Novel

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N O V E L A

C U R A

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D A N I E L E

G AY

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F E D E R I C O

J A H I E R

Collana Kina. Diretta da Gabriele Munafò e Sonny Partipilo. Grafica e impaginazione di Sonny Partipilo. Supervisione Anna Matilde Sali. Volume a cura di Daniele Gay e Federico Jahier. Stampato in coedizione con Albertina Press e con il contributo dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Via dell’Accademia Albertina, 8, 10123 Torino, www.accademialbertina.torino.it. © dei rispettivi autori per le proprie opere. Il volume è rilasciato con licenza Creative Commons by-nc-nd 3.0 consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org. Stampato nel mese di Ottobre 2014 presso La Grafica Nuova, via Somalia 108/32, Torino, su cartaFabriano Palatina da 150 gr per gli interni e Upm fine offset da 300 gr. per la copertina. Isbn 9788898644094. Ass. Cult. Eris via Reggio 15 10153 Torino. www.erisedizioni.org - info@erisedizioni.org


È

un grosso piacere poter varare questa coraggiosa iniziativa a cui esprimo il più vivo apprezzamento e a cui auguro un buon viaggio nei mari dell’illustrazione grafica di qualità. Questa pubblicazione aggiunge un nuovo tassello alla volontà dell’Accademia di Belle Arti di Torino di essere veicolo d’arte, tra formazione, innovazione e tradizione. Di farlo percorrendo con occhi nuovi il tessuto metropolitano, il territorio e i suoi luoghi d’arte, tra i cittadini della nostra città e del mondo. Colgo dunque l’occasione per ringraziare i professori, gli studenti, gli ex studenti, gli ex professori, gli editor, i grafici, gli scrittori, gli organizzatori di eventi, i curatori, gli amici e i sostenitori dell’Accademia e tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa bella esperienza. Ringrazio anche i lettori che vorranno scorrere e gustarsi queste pagine. Fiorenzo Alfieri Presidente Accademia Albertina

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Disegnare la scrittura e scrivere i disegni

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uesto volume si muove sul sentiero tracciato dall’Accademia di Belle Arti di Torino nel corso della sua storia. Dalla sua fondazione l’Accademia è luogo di preparazione all’esercizio dell’arte e di apertura al pluralismo dei linguaggi, alla sperimentazione di nuovi codici espressivi e alla ricerca di collegamenti tra le forme di comunicazione visiva della contemporaneità. La nostra Accademia – una delle più antiche d’Italia – ha sede nel palazzo donato da Carlo Alberto nel 1833 e parzialmente ampliato su progetto del Talucchi, ma nasce già nel ’600 dapprima come Antica Università dei Pittori, Scultori e Architetti, per assumere poi in epoca moderna il titolo definitivo di Accademia di Belle Arti di Torino. Le sue porte, comprese quelle della sua Pinacoteca, e della vasta biblioteca storica sono aperte alla cittadinanza e alle iniziative culturali e artistiche torinesi, alle realtà espressive nazionali e internazionali, alla collaborazione con numerosi enti del territorio. Propone un’offerta formativa che comprende i corsi di scultura, pittura, scenografia, nuove tecnologie, didattica dell’arte, nudo, decorazione, progettazione artistica per l’impresa, grafica, comunicazione e valorizzazione del patrimonio artistico contemporaneo. Forma nuovi talenti dopo aver “forgiato” nomi come Fontanesi, Grosso, Ferro, Gastaldi, Vela, Tabacchi, Rubino, Casorati, Paolucci, Menzio, Cherchi, Calandri, Kaneclin, Scroppo, Galvano, Davico. Sulle loro orme hanno mosso i primi passi i diversi artefici di questa pubblicazione e soprattutto i ragazzi e le ragazze del corso di Grafica d’Arte/ Illustrazione. In questa coraggiosa pubblicazione si materializzano le linee invisibili che uniscono i tesori d’arte dell’area metropolitana della città. Le opere sono state estratte dai musei, dalle fondazioni, dalle chiese, dalle gallerie, dalle facciate degli edifici, si sono trasformate in parole e racconti, sono state poi tradotte in racconti grafici alla ricerca di nuovi modi di far dialogare il testo e il segno. «Disegnare la scrittura e scrivere i disegni» come diceva Ugo Pratt. Il risultato si è evoluto in stilemi inattesi, riuscendo a coniare una forma vecchia o nuova non importa, ma di certo una forma intensa, originale e vera. Salvo Bitonti Direttore dell’Accademia Albertina

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utto parte da un’opera d’arte. Può trattarsi di un quadro, di un’installazione o di un graffito urbano. Un’opera artistica esposta in un museo cittadino dell’area torinese o in una mostra temporanea o sul muro di un capannone abbandonato. Gli scrittori attingono dalla GAM al Castello di Rivoli, al Duomo; dalla Galleria Sabauda a Palazzo Madama al MAO. Si fanno ispirare da opere religiose, dall’arte rinascimentale, moderna o post moderna, da quella orientale. Da autori del calibro di Penone, Hokusai, Suzanne Held, Wilson, Rao, Airò, Donghi, Van Dijk e Defendente Ferrari. Gli stili e i generi dei racconti originari sono liberi e vari, il fattor comune è unicamente quello dell’inclusione di un’opera d’arte nella trama. Le opere vengono ambientate in atmosfere noir, drammatiche, intimistiche, storiche, surreali, alluvionali o fantasy. Poi a ogni scrittore e al suo racconto viene abbinato un disegnatore – corso di Grafica d’Arte/Illustrazione dell’Accademia di Belle Arti – che raccoglie la sfida di penetrare nei meandri del testo per poterlo tradurre graficamente. Si arriva al traguardo: la creazione di Novel, una “fanzine” rinchiusa in un libro o un libro rinchiuso in una fanzine. Le immagini proposte per illustrare i testi di Novel sono maturate in laboratori mirati all’apprendimento delle principali discipline della Grafica d’Arte, non solo nel campo del racconto illustrato, ma anche attraverso una molteplicità di esperienze tecniche e cognizioni umanistiche altamente caratterizzanti. Tutto ciò per indicare la varietà delle competenze degli autori per la creazione di opere nelle quali confluiscono tanto gli esiti del disegno quanto quelli conseguiti con le tecniche dell'incisione, della serigrafia o della litografia, che li hanno formati rendendoli consapevoli delle loro scelte stilistiche. Nel consegnarci queste immagini, a differenza di tanti illustratori approssimativi (sdoganati da un esercito di “follower”, tanto estatici quanto impreparati) gli autori sembrano invitarci a una osservazione più attenta di quella che abitualmente riserviamo al caleidoscopio frenetico (cartaceo e digitale) che ci circonda. Siamo pertanto indotti a mettere a fuoco le qualità intrinseche del disegno e a verificare il valore del gesto, della cifra faticosamente elaborata da ciascuno di loro. In questa piccola edizione non è stata ricercata un’uniformità di stili, proprio allo scopo di evidenziare il rifiuto di una catalogazione basata, in virtù della contiguità scolastica, sulla reciproca contaminazione. DG - FJ

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Testi: Teodora Trevisan Disegni: Lorenzo Mò

Battesimo Tratto dall’opera: Battesimo, Antonio Donghi, Galleria d’Arte Moderna, Torino



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Testi: Cristina Vezzaro Disegni: Elisa Beli Borrelli

Cromature Tratto dall’opera: Briard Dog, Videoinstallazione di Robert Wilson, Palazzo Madama, Torino



Tanto affanno per nulla. Lo stesso affanno di quel cagnolino.

Che razza era, poi? Uno Yorkshire?

Forse. Quelli pelosi, che corrono e abbaiano per niente. Nel caffe‘ di Palazzo Madama era una presenza insolita: un primo piano in uno schermo grande, pixel su vetrate barocche.

Sembrava una fotografia, ma era una videoinstallazione. Apparentemente immobile, eppure in movimento.

Proprio com’era stato lui in quegli anni.

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Alla vista della facciata apparente di Palazzo Madama (e non era ridondante di per se’, parlare di facciata apparente?), le era venuta in mente quella sua fissazione per gli elettrodomestici cromati. Non aveva saputo resistere all’inarrestabile avanzata della cromatura. Spremiagrumi, tostapane, frigoriferi, forni, microonde, bollitori, caffettiere, teiere, lavatrici, asciugatrici. Tutti cromati. Una patina di lucida possibilita‘ sulla realta‘. Paolo era stato quello. Avrebbe dovuto capirlo prima di rimanerne affascinata. Un uomo in vista, tutto contatti e pubblicita‘. Un’immagine pubblica che si portava anche a casa e che lei non aveva saputo staccargli di dosso, la sera, quando andavano a letto.


Come se Marlene Dietrich fosse rimasta in bianco e nero anche fuori dallo schermo, dalle fotografie.

Come se avesse indossato le scarpine da Cenerentola fatte su misura per lei dalla casa Massaro con tanto di zirconi sul tacco anche nel cuore della notte, per andare dal letto al bagno.

Che il loro letto non avesse potuto conformarsi a loro due, avrebbe dovuto farla pensare. Che non potesse abbracciarla per addormentarsi, come fanno tutte le coppie, o almeno quelle giovani, innamorate, prima che la routine le colga come una malattia. 23


No. Tra loro il letto era andato allargandosi poco a poco, estendendosi fuori misura. 250x200 cm. Tre file di cuscini e ancora spazio restante ai margini. Un vuoto tra loro. Una persona intera.

All’inizio quella persona intera era stata solo la persona in cui non erano riusciti a fondersi, quella vuota presenza tra loro.

Poi era diventata una bionda.

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Testi: Jadel Andreetto Disegni: Fanny Meèra Vagnoni

Maiko Tratto dall’opera: Spirito del Giappone, fotografia di: Suzanne Held MAO - Museo d’Arte Orientale, Torino



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Il giorno più importante della vita di Naoko è un giorno rovente d’agosto. Si è svegliata nel cuore della notte per iniziare i preparativi: il kimono, il trucco, l’acconciatura, tutto deve essere perfetto. È agitata ma si concentra e ripete a mente ogni singolo gesto della cerimonia del té che dovrà eseguire per la sua onee-san, la sorella maggiore. 35


Sono cinque anni che che aspetta questo momento. Cinque anni passati seguendo la onee-san in ogni suo impegno con i clienti. Sempre discreta, in disparte, ha imparato l’arte della conversazione, a suonare il flauto di bambù, cantare canzoni tradizionali, servire il sake, creare composizioni floreali, si è esercitata nella calligrafia, ha acquisito nozioni di poesia e letteratura e ha studiato a fondo l’arte di intrattenere i clienti.

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Testi: Mara Dompè Disegni: Alessio Moroni

Pioggia Tratto dall’opera dello street artist ROA, Lungo Dora Savona 30, Sede dei Servizi Sociali della Circoscrizione VII, Torino



Da qui si vede il fiume. Torbido, grosso, scuro.

Sembra voler inghiottire tutto con una violenza nuova, sconosciuta.


Lungo il parapetto, i ratti scappano disperati sotto il diluvio, nascosti dall’ombra.

Piccoli rapidi guizzi quasi impercettibili nel buio, nell’aria sporca di pioggia. Cercano di mettersi in salvo dall’acqua che ha invaso anche le strade.

Sembra la fine del mondo.


Dall’altra parte del fiume, invece, l’immagine immobile dipinta sul muro:

nella stretta fascia cieca di un edificio di mattoni, sopra un cumulo di teschi e ossa, si erge un animale. Forse una donnola, un furetto, o una faina.

Enorme, ma piccolo nella distanza. Incantato da un pifferaio fuori della scena. Tiene un ratto per la coda, sollevato da terra.

La sua presa è ottusa e grave, senza minaccia.


Scappare scappare. Scappare senza sapere dove. In avanti. Seguire la direzione del fiume.

Impossibile trovare un angolo asciutto. Non respiro piĂš. La pelle scorticata a furia di correre e correre nel freddo, scivolare, correre ancora.

Il pelo fradicio, gelato, le zampe intirizzite. E le orecchie che bruciano, che pulsano. Tanta paura. Trovo un istante di pace dietro un cassonetto inclinato contro il parapetto.

Mi protegge dalla pioggia sferzante. I rivoli d’acqua color fango scorrono piÚ in basso.


Testi: Massimo Battaglio Disegni: Oscar Giachino

Le miserie di San Crispino Tratto dalla Cappella dei Calzolai, Duomo, Torino



“E tu che vuoi?”

Mi giro; nessuno.

Ero in duomo, davanti all’altare dei santi Crispino e Crispiniano.


Mi aveva attratto il singolare polittico con strana cornice tardogotica - quasi in tono con l’architettura della chiesa - inserito così “naturalmente” in un altare pienamente barocco. E, ancora più singolare, mi aveva incuriosito la madonna allattante della tavola centrale: seduta in trono con una tetta di fuori.

Quasi dissacrante.

Anche le regine allattano, d’altra parte.


E per allattare bisogna mettere da parte gli eccessi di pudore.

Sembra esserci un messaggio profondissimo in questa vignetta: Maria alimenta Gesù. Ha la responsabilità di tenerlo in vita. Da lei dipende la storia della salvezza.

Ecco perché è seduta in trono, nonostante gli abiti semplici e le spalle un po’ larghe. Non benedice; non sorride, o quasi. È concentrata sul suo lavoro e controlla che il bambino stia bene.

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Dietro ci sono due angioletti casinisti, uno che suona il liuto e l’altro che si gratta un piede, ma lei sembra non curarsene.

Mamma e bambino.

Niente, intorno, è più importante.

“Oh! Che vuoi?”

Nessuno. Riguardo il polittico.

Era proprio il bambino, paffutissimo e vorace, che guardava fuori dal quadro, infastidito della violazione della sua privacy.

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Testi: Giuliana Olivero Disegni: Riccardo Di Stefano

In limine Tratto dall’opera: In limine, Giuseppe Penone, GAM, Torino



Finalmente il buio.


Gli occhi lentamente si adattano e imparano a vedere, l’udito è in stato di massima allerta. Il momento dell’attesa, qui, ogni sera, in questo angolo della galleria che ormai conosce così bene, è ogni volta un’emozione che lo stritola. Sente avvicinarsi il rumore, il battere sordo dei loro piedi sul terreno, mentre corrono verso di lui.

Quando arriveranno saprà se sono gli Amici o i Nemici, se potrà rilassarsi o dovrà combattere,

ma l’eccitazione è la stessa.

Il rumore si intensifica, compaiono i primi bagliori delle fiaccole, l’odore della pece che brucia si diffonde immediatamente nel pochissimo spazio intorno a lui.

Sono gli Amici.


Quando arrivano, come ogni volta, lo guardano immobili, mormorano qualche parola fra loro che lui non capisce. Lui, come ogni volta, ha questo insieme di paura e speranza.

Non accade ancora nulla. Lo guardano, guardano le sue mani. La loro voce gli arriva confusa, non riconosce parole articolate, solo monosillabi, suoni gutturali con strani accenti, a volte gridano e sembrano arrabbiati ma subito dopo ridono. Sono creature aeree, anche se vivono in questi tunnel scavati per millenni dall’acqua nella pietra, fra queste radici cave, contorte. Assomigliano agli elfi, potrebbe dire, hanno la pelle rugosa. In questi tunnel mangiano, dormono, si accoppiano, allevano i figli. La sera prima ha scorto la nicchia laterale in cui partoriscono. Non ci sono maschi e femmine, o forse sì, ma lui non ha mai visto in loro nessuna differenza. Certi maschi allattano al seno e le donne scagliano lance nel ventre dei Nemici senza la minima incertezza. Sono così ospitali, a modo loro. Sanno che lui è lì per combattere al loro fianco.

“Stanotte voglio che mi trovino, voglio che trovino me”. Pensa ai Nemici, della loro esistenza non sa nulla, pensa solo alle violente sensazioni dello scontro fisico. La traccia di una vita che sta solo dentro. “Voglio che vedano il loro sangue sulle mie mani”. Tutte le notti combattono, sono scontri feroci.


Lui fa il commesso in un magazzino di ricambi per auto.

Si chiama Giovanni.

Dispone gli articoli sugli scaffali, spazza il pavimento, se il titolare è assente chiude lui il registratore di cassa, prima di uscire.


Testi: Federico Jahier Disegni: Simone Stassano

Ammaliante Tratto dall’opera: PESCE PALLA (FUGU) Katsushika Hokusai (1760-1849) MAO - Museo d’Arte Orientale, Torino



Cosa posso portarle signore? Oggi il menù prev...

TUUUUU?! Hai un bel coraggio a farti rivedere! Dopo tutto quello che è successo!!

Io… Io… Ho saputo che lavori qui adesso!

Sì-sì… Okay, lascia perdere. Adesso ti porto qualcosa e sparisci. Che vuoi? Qualcosa di forte…

Però ti prego non urlare!

Allora ho proprio quello che fa per te! Del sushi…

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… ”Ammaliante”.

Ecco il tuo sushi! Goditelo!

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Mi ha fatto uno strano effetto rivederti…

Se?

Io sono sconvolta. Scusa per prima. Cosa ne dici se…

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Se stanotte… Appena stacco da qui ti telefono e ti dico dove…


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Testi: Michele Andreis Disegni: Stefano Allisiardi

Veniva sempre di mercoledì Tratto dall’opera: Parlez moi d’amour di Mario Airò, Castello di Rivoli


Veniva sempre di mercoledì, soltanto il mercoledì. Qualche volta faceva un rapido giro completo del museo, ma normalmente passava il tempo della sua visita nella stanzetta in cui era allestita “Parlez moi d’amour” di Mario Airò. Ore e ore lì, in silenzio, a osservare i petali danzare sulle note di “Plaisir d’amour”. Aveva cominciato a frequentare il Castello in febbraio, un paio di settimane dopo la mia assunzione come custode di sala, prima di allora nessuno dei miei colleghi l’aveva mai visto. Ero stato fortunato a ottenere quel lavoro, da mesi ero rimasto a piedi e il sussidio era ormai quasi esaurito quando inaspettatamente era arrivata la chiamata per un colloquio. Non ricordavo neanche più di avere inviato il curriculum, quindi quando mi offrirono un contratto annuale mi parve quasi un miracolo.

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Come ho detto, non mi sarebbe mai passato dalla mente di lamentarmi per quell’impiego, che oltre tutto aveva molti aspetti interessanti, certo devo dire che, passata la prima settimana di entusiasmo, incominciai ad annoiarmi terribilmente. I turni duravano quattro ore. Quattro ore in cui non potevi parlare con nessuno, non potevi sederti, non potevi fare niente. I controlli non erano poi così rigidi quindi due chiacchiere con gli altri colleghi si riuscivano a fare ogni tanto, ma comunque la maggior parte del tempo lo passavi chiuso nelle tue elucubrazioni e nell’osservazione dei vari visitatori, sport preferito da noi custodi, che poi passavamo il tempo a commentarne le caratteristiche e a catalogarli per diverse tipologie. C’era l’artista mancato, che non riusciva a nascondere nello sguardo una malcelata indignazione per il fatto di non essere ancora stato riconosciuto nella sua grandezza e osservava con occhio critico i dipinti, le sculture e le installazioni esposte che, abusivamente, occupavano lo spazio destinato alla sua Opera. C’era l’architetto-creativo, vestito con uno stile a metà fra Tronchetti Provera e Lapo Ellkan, che amava impressionare le sue occasionali prede femminili sfoggiando le sue pillole di cultura. La mossa tipica del soggetto era avanzare di qualche passo rispetto all’accompagnatrice, soffermarsi di fronte a un’opera a caso di cui aveva letto tutto sfogliando wikipedia sull’I-phone, togliersi gli occhiali con la montatura spessa e colorata e contemplare rapito il linguaggio dell’Arte. Quando la partner, ammaliata dalla sua estasi mistica, gli chiedeva delucidazioni sull’opera, egli tardava qualche istante nel rispondere, poi dava un leggero colpo di tosse, con gesto studiato si passava una mano fra gli ondulati capelli spolverati di grigio e infine parlava con voce suadente: «Scusa, mi capita sempre così quando mi trovo davanti a un…». Altra tipologia era il vero appassionato d’arte. Era facilmente distinguibile dagli altri soggetti per lo sguardo sognante che assumeva non appena varcato l’ingresso del museo. Altra caratteristica peculiare di costui era l’attenzione minuziosa con la quale ispezionava ogni opera presente, non tralasciando di leggerne per ognuna le descrizioni dal primo all’ultimo rigo. Anche la traduzione in inglese. Gli sventurati accompagnatori si accorgevano ben presto di esser incappati in un mostruoso errore nell’accettare il suo invito a visitare la mostra. Li vedevi incominciare a saltellare impazienti da un piede all’altro due, tre, quattro opere dopo l’appassionato, cercando di mantenere un contegno, finché, sconfitti, fuggivano dal museo a gambe levate per andare ad attendere al bar la fine della minuziosa ispezione del loro amico. Non tutti quelli che visitavano il museo avevano connotati tanto peculiari, la maggior parte, comunque da noi catalogata come visitatore-tipo, non si discostava troppo da una persona normale. Il nostro uomo non rientrava in nessuno di questi esemplari sopradescritti.

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Nessuno di noi riusciva a capire se fosse un vero appassionato d’arte perché, come ho già detto, a parte “Parlez moi d’amour”, non sembrava un granché interessato alle altre opere esposte. Visitava la mostra sempre da solo, nessuno lo aveva mai visto accompagnato da qualche altra persona, non era certo lì per fare colpo su qualcuno, anzi. Anche perché quell’età sembrava averla superata da un pezzo, doveva avere almeno settant’anni, portati neanche troppo bene. Il suo aspetto era alquanto dimesso, i capelli bianchi raccolti in una riga sistemata con la brillantina, sicuramente Linetti, baffi curati ma non in modo maniacale, indossava sempre un vecchio cappotto un po’ liso sotto al quale spuntavano colletti di camicie che dovevano aver vissuto i loro tempi migliori in epoche lontane. Il lucido che regolarmente veniva spalmato sui mocassini non riusciva a celarne l’età.

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Testi: A.G. De Layangie Disegni: Stefano Marvulli

Era lÏ davvero Tratto dall’opera di un pittore anonimo della scuola di Van Dijk, Collezioni Galleria Sabauda, Torino




Era lì davvero,

illuminato parzialmente da una lama di luce opalescente, appeso al muro di quello stanzone stipato di mobili scuri, muti e interrogativi.

Lo sguardo del nobiluomo sembrava seguirlo, come succede sovente osservando i ritratti, o meglio, come succede a un osservatore facile alle suggestioni.

Il quadro era annegato in un’aria liquida, vibrante di ragnatele iridescenti, tra gli scricchiolii e il digrignare ovattato dei tarli. La finestra che aveva aperto, a quell’ora meridiana, produceva quasi a proposito il taglio di luce surreale che sembrava aver animato il piccolo personaggio fiammingo, l’abitante della tavoletta.


riaffiorava ora un po’ ambiguo. Il dipinto, unica suppellettile decorativa lì appesa, era stato in passato cambiato sovente di posto, particolare irrisolto, nessuno in famiglia ricordava da chi e perché. Ne era nata a quel tempo una blanda storiella domestica che voleva il quadretto si spostasse di propria iniziativa, la famiglia di scettici granitici dell’amico aveva sempre deviato in burla l’inspiegabile.

Per i bambini invece, era assodato che quell’inconsulto girovagare per le pareti e i corridoi del signore effigiato, fosse una manifestazione del soprannaturale. Ora era lì, che occhieggiava, unico oggetto davvero in luce, evidenziato nel pulviscolo vibrante di quel reliquiario permeato d’abbandono, pulito e vivido, come appena dipinto.“ If “ sapeva che lo avrebbe trovato in quel luogo: in casa, al piano inferiore, girovagando in cerca dell’amico, si era stupito di non averlo trovato appeso in nessuna delle numerose stanze. Inconsciamente, guidato da una curiosità morbosa, aveva imboccato l’imbuto della scala e ora, eccolo qua a scrutarlo, apparentemente ricambiato.

Celestina era soddisfatta, c’erano voluti quasi tre mesi per finire il restauro: il piccolo, presunto appartenente alla scuola di Van Dijk, sfoggiava una nitidezza di tratti e pennellate che giustificava l’orgoglio della giovane esperta.

Tra gli altri quadri, in quella sala della Galleria Sabauda di Torino, la tavoletta sembrava l’unico dipinto appena uscito dalle mani puntigliose dell’artista, meglio ancora, pareva addirittura essersi animato, lo sguardo del gentiluomo millantava di muoversi impercettibilmente seguendo gli spostamenti di Celestina.


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