conosciuto che di riflesso, o casualmente, il grande sviluppo della cultura europea del Novecento, essendo informati marginalmente e parzialmente, quei pochi che vivevano l’ansia della cultura furono costretti a estrarre da loro stessi, con disperazione qua- si, certo con entusiasmo, quanto avevano di meglio dentro, nelle ve- ne, nelle viscere... E quindi c’era una tensione nelle opere nostre, allora, una tensione interiore che recuperava tante cose, che compen- sava tante cose, che, in fondo, dava un segno di originalità... Oggi l’informazione è così massiccia, così diffusa, che tu non hai tempo di essere veramente informato... E di qui il fenomeno opposto: una corsa all’aggiornamento che diminuisce o impedisce la concentrazio- ne, il potere di densifìcare quel poco che ciascuno ha». Provinciale e crepuscolare la rievocazione delle Giubbe rosse: un ritrovo di letterati che vivevano a mezzadria, praticando un vittimi- smo immaginario – tra il complotto clandestino, sibìllino-ermetico – e l’aspirazione alla chiara fama. Un po’ di antifascismo mormo- rato sottovoce e un po’ di aspirazione al riconoscimento. Ed erano scrittori che scrivevano elucubrazioni cattoliche o laiche, in cui espri- mevano quel che potevano esprimere: un’ambigua tolleranza al de- testato regime e l’aspirazione a collaborare al Corriere della Sera. ll solito intimismo tortuoso dell’intellettuale italiano, per lo più autodidatta e aspirante a una cultura in verità superiore alle sue forze. Complottavano con la polizza di assicurazione concessa loro da qualche gerarca, che interveniva sempre in tempo per scagionarli di qualche diceria antifascista. Guttuso ammette comunque che il fascismo, malgrado la sua grossolanità e la sua poliziesca sorveglianza, tollerò il movimento di Corrente. E Corrente fu una rivista di cultura, anche se si trattò di una cultura divulgata da giovanotti aspiranti alla cultura. Gobetti, Gramsci, che furono due uomini di cultura vera presero posizione e pagarono. Con la mezza cultura si,è sempre tolleranti perché essa non costituisce alcun pericolo. In fondo, si trattava di fronda e non di autentica cultura antifascista. E poi, sinceramente parlando, non c’era nel campo della cultu- ra seria, Benedetto Croce e la sua rivista «La Critica?». Ma chi, di questi sedicenti intellettuali, lesse in quei tempi le opere di Croce o «La Critica»? C’era il teatro di Pirandello. C’erano pittori come Mo- randi, Sironi, prosatori come Cardarelli, saggisti come Savinio, lo stesso Moravia trovò forse ostacoli durante il ventennio? Nessun poeta 1 si oppose al fascismo perché nessuno fu messo al bando. Govoni, Ungaretti, Saba, Quasimodo, lo stesso Montale furono forse censu- rati? Critici, come Cecchi, Pancrazi, Flora, Papini, Soffici, scrittori come Panzini, Baldini, Beltramelli erano forse a1l’indice politico? Til- gher, Bonaiuti, 325


Martinetti, Renzi, pur dissenzienti dal regime, scris- sero quel che avevano in mente di scrivere. Zavattini, Pitigrilli, dirigevano le loro riviste e pubblicavano liberamente i loro libri. Scrit- tori e pubblicisti come Montanelli, Malaparte, Monelli e tanti altri, scrivevano forse su giornali clandestini? E i giovani poeti Gatto, Si- nigalli, De Libero, Penna e tanti altri scrivevano poesie come quelle che scrivono oggi. E Guttuso, Guttuso che si dimostra tanto assetato di cultura eu- ropea, si è forse oggi aggiornato in materia di cultura pittorica? Nes- suna metamorfosi: anzi ci è stato un peggioramento del suo realismo pittorico, messo a servizio di un’ideologia che con la cultura pittorica europea è all’antitesi. La sua pittura violentemente cartellonistica non ha subìto nessuna finezza, non si è evoluta nel senso moderno, è rimasta com’era nel periodo fascista: con l’aggravante che, a liber- tà venuta, egli non si è affatto aggiornato. Ciò sta a dimostrare la scarsa considerazione che egli attribuisce a quella cultura che, secon- do lui, gli era stata negata dal fascismo. E Scipione, Mafai, Stradone, De Pisis, Soldati, Magnelli, Sironi, Morandi, Balla, Severini, Rosai, De Chirico furono forse costretti a dipingere il fascio littorio o i salti nel cerchio di fuoco che spavaldamente faceva Starace? Di pingevano liberamente e spontaneamente quel che sentivano, legati o alla tradizione o alle correnti dell’arte contemporanea. Non credo che nel periodo stalinista o Zdanoviano in Russia i pittori fossero liberi di dipingere con la tecnica tonale, astratta, cu- bistica o espressionistica. Li veramente la cultura fu legata al totalitarismo e al realismo socialista. Quel realismo socialista che ha entusiasmato lo stesso Guttuso, lettore clandestino di Fonmmam e di Tommaso Mann. E non ci venga a dire che l’arte di quei pittori è borghese e, per tale ragione, fascista. È forse arte fascista il teatro di Pirandello? Teatro che ha in- fluenzato tutta la cultura teatrale nel mondo? Si vuol forse tacciare di critico fascista Adriano Tilgher, che, a ben leggerlo, precorre l’e- sistenzialismo di Sartre? E i nostri scrittori umoristi, Campanile, Manzoni, Pitigrilli, Anton Germano Rossi, erano forse apologeti delle paludi pontine bonificate? E la musica di Puccini, Mascagni, Cilea, Malipìero, Casella, Respighi, Busoni, Petrassi e tanti altri giovani musicisti, tradizionalisti o innovatori, componevano forse soltanto marce per fanfare e inni a Roma imperiale? Via, un po’ di onestà: si tratta di dire che quella era la culturache dava l’ltalia! Ma con l’Italia liberata è nata forse una cultura moderna, una narrativa rivoluzionaria, una poesia nuova, una pittura effettivamente animata da un afflato innovatore? Sono venuti fuori dei pigmei. Del resto i critici che furono illustri durante il fascismo, come il prof. Argan e tanti altri che è inutile citare, sono ancora al_ loro posto. Continuano a pontificare, con la differenza che adesso pontificano con uno spirito settario e ideologizzato. .. È venuta fuori l’arte del 326


cesso e della contestazione: siamo ai barattoli di merda e alle statue costruite con le tazze dei cessi e ai sacchi di Burri, ritenuto il Michelangelo dell’arte italiana contemporanea. La cultura nuova che è venuta in Italia è il rifiuto delle avanguardie europee consuma- te già cinquant’anni fa. Il futurismo fece un po’ di più e fu almeno urfavanguardia italiana, anche se proclamato da un poeta un po’ con- fusionario e un po’ benevolmente cialtrone. Il guaio è che la cultura in Italia non è stata mai presa sul serio, né dagli intellettuali, tranne rare eccezioni, né dai politici. Il pubblico è fermo ai romanzi erotici e alla pittura oleografica. Si procede marzialmente verso una cultura che ha come scopo la sistemazione in una cattedra universitaria o verso la vincita di un premio.

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Il critico d’arte

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da «LA FIERA LETTERARIA», 18/ 9/ 1960.

ARTISTI DI IERI E DI OGGI La poetica di Cézanne Un giudizio sulla pittura di Cézanne ci rimanda necessariamen- te alla comprensione delle idee che l’artista stesso elaborò, con ge- nialità, intorno al problema della pittura contemporanea. Poetica e arte del dipingere, infatti, formano in Cézanne, come forse in nes- sun altro pittore moderno, una unità fondamentale: vero processo critico a tutte quelle contaminazioni letterarie che avevano provoca- to la falsità di un’arte così vitale e, per sua natura, rivelatrice di tutta la realtà. Dopo Leonardo, l’artista che meditò in modo concreto sull’essenza della pittura, fu senza dubbio Cézanne. E le ragioni di un tale processo, che si rivelò sostanzialmente fecondo, sono da ricercarsi nella storia della cultura francese dell’epoca: una cultura che innanzi tutto fu provocata quasi sempre da una esigenza rivoluzionaria e da una sottile propensione a ricevere tutte le arti con uno spirito nuovo. Mentre l’estetica in Germania era una elaborazione metafisica, teoria pura dell’arte, in Francia, invece, essa penetrava nella vita, si mescolava alle inquietudini più vive degli stessi artisti, si trasforma- va in una completa partecipazione dell’uomo al problema dell’espe- rienza artistica. Cézanne arriva alla pittura attraverso una miracolosa individua- zione della sostanza pittorica. Per lui, dipingere è penetrare il colo- re, vivere col colore, crescere col colore fino a fare esplodere sulla tela tutte le possibilità che i colori possiedono potenzialmente. Arrivare alla pittura non uscendo mai dalla passione operante e penetrante che un pittore deve saper scoprire nei colori. Di qui la lotta contro ogni elemento intellettualistico che matura la rappresen- tazione colorata. Cézanne crede soltanto nella sensazione accesa e vi- tale; egli considera Pesperienza artistica come una forza fondamentale. Il pittore deve liberarsi dalle tentazioni della letteratura e studiare la natura. Con questo Cézanne vuole affermare che ogni schematismo, intellettualisticamente prefabbricato, inquina senz’altro la pittura. Il contenuto ci allontana dalla comprensione diretta della realtà. Ma qui si tratta di una realtà che passa per i filtri del sensibile e diventa Oggetto della esclusiva esperienza pittorica. Il colore sarà quindi la vita interna non solo della realtà, ma della rappresentazione. La ve- rità pittorica è una sola; e resta confinata nelle infinite combinazioni e stratificazioni della materia plastica. Lo spirito dell’artista e la na- tura, segreta o rivelata, sono un’unica realtà sperimentale. Siamo per- ciò al centro di un processo tipicamente pittorico. 331


«Il mio metodo è l’odio per l’immagine fantastica; è realismo, ma un realismo — capitemi bene — pieno di grandezza, l’eroismo del reale». E per eroismo del reale Cézanne intende Pautenticità del- la natura e la sua rappresentazione diretta, genuina. Per arrivare alla grandezza del reale occorre crearsi una vergini- t sensibile e appassionarsi alla visione immediata. «Un quadro non rappresenta nulla, non deve in primo luogo rappresentare null’altro che colori». Qui la critica è rivolta contro gli elementi letterari e mi- tologici che contaminano la creazione pittorica. La vera scoperta di Cézanne sta nell’aver ricondotto la pittura nel suo luogo naturale, che è quello della pura sensazione coloristi- ca. La realtà esterna non deve fare altro che accendere nello spirito una sorta di mania rappresentativa. _ Dipingere vuol dire costruire una seconda natura, che viva di soli colori, che trovi nella trama sempre più genuina dei colori la sua ra- gione di essere. «Non si deve riprodurre la natura, ma rappresentarla. Come? Con equivalenti coloristici figurativi». La pittura è colta nella sua folgorazione intuitiva. E l’intuizione pittorica rende viventi le cose nel colore. Ma con la sensazione si deve costruire tutto il quadro. E il qua- dro vero, quello che rappresenta in modo autentico una realtà pitto- rica, deve andare oltre la sola impressione. «Bisogna ridiventare classici mediante la natura, cioè attraverso la sensazione, senza af- fannarci, e ritrovare davanti alla natura i mezzi che impiegarono i quattro o cinque grandi veneziani». Qui il significato classico sta a indicare la immersione del pittore nella concreta dimensione della sola pittura, liberata da ogni schema a priori: liberata finanche dal pre- giudizio della composizione e del disegno. Dunque, «dipingere signi- fica registrare e organizzare sensazioni coloristiche». Ma non basta: occorre penetrare e scoprire l’intima costituzione della natura. «In natura, -·— egli dice — tutto è modellato secondo tre modalità fondamentali: la sfera, il cono, il cilindro. Bisogna imparare a dipingere queste semplicissime figure, poi si potrà fare tutto ciò che si vuole». E, approfondendo la inscindibilità fra pittura e disegno, Cézanne afferma: «Non si deve staccare il disegno dal colore. Sarebbe come vo- leste pensare senza parole, semplicemente con cifre e seg11i. Mostratemi qualcosa di disegnato nella natura. Non c’è linea, non c’è modella- zione, ci sono solo contrasti. Ma i contrasti non sono nero e bianco, bensì movimenti di colore». Con questo Cézanne vuol dire che an- che il disegno vive della vita, del dinamismo del colore: nasce addi- rittura dai contrasti di toni. «I contrasti e i rapporti tonali, ecco il segreto del disegno». Infatti, proprio le sensazioni ottiche si producono nel nostro organo visivo e ci fanno ordinare secondo luce, semitono e quarto di tono e piani rappresentati mediante sensazioni coloristiche. 332


E l’analisi che Cézanne fa della fenomenologia pittorica giunge a individuare la vera condizione del pittore. Stabilisce cioè tra il’pit- tore e la cosa un rapporto in cui l’artista autentico deve sentire e vi- vere l’oggetto attraverso i colori. Deve fare in modo che l’oggetto si maturi pienamente in questa sua seconda vita. «Per dipingere un oggetto nella sua essenza, si devono avere questi occhi da pittore che, nel solo colore, vedono l’oggetto, se ne impossessano, lo collegano ad altri. Bisogna adattare i propri mezzi d’espressione al motivo, non piegarlo a sé ma piegarsi ad esso. Lasciarlo nascere, germogliare in noi». , «L’arte deve dare il brivido della durata che sta a fondamento della natura. In altre parole, la pittura deve far in modo che la natura si lasci scoprire e si lasci gustare eterna. E per ottenere questo oc- corre che l’artista prenda, ovunque, i colori, le loro sfumature; li fissa, li accerta tra loro, e in tal modo essi formeranno linee, diventano og- getti, rocce, alberi, senza che il pittore ci pensi». Ecco sorgere l’artista moderno: il pittore che, avendo scoperto il principio, la genesi della pittura, lascia fare alla sua segreta natura. Ma con questo legame Cézanne non intende dimostrare la possi- bilità dell’artista, ma vuole spiegarci che la stessa vita profonda dell’artista opera parallelamente al principio sepolto nella natura. L’arte è abbandono al fluire di una più profonda attività cosmica; un fatto che trascende la intuizione, la volontà, lo schema intellettuale, insomma qualsiasi elemento letterario di provenienza extra naturale. «Il paesaggio si riflette, si umanizza, si pensa in me. Io lo obiettivizzo e lo fisso sulla tela». Ed ecco il paesaggio e la tela: «Il profumo azzurro dei pini che è aspro nel sole, si deve sposa- re all’odore verde dei prati, all’odore delle pietre, al profumo del marmo lontano del monte Sante-Victoire. È questo che si deve rendere: e soltanto nel colore, senza letteratura. L’arte, io credo, ci pone nel- lo stato di grazia in cui troviamo l’emozione universale, come nei co- lori, così dappertutto». Quando si arriva alla convinzione che la natura è più in profon- dità che in superficie, si scopre il valore di una simile scoperta. E i colori, per Cézanne, sono l’espressione di questa profondità: essi sal- gono su dalle radici del mondo, sono, in verità, i noumeni, le idee viventi della ragione pittorica, scoperta nella sua assoluta purezza. Con tale convinzione, maturata durante un’esistenza che fu tutta una dolorosa discesa nel mistero del mondo o delle cose, Cézanne non smise mai di far coincidere nella sua pittura, che resta tutta chiusa in una lucente magica assolutezza, la intuizione di una poetica profonda.” Alle soglie della pittura contemporanea, sia il suo pensiero che la sua arte conservano qualcosa di magico: quel sentimento dell’eterno che con genio e grazia, egli scoprì nella natura, dopo averlo scoperto nel suo spirito innovatore.

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da “PERSONA”, n. 11, novembre 1969

CRONACHE D’ARTE De Pisis, pittore-poeta Io credo che su De Pisis sia stato già detto tutto quello che può mettere in evidenza un’arte così preziosa ed utile, una pittura sgorgata come una lunga lirica: meraviglia di un poeta pronto a cogliere le vibrazioni più delicate delle cose. Stupenda, a tal proposito, è la monografia scritta da Guido Ballo ed edita, con eccezionale eleganza, dall’I.L.T.E. È un’opera che può considerarsi esauriente sotto ogni aspetto, una monografia magistrale per la ricchezza delle riproduzioni e la intelligente analisi dell’arte, della cultura e della poesia di De Pisis. Ho detto poesia e cercherò, se mi sarà possibile, di metterla in evidenza nell’arte del nostro pittore, di cui ho potuto vedere una vasta rassegna alla Mostra Nazionale organizzata dal comune di Verona, presentata da Licisco Magagnato, Manlio Malbotta, Sandro Zanotto e diretta da un Comitato formato da Guido Ballo, Demetrio Bonuglia, Bona De Pisis, Giuseppe Marchiori e M. Valsecchi. In ogni quadro di questo artista, le immagini sono fissate in uno spazio che vive, in virtù di una misteriosa metamorfosi, con le cose dipinte fino all’ultimo lampo di vita. Queste immagini sono come le strofe di una straziante elegia in cui vibrano simultaneamente la gioia, la bellezza e la morte. Si tratti di una rosa o di una lepre, di una piuma o di una farfalla, è sempre l’aria evocatrice che si adagia sulle loro forme e vibra nell’istante che le accoglie e le trasfigura. Questo pittore dipinge come se scrivesse, con l’impeto nella mano e la grazia negli occhi pronti a cogliere, di una figura umana o di un paesaggio (strada, piazza o laguna) il segno scattante e propizio, esattamente come se si trattasse di scrivere un verso con la freschezza di un colore che, morendo, vuole rivivere, con estrema gentilezza, tutta la sua carica emotiva. De Pisis entra trepidante nella luce, si lascia avvolgere dalla visione, vive con gli oggetti, sa isolarli, sprofondarli nello spazio ed evocarli come fossero dei personaggi. Di qui il carattere metafisico e lirico delle sue nature morte, le quali sulle spiagge si ingigantiscono a misura che il mare, in fondo, le riempie di echi e di colori. Egli, attento ad ogni mutamento della luce, 5 insinua con curiosità poetica nel particolare dell’oggetto e lo impasta con riflessi e colori indimenticabili. Li vediamo rilucere sulle squame delle aringhe, sulle corazze delle aragoste di fuoco, sulle penne delle pernici fulminate, sulle mele che dormono sulla loro 334


ombra, sui delicati segni dei suoi nudi. Ed ecco uscire da uno spazio di meriggio favoloso la tavola fatata dove il vino vibra nel cristallo, accanto a una conchiglia che, mentre si ascolta, si copre di patine impreviste. Ed ogni tocco di rosso, o di bianco, di marrone o di nero resta sull’oggetto come una luce straziata; e allora sorgono dal vaso che trema i fiori con tutta la loro freschezza e la loro perfidia effimera. De Pisis sa che ogni petalo è una parola della terra, una nota che occorre isolare, e far vibrare anche se dall’insieme delle corolle scaturiscono colori più accesi che silenziosi. La sua pittura è infatti trepidazione e amore dell’oggetto seguito fin nei particolari piu insignificanti; e così acquistano rilievo le piccole cose, gli angoli trascurati, vecchi spartiti di musica, pipe, fogli di carta gialla, lucerne, caffettiere collocate in penombra, una vecchia poltrona che sogna, foglie che volano, alberi che attendono, tremando. E queste umili sopravvivenze del tempo sembrano che lo chiamino dal loro abisso per farsi collocare in colori magici, come se il colore fosse una seconda misteriosa vita. La poesia di questo pittore sta proprio in una costante attenzione per tutto ciò che l’occhio afferra nei suoi veloci viaggi tra le cose e la luce. E lo aiuta la memoria del sole, il rigore del tempo che si fa presente e presenza: evocazione del sacro nel quotidiano che sfugge e lascia il cuore nella bellezza. De Pisis è il pittore che esaspera e polverizza, senza per ciò essere un decadente, l’ultima stagione dell’Impressionismo. Anzi, è proprio lui a dare all’Impressionismo il tono di una morte senza solennità, la musica che fa riemergere gli oggetti ad una nuova vita, a uno splendore. Ogni suo quadro, perciò, si fa ricordare proprio in virtù della sua carica poetica, la quale scoppia in una forza pittorica di altissimo valore. E, in verità, nessun pittore italiano contemporaneo ha tanto prestigio lirico ed umano insieme; e nessuno meglio di lui ha saputo bruciare la cultura in una così drammatica vicenda plastica, dove la sensibilità moderna, più che vissuta dall’intelletto, è macerata da un meraviglioso amore per la vita, che si fa realtà nel segno memorabile, dove le cose tornano a sognare nei colori, nella luce di un ritrovato sortilegio che ci distanzia dalla morte.

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 9/6/1963

Incontro con Archipenko In occasione della mostra dello scultore russo Alexander Archipenko, mostra organizzata dall’Ente Premi Roma (Palazzo Barberini), abbiamo rivolto al celebre artista – senza dubbio uno dei più grandi scultori del nostro tempo – alcune domande sulla sua vita, sulle sue idee estetiche e sulla sua arte. Archipenko, che è un uomo d’una semplicità straordinaria, un ucraino rude e pieno di una vitalità profonda, ha risposto volentieri alle nostre domande e, con acume e autentica convinzione, ci ha parlato, sia pure brevemente, della sua vita e della sua arte, di quell’arte che, come gli ha detto un suo ammiratore: “non lo fa maestro, ma elève de Dieu”. D. – Quando lasciò la Russia, sua patria d’origine? R. – Nel 1908. D. – Quale fu la città che scelse come sua dimora ideale? R. – Parigi. In questa città ho avuto modo di lavorare liberamente e preparare le mostre nelle diverse città d’Europa: Ginevra, Zurigo, Praga, Berlino. Nel 1920 feci una mostra personale alla Biennale di Venezia. Fu in quella occasione che la marchesa Casati, famosa collezionista, acquistò una mia opera. D. – A Parigi, quali artisti, poeti e scultori italiani conobbe durante il suo soggiorno? R. – In quel tempo, conobbi personalmente molti artisti italiani, nella maggior parte futuristi: Soffici, Papini, Severini, Boccioni, Marinetti, Modigliani, Balla. Strinsi con loro rapporti di vera amicizia. D. – Quale fu la tendenza artistica da lei condivisa in quell’epoca? R. – Il Cubismo. Facevo parte del gruppo dei giovani che allora lottavano per imporre la nuova corrente artistica. Leger, Bracque, Picasso, Apollinaire. D. – In che anno la sua prima mostra personale? R. – Nel 1912, all’Osthaus museum in Hagen. D. – Quali critici del tempo si occuparono della sua scultura? R. – Herwart Walden. In Francia, Apollinaire, Roger Allard, Maurice Renold e Blaise Cendras. Theodor Daubler, Ardengo Soffici, Ivan Gol, L. Moholy, Nagy, Ulrich Geritz, Pierre Gueguen, Gedion, Welcken Michei Senplor, Hans Fuch, in altri paesi dell’Europa. D. – Quali sono gli artisti che hanno subito la sua influenza? R. – Boccioni, Zatkin, Lipehiz, Henri Moore, per parlare dei più celebri. Molti sono i giovani scultori che, in America e in Europa, si ispirano alla mia arte. 336


D. – Che pensa dell’arte europea contemporanea? R. – Penso che c’è una reazione nei confronti dell’arte astratta. Secondo me, poche opere si salveranno. Il concetto di astrazione è stato usurpato da artisti privi di talento. La nuova fase artistica si sta delineando, ma non ha ancora preso una fisionomia definitiva. D. – Quali sono gli artisti pittori e scultori del nostro tempo che stima in modo particolare? R. – Innanzitutto stimo gli artisti autentici, dotati di qualità creative, cioè quelli che inventano delle nuove combinazioni di forme e di colori e che creano un nuovo stile. Picasso, Bracque, Leger e altri, degni di stima. D. – Crede fermamente nella modernità dell’arte? R. – Sì. Per me, per esempio, gli Egizi sono eternamente moderni. D. – In linea generale, quante mostre ha fatto fino ad oggi? R. – Questa che ho fatto a Roma, al palazzo Barberini è la 129a esposizione. E posso dire che tutte le mie mostre hanno ottenuto un successo autentico di critica e sinceri consensi da parte del pubblico. D. – Quali sono le fonti culturali delle sue ricerche e delle sue invenzioni plastiche? R. – Per delle circostanze inesplicabili sono stato fatalmente costretto ad essere scultore. Ho detto inesplicabili, ma chiarisco meglio il mio pensiero. Secondo me ci sono degli individui che sono destinati a creare, altri che sono portati a imitare i creatori, altri individui, invece, che hanno la funzione di distruggere ciò che è stato creato e anche ciò che è stato imitato. La più grande difficoltà consiste nel combinare questi tre elementi. Se si riesce, si crea qualcosa di veramente nuovo, altrimenti occorre avere il coraggio di distruggere tutto quello che anche nel passato non ha nulla a che vedere con l’arte. Occorre, dunque, utilizzare degli elementi artistici favorevoli e trovare una combinazione estetica e spirituale corretta, affinché si ottenga la verità assoluta nell’arte. D. – Crede che gli artisti d’oggi si pongono dei problemi del genere? R. – Sì. Soprattutto gli artisti creatori. E ce ne sono. L’essenziale è di avere la coscienza chiara delle forze creatrici della natura che sono nascoste nelle nostre cellule. Il genio è in comunicazione diretta colla natura. Questi uomini eccezionali, nei momenti di sincera meditazione, possono intuire le idee o i fatti che sono nel fondo della realtà. Platone credeva nella esistenza reale delle idee esistenti oltre lo spazio e il tempo. Ebbene l’artista comunica con queste realtà e le rende plastiche nella sua opera. D. – Che pensa dell’arte informale? R. – E una usurpazione: uno sfregio alla bellezza. A Parigi e in America si 337


nota una reazione abbastanza notevole contro questa moda che non ha nulla a che vedere con l’arte. D. – Quali sono state le critiche più penetranti provocate dalla sua scultura, quelle dei critici di professione o quelle dei poeti? R. – Le une e le altre. Ma devo dire che i poeti sono andati più a fondo nello scoprire la mia scultura. D. – Mi parli della scultura policroma, voglio dire della sua scultura più originale. R. – Trovo che nella natura non esista nulla che non abbia forma e colore. L’una arricchisce l’altro. Questo, penso, sia il segreto elementare della scultura policroma. Sia la forma che il colore provocano delle emozioni segrete. Non trovo dunque la ragione per cui sarei costretto a separare la forma dal colore. D. – E vi sono scultori che realizzano questa sua nuova forma plastica? R. – Sì. Incominciò Boccioni quando venne a Parigi e vide le mie sculture. Oggi, in America, esistono molti giovani scultori che procedono in questo senso. D. – Che impressione le ha suscitato la scoperta di Roma? R. – Roma ha un’atmosfera di grande calma che si sprigiona dal suo passato fuso col ritmQ della vita moderna. Ed è naturale che quando dico moderno mi riferisco a un ritmo quasi travolgente. A Roma vi è inoltre un altro elemento che riempie la sua atmosfera, ed è lo spirito religioso. Questi tre elementi fanno di Roma una città originale: un luogo difficilmente dimenticabile.

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da «FERMENTI», nn. 122-123, 1982.

Bassorilievo per Francesco Paolo Delle Noci Nell’arco eterno del cielo il Cosmo tuo si staglia esatto nei Segni Zodiacali dove il sole squilla – gallo di Dio – e luce ti viene incontro con esattezza. Chi guida la tua mano è la durata in cui il passato è l’avvenire stesso nel tempo del persente. CAPRICORNO è un guerriero con asta tesa Ha un occhio nero accanto a un occhio bianco Mani sicure Mani veggenti Mani con lame d’oro immerse nell’ocra ondosa che scoppia nel rosa improvviso. L’ACQUARIO sorge come un flutto d’aria sorge da11’onde di cenere lieve Guida pesci guizzanti Ha il volto di profilo contro il sole Ha l’elmo tagliente e l’occhio innamorato Già scoppia l’onda e insorge un volto ad arco Due PESCI in fuga d’iride striati e cerchi azzurri e verdi all’orizzonte. La loro madre è il mare l’acqua antica che il seme rinnovella ad ogni istante e placa il mondo che dovunque è luce Ecco L’ARIETE dalle corna d’oro un cavaliere lo cavalca e accenna ad una luce che l’aria ci abbaglia Le zampe sono in suono le curve già danzanti Chi resta di profilo è qui un guerriero segno di forza per l’arcano scontro Scatta il TORO preciso contro il rosso Zampe divaricate Zampe al galoppo Colore del mattino nello spazio La lancia è già una luce

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fra curve ed ombre ed un azzurro in fuga I GEMELLI sono là fissi a guardarsi con aste quiete dai ventagli rosa come la prima luce del mattino Si parlano con gli occhi ed hanno il viso tinto dal giorno che li rende assorti già figli degli Dei Ed ecco il CANCRO con la lancia in resta Curve smaglianti a chiocciola dovunque Lo scudo arcato l’elmo di profilo lmpeto ad archi Cerchi sempre a scatti e lamine lunate Nell’arco dell’infinito una guerriera già calvalca il LEONE e con la mano stringe la punta della sua criniera come volesse dire: son di fuoco · io vado verso il sole come sempre La VERGINE è seduta su conchiglie e guarda visi giunti dalla luna quasi ridenti d’ironia dorata che fissa nell’azzurro altri profili BILANCIA sta Due misteriose maschere Luna e Sole vesti che il bronzo intaglia e dà rilievo Luna di profilo inabissato Sole di faccia con occhio cieco S’avventa lo SCORPIONE Ha un’arma biforcuta Guglie che sono prensili nel cielo Dadi d’oro Sempre dadi bianchi con cerchi quaggiù neri IL SAGITTARIO ha un arco ed una freccia pronta a colpire l’ora che galoppa fra zoccoli danzanti ed una coda con lame aguzze ed elmo luminoso S’ode il suono del Sole e della luce che tinge d’oro il velo dell’aurora La tua arte è precisa

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ha la purezza dei miti il taglio assiro Quel misterioso stare fra cielo e terra degli egizii la danzante malia dei babilonesi il nitore arboreo dei greci Tu non sogni ma vedi Hai la mano maga e il colore dolce di lame luminose su cui gli Dei incontrano se stessi . e imparano a memoria · il destino dell’uomo Più che un Surrealista sei un superrealista inventi cioè con precisione i tuoi segni le tue luci improvvise i colori come le prove di un al di là che attrae e che stupisce ad ogni scatto d’istante umano Cerchi pertanto l’armonia la esattezza del Cosmos dove il sacro dimora c le luci degli astri ‘ si scontrano perché zampilli tutta la bellezza di sempre.

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da «Fermenti», nn. 10/12, 1982

Turchiaro o della stilizzazione Scrisse Camus ne «L’uomo in rivolta»: «L’arte è sempre stilizzazione». Vedremo in che consiste tale stilizzazione. Lo stesso concetto ribadì nei suoi discorsi tenuti a Stoccolma ed all’Università di Upsala in occasione del conferimento del Nobel per la letteratura. Mi sono ricordato di questa definizione guardando i disegni acquarellati di Aldo Turchiaro: disegni che fanno corpo unitario con i suoi dipinti. Questo artista è innanzitutto un uomo del Sud: un mediterraneo. In lui confluisce una memoria arcaica-immagini e simboli fiabeschi e favolosi di uccelli, animali, pesci (in particolar modo il delfino) e la visione di una realtà – anch’essa naturale – di ciò che sa di metallico, di lucente, di stilizzato e soprattutto inventato dalla rivoluzione scientifica e tecnologica: rivoluzione che ha, come una gigantesca metamorfosi, trasformato i minerali – viscere della terra, quindi della natura – in oggetti che sono reali e nello stesso tempo straordinari, provocatori di sensazioni, percezioni ed ideazioni, che hanno del magico e dello stupefacente. Su questa strada arcaica e tecnologicamente moderna si muove l’immaginario – per non dire l’inconscio – di Aldo Turchiaro. Di qui il suo stile che si risolve nel disegno e nel segno, con una tecnica che rende vibranti e laminati i suoi oggetti. Tali oggetti, però, hanno un’anima, esprimono appunto quel segreto innesto tra ciò che è arcaico (l’amore, la tenerezza ed anche la violenza degli animali e la vibrazione di una realtà che apparentemente ci sembra meccanica ma che, nella sostanza, resta natura (terra-aria-cielo ed acqua) metamorfizzata. Quando Turchiaro opera, in lui si mettono in moto sensazioni, in conflitto apparente, ma che sfociano in una trasfigurazione favolosa del reale, ricca di paure, di stupori, di agguati e di suggestivi sfondi cosmici. Di qui nasce il suo stile, cioè la sintesi della sua interiorità più remota, solare, idilliaca, con l’apparente freddezza della sua tecnica. I suoi uccelli nascono da segni scattanti, in cui la vibrazione riempie lo spazio, la luce ed i colori, di una bellezza che è pura forma (disegno) e magia di sostanza profondamente rimossa da un immaginario ricco di sedimenti misteriosi. Come Van Gog, Turchiaro ha trovato l’innesto tra colore e segno. Da questi segni, carichi di una sottile tenerezza, viene fuori la sua fauna stupita e diffidente. Le sue colombe in attesa, i suoi delfini scherzosi ed a volte pateticamente innamorati di altri animali. Una fauna libera, assolutamente risolta in atteggiamenti che fanno pensare ad un’anima del mondo: a tutte quelle sfumature che poi sono segreti apporti di una ontologia ricca di sorpresa e di fascino. Turchiaro ama il mondo, il suo mondo popolato di acque lucenti, di 342


lama, pensosi come personaggi che fanno blocco con l’uomo; di delfini scattanti dalle acque in cerca di amore e di un contatto fisico e metafisico con volatili – uccelli meravigliosi – che sono spinti quasi da un sentimento unificatore e struggente. Perché dunque apparizioni di animali e non figure umane? Turchiaro predilige gli animali (non le bestie) perché essi, oltre a possedere un’anima, popolano il cielo, la terra e le acque, e come gli elementi sono naturalmente veri e simbolicamente archetipi: misteriosamente in noi. Il leone e la gazzella sono la forza e la tenerezza: due opposti che si completano affinchè lo spazio acquisti una segreta drammaticità. L’uccello-grillo, la pantera ed il delfino, l’antilope ed il leone, l’uccello variopinto, il cane, l’uccello verde con pallina rossa, delfino bianco, l’isola con nido, isola grigio scuro, uccello grigio con pallina verde. Poi appaiono le casette da fiaba. E qui il blu con le sue variazioni, è per Turchiaro il colore fondamentale: esso è la notte dell’anima, il fondo del cielo, il fondo del mare, forse il fondo della terra. C’è un passero solitario che sembra vero, immobile dal suo canto muto. Esso è di un grigio vibrante. Ritorna il motivo dell’isola: simbolo magico della solitudine nello spazio, nell’infinito e nella finitezza. Altri colori che Turchiaro predilige sono il verde, il turchese, il viola, il giallo, l’arancione, il bianco più bianco della carta, il rosa, il rosso: colori veri e segnati in una dimensione tutta animistica, direi quasi esoterica. Sono colori che occupano poco spazio e dilettano per la loro misurata magia. C’è l’uccello fiore-stellato. C’è il motivo dominante dell’occhio-vite. Un occhio ripetuto per una esigenza di dolce ossessione come si trattasse di un occhio cosmico, fissato ovunque: una sfera spaccata in due-orizzontalmente come una pupilla-retta: centro di uno spazio che si assottiglia fino a contenere il riflesso del mondo. Altra realtà-simbolo è la matita: una specie di sesto dito che giace appuntito in fondo al quadro, una matita in riposo, come fosse assorta dopo aver disegnato la volpe con il delfino, uccelli, casette, la volpe con gli arancioni quasi gialli. Ci viene incontro un fiume con anse; come fosse un serpente azzurro. C’è poi una petroliera con uccelli. Qui la meraviglia si trasmuta in curiosità, in diffidenza per poi fissarsi come stupore. Il motivo del delfino è dominante, come il motivo dei-rocchio-vite, della matita, della colomba. In questo artista il mistero si fa vibrazione di lamine, come xilofoni orizzontali, verticali, obliqui. E qui lo spazio si fa musica, si moltiplica in un ritmo, interno ed esterno all’immagine. Soprattutto gli uccelli sgusciano con una eleganza scattante e perfetta. Ecco ciò che noi intendiamo come stilizzazione: cioè ritrovamento dell’essenza dell’Essere. Rare volte appare la figura umana. In una di esse può intravedersi l’immagine del padre: un’immagine scura, quasi cupa come un tonfo dalla morte alla vita. In quest’arte esatta come un assioma occorre scoprire ciò che è presente come folgorazione e ciò che è segretamente invisibile. Qui Jung parle343


rebbe appunto di archetipi. Una geografia dell’anima che si ripresenta a cicli, con le sue stagioni favolose e la sua musica di fondo. Simboli dell’unità della creazione. Apparizioni di un aldilà che a noi si presenta come segno magico di un disegno dilatante, progettuale, proiettato in un infinito che si fa cosa muta, cromaticamente silenziosa. Vi è poi la necessità segnica di ripetere la figura del serpente. Nel rettile, l’eleganza assume un valore plastico di rara bellezza. La teoria della evoluzione potrebbe parlarci di una tipicità biologica: siamo stati rettili anche noi. Siamo stati trampolieri, lama, colombe, delfini, uccelli del Paradiso, leoni, pantere, uccelli-piloti, grilli, muli, bufali e finalmente uomini con occhi misteriosi, con mani operaie con cuore capace di contenere tutta la passione del mondo. Turchiaro è un artista che io definirei classico: cioè egli possiede la facoltà di stilizzare tutto: basta osservare quei trucioli di metallo quelle sue onde di acciaio vibrante, quelle sue architetture strutturate come delle autentiche astrazioni. E come ogni artista classico, Turchiaro è romantico, cioè ha la coscienza del recupero dell’arte, collocata sia nella storia che nella metastoria. E questa pittura è destinata a durare perché conserva sia la staticità dell’apparenza che la dinamicità dell’essenza: un’arte da considerare con tutti i crismi della bellezza.

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Indice

NOTA DEL CURATORE VELIO CARRATONI PREMESSA INTRODUZIONE

pag. 5 » 7 » 11

Il poeta da «ELEGIE DORICHE» L’ala Sella polare Infanzia Vorrei che morte Bianco di tempo… Venisse almeno Distanza E fu amore alla terra Stella mattutina Testamento Se non ancora è giorno

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27 27 27 27 28 28 28 29 29 29 30 31

da «LETTERE DELLA SPOSA DEMENTE». Prologo I Tempo

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da «ESILIO SULL’HIMALAYA» XXX XXXI XXXII Lo ricorderemo cantando Preghiera agli amici A una libellula A una conchiglia

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48 48 48 49 49 50 50 51

da «LE FAVOLE DI DIO» Le favole di Dio Requiem per la morte del poeta

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52 52 54

da «E L’UOMO NON SARÀ SOLO»

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da «GLI OCCHI Dl ORFEO ad Alfonso Gatto

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59 59

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a Leonardo Sinisgalli a Eugenio Montale

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da «BALLATA PER MILLE OMBRE». Viaggio di nozze al paese di nessuno Testamento Processo al poeta Poeta:

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da «I DETTI IMMEMORABILI DI R.M. RATTI» Autoritratto Dubbio Assenze Dìlemma Crescete e moltiplicatevi Alla luna Stato civile Il poema Navigazione Folgorazione Disguidi Insonnia Il turista . Vincite al lotto Equinozio d’autunno Turni Il disoccupato Lo specchio Compleanno Cortesia . Tattica Provvedimento Smarrimento Tavolate al buio Confessione Fame antica Preludio e fuga Vana speranza Esperimento Enigma Pudore Sospetti Indicazione Doppio risveglio Miraggio

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In trattoria Rimorso La garçonnière Non offendo nessuno Misteri orfico-onirici Il sogno fisso di un dormiglione Il bello addormentato Prova antropologica dell’esistenza di Ratti Lo stakanovista L’asta Gli eterni turisti Delicatezza Esercitazione La penna d’oca L’unico libro Assurde pretese Come una etera Lo spione Paura Pretese di un illuso Delicatezze Aspirazione Il comunicante La tentata evasione Maieutica Adozione Pensierino Illusione Il raggio dimenticato Minima Un po’ d’ipocrisia Quasi una verità Misterino Il vitaiolo Pensatore igienista Mistero Celeste desiderio L’ospìte nascosto Pensiero al galoppo Di servizio Dalla culla alla bara Onore al merito Ideologia Decreti lampo

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Il fantasma lampo Uomo abbandonato Poeta affarista Il fisarmonico Sono un uomo da posteggio Amleto anno zero I puzzoni L’ermafrodita Il questurino Il silenzio è d’oro Innocenza con aggravante Tattica superata Eroìsmo impossibile Turni Al buio Le cagne L’ignoto Il nosocomìo L ’illuso Forse… Provando e riprovando Regime clericale Scelto dalla zecca Legge marziale Calore fittizio Il lieto acquisto L’aquilone · Pane e lavoro Il decapitato L’archeologo Visite brevi Delicatezze di un settimino La vacca La rotta Il fratello siamese Magia Onestà Il dittatore Il saluto Pietà Speranza vana Primato Domanda Opere pie

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Il pappagallo scostumato Rivoluzione Apicidio La tenia Libero arbitrio del biglietto da mille Uno e trino . La sentinella L ’ospite pensante Le lucciole Prurito mentale · Scambio d’idee Cose serie Pensiero privato Limiti del pensiero La monade La balia L’annunciazione La verità Irruzione nel pensatoio Come in un pollaio Delicatezze metafisiche Chiaro scuro . Uomo smarrito Le dolci ore Lutto Vitto eccezionale Chi sono Abbonamento Il rondone Giuramento L’ombra Eroìsmo Raccomandata con ricevuta senza ritorno Rinascente Lettera smarrita Assenza totale Titanica La spinta Mercato a domicilio Filantropia permanente Perquisizione a domicilio Tutti peripatetici Orgoglio dell’uomo Spiegazione

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Moschicidio Occupazione del calendario Maldicenza in famiglia La luna cogli orecchioni Lo spuntino dell’anima Milionario Menù quaresimalista Dubbio amletico Il nemico La stufa Trauma La gobba L ’abisso Segreto Tempo e luogo Proselìtismo II lumino da notte Piano regolatore

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da «L’IDIOTA» Cos’è l’idiota Almanacco degli italiani felici Antologia Inni per nani musichieri Di sonno in sonno Scherzo rumoroso Inni ebraici Dizionario semifìlosofico Notizie e fessi

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109 109 111 112 112 112 112 113 115 116

da «GLI ANNI DEL SILENZIO» Superstìtì non piangere Donna Uomo Insonnia Steppa

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da «VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO» e altre poesie Sonata per una voce d’altro tempo

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da «I FIORI C’INSEGNANO A SORRIDERE» Rosa rossa innamorata

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da «QUINTA GENERAZIONE» La Gazzella Visita

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da «SUGLI OCCHI E PER SEMPRE» Sopravvivenze I. II. III. IV.

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da «L’AMATA NON C’È PIÙ» I. TEMPO

» 146 » 146

da «PARABOLE DELL’ANGELO DI CENERE»

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da «DOLORE GRECO» Non a me torna amore Rintocco d’ora Cupe note ascolto Dolcezza inonda l’anima Mi preme dolore di giorni Acqua di stella Nell’ora che notte avvolge Tronchi l’inverno crocifigge al cielo Mi accompagna l’eco Nebbia s’addensa Più che il lume del sole Non rifiorisce il sangue Dall’inflnito giungono Foglie l’autunno abbatte Negli abissi del cielo Per anni rimasta al caldo Sii tu felice serba nel sorriso In fuga l’istante Udire Note di lontana musica Ancora un giorno A notte, di là dai vetri Insensato amore Mi colga Se ne vola ogni sera Della terra Giorno per giorno Di me, in un luogo che ignoro Giunge, da un’altezza L’alba ha strozzato il gallo Non mi ricorderanno i tronchi Orrore mi coglie

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Non voli di felici uccelli Non è festa per gli occhi Terra fa sangue Non v’è istante Notte se n’è volata! Già freddo Non più stupore Mi desta stupore D’un usignolo che fu Il rapimento L’indlfferenza La passeggiata Se gli dei sono veri Voci dal buio Portatemi l’adolescente Mi venga una fanciulla Il sonno le chiuse gli occhi Morte di giovinetta Oltre i vetri scolora…

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da «QUINTA GENERAZlONE», nn. 103/104, 1983. La vita è un urlo Vertigine che m’avanza

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da «AMORE GRECO» Silenzio improvviso, tu Stanotte Ti scolpirò con una lama d’aria: Sei tu morta, Pietra tu nel tempo Sei muta con occhi bianchi Un’ombra ti copre il capo. Sei piu viva d’un raggio. Un serto di rose Tu di luce sul prato Hai ciglia lunghe per gli occhi Sei di vetro sottile. Puro fu il cielo Non mai dimenticata Tu come in un pozzo Sei l’amore Fu l’aurora a svegliarla Stanotte tremo… Sogno il sepolcro mio Fu un grido a svegliarmi

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Che una mano gentile Fu il mare a rigettarla a riva Sei col raggio al tramonto Portatemi chi trema… Gli dei sono andati Salgo dagli inferi. Casta luce di stella È gelo quel vecchio T’amo e grido

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da «LO STRAPPO» VI Prima della soglia oscura 1976-83 Sarò…

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185 185 186 187

da «UN PO’ DI MERAVIGLIOSO» Il fu magico specchio (Apparizioni) Le mie vite anteriori

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da «SINFONIE» Sinfonia buffa per l’estate Rapsodia in minore Già nevica sul pianeta

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da «AGALMATA» Afrodite callipigia (dalle belle natiche) Nozze di Era e Zeus Amore e Psiche

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da «IL PIANETA NERO» Lo ha deciso il capo La puzza del denaro

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Il critico letterario

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da “IL PICCOLO”, 21/5/1959 Narratori d’oggi - Alberto Moravia

» 223 » 223

da “LA FIERA LETTERARIA”, 21/5/1961 Noterelle di revisione critica - Lo spirito classico di Leopardi

» 227 » 227

da “LA FIERA LETTERARIA”, 19/2/1961 I VINCITORI DELLA PENNA D’ORO Profilo di Emilio Cecchi Il prosatore L’opera critica Il concetto dell’arte

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 12/6/1960 POETI DI IERI E DI OGGI Eugenio Montale

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da “LA FIERA LETTERARIA”, 13/8/1950 Poesie marginali di Sandro Penna e Fuoco Bianco di Adriano Grande

» 237 » 237

da “LA FIERA LETTERARIA”, 20/1/1963 Marotta e le donne

» 242 » 242

Il «francesista»

» 245

Su Mégean E VOI TIRANDO IL MIO

» 247 » 247

da «LA FIERA LETTERARIA», 29/ 10/ 1961. Ricordi parigini VALÉRY SU MALLARMÉ

» 265 » 265 » 265

da «LA FIERA LETTERARIA», 9/4/1961 LA PERSONA E IL DESTINO Meditazioni di Simone Weil

» 268 » 268 » 268

da “LA FIERA LETTERARIA”, 28/8/1949 GIDE NEL MILLENOVECENTOTRENTOTTO Visita ad un utopista

» 272 » 272 » 272

da “LA FIERA LETTERARIA”, 23/4/1961 UN’ACUTA INDAGINE CRITICA DI GIANNI NICOLETTI La bellezza di Baudelaire

» 275 » 275 » 275

da «LA FIERA LETTERARIA», 30/ 12/ 1962 Le Figaro

» 278 » 278

da «LA FIERA LETTERARIA», 27/ 1/ 1963 Esprit

» 279 » 279

da «LA FIERA LETTERARIA», 24/ 2/ 1963 Esprit La nouvelle Revue Françoise

» 281 » 281 » 282

da «LA FIERA LETTERARlA», 31/3/1963 Esprit N.R.F. La Table Ronde

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da «LA FIERA LETTER/\RIA», 30/9/1962 La Table Ronde

» 285 » 285

da «LA FIERA LETTERARIA», 14/4/1963

» 287

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283 283 283 283


Arts

» 287

da «LA FIERA LETTERARIA», 5/5/1963 La Table Ronde

» 289 » 289

Il polemista da «Jean-Paul Sartre, intellettuale massificato», 1973

» 293

da “FERMENTI”, nn. 1/2, 1976 Su Pasolini

» 315 » 315

da «PUNTO INTERROGATIVO», gennaio-febbraio 1977. La cultura che ha fallito

» 317 » 317

Il critico d’arte

» 329

da «LA FIERA LETTERARIA», 18/ 9/ 1960. ARTISTI DI IERI E DI OGGI La poetica di Cézanne

» 331 » 331 » 331

da “PERSONA”, n. 11, novembre 1969 CRONACHE D’ARTE De Pisis, pittore-poeta

» 334 » 334 » 334

da “LA FIERA LETTERARIA”, 9/6/1963 Incontro con Archipenko

» 336 » 336

da «FERMENTI», nn. 122-123, 1982. Bassorilievo per Francesco Paolo Delle Noci

» 339 » 339

da «Fermenti», nn. 10/12, 1982 Turchiaro o della stilizzazione

» 342 » 342

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