BN76_BLOOD BOUND

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Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Blood Bound Mira Books © 2011 Rachel Vincent Traduzione di Manuela Francescon Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2012 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Bluenocturne novembre 2012 Questo volume è stato stampato nell'ottobre 2012 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd) BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X Periodico quindicinale n. 76 del 30/11/2012 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


1 Erano solo le due e mezza del mattino e avevo già del sangue tra le mani. L'aspetto peggiore della cosa? Era l'ora che più detesto. «Sicura che sia lui, Liv?» Booker si passò la mano sulla faccia ispida e sudata mentre guardavamo la finestra illuminata del terzo piano. Era un palazzo lungo e liscio, sembrava una confezione di cracker messa su un fianco, e la notte senza luna confondeva il profilo di quell'edificio anonimo con l'oscurità circostante. Annuii affondando entrambe le mani infreddolite e screpolate nelle tasche della giacca. Faceva caldo per i primi di marzo, ma era ancora troppo freddo per me. «Quanto sicura?» Chiusi gli occhi e strinsi di nuovo il pezzetto di tessuto rigido nella mano destra mentre inspiravo profondamente dal naso e il mondo esplodeva in un tripudio di aromi. Forte di anni di addestramento, selezionai rapida i vari odori mettendo mentalmente in un angolo quelli che non mi servivano: il sentore metallico dei numerosi cassonetti della spazzatura, l'odore chimico dell'acqua di colonia di Booker e il lezzo penetrante che saliva dalla sponda est del fiume: olio per motori, cibo fritto e sudore. Quello che restava era la traccia che avevo inseguito da un capo all'altro della città: in parte un vero odore e in parte una sensazione, combaciava con il campione di sangue che avevo in tasca. 5


Io sono un tracker. Mi basta un minimo campione di sangue abbastanza fresco per trovare una persona ovunque si sia nascosta. Ufficialmente il mio raggio d'azione è di otto miglia, dunque medio alto. Ufficiosamente... be', diciamo che nel mio lavoro sono piuttosto brava. Non troppo brava. Un talento eccessivamente sviluppato può attirare l'attenzione. E io so che è meglio evitarlo. Booker si schiarì la gola e io riaprii gli occhi per fissare di nuovo la finestra illuminata: l'unico occupante era ancora sveglio. «Novantacinque percento. Se non è lui è un parente stretto, maschio. È il massimo che si possa ottenere con un campione di sangue secco» dissi, mentre da una grondaia in un punto alla mia sinistra gocciolava dell'acqua. «Di' a Rawlinson che gli manderò la mia parcella.» Booker si calò il berretto di lana sopra le orecchie. «Non gli piacerà.» «Non me ne frega niente.» Mi voltai e mi incamminai nella direzione da cui ero arrivata, mentre il rumore dei miei stivali da lavoro dalla punta d'acciaio echeggiava per la strada. Ero esausta e arcistufa di essere svegliata alle due di venerdì mattina, ma anche contenta di avere una buona scusa per applicare una tariffa doppia rispetto al normale. Gli affitti degli uffici a South Fork non sono uno scherzo. «Warren!» Gridò una voce profonda alle mie spalle, e imprecai sommessamente. Mi voltai piano e vidi Adam Rawlinson saltare fuori da dietro un cassonetto arrugginito. Il nero dei capelli, della pelle e del costoso cappotto di lana si confondeva con le tenebre fitte. Non c'era modo di sapere da quanto tempo fosse lì. A osservare. Ad ascoltare. Gli ombronauti – coloro che camminano nel buio – sono famosi per cazzate di tal genere. Possono scivolare in un'ombra in casa loro e sbucare fuori da un'altra ombra all'altro capo della città un secondo dopo, sorprendendo chi se li trova improvvisamente di fronte. Un dono molto pratico, se non fosse così dannatamente fastidioso. «Ciao, Adam. È un po' tardi per andare a spasso, non trovi?» Soprattutto considerando che la sua abitazione si trovava 6


in un quartiere almeno due scaglioni di reddito al di sopra del sudiciume che adesso gli si era attaccato alle suole delle scarpe eleganti. «Che ti prende? Non ti fidi di me?» Lui mi guardò corrucciato, e il buio faceva apparire ancora più fosca la sua espressione. «Il novantacinque percento non basta, Liv.» Mi strinsi nelle spalle e incrociai le braccia sulla giacca nera. «Non avrai mai la certezza assoluta senza un campione di sangue decente o il nome completo che dia più corpo alla traccia.» Annuì; non gli stavo dicendo nulla che non sapesse già. «Però sapresti essere più precisa se avessi un campione valido da comparare, giusto? Qualcosa di fresco.» «Non mi sporco le mani più di così, lo sai.» Potevo seguire l'odore del sangue e rintracciare qualcuno tramite il nome, se dovevo. Ma il mio lavoro finiva lì. Non avevo motivo di restare nei paraggi al momento di usare le mani. La mia vita era già abbastanza incasinata anche senza altri spargimenti di sangue. «Booker è qui per la cattura. Dovresti solo rimanere abbastanza vicina da riuscire a fare un'identificazione certa» insistette Rawlinson. «Non sappiamo come si chiama e non otterremo altri campioni di sangue. Ho già fatto i salti mortali per prendere quello dall'archivio delle prove. È roba personale, Liv...» Porco cane. Booker lavorava senza un partner e Adam Rawlinson era venuto a godersi lo spettacolo. Era un fuoribusta. «Si tratta di Alisha?» La figlia di Rawlinson era rimasta uccisa una settimana prima in un furto d'auto. Il giorno dopo lui si era presentato al lavoro come se nulla fosse successo. Come se quella morte non lo sfiorasse nemmeno. Ecco la prova che le cose stavano diversamente. Ero quasi sollevata. Il suo sguardo non vacillò nemmeno per un secondo. «Gli sbirri hanno fatto un mezzo fiasco, ma uno di loro ha ferito leggermente il bastardo, ieri notte. Il campione proviene dal sedile del passeggero, che si è imbrattato di sangue.» 7


Espirai, guardandolo attentamente. «Perché ho la sensazione che non andrai a consegnare il bastardo alla polizia?» L'azienda di Rawlinson aveva una reputazione di ferro. Cacciatore di taglie autorizzato, in combutta con agenzie di credito e con le autorità. Gli affari gli andavano a gonfie vele. Preso il target, l'obiettivo, lo consegnava e otteneva dal comune un assegno come collaboratore esterno, e con quello pagava il resto della squadra. Che di solito comprendeva anche me. Ma stavolta... «Perché sei una ragazza sveglia.» Si mise in cammino verso l'edificio e io lo seguii di malavoglia. «Lo sai che mi piacerebbe riaverti in squadra a tempo pieno.» «Solo perché il tuo nuovo tracker non riesce nemmeno a trovarsi l'uccello quand'è buio.» Avanzai incerta, la notte era muta a parte il suono dei nostri passi sull'asfalto danneggiato. «Non sarai tanto stupido da metterti a sollevare merda a est del fiume senza un incarico autorizzato, Adam. Che succede se qualcuno se ne accorge?» «È per questo che sei qui tu.» Incrociò il mio sguardo e provai rispetto per la sua onestà, anche se ne avevo già le scatole piene. «Sanno tutti che stai lavorando per Ruben Cavazos, perciò a nessuno verrà in mente di fare la spia se ti vede con noi.» «Io lavoro per me stessa.» Ovvero per pagare l'affitto di un pidocchioso appartamento e di un buco di ufficio e la riparazione di una macchina con più parti usate del mostro di Frankenstein, oltre a capitale e interessi di un prestito universitario per una laurea inutilizzata. «Presto i miei servizi a Cavazos così come li presto a te.» E come tutti sanno i cattivi pagano meglio dei buoni. «Avermi nei paraggi non ti terrà i piedi al fresco mentre cammini sulle braci accese, Adam. Devi lasciare che se ne occupi la polizia.» «Sappiamo entrambi che non sono in grado di fare niente.» Questo non era vero. Erano in grado di fare molto, solo che non potevano. Non fino a quando i tribunali non avesse8


ro riconosciuto il tracking come metodo legale di identificazione e localizzazione. Il mondo sapeva di noi – i talenti erano sotto i riflettori da quasi trent'anni – ma il governo non aveva ancora preso atto ufficialmente della nostra esistenza. Eravamo il più clamoroso segreto di Pulcinella della storia. Non avevamo diritti né tutele di legge, a parte quelli che ci erano concessi in qualità di legittimi cittadini. Nel mondo legale questo significava che nessun ufficio governativo poteva assumere ufficialmente un vincolatore per stendere o siglare contratti. E non poteva usare le prove raccolte grazie ai tracker come me. Tutto ciò che riguardava le abilità connesse ai circa dodici talenti conosciuti era oggetto di negoziazioni ufficiose e contratti privati. Completamente in nero. Negli ambienti criminali, la conseguenza è stata il formarsi graduale del secondo più redditizio – e spietato – mercato nero della storia. Dato che il governo non riconosceva ufficialmente le nostre capacità, non poteva nemmeno regolarne l'utilizzo, il che ha creato un grosso vuoto al vertice della piramide del potere. Vuoto che è stato presto colmato da varie organizzazioni criminali per lo sfruttamento dei talenti, sparse per il mondo. Dalle nostre parti i due re rivali del mercato nero erano Jake Tower e Ruben Cavazos, che insieme controllavano più di due terzi della città. Il primo la parte a ovest del fiume, il secondo la parte a est. In quella sud, racchiusa nella biforcazione del fiume, si poteva vivere e respirare senza riempire le tasche di una delle due organizzazioni, ma il prezzo da pagare era alto perché la possibilità di non schierarsi da una parte o dall'altra era considerata un lusso. «D'accordo, sta' a sentire. Adesso che l'hai trovato devi solo tenerlo d'occhio finché non fa un passo falso, e poi stargli alle costole legalmente. Limitati a quello che sai fare, Adam. Tutto il resto può solo danneggiarti.» «Aspettare che faccia un passo falso?» ripeté a bassa voce, e io annuii, sentendomi già in colpa per averlo suggerito. «Quanto tempo ci vorrebbe, sempre ammesso che accada? 9


Venire qui una volta sola, con te, e risolvere la questione in via definitiva... è questa l'unica cosa da fare. Ma se temporeggiamo, aspettando semplicemente che il bastardo commetta un altro crimine... insomma, non è una nemmeno una possibilità sulla sponda est, non ti pare?» Mi guardava supplice e dovetti combattere il bisogno di abbassare lo sguardo. «Era mia figlia, Warren» disse, e una rapida scheggia del dolore sordo che provava mi provocò una fitta allo stomaco, mentre la domanda che non avrei mai dovuto fare già mi usciva dalla bocca. «Che vuoi che faccia? Andare lì e pungergli un dito?» La mia mano si strinse intorno al rigido frammento di tessuto che avevo in tasca. «Non mi importa come fai a identificarlo. Mi basta che ti avvicini abbastanza da avere la certezza che sia lui, al resto penso io.» «Costerà.» Il fatto di essere solidale con il suo dolore non modificava il mio saldo bancario: come freelance non godevo di alcuna assistenza, e al momento mi trovavo senza assicurazione sanitaria, una posizione piuttosto pericolosa considerando il mio settore. «Nessun problema. Mandami la fattura.» Contro ogni buon senso entrai nell'edificio buio e silenzioso seguita da Rawlinson e Booker. La maggior parte degli appartamenti era vuoto. Correva voce che il comune intendesse abbattere quell'obbrobrio non appena fosse riuscito a sistemare altrove gli ultimi sei inquilini e a convincere Cavazos a vendere l'edificio. Probabilmente erano all'oscuro del fatto che c'era un occupante abusivo al terzo piano. Salii le scale in silenzio, il brandello indurito sempre stretto nella mano, le dita che non smettevano di tastarne la superficie ruvida. Finché toccavo il suo sangue, sentivo la sua presenza. Sentivo l'odore del suo sudore e il sapore della sua paura, tutte manifestazioni di quella scia di energia psichica che la gente si lascia dietro quando versa il proprio sangue. Per me è un po' più difficile lavorare a partire solo da un nome, ma si può fare. La cosa migliore è avere a disposizione 10


un nome e una traccia di sangue fresco, anche se succede di rado. I criminali con un talento sono assai più cauti della popolazione media, ed evitano di lasciare tracce per difendersi sia dalla polizia scientifica sia da noi tracker. Nemmeno il criminale più stupido vuole essere beccato. La porta che metteva in comunicazione il vano scale con il corridoio del terzo piano era scomparsa chissà quando, perciò non appena mettemmo piede sul pianerottolo vedemmo la luce filtrare dalla fessura sotto la porta. Il segnale energetico si era fatto più intenso ma non più nitido. Dovevo vederlo, il bastardo, per poter confermare la sua identità. Merda. Percorsi in silenzio il corridoio, con Booker e Rawlinson alle spalle, finché non ci ritrovammo in piedi di fronte all'appartamento con la luce accesa. Feci cenno perché mi lasciassero spazio e loro si misero ai due lati della porta, le schiene contro le pareti mal illuminate, non visibili da chiunque avesse aperto la porta a meno che non fosse uscito in corridoio. Feci un profondo respiro e bussai. Quando lavoravo per Rawlinson mi occupavo sia dell'identificazione sia della cattura, e a quei tempi tutte le volte recitavo la parte dell'innocua e ingenua fanciulla in cerca di cavi per ricaricare la batteria della macchina o di un telefono o di un forte braccio maschile per aprire un barattolo di cetriolini. Qualunque cosa pur di avvicinarmi il necessario per colpire il bersaglio con una pistola paralizzante e incassare un assegno. È incredibile fino a che punto qualche anno di esperienza, insieme alla paura di riportare ferite mortali senza avere assistenza sanitaria, possa cambiare le tue prospettive. Ci furono dei passi concitati all'interno e la porta si aprì cigolando e offrendo alla vista un tizio alto e robusto con la barba di tre giorni e gli occhi luccicanti di sospetto. Era armato, il manico che gli spuntava da dietro la coscia destra non lasciava dubbi: probabilmente la stessa pistola che aveva ucciso Alisha Rawlinson. «Ciao, scusa se ti disturbo a quest'ora, ma...» Sollevai il 11


braccio destro e gli assestai un pugno sul naso. L'uomo emise un grugnito di dolore e sorpresa e tirò fuori la pistola, ma era troppo intontito per mirare bene, mentre il sangue gli colava giù dalla faccia massacrata. Mi abbassai al di sotto dell'arma e gli schiacciai il polso più forte che potevo contro il muro. Vi fu un rumore di ossa rotte. L'uomo gridò di nuovo e aprì il pugno. La pistola cadde con un tonfo sul pavimento e Booker la allontanò con un calcio. Feci un passo indietro e aspettai che si ricomponesse, ripulendomi il viso dal suo sangue con il fazzoletto che mi aveva dato Rawlinson. «È lui.» Restituii il fazzoletto mentre Booker spediva l'uomo nel mondo dei sogni lì, sulla porta di casa. Il resto del corridoio sembrava deserto, e anche se qualcuno dei pochi inquilini avesse sentito qualcosa di sicuro non sarebbe venuto a curiosare. Non in questa parte della città. Non nel cuore della notte. Non se ci teneva a svegliarsi la mattina dopo. «Grazie, Liv» disse Rawlinson mentre Booker trascinava l'uomo privo di sensi nell'appartamento. «Non ringraziarmi. Pagami.» Mi tolsi la giacca macchiata di sangue e gliela misi in mano. «E se non viene come nuova, mi devi anche questa.» Poi mi avviai verso le scale senza guardarmi indietro, sforzandomi di ignorare il tonfo ripetuto dei pungi che si abbattevano su carne umana a pochi metri da me. Tornata sulla strada tirai il fiato e lanciai un'ultima occhiata all'edificio alle mie spalle. Quiete, a parte il rumore dei miei passi e quello del traffico sulla strada di scorrimento a due isolati di distanza. Fedele alla parola data, Rawlinson stava facendo quel che doveva in silenzio. Attraversai di fretta la via, esplorando le tasche in cerca delle chiavi, ma mi immobilizzai quando vidi la mia macchina e l'uomo che stava appoggiato contro il cofano. Sembrava fatto di tenebra, impermeabile alla luce del lampione all'angolo, ma avrei riconosciuto quella sagoma ovunque. 12


«Ciao, Liv.» Cameron Caballero si alzò e all'improvviso gli ultimi sei anni, trascorsi senza di lui, mi sembrarono irreali, come se avessi sognato tutto e adesso mi fossi finalmente risvegliata. Risvegliata alla mia vita così come sarebbe dovuta essere. Poi qualcuno mise in moto una macchina in lontananza, si spense e ripartì, e la mia vita – la dura realtà – tornò al suo posto con la violenza di un colpo di frusta, che mi lasciò senza fiato. Non era giusto che rispuntasse così dal nulla, eppure la giustizia non era mai stata meno importante. «Stasera non è aria, Cam.» Mi avvicinai a lui e all'auto, alzando intorno a me una corazza emotiva e immaginando che si sarebbe spostato quando avessi cercato di aprire lo sportello. Invece restò lì, a qualche centimetro da me, invadendo volontariamente il mio spazio vitale. Sarei potuta indietreggiare, ma sarebbe stato come ammettere che la sua vicinanza mi faceva ancora un certo effetto. Oppure avrei potuto piantare i piedi e indurlo a farsi da parte. «Lo sai, un giorno o l'altro dovrai spiegarmi che cosa è successo» disse con la sua voce familiare, intima, quando fu chiaro che nessuno di noi due si sarebbe mosso. «Il motivo per cui te ne sei andata.» «Quel giorno non è oggi. Spostati.» Volevo spingerlo via, ma toccarlo poteva rivelarsi una pessima idea. Forse la peggiore che mi fosse mai passata per la testa. «Non costringermi a farti del male. Mi basta aver spaccato una faccia, stasera.» «Ho sentito dire che spaccavi facce per professione.» Mi osservò come se al mondo non esistesse altro oltre a quel che vedeva nei miei occhi. «Ho sentito anche che avevi smesso.» A questo non sapevo cosa rispondere, ma come sempre, se a me mancavano le parole, lui ne aveva in abbondanza per entrambi. «Davvero saresti capace di colpirmi?» «E tu davvero vuoi costringermi a farlo?» Lo fissai con aria 13


di sfida, lo udii emettere un sospiro. E notai quel barlume di speranza – in una possibile riconciliazione – spegnersi nei suoi occhi. «Nessuno può costringerti a fare niente, Olivia» dichiarò, e mi si strinse il cuore dal desiderio che avesse ragione lui. «C'è un'amica che vuole vederti.» Lo superai e aprii lo sportello dell'auto. «Non la voglio vedere, la tua amica.» Mi fissava da pochi centimetri di distanza e io sapevo che quegli occhi erano scuri, scuri e azzurri, quando non nuotavano nelle tenebre. «Non è mia amica, Liv, ma tua. È venuta da me cercandoti. Credo che dovresti ascoltarla.» Io non potevo fare niente che mi costringesse a trascorrere del tempo vicino a Cam, per il bene di entrambi. Succedeva ogni volta che m'imbattevo in lui: un rimescolio di ricordi, la scintilla di una passione riesumata e una pesante dose di rimpianti di cui, ne ero certa, lui si era già accorto. Erano i rimpianti a trattenerlo. Gli stessi rimpianti che mi attiravano a lui, anche quando lo respingevo. «Non me ne frega niente di quello che credi» dissi, ma avevo indugiato troppo per essere convincente. Non mi disturbai nemmeno a chiedergli come avesse fatto a trovarmi. Cam era un tracker, il migliore con cui avessi mai avuto a che fare, a parte... be', a parte me. Se io ero brava col sangue, lui lo era coi nomi. Avendo in mano un nome completo e reale, era in grado di trovare chiunque e ovunque, e il suo raggio d'azione rivaleggiava col mio. Anni prima avevo commesso l'errore di rivelargli il mio nome completo, che nessun altro al mondo conosceva. Allora credevo che saremmo stati insieme per sempre. Quella fu una delle cose più stupide che avessi mai fatto, ma lui non mi aveva mai dato motivo di pentirmi. «Te lo dico per l'ultima volta, Cam. Spostati oppure ti sposto io.» Si cacciò le mani nelle tasche dei jeans aderenti e accennò a un sorriso triste, come se soffrisse della mia mancanza e al14


lo stesso tempo desiderasse che andassi via, una sensazione che io conoscevo bene. Poi si fece da parte e restò a guardarmi mentre mi sedevo davanti al volante e chiudevo lo sportello. Sbirciai nello specchietto retrovisore e lo vidi che ancora mi guardava, immobile, finché non girai l'angolo e sparii dalla vista. Aprii la porta del mio piccolo ufficio e mi trascinai fino al bagno. Non avevo sala d'aspetto né comode poltrone. Solo la scrivania, due schedari verticali a buon mercato pieni di roba e un unico vecchio divano in pelle, macchiato e lacero, che era più comodo ora di quando lo avevo preso dalla casa di un mio ex, a titolo di risarcimento per la macchina che mi aveva fregato e per quasi un anno della mia vita sprecato. In bagno, mi tolsi il top e presi una maglietta pulita dall'armadietto. Il sole sarebbe sorto nel giro di un paio d'ore. Decisi di buttarmi sul divano fino all'alba e poi alzarmi presto, perché se fossi andata a casa e mi fossi infilata a letto avrei dormito gran parte della giornata e avrei perso il lavoro che avevo appena avuto da Travis Spencer, l'eterno secondo, e da quegli scemi dei suoi soci. Dopo una rapida occhiata al mio riflesso pallido e sporco, feci scorrere dell'acqua calda su un panno pulito e mi strofinai il viso fino a eliminare il segnale energetico del sangue a cui avevo dato la caccia. Ma proprio mentre stavo per voltarmi lo stridio dei cardini della porta ruppe il silenzio e mi fece accelerare un po' il battito. C'era qualcuno nel mio ufficio. Alle quattro del mattino. Senza appuntamento. Lasciai cadere il panno nel lavabo e presi la nove millimetri che tenevo in una fondina nascosta nell'armadietto. Puntando l'arma verso il pavimento, disinnescai la sicura, pronta ad aprire la porta con una gomitata. Non mi aspettavo noie, ma onestamente non potevo nemmeno dirmi sorpresa. Spencer mi stava dando la caccia da quando si era fatto scappare il caso dell'amante scomparsa del governatore, e io avevo col15


pito la palla al balzo portandola anche a segno. «C'erano una volta quattro bambine amiche per la pelle, che avevano fatto un giuramento» disse una voce femminile al di là della porta, e io rimisi la sicura. Non può essere... Annika. Cam aveva mandato lei sola. Ragazzo in gamba. Erano sei anni che non ci parlavamo, eppure sentire la sua voce fu come liberarmi degli strati lasciati dal tempo e ritrovare la mia infanzia, grigia e ruvida e grossolana – sono mai stata davvero innocente? – ma anche a suo modo ingenua, al confronto con ciò che il tempo e l'esperienza avevano fatto di me. «Promisero di aiutarsi sempre, in qualunque momento ne avessero avuto bisogno» proseguì mentre io cadevo nella tana del coniglio cercando disperatamente un appiglio saldo a cui aggrapparmi. «Firmarono coi loro nomi e...» «E si bagnarono i pollici nel sangue.» Aprii la porta del bagno per ritrovarmi di fronte Annika Lawson che mi guardava coi suoi occhi azzurri, inchiodandomi al nodo ormai logoro e consunto della nostra amicizia. «Fu questo l'errore di quelle stupide ragazzine» dissi. «Disprezzarono il potere dei nomi e del sangue.» Basti pensare a dove ci aveva portato quel giuramento: tutta la mia vita ruotava intorno a una sciocca promessa fatta con leggerezza all'età di dodici anni. «Noi non disprezzammo il loro potere, Liv.» Il suo sguardo era fermo e capace di farmi sentire in colpa per ogni verità che avessi mai cercato di nascondere. Questo non era cambiato, nemmeno dopo sei anni. «È solo che non lo capivamo.» Perché nessuno ce lo aveva detto. Non sapevamo di possedere un talento, e i nostri genitori credevano di proteggerci tenendocene all'oscuro. Tenendoci al riparo dalle conseguenze del nostro corredo genetico. Nei primi anni dopo la rivelazione, la gente a volte spariva. Non si sapeva con certezza se si trattasse di esperimenti governativi, o se i responsabili fossero privati ansiosi di trovare nuove strade, ma quelle scomparse gettarono nel terrore i 16


genitori già preoccupati spingendoli a una rischiosa strategia del silenzio. Non potevano sapere, poi, che la sorella minore di Kori era una vincolatrice e che a dieci anni possedeva già un potere sufficiente a legarci l'una all'altra per il resto delle nostre vite. «Il potere, però, capiva noi.» La nostra ignoranza non rendeva meno forte il nostro legame. O più facile da sciogliere. Ci legammo in modo tale l'una all'altra, che quando crescemmo i nostri vincoli si seccarono e logorarono la nostra amicizia finché non restarono che rancore e rabbia. Chiusi la porta del bagno e mi lasciai cadere sulla sedia dietro la scrivania, schivando un'ondata di ricordi che credevo sepolti per sempre. Era strano vedere Anne nel mio ufficio, fuori posto nella mia vita da adulta pur essendo stata così importante negli anni della mia giovinezza. Una parte di me avrebbe voluto abbracciarla e invitarla a prenderci una bella sbronza insieme, ma una parte più forte ricordava ciò che era accaduto quella notte di sei anni prima, l'ultima volta che eravamo state tutte e quattro insieme. Non ci sarebbe stata alcuna rimpatriata. E non tanto perché Elle era morta e Kori irreperibile. Quando avevo avuto bisogno di un'amica, Anne si era defilata. Avrei potuto rintracciarla, ma perché farlo, quando una decina di telefonate e messaggi senza risposta mi avevano dimostrato che lei non voleva parlare con me? Avevo messo una pietra sopra quel legame e mai, nemmeno una volta, mi ero voltata indietro. Fino a quella notte. «Che ci fai qui? Ci sono altri fantasmi del passato pronti a spuntare dal nulla e portarmi alla tomba?» Quella possibilità era fin troppo concreta e strinsi le spalle per scacciare il pensiero. Lei si lasciò cadere sul divano e la sua facciata composta si incrinò per poi crollare completamente, rivelando un dolore sordo e una rabbia amara. Improvvisamente provai il desiderio di far male a chiunque avesse fatto male a lei. Non mi 17


importava quel che era successo tra noi, desideravo proteggerla, proprio come avevamo fatto Kori e io da bambine, ed era un istinto le cui radici andavano oltre il nostro giuramento. Più indietro nel tempo. Indietro fino al momento in cui Anne e io ci incontrammo per la prima volta, prima che Kori ed Elle venissero a stabilirsi in città. Purtroppo non era così semplice. Sapevo cosa stava per dire, benché non fosse possibile, in teoria. «Ho bisogno di te, Liv. Mi aiuterai?» No! Fui travolta dallo sgomento e la confusione mi invase mentre cercavo di capacitarmi di quanto aveva appena detto. Di ciò che non avrebbe dovuto mai dirmi. «Come hai...?» La voce mi si spense in un sussurro quando la risposta si presentò alla mia mente in tutta la sua ovvietà. «Lo hai bruciato. Hai bruciato il secondo giuramento!» Merda! «Abbiamo giurato, Anne. Abbiamo giurato di lasciarlo stare.» Le lacrime le rilucevano negli occhi senza cadere, ma non c'era traccia di rimorso o di vergogna nel suo sguardo. «Sei l'unica che possa aiutarmi e il secondo giuramento mi impediva anche solo di chiedertelo.» «È proprio per questo che lo abbiamo firmato!» Mi protesi verso di lei con le braccia incrociate sulla scrivania, e la sedia emise un cigolio di protesta. Il secondo giuramento era la nostra libertà. Non recise mai davvero il nostro legame ma ci impedì di restarne troppo invischiate. Nel secondo giuramento, Anne, Kori, Elle e io promettemmo di non chiedere mai aiuto l'una all'altra, perché se mai lo avessimo fatto saremmo state costrette a fare ogni cosa in nostro potere per aiutarci. E questo, lo avevamo imparato a nostre spese, portava solo a disastri. E a rancori. A espulsioni da scuola. Ad arresti. «Mi dispiace. Mi dispiace tanto» insistette lei, mettendosi dietro l'orecchio una ciocca dei suoi capelli color rame, lunghi fino alle spalle. «So che probabilmente non mi credi, e non posso biasimarti. Ma non avevo davvero scelta. Mi aiuterai, Liv?» 18


«No di certo, non ti aiuterò!» Ma non appena pronunciai quelle parole, rompendo il giuramento che avevo fatto con lei, cominciò il dolore. Un'esplosione dietro l'occhio sinistro, talmente brillante che tutto il resto mi sembrò di un grigio opaco. Quando chiusi gli occhi, la luce emise lance di dolore che mi trafissero il cranio e in meno di un secondo ero preda di una emicrania terribile. Poi vennero gli spasmi muscolari, tutto il corpo mi si rivoltò contro, perché mi stavo ribellando a un giuramento firmato e siglato col sangue da una bambina destinata a diventare il più potente vincolatore che avessi mai incontrato. Violare un giuramento siglato con un dilettante o con un professionista mediocre poteva farti correre in ospedale. Violare un giuramento siglato con un vincolatore dotato di vero potere e/o ben addestrato poteva anche ucciderti. Per prima cosa il corpo invia avvertimenti in forma di dolori. Emicranie. Crampi muscolari. Una generale mobilitazione dei centri recettori del dolore. Poi ogni cosa comincia a fare cilecca. Il controllo motorio. La vescica e gli intestini. La vista e l'olfatto. L'udito. Mai il tatto. Mai le terminazioni nervose. Quelle restano in funzione così da non risparmiarti nemmeno per un momento la sensazione del corpo che si autodistrugge. Non ricordo con precisione con quale ordine gli organi interni cominciano a tradirti, ma tra i primi a soccombere ci sono i reni, il fegato, la cistifellea, l'intestino e il pancreas, ognuno dei quali, smettendo di funzionare, è in grado di ucciderti presto o tardi anche da solo. Poi arrivano i guai seri: se persisti, perdi le funzioni respiratorie, poi quelle circolatorie. A quel punto, è evidente, al cervello non restano che minuti – minuti! – per pensare e decidere, tra le nebbie del dolore e dell'umiliazione, se rispettare la parola data, oppure morire per infrangerla. Nessuno, o quasi, si era mai spinto tanto in là. Io non mi sono mai spinta tanto in là, com'è testimoniato dal fatto che il cuore continua a battere nonostante le molte volte in cui ho dichiarato irrimediabilmente rotto il mio giuramento. Ma 19


ognuno ha un suo limite. Un punto oltre il quale non può spingersi. «Ti prego, non farlo, Olivia» disse Anne quando cominciai a contrarre le dita sul tavolo. Un secondo dopo le mie gambe iniziarono ad agitarsi in modo convulso, sbattendo contro il cassetto delle matite, ma io continuai a fissarla attraverso la sfera di luce che occupava il centro del mio campo visivo e respirando profondamente per sopportare il dolore. «Non ritirerò la mia richiesta, Liv» insistette sporgendosi dal divano. «Non posso. Non stavolta. Mi aiuterai?» Sentire di nuovo la sua richiesta di aiuto accelerò il processo e gemetti per il dolore che mi saliva dallo stomaco. Non avrei potuto identificarlo, ma sapevo che cosa significava quel dolore. Una di noi doveva fare un passo indietro, o l'ultima cosa che avrei visto in vita mia sarebbero stati i suoi lucenti occhi pieni di lacrime e di rimorso, e la sua bocca ostinata a non pronunciare la frase che avrebbe posto fine a tutto. «Ti prego, Liv» supplicò Annika, e stavolta la sua voce proveniva da un punto alle mie spalle. Nel bagno scorreva l'acqua. Un secondo dopo reclinava lo schienale della mia sedia e mi metteva un panno freddo e bagnato sulla fronte, e le mani, che tenevo in grembo, furono scosse da un violento spasmo. «Non sai neanche cosa ti sto chiedendo.» «Non importa» gemetti senza riuscire a tenere fermo sulla fronte il panno umido. Finché non avessi ceduto all'impulso di obbedire, non avrei percepito altro che il crollo sistematico del mio organismo. Ma lottai ancora contro quella necessità. Non aveva il diritto di obbligarmi a fare ciò che non volevo, qualunque stupido errore avessimo commesso da bambine. Era come se mi fosse stata sottratta la libertà di scelta. Era umiliante e frustrante ed era il motivo per cui, dopo il liceo, ognuna di noi aveva proseguito per la sua strada senza voltarsi mai indietro. «Il fatto» riuscii ad articolare malgrado la gola mi si chiudesse ostinatamente intorno alle parole, «è che... non ho... scelta.» Il cuoio del divano scricchiolò quando si sedette, e il tre20


more nella sua voce provava che stava trattenendo i singhiozzi. «Mi dispiace, Liv. Se potessi chiedertelo senza costringerti a dire di sì, lo farei, ma non è possibile.» Aveva ragione – qualunque sua richiesta avrebbe scatenato l'impulso – eppure la cosa non mi consolava affatto. Né mi consolava il rimorso che sentivo nella sua voce. «Che cosa vuoi?» mormorai usando tutto il fiato che avevo in corpo, mentre il dolore mi lacerava ancora lo stomaco e le braccia iniziavano a contrarsi intorno al busto. «Devi trovare una persona.» Era prevedibile, dal momento che ero un tracker, per nascita e per professione. Il panno mi cadde dagli occhi e la vidi che si asciugava le lacrime dal viso con un gesto rabbioso. «Devi trovare il bastardo che ha ucciso mio marito e ricambiare il favore.»

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