"tempopieno", Gennaio-Marzo 2010

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Spedizione in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2, CNS BA

Gennaio-Marzo 2010, n. 1 - Anno V

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Mondi paralleli


Sommario tempopieno Rivista per la Scuola Anno V (2010) n. 1

Don Nicola Monterisi tempopieno…di Mondi paralleli Rita Levi Montalcini La scuola che vorrei... Giovanni Modugno Lettera del 1938 a ignoto Francesco Sofia Apprendere in espansione

Direttore Responsabile Vincenzo Legrottaglie Direttore Don Nicola Monterisi Registrazione Tribunale di Bari Autorizzazione n. 50 del 19/09/2006 Redazione Anna Asimi Antonio Curci Letizia Indolfi Barbara Licciulli Angelo Lopez Francesca Romana Morgese Maria Raspatelli Segretaria di Redazione Anna Asimi Progetto Grafico Antonio Curci Impaginazione Angelo Lopez Stampa Pubblicità & Stampa Modugno (Ba) Direzione e Redazione c/o Ufficio Scuola Corso A. De Gasperi, 274/A 70125 Bari Tel. 080.5288415/6 Fax: 080.5690230 email: scuola@odegitria.bari.it

Don Maurizio Lieggi Vangelo e bellezza: evangelizzare attraverso l’arte e la musica Eleonora Matteo Un consorzio di Scuole per l’Innovazione nella scuola I ragazzi della V B Un concorso per la Solenne Ostensione della Sacra Sindone

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DOSSIER: Mondi paralleli S.S. Benedetto XVI Discorso ai partecipanti al convegno…

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Mons. Domenico Pompili Un continente da evangelizzare

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Veronica Rossano Web 2.0 e social network

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A cura di Francesca Quale società domani? Romana Morgese (Intervista a Francesco Cassano) Pasquale Chianura e Vite ed identità parallele Anna Maria Cassano Gabriella Campa I giochi elettronici, tra opportunità e pericoli per la mente

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Marianna Pacucci L’affettività virtuale

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Don Roberto Ponti Il Cristo Maestro, Via-Verità-Vita per la comunicazione 2.0

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Pierangelo Indolfi Un cammino di comunicazione

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Antonio Calisi E’ possibile utilizzare Facebook nell’insegnamento della Religione cattolica?

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Mina Signorile Saper dire no!

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Nicola Vavalle e I social network e i genitori Giuliana Chirico

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Stefania Vavalle I social network e gli adolescenti

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Emanuela Moccia Costruire… nella vita reale Giulio Navarra Social network e giovani… evoluzione o regresso?

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Sommario Antonio Curci E non chiamiamola amicizia

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A cura di Mons. Vito Angiuli Chiesa e mezzi di comunicazione...

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Ludovica Carli “Educazione in cerca d’autore”

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Don Valentino Campanella Il prete non è prete per sé, lo è per voi!

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A cura di Vincenzo Legrottaglie Media del territorio

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A cura di Anna Asimi Sullo scaffale

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A cura di Anna Asimi Giunti in redazione

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Efrem il Siro Sulla risurrezione Grazia Ricciardi Christ $9.98

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tempopieno di… Mondi paralleli

Un

click...

ed ecco vi si entra: Facebook, MSN, Twitter, You

Tube,

MySpace, Netlog, F l i c k r , Buzz, ecc. ... affasci nat i da immagini,

suoni,

informazioni, contatti, possibilità di dire qualcosa, possibilità di venire a conoscenza, possibilità di intervenire, di esserci... il corpo è, sì, inchiodato alla sedia ma la mente... libera, finalmente, di planare... navigare... “pescare” notizie, divertimento, amici. Rimango sempre stupefatto quando i giovani – e non più giovani – mi parlano delle “possibilità” dei mondi paralleli (quelli che corrono paralleli, appunto, alla realtà, che catturano i nostri ragazzi/giovani e li forgiano, li plasmano, li ristrutturano e poi “nuovi” li riconsegnano alla realtà), confesso: non mi sono mai affacciato, sono posti che non ho mai visitato, li “vivo” attraverso le esperienze di chi vive “in” questi mondi e “di” questi mondi, di chi li osserva, di chi li studia. E mi fa riflettere come anche la vita nei mondi paralleli dice il grande bisogno di relazione che ha l’uomo, oserei dire la “fame” di relazione, il bisogno di andare oltre, l’esigenza di raccontarsi. La nostra Rivista, che guarda i risvolti educativi del fenomeno, ha osato entrare, timidamente, nel mare magnum dei mondi paralleli. Abbiamo voluto capire cosa sono, come funzionano, quali ricadute nella vita “reale”.

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Abbiamo voluto capire se condizionano e come lo sviluppo psichico e affettivo del giovane, ci siamo chiesti quale società si profila all’orizzonte. I genitori come si approcciano a questi mondi? Gli insegnanti li utilizzano a scopi didattici? I giovani – ho scoperto – gareggiano nello stabilire “contatti”, ma si può parlare di amicizia? Perché i giovani sono tanto attratti dai mondi paralleli? Quale ricchezza vi scorgono? La Chiesa con quale stile si presenta in questi mondi? Tante altre domande ci siamo posti, ma non a tutte si può rispondere nello spazio di un dossier. Siamo consapevoli che, oltre al web, esistono altri mondi paralleli che “ammaliano” i giovani e non solo, in futuro li visiteremo. Siamo grati a quanti hanno messo a nostra disposizione tempo, esperienza e competenza, permettendoci di gettare semi. Questa la nostra unica pretesa. Ci consentirete un pensiero di particolare gratitudine a Rita Levi-Montalcini che ha accettato di inviarci una sua sapiente riflessione per la rubrica “La scuola che vorrei...”. La sua disponibilità ci ha commossi. Buona lettura! Don Nicola Monterisi

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La scuola che vorrei… Trasmissione di nuovi valori: dalla famiglia alla scuola di Rita Levi-Montalcini

Prima e fondamentale proprietà della materia vivente è la natura bidirezionale dei messaggi trasmessi da ogni cellula e da ogni organismo, dai batteri all’uomo. Con la scoperta, per opera dei nostri lontani antenati, di quel formidabile mezzo di comunicazione che è il linguaggio orale e scritto, si sono centuplicate, nella nostra specie, le possibilità di scambiare messaggi tra individuo e individuo, tra il singolo e le masse, tra appartenenti alle generazioni che ci hanno preceduto e quelle attualmente viventi, tra queste e quelle a venire. Un ulteriore mezzo di comunicazione, che ha tuttavia privilegiato la capacità di trasmettere, molto più che non quella di “comunicare”, e cioè di far pervenire ai mittenti dei messaggi le risposte dei riceventi, si è attuata con la scoperta dei mezzi di comunicazione radiofonici e televisivi che hanno

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radicalmente trasformato la struttura stessa della società umana, e con questa, l’avvenire della specie dell’Homo Sapiens. Le nuove generazioni esposte, sin dalla prima infanzia, al continuo e incessante bombardamento di notizie che pervengono loro dalla radio, dagli schermi televisivi e dai nuovi mezzi tecnologici, assorbono avidamente i messaggi che riescono tanto più graditi, in quanto non richiedono alcuno sforzo mentale, né esigono risposta. Da potenti mezzi di informazione queste tecnologie si sono prestate alle sempre più incalzanti esigenze di una società consumistica, che ha realizzato l’enorme vantaggio di servirsi di questi sistemi, per reclutare giovani ascoltatori, e fare di loro convinti e voraci consumatori dei prodotti propagandati. Sotto la guida di un’astuta e vigile campagna pubblicitaria, i neofiti di questa nuova civiltà,


imparano a conoscere, sin dall’infanzia, il prezzo di tutti gli articoli offerti dal mercato, e ignorano l’esistenza di valori non consumistici. Si deve ritenere che si tratti di un processo irreversibile che, avvalendosi della naturale tendenza dell’Homo Sapiens a recepire messaggi, diminuirà, sino ad annullarla, l’inclinazione per la dialettica che aveva raggiunto così ad alti livelli nei periodi aurei della filosofia, da quelli delle civilizzazioni antiche a quello altrettanto rigoglioso dell’epoca rinascimentale? La perdita di questa capacità di dialogare che, più di ogni altra, distingue la nostra da tutte le altre specie animali, avrebbe un peso incalcolabile sul futuro dell’umanità. E’ possibile invertire questa tendenza, stimolando nei giovani il piacere al dialogo e all’attiva partecipazione alla gestione della società da parte di tutti i suoi membri? Un dialogo, sia pure informato al dissenso, è di gran lunga preferibile ad un’accettazione supina di suggerimenti o velati ordini ricevuti tramite i mezzi di comunicazione oggi vigenti. Nessuno sforzo appare più importante per il

futuro del genere umano di quello diretto al recupero di attitudini critiche, oggi così attenuate dal dilagare di un conformismo che indica nell’acquisto dei beni offerto dal mercato, lo scopo prefisso dalle proprie aspirazioni. E’ fondamentale riconoscere ai giovani il diritto e non meno il dovere di partecipare come attori nell’arena mondiale nella quale si svolgono i molteplici eventi che minacciano la stessa sopravvivenza della specie umana e di altre specie viventi. Spetta ai giovani il compito di costruire la scala di valori e cercare di attenersi a quella con l’obiettivo di godere ora per ora, giorno per giorno, della straordinaria esperienza di rendere più facile il cammino a quanti sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto. Ai genitori e ai docenti, in quotidiano contatto con i giovani, si impone il compito di stimolare le capacità intellettuali, in loro possesso, mettendo a disposizione la propria esperienza di adulti senza usare toni autoritari che possano offendere la loro dignità.

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Lettera del 1938 di Giovanni Modugno a ignoto Proseguiamo la presentazione di scritti del Servo di Dio Giovanni Modugno, iniziata con il n. 3 Anno IV della nostra Rivista Lettera di Modugno a destinatario non indicato (potrebbe essere il prof. Baroni, ma più probabilmente Chizzolini [...]). Tocca il fondamentale problema della cultura da impartire nelle scuole, le difficoltà reali a motivo della mancanza di libertà dovuta al fascismo (c’è chi dice che «una partita di calcio vale più di un sistema filosofico»...), problemi di organizzazione della scuola e di formazione degli educatori. Chiar.mo professore, non può immaginare quanto mi costi il doverle dire che le mie condizioni di salute (ho avuto gravi sintomi di esaurimento nervoso e di arteriosclerosi) e i molti impegni precedenti mi rendono impossibile rispondere così come avrei desiderato al suo gentile invito, di cui vivamente La ringrazio. Sia per l’iniziativa sia per chi così degnamente la dirige ho così viva simpatia, che non posso tuttavia resistere al piacere di conversare un po’ con Lei con cuore fraterno. Come Lei giustamente dice, per parlare in maniera viva, concreta e utile del valore educativo della cultura, bisognerebbe dire “come si trova la scuola italiana rispetto a questo problema”. Ma io mi domando: è possibile soprattutto in questo momento, dire con la doverosa sincerità, tutto ciò che ci sarebbe da osservare su questo delicato argomento? Io non lo credo... E il guaio è che non sarebbe possibile neppure additare alcune cause, assai gravi, di molti mali che affliggono la scuola. Il fatto è che i giovani restano disorientati perché non pochi insegnanti sono ancora affetti dalla mania della erudizione enciclopedica e frammentaria e altri che vogliono liberare la

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scuola da questo malanno adottano rimedi peggiori del male: una pedagogia da foot-ball, che fa dire ad alcuni (l’ho sentito dire io da un professore universitario: si figuri gli applausi degli studenti presenti) che una partita di calcio vale più di un sistema filosofico e che bisogna portare i libri in soffitta. Io ho un culto per la virtù della prudenza; eppure le assicuro che se avessi potuto occuparmi di quell’argomento, sarebbe venuto fuori un articolo... non pubblicabile. E in questi casi – io penso – è meglio, almeno per ora, non toccarli affatto certi argomenti... L’argomento importantissimo potrebbe forse più facilmente essere presentato di scorcio da quelli che tratteranno le singole discipline di insegnamento: in qual modo ciascuna materia può contribuire alla formazione religiosa, civile, umana del giovane? Per una coordinazione tra i singoli autori potrebbe essere utile, io credo, il volume del Casotti, L’educazione Cattolica (ha avuto l’occasione di scorrere il mio volume sul Förster? Da p. 252 a p. 262 c’è qualche spunto sulla educazione etica e le singole materie d’insegnamento. Se non l’ha, sono lieto di fargli inviare il volume). A chi è destinato l’annuario? Agli insegnanti delle scuole medie? E allora il volume dovrebbe essere quanto più è possibile non dottrinario, ma più aderente ai problemi vivi e concreti della scuola. Per esempio: la piaga del supplentato; gli orari asfissianti soprattutto degli istituti magistrali (vari anni or sono dimostrai con le cifre che l’orario dell’attuale Istituto magistrale è ancora più gravoso di quello, tanto giustamente criticato, della scuola ex normale: in seguito, manco a farla apposta, l’orario è diventato ancora più pesante: ai giovani manca assolutamente il tempo di studiare); il numero esorbitante degli alunni


(abbiamo classi con cinquanta alunni!); la mancata selezione degli alunni (eppure la riforma si basava su una accurata e intelligente selezione); l’accresciuto numero dei ginnasi e licei; i programmi in certi casi esorbitanti; la mancanza di direzione didattica (i presidi e i direttori didattici sono diventati – per forza di cose – niente altro che burocrati). L’altro punto grave è la preparazione degli educatori, giacché né l’università né l’Istituto magistrale a me pare che assolvano convenientemente il difficile compito di dare insegnanti veramente preparati: che sofferenza, caro amico, in certe discussioni, nei collegi dei professori...! Se l’Annuario non tocca argomenti vivi e concreti di questo genere, io temo che sarà letto solo da quelli che ne hanno minor bisogno. Non pare anche a Lei? Mi son preso la libertà di parlare con eccessiva franchezza? Gli è che per il tanto bene che ho sentito parlare di Lei, m’è parso di parlare a un vecchio e caro amico. Mi perdoni. Con i più affettuosi auguri per il suo apostolato.

Suo Giovanni Modugno Tratta da Modugno, Giovanni, La missione educativa. Corrispondenza 1903-1956, a cura di Domenico Saracino, Stilo Editrice, Bari, 2009, pp. 134-136.

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Apprendere in espansione Dalla stratificazione dei saperi alla creatività di Francesco Sofia * Gli insegnanti, in questo nostro tempo di più abbondanti e più diffusi sistemi di informazione, sono colti da una fatica singolare che spesso è provocata da un problema di non facile soluzione. Quando gli alunni raggiungono risultati deludenti la motivazione addotta è del tipo: «…E’ distratto … Non si applica … E’ poco volenteroso … Pensa sempre al giuoco … Non riflette … E’ attratto dal richiamo dei compagni … Accusa mal di testa … E’ attratto dalla TV … E’ preso dai videogiochi»! Solo di recente all’interrogativo gli studiosi rispondono con indicazioni che sono frutto della ricerca e della sperimentazione scientifica. Infatti le scienze cognitive e le neuroscienze spiegano il meccanismo e la dinamica delle basi del pensiero. Anche in Italia gli studiosi si dedicano a questa ricerca e appena tre anni fa, a Rovereto, nel workshop su Concetti, Azioni e Oggetti: prospettive neuronali e funzionali (CAOs), in un simposio internazionale sono state messe a fuoco, confrontate e divulgate molte conoscenze sui processi cognitivi. Domandarsi che cosa sia apprendere, un verbo, quindi l’azione che meglio specifica la dinamica del processo cognitivo, è da preferire al sostantivo apprendimento che ne indica invece il prodotto. In un’intervista curata da Sciortino ad Howard Gardner dell’Università di Harvard (USA) ove insegna Scienze cognitive e Pedagogia, il famoso autore della Teoria delle Intelligenze Multiple affermava: «Sto cercando di capire che * Pedagogista – Socio onorario dell’ANPE 10

cosa ne è della professionalità in un’epoca in cui le forze del mercato sono potenti… quale tipo di insegnamento può essere di aiuto?» (Panorama, 21.9.2006). Alle nove intelligenze compresenti nella mente dello stesso individuo, oggi Gardner aggiunge l’intelligenza esistenziale, quella che dispone la persona ad impiegare le sue esperienze in nuove e diverse circostanze. «In generale, - egli dice - le scuole potenziano solo un tipo di intelligenza… una miscela tra logico-matematica e linguistica. E così alcuni sono bravi, altri no, pur essendo molto dotati». E’ sterile, il “saper leggere e far di conto” non esprime la potenzialità dell’apprendere, in cui il successo si lega al piacere e alla creatività. Sappiamo che il lobo temporale destro del nostro cervello rielabora le informazioni per risolvere un problema e in esso si annida il lavoro di applicazione e di scoperta. La ricerca scientifica ha concentrato anche qui la sua indagine per spiegare il collegamento tra il centro nervoso e sua sollecitazione con il sorgere dell’intuizione. Si tratta degli studi di Mark Jung-Beeman e di E. Bowden della Northwestern University di Chicago. La stessa area della corteccia è in attività quando l’individuo conta ad alta voce ed ascolta la propria voce: operazioni che di solito, in un compito in classe ad esempio, vengono escluse. C’è da aggiungere che il lobo sinistro è sollecitato dall’ascolto della musica come dal movimento ritmico della mano destra. Traducendo, banalmente, possiamo dire: più operazioni, più cervello impiegato, più risultati. Sollecitare a sentire, ascoltare, leggere, muoversi, dire, pensare: un circuito che la dimostrazione diagnostica, realizzata con l’esame del Pet e della Risonanza Magnetica, rivela


virtuoso. Infatti convergono linguaggi contaminati, stimolazioni emotive mediate dall’ipotalamo, con conseguente funzionalità piacevole, attrazione psicologica e deduzione di una memoria assicurata per un termine lungo. Ecco un criterio organico-metodologico che contribuisce alla performance creativa dal rendimento più alto. Siamo obbligati ad una opportuna sinteticità ma questa premessa scientifica è sufficiente a rassicurarci che la didattica è scienza, sia perché essa innesca un processo neuronale, sia perché più che il prodotto è il processo stesso ad essere osservabile, misurabile e valutabile: operazioni proprie della scienza. Da quanto detto deduciamo alcune linee pedagogiche che possono risolvere il problema che abbiamo indicato in apertura. Prima di tutto affermiamo che l’apprendimento è un accomodamento che si verifica solo in situazione di benessere mentale. In secondo luogo riteniamo che l’insegnamento realizza questo obiettivo se il docente modifica la sua azione abbandonando il criterio della stratificazione e realizzando un processamento di espansione. Simboleggiamo così i due modelli:

Il primo modello (a) caratterizza l’insegnamento come azione che mira a fornire più informazione e più memorizzazione cioè maggiore bravura (sapere molto in minor tempo possibile con agilità nel viaggio tra le conoscenze). E’ importante che si completi il programma previsto e che gli alunni siano in possesso di abilità. Nel secondo tipo (b) di insegnamento l’input (i) del docente raggiunge la mente dell’alunno come il raggio luminoso di incidenza raggiunge la superficie riflettente: se questa non è scabra produrrà una risultante (r). Allo stesso modo l’azione provocatrice del docente susciterà

nell’alunno un’iniziativa di autonomia cognitiva proiettata al di fuori di sé, dagli effetti imprevedibili. Da questa stessa spinta ricadranno sulla sua mente altri input con altrettante risultanti che, nello spingere verso mete nuove ed alte la sua intelligenza, avranno l’effetto di espandere (e) la sua ricchezza personale secondo autonomia, tendenze e creatività. L’esempio della luce è adatto non solo per la natura dell’energia e della capacità illuminante, ma anche perché le risultanti avrebbero scarsa potenza se la superficie fosse ruvida ed opaca. A somiglianza, più rendi disponibile il cervello, più rendi favorevole il clima ambientale esterno e quello interiore, più l’alunno libera potenzialità impreviste ed imprevedibili. L’espansione è un’alleata potentissima dell’insegnamento, perché ricerca e creatività dell’alunno si aggregano al lavoro dell’insegnante. Nella diade l’asimmetria non presiede il conflitto, la positività motiva e l’ignoto attrae. In questo tipo di processo è più facile scoprire il senso, animare di futuro la prospettiva, gratificare la fatica. Questa tensione meglio si raggiunge se alla base degli interventi c’è un progetto oggettivo per il quale anche la collaborazione del pedagogista giova a calibrare l’azione formativa secondo i bisogni palesi e latenti degli alunni. Rivisitare l’azione dell’insegnante alla luce dei risultati delle scienze cognitivistiche permette di prendersi cura dello spazio vitale dell’alunno aiutandolo a liberarsi dagli sbarramenti che egli tende a sollevare per difendersi dalla violenza che la società del progresso e del mercato gli procurano invadendo il suo ambiente psicologico. BEAR MARK, C.BARRY W., PARADIS MICHAEL A., Neuroscienze. Esplorando il cervello, Milano, 2007. H. GARDNER, Educazione e sviluppo della mente, Trento, 2005. A. LUDOVICO, Cervello e computer. Metodo per utilizzare tecnologia e ragione, Roma, 1997. F. SOFIA, Il Progetto Oggettivo nell'insegnare. Verso la Qualità Totale, in "Professione Pedagogista", III(2008), pp. 63-76.

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VANGELO E BELLEZZA: evangelizzare attraverso l’arte e la musica Un’esperienza: Frammenti di Luce di don Maurizio Lieggi * Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 12) Emerge sempre più e da più parti la difficoltà, da parte della comunità cristiana, di annunciare il messaggio affidatole da Cristo. Non perché ovviamente manchi un contenuto (il contenuto è il Vangelo), ma perché si fa fatica a trovare le formule, i linguaggi, le strategie, i contesti adatti per rendere efficace ed incisivo questo messaggio. Il rischio è di sentirlo lontano, staccato dalla nostra vita, dal nostro sentire. Spesso si dice che il messaggio evangelico sia difficile farlo dialogare con l’esperienza quotidiana. Il nostro tessuto culturale sfida e minaccia continuamente il progetto di vita cristiana. In non pochi ambienti è più facile attaccare che professare la fede. Già Paolo VI nella sua esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi del 1975 diceva che «la rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre dunque fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la buona novella» (n.20). Anche Giovanni Paolo II in preparazione al terzo millennio sottolineava il bisogno di cercare nuove forme e strategie per annunciare la buona e bella notizia del Vangelo. * Sacerdote 12

Il progetto Frammenti di Luce vuole inserirsi all’interno di questa ricerca: coniugare la dimensione spirituale e quella artistica, in tutte le sue diverse forme, per annunciare il Vangelo, la Bella notizia. Il linguaggio della Bellezza sembra essere oggi una via privilegiata per comunicare i valori e i contenuti della Fede in un contesto culturale in continua evoluzione. Anche per l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle Culture del 2006 è stato scelto il tema: “La Via pulchritudinis. Cammino privilegiato di evangelizzazione e di dialogo” dove si afferma: «La Via della bellezza, a partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con la bellezza che suscita stupore, può aprire la strada della ricerca di Dio e disporre il cuore e la mente all’incontro col Cristo, Bellezza della Santità Incarnata offerta da Dio agli uomini per la loro Salvezza. Essa invita i nuovi Agostino del nostro tempo, cercatori insaziabili d’amore, di verità e di bellezza, ad elevarsi dalla bellezza sensibile alla Bellezza eterna e a scoprire con fervore il Dio Santo Artefice di ogni bellezza». La via della bellezza risponde all’intimo desiderio di felicità che alberga nel cuore di ogni uomo. Essa apre orizzonti infiniti, che spingono l’essere umano ad uscire da se stesso, ad aprirsi al Trascendente e al Mistero, a desiderare, come scopo ultimo del suo desiderio di felicità e della sua nostalgia di assoluto, questa Bellezza originale che è Dio stesso, Creatore di


ogni bellezza creata. La finalità di Frammenti di Luce è quella di portare la Parola e il suo mistero salvifico attraverso i canali dell’arte. Infatti il suo sforzo è quello di far dialogare diverse esperienze artistiche: la musica, il canto, l’immagine pittorica, la danza, la parola. Un dialogo articolato che cerca di suscitare delle emozioni interiori, una uscita da sé, un rimando all’Oltre. La forma del Concerto Meditazione che Frammenti di Luce propone è l’espressione di questo sforzo. Infatti ogni Concerto vuole essere un frammento della Bellezza di Dio, non perché esteticamente alta ma perché immersa nella pienezza di Colui che è l’unico che può salvare. Infatti ogni Concerto Meditazione seguendo un tema guida intreccia, attraverso una regia attenta, le diverse espressioni dell’arte: testi (poetici, in prosa, della tradizione cristiana, della Sacra Scrittura), musiche (di diverso stile e genere e di epoche diverse), immagini (dalle opere d’arte che la tradizione cristiana ci ha consegnato a immagini fotografiche d’autore di vita quotidiana), danza (come espressione del corpo). Diversi sono ormai i Concerti Meditazione realizzati e proposti nelle comunità parrocchiali, negli incontri a carattere diocesano, come anche in diversi eventi nazionali, in ultimo la 60° Settimana Liturgica Nazionale. I riscontri a questa proposta sono molto positivi. Soprattutto la risposta dei giovani è incoraggiante. Realmente essi sono ricercatori di verità e di bellezza, assetati di tutto ciò che può aiutarli a scoprire il senso vero della vita. Testimonianza di ciò è anche il coro Frammenti di Luce, composto da una trentina di giovani che si sforzano con impegno e dedizione a condividere e portare avanti questo percorso e progetto. Ma Frammenti di Luce è anche percorso di formazione. “La Via della Bellezza”, infatti, è un itine-

rario che si articola in conferenze, concerti lezione, week end laboratorio, e concerti meditazione. Esso vuole rispondere al crescente desiderio di impegno e di formazione per una nuova evangelizzazione, ed è indirizzato soprattutto ai giovani e a tutti coloro che si impegnano quotidianamente nell’opera educativa e tra questi sicuramente gli operatori scolastici. Il progetto è portato avanti da giovani consacrati che coniugano il loro percorso di fede e adesione al Vangelo con la loro professionalità artistica. E’ nato a Roma e si è consolidato negli ultimi anni all’interno della diocesi di BariBitonto in collaborazione con l’Ufficio liturgico della Diocesi. Sono stati in questi anni realizzati anche dei DVD e CD (Canto al re il mio poema, O amore che tanto ardi e mai ti estingui,…) con l’intento di allargare e diffondere questa esperienza e di offrire del materiale utile a tutti per momenti di formazione sia culturale che spirituale. Per qualsiasi informazione è possibile consultare il nostro sito www.frammentidiluce.org Mi piace concludere con un versetto del Vangelo secondo Matteo: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché, vedendo le vostre opere belle rendano gloria al Padre» (5,16). Possa essere il programma di vita di ciascuno di noi.

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Un consorzio di Scuole per l’Innovazione nella scuola di Eleonora Matteo * Il 22 febbraio scorso, nella sala Murat è stato presentato alla stampa il Consorzio “SI”, SCUOLE PER L’INNOVAZIONE, costituito con atto pubblico presso il notaio Maccaione di Acquaviva delle Fonti il giorno 26 gennaio. Il Consorzio è nato con l’intento di mettere insieme le risorse umane delle singole scuole, in una logica di superamento dell’isolamento e della sterile competitività, sulla base di obiettivi condivisi di miglioramento della qualità dell’offerta di istruzione e formazione per le nuove generazioni. In tal modo si è voluto dar voce alle scuole, proponendosi come soggetto qualificato sul territorio, per promuoverne una partecipazione attiva alla governance delle politiche formative territoriali, che intercetti i bisogni dei cittadini, per lo sviluppo della nostra Regione. L’intento è anche quello di progettare una graduale ma decisa caratterizzazione dell’offerta in relazione ai bisogni di sviluppo del nostro territorio, ridurre le inefficienze e gli sprechi, la crescita disordinata e autarchica di ambiti privi di respiro strategico, il proliferare di indirizzi sovrabbondanti e autoreferenziali, creando invece condizioni per il miglioramento della pertinenza e della qualità dell’intera offerta formativa territoriale. Anche in relazione allo stato di grave difficoltà economica che la scuola sta vivendo il Consorzio non si muove nell’ottica della lamentazione, ma nella logica del “fare sistema” per ottimizzare l’impiego delle risorse e massimizzarne gli effetti.

* Dirigente scolastico - I.T.I.S. “Panetti” - Bari 14

Punto di partenza è stata l’esigenza di accettare le sfide del cambiamento in atto, realizzando nelle scuole aderenti un servizio di qualità centrato sull’innovazione didattica e sviluppando le potenzialità formative offerte dall’ICT. L’azione del Consorzio fa riferimento essenzialmente alla dimensione europea dell’istruzione (obiettivi di Lisbona) e alle strategie di sviluppo previste per la Regione Puglia. Le aree di interesse sono, oltre all’innovazione, la creatività, la cittadinanza attiva, l’educazione permanente, l’occupabilità, l’interculturalismo. Il Consorzio ha, infatti, per oggetto le seguenti finalità: • promuovere l’uso delle innovazioni tecnologiche nel senso della creazione di ambienti formativi adeguati alle esigenze dei tempi e degli studenti; • diffondere l’innovazione didattica e metodologica nell’ambito di un approccio laboratoriale che favorisca le competenze progettuali e costruttive delle personalità e del sapere; • sviluppare la qualità dei servizi e degli ambienti per favorire l’efficienza e l’efficacia delle azioni didattiche, amministrative, organizzative e promuovere un contesto ambientale affidabile, piacevole, funzionale, motivante; • assumere, per particolari obiettivi, la responsabilità delle relazioni esterne con gli enti locali e nazionali, con il mercato del lavoro, con le rappresentanze sociali allo scopo di accrescere la forza contrattuale, di semplificare i rapporti, di determinare percorsi virtuosi di progettazione e gestione.


LE SCUOLE DEL CONSORZIO rappresentate dai dirigenti scolastici I.P.S.S.C.T. “Tridente” - Bari

Santa Ciriello

L. A. “De Nittis” - Bari

Irma D’Ambrosio

L. S. “G. Salvemini” - Bari

Mario De Pasquale

I.T.C. “Giordano” - Bitonto

Arcangelo Fornelli

L.S. “Leonardo da Vinci” e L.C. “Platone” Cassano delle Murge

Tina Gesmundo

ITC e linguistico “Marco Polo” - Bari

Antonio Guida

I.T.C.G.T. “Salvemini” - Molfetta

Sabino Lafasciano

I.P.S.C. “Gorjux” - Bari

Giuseppina Lotito

I.S.A. “Pascali” - Bari

Prudenza Maffei

I.T.I.S. “Panetti” - Bari

Eleonora Matteo

L. S. “Cartesio” - Triggiano

Tommaso Montefusco

I.I.S.S. di Santeramo in Colle

Magda Ragone

I.I.S.S. “Rosa Luxemburg” - Acquaviva delle Fonti

Francesco Scaramuzzi

I.T.C. “Lenoci” - Bari

Maria Testa

I.T.A.S. “Elena di Savoia” - Bari

Vincenzo Velati

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Un concorso per la Solenne Ostensione della Sacra Sindone I ragazzi della V B * In preparazione all’evento della Solenne Ostensione della Sacra Sindone (Torino 10 aprile-23 maggio 2010), l’Ufficio Scuola dell’arcidiocesi di Torino ha indetto un concorso fra gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado del Piemonte sul tema della Sacra Sindone. Il concorso è stato accolto dall’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, che ha provveduto a comunicarne le norme alle scuole della Regione. La commissione giudicatrice era composta da docenti di tutte le discipline scolastiche. Sorprendentemente il primo premio è stato vinto dai ragazzi della V B della Scuola Primaria di Sangano (Istituto comprensivo Trana) che hanno concepito il loro lavoro inviando una lettera all’Uomo della Sindone. Pubblichiamo qui di seguito il testo di questo lavoro.

Caro Uomo della Sindone, tutti quest’anno parlano di te, del fatto che in primavera ci sarà la tua Ostensione. E’ stato proprio grazie a questo avvenimento che noi ragazzi della V B della scuola primaria di Sangano ti stiamo conoscendo. Abbiamo visto la tua immagine nei libri e in televisione. Lo sai che ci hai incuriosito? Guardandoti ci siamo accorti che non riusciamo a percepirti in un solo colpo d’occhio, abbiamo bisogno di soffermare la nostra attenzione sul tuo sudario scorrendo lo sguardo sui particolari: ferite, rivoli di sangue, tumefazioni. Vederti pieno di sangue, fratture, segni di flagellazione ci fa venire la voglia di abbracciarti! Osservando il negativo fotografico ci appaiono * Istituto comprensivo Trana - Sangano 16

chiari i tuoi occhi, la fronte, il naso, la bocca e i capelli: sono i tratti del volto di un uomo. Uomo della Sindone, chi sei? Come è stata la tua vita? Perché ti hanno messo sulla croce? A queste domande nessuno forse potrà mai darci delle risposte. Sei giunto fortunatamente fino a noi, salvandoti dal fuoco; passi la maggior parte del tempo chiuso in una teca, ma non ti senti solo? E come ti senti quando, ogni dieci anni, migliaia di persone arrivano da lontano per scrutarti, per capire chi sei, per cercare di leggere cosa c’è scritto nel tuo cuore? Non ti sei sentito spiato quando hanno tentato di analizzarti? Spiato nel corpo, spiato nell’animo per cercare di datarti, per cercare di chiarire se sei o non sei Gesù! La fine della tua vita è stata piena di sofferenza, questa però non è stata sprecata perché ci riporta alla sofferenza di Gesù, ricorda che il Figlio di Dio è sceso in mezzo a noi e sarà sempre con noi per amarci. Non importa sapere, Uomo della Sindone, chi sei se riesci a trasmetterci questo messaggio d’amore! Vederti significa rassicurarci. Ci ricorda che Dio esiste, anche se non lo vediamo, ci ricordi che solo seguendo l’esempio che Gesù ci ha dato possiamo vivere felici e sereni, ci ricordi chi è il nostro prossimo, ci ricordi che Gesù disse: Lasciate che i bambini vengano a me, perché il Regno di Dio appartiene a quelli come loro. Caro Uomo della Sindone, questo è il messaggio più grande che potevi darci!!!!!! Aspettaci, verremo a vederti!!!



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Discorso di Sua Santità Benedetto XVI AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO NAZIONALE "TESTIMONI DIGITALI. VOLTI E LINGUAGGI NELL’ERA CROSSMEDIALE"

[…] Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività. La rete manifesta, dunque, una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide. Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno. Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici

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forme di degrado e di umiliaz i o n e dell’intimità della persona. Si assiste allora a u n «inquinamento dello spirito, quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia» (Discorso in Piazza di Spagna, 8 Dicembre 2009). Questo Convegno, invece, punta proprio a riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie: quando ciò accade, esse restano corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo. Come è possibile, oggi, tornare ai volti? Ho cercato di indicarne la strada anche nella mia terza Enciclica. Essa passa per quella caritas in veritate, che rifulge nel volto di Cristo. L’amore nella verità costituisce «una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione» (n. 9). I media possono diventare fattori di umanizzazione «non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono


Dossier maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali» (n. 73). Ciò richiede che «essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale» (ibid.). Solamente a tali condizioni il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità. Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa. Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete. E’ questa la nostra missione, la missione irrinunciabile della Chiesa: il compito di ogni credente che opera nei media è quello di «spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo tempo “digitale” i segni necessari per riconoscere il Signore» (Messaggio per la 44a Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, 16 maggio 2010). Cari amici, anche nella rete siete chiamati a collocarvi come «animatori di comunità», attenti a «preparare cammini che conducano alla Parola di Dio», e ad esprimere una particolare sensibilità per quanti «sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche» (ibid.). La rete potrà così diventare una sorta di «portico dei gentili», dove «fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto» (ibid.). Quali animatori della cultura e della comunicazione, voi siete segno vivo di quanto «i moder-

ni mezzi di comunicazione siano entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio» (ibid.). Le voci, in questo campo, in Italia non mancano: basti qui ricordare il quotidiano Avvenire, l’emittente televisiva TV2000, il circuito radiofonico inBlu e l’agenzia di stampa SIR, accanto ai periodici cattolici, alla rete capillare dei settimanali diocesani e agli ormai numerosi siti internet di ispirazione cattolica. Esorto tutti i professionisti della comunicazione a non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre più ai suoi linguaggi e al suo vero volto. Vi aiuterà in questo una solida preparazione teologica e soprattutto una profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo con il Signore. Le Chiese particolari e gli istituti religiosi, dal canto loro, non esitino a valorizzare i percorsi formativi proposti dalle Università Pontificie, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalle altre Università cattoliche ed ecclesiastiche, destinandovi con lungimiranza persone e risorse. Il mondo della comunicazione sociale entri a pieno titolo nella programmazione pastorale. Mentre vi ringrazio del servizio che rendete alla Chiesa e quindi alla causa dell’uomo, vi esorto a percorrere, animati dal coraggio dello Spirito Santo, le strade del continente digitale. La nostra fiducia non è acriticamente riposta in alcuno strumento della tecnica. La nostra forza sta nell’essere Chiesa, comunità credente, capace di testimoniare a tutti la perenne novità del Risorto, con una vita che fiorisce in pienezza nella misura in cui si apre, entra in relazione, si dona con gratuità. Vi affido alla protezione di Maria Santissima e dei grandi Santi della comunicazione e di cuore tutti vi benedico.

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Un continente da evangelizzare di mons. Domenico Pompili *

Un nuovo continente da evangelizzare: ecco come la Chiesa guarda ad Internet. Benedetto XVI lo ha ripetuto più volte (basta leggere i suoi ultimi due messaggi per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali), invitando i giovani prima e i sacerdoti poi ad “abitare” la Rete e ad essere anche lì araldi del Vangelo. Quello delle comunicazioni sociali è un mondo in costante, rapidissima evoluzione. Mentre prima i mass media erano ben definiti nella loro individualità, ora si sono come liquefatti nel nuovo ambiente tecnologico. Internet e i social network, in un modo che per certi aspetti può essere percepito quasi come “magico”, rappresentano degli straordinari catalizzatori di rapporti, capaci di azzerare le distanze spazio-temporali tra le persone. Allo stesso tempo, però, possono anche mettere in crisi il signifi-

cato della “presenza”, nella misura in cui la semplice connessione non riesce a compiere il decisivo salto di qualità che la trasforma in una relazione interpersonale. Alla luce di queste trasformazioni, sta cambiando anche la missione della Chiesa in questo contesto. In Italia, ad esempio, fino a qualche anno fa l’obiettivo della comunità ecclesiale era quello di stare dentro al mondo dei media e, in fondo, gli ultimi dieci anni sono serviti alla Chiesa italiana a fare delle scelte precise: pensiamo al SIR, ad Avvenire, a Tv2000, a Radio In Blu, alla galassia dei siti web. Oggi però non basta più stare dentro al mondo dei media ma bisogna starci con un profilo riconoscibile: il contesto pluralistico nel quale ci troviamo esige che siamo in qualche modo identificabili, riconoscibili. La Chiesa deve riuscire a comunicare attraverso le nuove tecnologie quello che è il suo sguardo assolutamente originale sulla realtà: lo sguardo della fede. Ma anche la Rete in qualche misura ha qualcosa da offrire alla riflessione teologica, provocandola a rileggere ed attualizzare alcune sue categorie comunicative: riformulare, ad esempio, il dentro e il fuori della fede senza creare barriere, steccati, ghetti, spazi e tempi di incomunicabilità; o ancora evitare di moralizzare a priori gli spazi comunicativi – e quindi definire, anche solo implicitamente, un dentro “buono” e un fuori “cattivo” –, se è vero che tali spazi sono oggi quanto mai fluidi. Ma si pensi anche a come la leggerezza della comunicazione digitale metta in discussione un certo stile un po’ stantio dell’annuncio evangelico, stimolando la comunità cristiana a superare l’esteriorismo e il monodirezionalismo comunicativo e a vincere un certo immobilismo tipico di certi nostri ambienti. Ovviamente non si può prescindere da una fondamentale pru-

* Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della C.E.I. 20


Dossier denza, perché il rischio di scivolare verso una verità “diluita” e di basso profilo esiste ed è reale. Ma è un rischio che si può vincere valorizzando il silenzio e salvaguardando i suoi tempi (no ad una tecnocrazia efficientista), riscoprendo il valore della bellezza (riappropriandoci di una espressività totale, che sappia usare tutti i canali possibili), privilegiando l’interpersonalità (la qualità del contatto viene prima dell’ortodossia del contenuto). Internet diventerà sempre più un luogo in cui l’annuncio del Vangelo trova cittadinanza nella misura in cui i cristiani sapranno starci “da cristiani”. Lo stesso termine “rete” si può felicemente prestare ad una doppia lettura: essa può consentire una connessione di carattere tecnologico ma anche far sì che da situazioni multiformi si possa giungere a una sorta di dialogo e ad una capacità di essere rete. Lo sforzo cui la comunità cristiana è chiamata, anche on line, è proprio quello di passare dal fare all’essere rete. Un obiettivo chiaramente messo a tema anche in vista del prossimo grande appuntamento che attende la Chiesa Italiana nell’ambito delle comunicazioni sociali: il convegno nazionale “Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era cross-mediale”, promosso dalla Cei, che si terrà a Roma dal 22 al 24 aprile 2010 e chiamerà a raccolta quanti si occupano di comunicazione e cultura nel nostro Paese. L’obiettivo che il convegno si prefigge è racchiuso già nel titolo che è stato scelto. “Testimoni digitali”: un sostantivo e un aggettivo. Partiamo dall’aggettivo “digitali”: esso indica la nuova condizione in cui oggi i mass media sono in qualche modo sciolti. La tecnologia digitale, infatti, sta ridefinendo i vecchi e i nuovi media, cambiando anche la nostra vita quotidiana e relazionale. Il convegno intende mettere a tema questa nuova con-

dizione culturale profondamente connotata dal digitale. L’aggettivo, però, è preceduto dal sostantivo “testimoni”, che è l’elemento fondamentale: esso evoca un atteggiamento, di fronte ai cambiamenti che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, che non deve essere né pregiudiziale né rassegnato. Anzi: dentro questa nuova condizione noi dobbiamo essere dei testimoni, cioè dei soggetti che siano in grado d’interpretarla. Non solo! Essere testimoni significa rimandare a qualcosa di ulteriore e nell’accezione cristiana il testimone fa riferimento al Vangelo. Per cui la sfida è quella di essere dentro il contesto digitale facendo risuonare la parole del Vangelo di cui ciascuno è testimone. Il convegno sarà articolato in quattro fasi. In un primo momento, introdotto da mons. Crociata e centrato sulla relazione di Nicholas Negroponte, si cercherà un’analisi tecnologica dei nuovi scenari mediatici, che in un secondo momento saranno invece esaminati da un punto di vista antropologico (con la presentazione di una ricerca curata appositamente per “Testimoni digitali” dall’Università Cattolica). L’obiettivo si sposterà poi su come i volti e i linguaggi dell’era cross-mediale interpellino l’annuncio del Vangelo da un punto di vista teologico, pastorale e pedagogico: a tirare le fila di questo momento sarà la relazione del cardinal Bagnasco. In conclusione sarà lo stesso Bendetto XVI, che riceverà in udienza i partecipanti al convegno nell’aula Paolo VI, a conferire loro il mandato di evangelizzare il continente digitale. Durante tutto il convegno la dinamica interattiva, nella logica del web 2.0, sarà garantita dalla sperimentazione di nuove strade – messenger, sms, e-mail – che consentiranno a tutti di dare il proprio contributo ai lavori.

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Web 2.0 e Social network di Veronica Rossano * Una delle espressioni più comuni per definire la società odierna è “Società dell’Informazione e della Condivisione”. E l’Informazione e la Condivisione sono, infatti, la struttura portante della nostra società e di tutti gli aspetti che la caratterizzano: cultura, educazione, economia, politica, e così via. Un ruolo indiscutibilmente di primo piano è giocato dall’evoluzione tecnologica, che negli ultimi decenni ha “travolto” il nostro quotidiano. Solo dieci anni fa, infatti, sembrava impossibile essere in contatto con il mondo e avere l’informazione giusta al momento giusto semplicemente navigando con un cellulare sul web come se si avesse a disposizione un computer sulla scrivania. Da qualche anno, inoltre, il mondo della comunicazione via Internet si sta ulteriormente evolvendo. Il termine web 2.0 è sicuramente entrato nel quotidiano, anche se, forse, il significato non è noto tra i “turisti occasionali del web”. Il web 2.0 non è una nuova tecnologia ma è un nuovo modo di pensare, in cui il web è considerato un mezzo che consente di mettere in relazione gli individui e le loro idee. In tale contesto, quindi, i singoli individui diventano non solo consumatori (dell’informazione) ma anche produttori. Si parla, infatti, di prosumer, termine che deriva dalla fusione delle parole inglesi PROducer e conSUMER. In questo contesto, i singoli utenti possono definire il legame tra le risorse digitali, consentendo di creare percorsi navigazionali a cui gli autori stessi delle risorse non avevano pensato, e che descrivono le risorse (il famoso tagging), consentendo delle ricerche più efficaci

perché la classificazione delle risorse è fatta da chi le cerca. Ma le pratiche sociali e i processi allargati e partecipativi non sono una novità del web 2.0. Questo, infatti, ha “solo” offerto l’infrastruttura tecnologica per la realizzazione delle idee dell’antropologo Siegfried Frederick Nadel che, già nel 1957, descrisse le relazioni sociali come nodi (i soggetti all’interno della rete) e

legami (la connessione tra i soggetti). In altre parole, il concetto di rete sociale, o per usare l’espressione anglosassone più comune i social network, è un concetto nato quando i computer erano appannaggio di pochissimi eletti e indica un insieme di individui collegati tra loro da un qualche tipo di relazione (familiare, lavorativa, ecc.), che condividono interessi e che collaborano e condividono idee e informazioni.

* Ricercatrice del Dipartimento di Informatica - Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari 22


Dossier Uno dei software più conosciuti e diffusi del web 2.0 è Facebook (http:// www.facebook.com/) che viene definito un social network, ma in realtà è il software che offre a ciascun individuo gli strumenti per creare la propria rete sociale virtuale. Esisto-

no, infatti, diversi software di questo tipo come ad esempio MySpace e LinkedIn solo per citarne due tra i più famosi. Obiettivo principale di questi software è di facilitare la connessione tra gli individui e di stimolarne la comunicazione. Regola fondamentale è non mentire. Il software, infatti, si basa sulle informazioni fornite dall’utente per offrire suggerimenti (in termini di amicizie, eventi, gruppi di discussione, ecc.) che potrebbero essere di interesse dell’utente stesso e che potrebbero portarlo anche ad aumentare la sua rete sociale. Al primo accesso, quindi, il software chiederà all’utente di registrarsi con il suo nome e cognome e di inserire tutte le

informazioni personali come, ad esempio, la sua storia scolastica ed universitaria, i suoi interessi, i suoi hobby, l’orientamento politico, l’orientamento religioso, ecc. Più sono i dati inseriti dall’utente e più efficaci saranno i suggerimenti che il software proporrà durante la navigazione. Per prima cosa, per esempio, l’utente si vedrà proporre una serie di amicizie che rappresentano persone che hanno dichiarato di frequentare gli stessi istituti di formazione negli stessi anni dell’utente. La probabilità di ritrovare qualche vecchio compagno di scuola è altissima! Man mano che la propria rete di amicizie si allarga cresceranno le informazioni a disposizione del software e quindi i suggerimenti saranno sempre più affidabili. Ad esempio, se si è in una rete di amicizie che hanno espresso il loro apprezzamento per un determinato cantante, il software suggerirà di aggiungere tra le amicizie la pagina dedicata a quel cantante. Per rafforzare le connessioni all’interno delle singole reti sociali il software tiene aggiornati tutti i singoli componenti della comunità sulle attività degli altri componenti. In altre parole, il social network è una grande piazza in cui si possono incontrare continuamente i propri amici, colleghi, e familiari non avendo il vincolo dello spazio e del tempo (grazie all’aggiornamento continuo). La domanda che sorge spontanea è: e la privacy? Ovviamente è messa in serio pericolo dall’uso inappropriato del software. I progettisti di Facebook hanno da poco cambiato le impostazioni della privacy consentendo a ciascuno di scegliere a chi essere visibile (solo ai componenti della propria rete, ai componenti delle reti dei nostri amici, oppure a tutti gli utenti del network). Nell’immaginario comune Facebook, e tutti i social network, rappresentano dei luoghi virtuali in cui cadono le inibizioni e in cui si po-

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trebbe fare quello che nei rapporti tradizionali riesce difficile: chiacchierare con uno sconosciuto, intrattenersi con qualcuno per cui si prova interesse sentendosi a proprio agio, ecc. Ma in realtà, è la comunicazione mediata dal computer che consente di superare le tradizionali barriere della comunicazione faccia a faccia. E questo non è differente da quanto succedeva in passato. Se si riflette un attimo ci si può ricordare che almeno una volta nella vita abbiamo pensato di scrivere un biglietto d’amore o di scuse piuttosto che affrontare l’altro. Oppure, abbiamo preferito comunicare una notizia usando il telefono perché ci fosse distanza fisica tra noi e l’altro. Non avere un interlocutore che può replicare, anche semplicemente con le espressioni del viso, ci rende più sicuri e diretti. Oggi scriviamo mail o utilizziamo le chat. L’evoluzione tecnologica non cambia il nostro modo di concepire l’interazione con l’altro, ma ci offre strumenti sempre più evoluti per poter interagire. Lo scopo primario è cercare di migliorare l’interazione offrendo mezzi sempre più veloci ed efficaci, ma le modalità d’uso e lo scopo dei singoli utilizzatori possono deviare la destinazione finale dello strumento. Dopotutto anche

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Pirandello, che era ben lontano da utilizzare i software per i social network, rifletteva sulle maschere che ognuno di noi indossa nelle relazioni di tutti i giorni. Infatti, a volte il restare incollati al computer è più una conseguenza dell’alienazione nei rapporti reali che una causa. La tecnologia irrompe in modo imprevedibile nella nostra esistenza. La stessa televisione ha avuto un impatto notevolissimo sulla cultura e sulle identità pur essendo un mezzo molto limitato. Prima che il computer si diffondesse molti adolescenti restavano in casa “incollati” alla televisione e ai videogiochi televisivi ignorando il mondo esterno e chiudendosi sempre più in se stessi allontanandosi dalle amicizie. L’uso del computer, invece, consente almeno la ripresa delle interazioni “uomo-uomo”, anche se queste interazioni sono mediate dalla tecnologia. E’ compito degli educatori, ad ogni livello, far comprendere che il computer è solo un mezzo per poter essere sempre più in contatto con gli amici ma è necessario anche coltivare i rapporti umani affinché la virtualità non diventi un rifugio per sfuggire alle difficoltà della vita reale.


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Quale società domani? Intervista al sociologo Francesco Cassano a cura di Francesca Romana Morgese

Quali i risultati in una società che utilizza come canali privilegiati di comunicazione i social network? Dentro questa domandasintesi, ovviamente, se ne scorgono delle altre. In che maniera influiscono sul processo educativo? I genitori subiscono queste realtà? Ancora. In che maniera possono influire sulla cultura, sul linguaggio? Quali le differenze con le generazioni precedenti che non utilizzavano determinati canali, quali i pro e i contro? E’ un discorso che non può soffermarsi solo su questi linguaggi, ma deve avere un campo di riflessione più generale. Diciamo che la loro affermazione è uno dei tanti effetti dello svilup-

po tecnologico, probabilmente irreversibile; ciò non vuol dire che esso sia unicamente positivo. L’irreversibile appartiene ad una categoria descrittiva. Credo che coloro che si occupano dei comportamenti, della cultura giovanile, e di solito non sono giovani, debbano in primo luogo fare un esame di coscienza, perché ci si viene a trovare di fronte ad una discontinuità che deriva dal ritmo di queste nuove tecnologie che spesso viene demonizzata e che, al contrario, prima di essere giudicata dovrebbe essere conosciuta in tutti suoi aspetti. La resistenza a non aggiornarsi è, infatti, l’atteggiamento prevalente e il rischio è che, nei confronti di un mondo che ti sfugge, possa prevalere la tenden-

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Dossier za a demonizzarlo, atteggiamento che consente di rimanere così come si è, senza mettere in discussione se stessi. Che cosa infatti è più comodo della convinzione di essere di fronte a mutazioni mostruose da respingere in tronco, guardandole con un senso di impotenza o con un giudizio sostanzialmente negativo? Ciò è da biasimare in generale, in quanto si perpetua quell’etnocentrismo di generazione in cui ognuno pensa e agisce a partire dalle proprie esperienze, competenze. In un famoso film di René Clair Belle di Notte, il protagonista, eroe di una cavalcata attraverso i secoli, decide di passare da un’epoca all’altra ogni volta che ascolta il lamento degli anziani sulla decadenza dei tempi presenti. E’ sintomatico che la cosa peggiore, soprattutto per chi si illude di essere al di sopra di questi pregiudizi, è quella di chiudersi, deprecando il tempo da cui sente di essere ”superato”. Se ciò è vero in generale, ancor più lo è in un contesto di grandi mutamenti tecnologici, in cui la differenza tra generazioni aumenta, perché aumenta l’innovazione. Già con l’avvento della modernità emerge la crisi del sapere tradizionale, dunque del ruolo dell’anziano, depositario del sapere, che si arricchiva soprattutto sulla base dell’esperienza vissuta. Al contrario nella società moderna il sapere si innova, fino ad invecchiare se stesso. Pur non essendo un apologeta dell’innovazione, che considera queste cose come progresso in sé, voglio ribadire la necessità di fuggire questo atteggiamento di chiusura; definire il nostro mondo come terribile mi sembra un atteggiamento unilaterale. La mia generazione si è trovata tra una che aveva fatto le due guerre mondiali ed una che conosce una profonda disoccupazione intellettuale; è difficile avere nostalgia per un mondo nel quale molti sono andati a morire per contrapposizioni che ai nostri occhi non hanno più senso. Non è per niente detto che il passato avesse dentro di sé solo qualità che stiamo perdendo. Ma la stessa cosa si può dire per il futuro. Lo sviluppo e la crescita continui non aprono necessaria-

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mente ad un futuro migliore. Progresso è un concetto molto diverso da quello di sviluppo. Perché per molti uomini e donne anziani è così difficile mettere in discussione le proprie categorie, certezze? Ad un certo punto della vita, sembra che il pensiero dominante diventi la pensione. Se da un lato è più che normale, perché la tua vita professionale in buona parte l’hai compiuta, dall’altro se ci si adagia in questo atteggiamento si smette di reinventarsi. Andando avanti con l’età, la distanza dai propri studenti, o da qualsiasi utenza, aumenta, perché non si hanno più in comune le stesse informazioni, le stesse visioni del mondo. Ci si trova, essendo diventati ormai “maturi”, talvolta vecchi, a vivere a contatto con ragazzi che per definizione hanno vissuto solo gli ultimi anni, e il rapporto diventa sempre più complicato. Ma arrendersi sarebbe non solo vile, ma una vera e propria rinunzia al proprio ruolo: ecco perché l’insegnamento può diventare una cosa bellissima, se chi lo pratica riesce a mettersi in discussione. Bisogna rinnovarsi non per conformismo, ma per poter rimanere fedeli a se stessi senza chiudersi ai tempi. Il sapere che portiamo con noi stessi per poter confermare la sua validità deve accettare la sfida del confronto con il presente, con le nuove generazioni. Certo non si possono sommariamente accusare quei docenti che non si aggiornano, è difficile innamorarsi un’altra volta ad una certa età. Ma non si possono neanche accettare certe requisitorie come se fossero una descrizione obiettiva della realtà. Mi viene in mente una vecchia barzelletta nella quale un’anziana turista inglese tornata in Italia dopo più di trent’anni affermava: “Come è cambiato questo paese! Quaranta anni fa i ragazzi mi fischiavano dietro e adesso invece non lo fanno più!”. In conclusione per non gettare il bambino con l’acqua sporca, bisogna guardare bene nella vasca e saper distinguere per giudicare ed agire. Soltanto conoscendo queste tecnologie, magari non condividendole, ma sapendo discernere le potenzialità


Dossier e i pericoli, si possono gestire. Ci sono quindi due rischi opposti da evitare: quello di rimanerne esclusi e quello di rimanerne intrappolati. A tal proposito cosa pensa dei giovani che restano intrappolati solo in questa potenzialità? Il rischio di chi utilizza tali linguaggi come esclusivi canali di comunicazione è di rimanerne, appunto, imprigionato. Se pensiamo, per esempio al linguaggio dei blog, ci rendiamo subito conto che esso spesso è aggressivo. Un’aggressività che nasce dalla solitudine e dalla distanza che spesso garantisce l’impunità. Certo tutto questo può essere libertà, ma più spesso è incapacità di affrontare un rapporto reale con l’altro, fondato sulla differenza di

idee, ma anche sul rispetto della sua opinione. E’ un’illusione di potenza, che nasce dall’isolamento virtuale, da una distanza fisica e relazionale che inaridisce la base di un vero dialogo. Aumenta l’aggressività a fronte dell’impotenza, è una compensazione. Certo, resta intesa anche la valenza positiva di un blog, che può servire a connettersi, a mettere, come tutta la Rete, in comune dei problemi, ecc. Ma proprio nel momento in cui sottolineiamo questa grande potenzialità non dobbiamo dimenticare che esso non può sostituirsi alle asperità, alle prove della vita reale, che la

“seconda vita” non può sostituire la prima. Così come va da sé che la Rete offre straordinarie possibilità di comunicazione e conoscenza, ma non potrà mai sostituire l’esperienza del contatto visivo e corporeo, del contatto con l’altro oppure della lettura di un libro, della concentrazione e della profondità che essa consente. Verso che tipo di comunicazione andiamo? Verso una poco passionale, poco emotiva, poco coinvolgente? Sinceramente mi sembra spesso un po’ disperata! E’ una tonalità emotiva che ha piccole speranze, piccoli obiettivi, che si esaurisce in un chiacchiericcio limitato alla sfera di esperienza degli utenti. Anche nel passato ci sono stati problemi di comunicazione, ma forse oggi è accentuato l’elemento di segregazione che porta a chiudersi nella conventicola autarchica e autoreferenziale a cui, tramite questi strumenti, virtualmente si appartiene. E’ vero che essa può aiutare anche i grandi cambiamenti, pensiamo al ruolo che questi mezzi hanno svolto nella campagna elettorale di Obama. Ma la speranza non era nei mezzi, come qualcuno molto superficialmente ha detto, ma nel messaggio forte, di un uomo che si rivolgeva ad un paese in crisi offrendogli la prospettiva della speranza e del rinnovamento. La forza fondamentale era in Obama, i mezzi sono venuti a valle, tanto è vero che adesso rischiamo di cadere nell’estremo opposto indicando in Facebook addirittura il rischio di dar voce all’estremismo e al terrorismo. L’oscillazione è sempre quella che diceva Eco, tra apocalittici ed integrati, e i più superficiali sono l’uno o l’altro a settimane alterne, seguendo l’emozione dell’ultima notizia. Il contrario della serietà e dell’approfondimento. E i giornali spesso accompagnano queste oscillazioni invece di frenarle.

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Dossier Il computer con il suo accesso alla Rete, infatti, è da un lato una straordinaria apertura sul mondo, un allargamento e un potenziamento di tutte le relazioni, ma dall’altro comporta il rischio di una persistente segregazione dell’individuo rispetto alla relazione. E’ un po’ la differenza tra erotismo e autoerotismo, l’immaginazione si chiude su se stessa e non trova più la strada per affacciarsi alla finestra del mondo. Del resto tutto sembra andare, a tutti i livelli, nella direzione di una crescente individualizzazione: il cinema, la televisione (ti fai il palinsesto personale), il cellulare ti raggiunge come individuo ovunque e salta sempre le relazioni in cui sei inserito, mentre i telefoni pubblici non ci sono quasi più. Ognuno ha il suo cellulare, la sua musica, sembra essere a proprio agio in questo atteggiamento in cui sta continuamente con se stesso. Si esalta la propria differenza, talvolta la si esaspera, la si sopravvaluta. Ciò può apparire paradossale, perché viviamo in un mondo di massa, ma con una tale offerta, che permette ad ognuno di costruirsi il suo palinsesto individuale. Assistiamo ad un ripiegamento dell’individuo su stesso, dunque a quei blog in cui questo individuo solo, disperato, frustrato e aggressivo, vomita su tutto ciò che gli capita a tiro. Il problema è l’elaborazione della propria esperienza in uno stato di separazione. L’individuo della tradizione classica era forte e sapeva prendersi le proprie responsabilità; gli individui attuali sono deboli, è cambiata completamente l’identità, così come è cambiata anche rispetto alle dinamiche erotiche e sentimentali. L’equilibrio emotivo è così fragile che anche le convivenze sono fallimentari, perché non basate sulla realtà, ma su un bisogno di appagamento che scema dopo i primi quindici giorni. Questo individualismo di basso conio fa sì che l’identità venga frantumata; l’individuo non risponde più di se stesso, non riconosce più gli impegni da lui stesso presi appena tre mesi prima. Quel nesso fondamentale tra gli esseri umani di ogni tipo di società, che è dato dalla

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responsabilità, si frantuma sotto i colpi di questa microfisica dell’Io, viene bombardato e si disperde in tante particelle elementari. La libertà di espressione è una grande conquista, ma spesso viene frustrata da tale povertà di questo “Io minimo”, da questa “cultura del narcisismo”. E’ una libertà di opinione non allenata a scendere in profondità, ma ad essere espressa immediatamente, fino a non garantire la coerenza dell’identità. Spero, promitto e iuro, i tre verbi che secondo un’antica massima della sintassi latina reggevano l’infinito futuro, non vengono praticati più, perché non ci si lega più. Questa crescente renitenza al legame costruisce un Io povero che tende a realizzarsi nell’orgasmo dell’attimo e poi scatena dinamiche depressive. Ciò spiega anche il ruolo che nella nostra cultura ha assunto la droga, perché, non dobbiamo dimenticarlo, non esiste solo lo spacciatore, ma, prima di tutto, il consumatore. La cultura esistenziale dominante chiede di vivere alla grande, di stordirsi. Come nella canzone Vita spericolata di Vasco Rossi, al centro è il bisogno dell’individuo di stordirsi, di potersi perdere in fondo ai “cazzi suoi”, unico orizzonte dell’Io. Una concezione che rivendica il diritto ad un’immaturità perenne. L’insieme dei nuovi strumenti tecnologici, dei nuovi canali di comunicazione può consentirci di essere molto più ricchi e complessi, ma è necessario che le istituzioni siano capaci di canalizzare questo uso, di contrastarne gli usi irresponsabili e di incoraggiarne gli usi utili socialmente e capaci di arricchire veramente la personalità individuale. Secondo lei in tutto questo, il rapporto genitori–figli come è cambiato? I genitori temono che i loro figli stiano troppo tempo davanti al computer, ma nello stesso tempo sembrano demandare ad esso il proprio ruolo. E’ ovvio che si ritorna al problema generazionale, perché, al di là del rapporto padre–figlio, molti genitori sono proprio incapaci di utilizzare determinati strumenti, dunque diventa difficile interagire in maniera stimolante.


Dossier L’aggiornamento l’ha portato la modernità e in questo scenario molti genitori arrancano. Certo il problema della comprensione tra genitori e figli precede il fenomeno internet. E’ ovvio che con la rivoluzione industriale e la modernizzazione dell’Italia, la distanza tra le generazioni aumenta in modo esponenziale. Per esempio, i famosi ragazzi del ’68 si rivoltavano contro i padri che proiettavano ancora su di loro una realtà rigida e di scarsità, erano i figli di due società profondamente diverse. Questa caduta della comunicazione è pericolosa, soprattutto nella nostra epoca, perché l’innovazione è più forte rispetto a quella di altre epoche. Questi mondi tecnologici agli occhi dei più grandi sembrano ammantarsi di mistero, tanto che anche le tradizionali agenzie educative sono spesso a disagio rispetto ad essi. La scuola, per esempio, ha perso prestigio rispetto alla televisione e ad internet; la sua funzione sociale non è più limpida e dal punto di vista della comunicazione non ha saputo reggere la pervasività della televisione che è al centro di un apparato comunicativo enormemente più vasto e basato su valori totalmente diversi, prevalentemente edonistici, di ricreazione, divertimento, talvolta involgarimento. A ciò si aggiungono i ritardi generazionali, etici degli insegnanti. Di fronte ai cambiamenti, spesso, i docenti sono depressi più che reattivi, si difendono, e, invece di giocare la partita, spesso si ritraggono, anche perché il loro ruolo viene sempre più mortificato e diventa marginale. In questo panorama, come cambia il concetto di cultura? Diventa una cultura da “click”, frammentata? In una società che non offre più valori forti (che non sono necessariamente quelli tradizionali) e vive confinata nell’unica certezza del qui ed ora, i giovani hanno difficoltà a progettarsi, a legarsi ad un’idea o ad un progetto di lungo periodo. In una società in cui è diffusa la disoccupazione oppure domina il lavoro precario, le relazioni forti e durevoli non esistono oppure fanno fatica a durare. Ecco perché lo spazio per

un uso compensatorio e solipsistico delle nuove tecnologie si allarga. Ma non si tratta di un destino inevitabile. I giovani non sono chiusi alla speranza e agli impegni forti. Ma per aprirsi alla speranza hanno bisogno di incontrare fatti, politiche e non dichiarazioni a cui non segue nulla. Hanno bisogno di imbattersi non in prediche, ma in pratiche, non in docenti che ripetono lezioni mal studiate, ma in testimoni, in figure capaci di mostrare ciò che dicono, di far vedere, con la loro vita e con il loro esempio, che è possibile essere altrimenti. Troppe volte la scuola ha puntato solo sull’aggiornamento. Per carità, si tratta di qualcosa di assolutamente necessario, perché in un mondo che cambia il sapere non rimane fermo, non è lo stesso di quando a suo tempo abbiamo studiato. Ma l’aggiornamento non basta, occorre anche che i docenti facciano i conti con se stessi e con la loro vita. Perché mai dovrebbero stare ad ascoltarti se non sei una persona che vale? E’ questo il punto: la docenza non è solo un mestiere, ma una pratica di vita. Forse lo poteva essere in una società statica, nella quale si trasmetteva sempre lo stesso sapere. Ma se la società si muove continuamente quegli strani marziani che sono i ragazzi perché dovrebbero fermarsi ad ascoltarti, se non sei una persona interessante, capace di incuriosirli con il tuo sapere, con l’amore per esso e con la tua capacità di ispirare la loro vita?

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Dossier

Vite ed identità parallele di Pasquale Chianura* e Anna Maria Cassano**

La nostra società può a buon diritto più che mai definirsi società digitale a fronte di un tempo in cui era più adeguata la definizione di analogica. Dunque con il cambiamento dei modelli culturali e di consumo anche le relazioni tra le persone si sono modificate connotando nuove modalità di socializzazione e di contatto. Tale riflessione risulta più pregnante se si pensa ai nostri adolescenti con le loro incertezze e le loro zone d’ombra e soprattutto alla loro tendenza a rifugiarsi in mondi e dimensioni virtuali grazie a strumenti tecnologici quali appunto le chat, i social network, i forum, ecc. L’adolescenza è per antonomasia un periodo dello sviluppo psichico e fisico che pone l’individuo di fronte a molti cambiamenti procurando incertezze, timori e spesso inquietudini. Le caratteristiche culturali della nostra società amplificano tale condizione ibrida, dal momento che da un lato si consente ai ragazzi una pseudo-emancipazione soprattutto in termini sessuali e di consumo di beni, e dall’altro invece non si garantisce loro un sano affrancamento dalla famiglia attraverso valide opportunità lavorative. Dunque ai nostri ragazzi si accorda un’ampia

autonomia di gestione (vd. disponibilità di denaro, libertà negli orari, scelta della scuola, possesso di uno o più telefoni cellulari, ecc.) e allo stesso tempo non si assicura loro una prospettiva temporale nella quale inquadrare un percorso di crescita volto all’autonomia vera, relegandoli così in una dimensione di adolescenza prolungata (si pensi ai giovani adulti che continuano a vivere nel proprio nucleo familiare senza però contribuire di fatto alla vita della famiglia). Questa la premessa necessaria per condurre una breve riflessione e disamina circa le nuove patologie collegate alle sempre più diffuse abitudini relazionali legate all’utilizzo eccessivo della Rete. L’ampia diffusione di internet ha dunque garantito l’accesso democratico ad un più ampio ventaglio di contatti, opportunità, “mondi” appunto, che altrimenti sarebbero rimasti per sempre altri, dunque non è possibile a nostro parere né demonizzare né tanto meno mitizzare la tecnologia in sé, quanto piuttosto risulta necessario riflettere sull’uso che se ne fa. La generazione born digital ha sviluppato capacità cognitive differenti rispetto alle precedenti, ed ha al suo attivo una sempre più diffusa tendenza alla sintesi piuttosto che all’analisi, e questo con buona pace di insegnanti ed educatori; l’utilizzo anche simultaneo di diversi media, internet, cellulari, ecc., consente di mettere in atto strategie cognitive che interessano i lobi frontali, come messo in evidenza con la risonanza magnetica. Pertanto le neuroscienze hanno rilevato che per gestire una sì grande mole di informazioni non è possibile andare nei particolari ed approfondire, ma tenersi sul generico, e altrettanto vale per l’uso del linguaggio parlato rispetto a quello scritto, infatti

* Psichiatra – Direttore dell’Istituto di Psicoterapia Familiare e Relazionale di Bari ** Ricercatrice 30


Dossier la necessità di comunicare velocemente ed immediatamente ha portato alla nascita di una nuova grammatica relativa ad un contesto quale è quello dei “pari on line”. Da più parti però la preoccupazione è legata alle implicazioni psico-relazionali che l’utilizzo esagerato della Rete comporta. Infatti, sempre più, ultimamente andiamo registrando nuovi profili se non psicopatologici comunque disfunzionali, legati tanto ad un eccessivo ricorso alla realtà virtuale quanto ad un altrettanto grave ritiro dalla realtà vera e propria. Sovente gli adolescenti internauti trascorrono anche fino a sei-sette ore al giorno connessi (vd. Rapporto Telefono Azzurro 2010), e questo a discapito del proprio coinvolgimento nella vita familiare e nella vita con i pari (sport, associazionismo, tempo libero), con conseguente diminuzione anche del riposo notturno. Questa tendenza al ritiro, all’isolamento, alla costruzione di un’identità alternativa è in linea con le caratteristiche tipiche dello sviluppo psico-affettivo dell’adolescente, di cui parlavamo prima; allo stesso tempo la tendenza ad intrattenere rapporti sociali ed amicali solo via web (ad es. aumentare le liste di amici o disamicare su Facebook qualcuno) altera lo sviluppo delle capacità relazionali e di socializzazione. La ricaduta diretta riguarda la strutturazione della propria identità: sin dai primi momenti della sua vita l’individuo compie esperienze sociali legate alla presenza dell’altro e alle sue risposte nel qui ed ora, la percezione di sé si modula su una serie di risposte e feedback in uno scambio continuo e reciproco di messaggi e risposte con l’altro, tutto ciò si struttura in una rete di capacità e di abilità relazionali e metacognitive in cui gli individui cocostruiscono a vicenda il Sé. Lo schermo piatto e luminescente non può in alcun modo vicariare tale esperienza, né i mondi paralleli sosti-

tuirsi alla complessa e variegata esperienza umana. Le statistiche del Censis ci dicono che le persone che trascorrono molto tempo in internet hanno in media 35-45 anni e un buon grado di scolarizzazione; pertanto è evidente quanto il fenomeno riguardi non solo gli adolescenti ma anche gli adulti. Per questo profilo di utenti della Rete il bisogno di esserci è soddisfatto nella misura in cui si appare e si condivide qualcosa di sé nella dimensione fluida del virtuale. Anche qui l’approccio relazionale diretto, con le sfumature emozionali reali viene sublimato nella ricerca di un identità probabile e spesso impossibile (es. nickname) ma che per il soggetto spesso rappresenta un alter ego, anzi la sua vera identità, quella che sfugge agli altri intorno a sé, come i suoi familiari più stretti. Sul discrimine tra vero e verosimile dunque si stringono nuovi contatti, amicizie, rapporti, salvo poi dover tornare alla vita reale, sicuramente più impegnativa e complessa. Vero è comunque che l’utilizzo di internet in sé non è una patologia ma l’abuso e la dipendenza da specifiche attività del web (quali chat, social network, giochi di ruolo) possono essere ascritte ad un quadro più ampio di sintomi legati al disturbo ossessivo compulsivo (D.O.C.) e al disturbo del controllo degli impulsi. Se le caratteristiche della nosografia appaiono rigide per poter parlare di un vero e proprio disturbo da dipendenza da internet, allo stesso tempo possiamo dire che l’utilizzo eccessivo o meglio l’appiattimento della vita e delle esperienze emotive e relazionali dell’individuo alla dimensione virtuale possono slatentizzare ovvero facilitare l’insorgere di disturbi di personalità che in adolescenza sono ascrivibili ad equilibri ben più fragili che per gli adulti.

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Dossier I giochi elettronici, tra opportunità e pericoli per la mente di Gabriella Campa * Il gioco costituisce una tappa fondamentale nello sviluppo di un bambino in quanto permette di stimolare l’immaginazione, la capacità di distinguere tra realtà e finzione, la capacità di assumere dei ruoli ben precisi, la capacità di confrontarsi e comunicare, inoltre aiuta la formazione della personalità, favorisce l’apprendimento di regole e l’integrazione sociale. I bambini costruiscono mondi fittizi per i loro giochi, pretendendo che siano reali, pur sapendo che così non è. Essi hanno la capacità di muoversi su due livelli diversi e paralleli, la realtà e la finzione fin dai dodici mesi di età, e il passare dal vero al falso è una virtù naturale. «I bambini giocavano ai grandi, calzando le pantofole del loro padre» osservava già Plutarco due millenni fa. La capacità di immedesimazione in una situazione fittizia, in un bambino, è perfetta, e questo permette di godere del gioco anche se in quel momento si è da soli senza compagni con cui condividere quell’esperienza. La fantasia è talmente accentuata da far apparire veri quei momenti. Il bambino in questo gioco del far finta comprende presto anche i giochi di ruolo e i giochi con regole, strumenti fondamentali per sviluppare e perfezionare le abilità sociali, il senso del sé, i rapporti interpersonali e la comunicazione. * Pediatra 32

Oggi, invece, con l’uso sempre più diffuso dei giochi elettronici, c’è un rispecchiarsi nell’esperienza che lo stesso videogioco propone che arriva alla sovrapposizione, per cui il giocatore diventa il protagonista degli eventi che si proiettano sullo schermo, è parte integrante di quella realtà virtuale che, col tempo, potrebbe non essere più considerata tale. La fantasia è usata in modi diversi. Una cosa è la fantasia che nasce dal proprio mondo interiore come manifestazione delle


Dossier proprie emozioni, dei propri desideri, della propria sensibilità, che costruisce in autonomia il proprio immaginario, un’altra è quella che

proviene dall’immaginario altrui, che non lascia spazi all’invenzione personale. Non bisogna poi sottovalutare il messaggio che si fa passare con i videogiochi. I bambini si basano molto sull’imitazione, per cui l’esposizione a scene di violenza continue e gratuite può indurre nei bambini una reazione analoga per imitazione e assuefazione. Da qui la responsabilità di proporre eroi e immagini moralmente utili alla crescita dei ragazzi. Altra differenza è che nel gioco spontaneo il bambino non è costretto alla velocità delle immagini sia pur creative, divertenti e colorate del videogame. Quando un bambino si inventa un gioco c’è coinvolgimento fisico, intellettivo ed emotivo, e non è dominato da suoni e tempi

trascinanti, come avviene in un videogioco. Qui tempi e movimenti possono essere molto rapidi, e il numero di avventure in cui il giocatore è coinvolto diventa estremamente elevato. La conseguenza è di creare situazioni di tensione e di attesa non presenti solitamente nei giochi spontanei. Questo può spiegare certe forme di dipendenza nei giocatori che sono costretti a procedere senza fermarsi fino alla fine del gioco, in una sorta di sfida, ma con una macchina. Inoltre non bisogna sottovalutare il coinvolgimento fisico del giocatore davanti alla console. L’immobilità a cui si è costretti non fa scaricare tutta la tensione nervosa indotta dal gioco stesso, come avviene invece naturalmente in un gioco spontaneo di movimento, a ciò si aggiunga anche una incontrollata iperalimentazione che porta a sovrappeso e/o franca obesità, preludio di future sindromi metaboliche. Non ultimo l’isolamento in cui si può cadere abusando nell’uso di questi mezzi. Gli scambi con il mondo reale diventano sempre più esigui privilegiando quelli attraverso il mondo virtuale. Le conoscenze e le amicizie non hanno più una connotazione fisica, ma sono fatte di conoscenze virtuali. Anche in quest’ambito infatti si preferisce uno scambio in Rete, conoscenze fatte e coltivate nei social network che si basano su un modo di comunicare facile in cui non si mette in gioco la fisicità, si nascondono le proprie insicurezze e ci si può creare un’immagine idealizzata. La conoscenza può avvenire attraverso una foto messa in Rete, ad esempio Facebook, ma anche questa continua ad essere un’immagine della realtà, è l’immagine che si vuol dare di sé, ma che ovviamente non corrisponde al vero, o vi corrisponde solo parzialmente. E’ la paura di sostenere un confronto con l’altro, e, in quest’ottica, possiamo far rientrare anche gli sms che danno l’opportunità di non rispondere immediatamente se non si vuole farlo, danno il tempo di pensare la risposta più opportuna, con gli sms si possono interrompere relazioni senza assumersi la responsabilità di guardarsi negli occhi. Tutto ciò porta, contrariamente a ciò che si può pensare, ad una solitudine dell’individuo sem-

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Dossier pre più accentuata. Eppure il bisogno di interagire con gli altri e il bisogno di movimento in un bambino sono fondamentali. E’ da essi che dipende il benessere sia fisico che psicologico. La mente del bambino ha bisogno non solo di guardare e di ascoltare, ma anche di toccare, di muoversi, di afferrare, di stringere. Al di là dei contenuti positivi o negativi che questi strumenti possono contenere, la tensione fisica accumulata può creare uno stato irritativo con conseguente scontentezza e malumore, e inoltre, con il passare del tempo, un bambino abituato a muoversi prevalentemente negli spazi virtuali può perdere la capacità o la voglia di organizzare delle attività in proprio, può perdere la capacità di pensare e immaginare liberamente. Nell’adolescenza la situazione può farsi anche più problematica, perché in quest’epoca giocare con l’identità è un divertimento quasi fisiologico, una normale tappa dello sviluppo. Un ragazzo fa delle prove, si immagina il suo futuro, entra in parti diverse e così facendo trova se stesso. Se però il ragazzo si abbandona troppo al virtuale, la flessibilità tipica del gioco infantile si perde e il rientro nella realtà può diventare problematico perché si crea un divario sempre più profondo tra mondo virtuale piace-

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vole, semplice e protetto e mondo reale più complesso, articolato e talvolta faticoso. Per districarsi in questo labirinto bisogna imparare a comprendere e utilizzare meglio questi strumenti che, come abbiamo visto, sono elaborati in modo da ipnotizzare la mente. Bisogna porre dei limiti di tempo nel loro uso. Se lo stesso Bill Gates li ha imposti a sua figlia, la cosa dovrebbe farci riflettere. Il pensiero deve sempre essere libero, quindi, i genitori, il dono più prezioso che possono fare ai loro figli, che si avviano verso territori inesplorati e imprevedibili, è l’elasticità unita alla coerenza. L’elasticità nel comprendere che ormai questi mezzi fanno parte del nostro quotidiano, ma vanno usati con attenzione, non dimenticando mai che possono essere molto utili se usati come strumenti, non cadendo nell’errore di farsi usare da essi, e la coerenza, perché i genitori non devono esimersi dall’insegnare quelli che sono i valori dell’esistenza e della vita reale, ben diversi da quelli sponsorizzati dalle immagini. I ragazzi hanno bisogno di riflettere sul senso e l’utilità di questi strumenti e, soprattutto, di essere accompagnati ed educati ad assumersi le proprie responsabilità. La scuola è chiamata a collaborare ponendosi il problema della regolamentazione nell’uso di questi strumenti, per trovare soluzioni al fianco dei genitori che, molto spesso, oggi si sentono più inadeguati dei figli nel gestire questi nuovi mezzi di evasione, anche perché è una generazione che non ha la stessa dimestichezza dei ragazzi nel loro uso. L’obiettivo a cui bisogna mirare è quello di mettere l’adulto e le famiglie nelle condizioni di vivere il proprio ruolo, affinché anche il ragazzo possa capire il suo, divenendo a sua volta un adulto responsabile.


Dossier

L’affettività virtuale di Marianna Pacucci * Senza incorrere nell’errore di demonizzare tutto ciò che ci viene attualmente messo a disposizione dalla telematica, vale la pena però fare i conti con i cambiamenti che l’era digitale ha comportato sulle nuove modalità con cui oggi si affrontano e si vivono le relazioni interpersonali, facendo attenzione soprattutto agli effetti che tali innovazioni determinano sul mondo giovanile, ovviamente più sensibile alle nuove forme della comunicazione sociale, ma anche meno critico nel loro utilizzo. Procedendo per sintesi molto stringate, ci sono tre elementi fondamentali con cui misurarsi: • l’affermazione della logica della connessione, che, sostituendo quella della relazione, rimette alla discrezione unilaterale di un soggetto la decisione di consentire o meno all’altro un accesso comunicativo; in questo modo si appanna la possibilità di uno scambio che derivi da una reciprocità di bisogni e disponibilità e, soprattutto, la volontà di aprire o meno un contatto viene gestita sulla base di motivazioni non sempre dichiarate e opportunamente giustificate; • la velocità e l’ampiezza delle comunicazioni, che per un verso comporta la caduta delle barriere tradizionalmente legate allo spazio e al tempo, per l’altro induce a processi di nomadismo relazionale e non favorisce la nascita di una rinnovata cosmologia, per la mancanza di un processo di metabolizzazione e di interiorizzazione degli scambi, necessario per non rimanere confinati in un’ottica di contingenza e di superficialità; da questo deriva l’apparente dilatazione del concetto di prossimità e la riduzione di questa esperienza ad una dimensione illusoria o effime-

ra;

• la possibile scomposizione o mistificazione delle identità che entrano in gioco nel confronto telematico e che non possono essere sottoposte ad una verifica della loro autenticità: il principio di realtà e la finzione spesso si intersecano in modo incoerente, nell’assenza di un sistema di decodifica che sia intelligibile e condivisibile; vi è inoltre il continuo tentativo di una proposta della propria soggettività che sia conformata a precisi modelli culturali e sociali e che dunque vada a rinforzare la necessità di apparire non soltanto ciò che non si è, ma quel che obbedisce ad uno stereotipo virtuale che sfugge ai concreti parametri relazionali dei gruppi o delle generazioni. Da queste situazioni, che peraltro diventano sempre più pervasive, al punto da configurare non un semplice accostamento o una sovrapposizione rispetto a modalità consuete di interpretare e vivere l’affettività, ma un modello prevalente a cui adeguarsi se non si vuole ri-

* Docente di Religione cattolica - Liceo Scientifico “G. Salvemini” - Bari 35


Dossier sultare marginali sul mercato dello scambio telematico e sociale, derivano precise suggestioni per il modo in cui gli adolescenti e i giovani (ma anche non pochi adulti, tali solo da un punto di vista anagrafico) esprimono la propria dimensione relazionale e affettiva. Innanzitutto si nota come le difficoltà tipiche delle nuove generazioni nell’itinerario di costruzione dell’identità vengono a poco a poco percepite come una scelta e non soltanto come un limite da affrontare. La scomposizione dell’Io non è più concepita come una possibile deriva esistenziale o quanto meno come un effetto perverso legato all’eccedenza dei modelli della maturità presenti sulla scena culturale e sociale; diventa, piuttosto, un’opzione consapevole, un valore strumentale da perseguire all’interno del mercato comunicativo multimediale, come ipotesi vincente in vista di un successo relazionale, che coincide con la quantità e l’estensione dei contatti realizzati, piuttosto che con la qualità complessiva delle esperienze affettive di cui si è protagonisti. Si verifica, ancora, come i giovani avvertano il proprio esistere quando coincide con la possibilità di appartenere ad una comunità virtuale, che non è poi così libera e accogliente, come può sembrare a prima vista. Accanto al numero delle connessioni, conta molto il fatto che esse si pongano in un particolare circuito piuttosto che in un altro; la persona dipende dalle tipologie di soggetti che frequenta a livello virtuale e dalla visibilità che può dare a questa esperienza. E’ la fine del valore dell’intimità, la crisi delle forme affettive che contemplano la dimensione dell’esclusività, il deterioramento di tutte le esperienze che richiedono azioni di protezione e di tutela, perché possano trovare adeguato radicamento e sviluppo nella storia relazionale che porta a costruire legami forti e durevoli. La relazione affettiva, infine, sempre più tende a coincidere con la sua dimensione comunicativa e questa, a sua volta, chiama in causa la sfera emozionale, piuttosto che quella cognitiva. Per questo, le relazioni virtuali sono inevitabilmente consumistiche: sentimenti, aspettative, disponibilità, valori vengono bruciati rapi-

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damente e soprattutto non sono riportati ad un orizzonte più ampio di comprensione dell’affettività, che comporta fattori quali la consapevolezza, la responsabilità, la perseveranza, la generosità… Investimento di basso profilo, la vita affettiva appare sempre meno impegnata e impegnativa e arriva a coincidere con un’esperienza ludica, perdendo il carattere vocazionale che invece le è proprio, se con esso si intende l’invocazione all’amore, la provocazione all’accoglienza dell’altro, la convocazione a costruire un progetto di vita condiviso. Molti giovani, approssimandosi alla condizione adulta, fortunatamente ridimensionano tutto ciò che hanno sperimentato nell’affettività virtuale, perché arrivano a smascherare i circoli viziosi che si nascondono in essa (i muri di vetro presenti in una comunicazione inautentica, il rischio del narcisismo, l’intrappolamento nella soggettività, l’impossibilità di approdare a competenze esistenziali efficaci…) attraverso delusioni anche cocenti; per gli adolescenti è invece più arduo il ritorno ad un’esperienza affettiva reale, perché appare troppo faticosa e lontana dalle aspettative legate a questa fascia d’età, soprattutto se non sono comunque inseriti in ambienti educativi (la famiglia in primo luogo) da cui trarre contributi ed esempi differenti. E comunque, considerando gli accelerati dinamismi della telematica, è praticamente impossibile prevedere quali saranno le offerte del prossimo futuro e le conseguenze che esse innescheranno a livello comportamentale e nella struttura profonda dei desideri e dei bisogni delle nuove generazioni.


Dossier

Il Cristo Maestro, Via-Verità-Vita per la comunicazione 2.0 di don Roberto Ponti * La fede cristiana non rimane mai disincarnata: per un credente essa costruisce la storia, a partire dall’evento centrale che è Gesù Cristo. E, d’altra parte, il credente stesso costruisce la storia con la propria fede. Le vicende di oggi sono segnate dalla cultura della comunicazione. Comunicare non è una novità per l’umanità, anzi, è proprio ciò che maggiormente ne qualifica la condizione. Ma le forme e i mezzi per realizzare il processo comunicativo hanno raggiunto ai nostri giorni livelli di pervasività così intensi che richiedono percorsi adeguati di comprensione e d’uso anche per la vita di fede e per la spiritualità. Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes (58) sottolinea infatti che «il Vangelo di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo... feconda dall’interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità spirituali e le doti di ciascun popolo» e, d’altra parte, «la Chiesa, compiendo la sua missione già con questo stesso fatto stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e civile e, mediante la sua azione, anche liturgica, educa l’uomo alla libertà interiore». Il Beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, già all’inizio del ’900 aveva intuito che la comunicazione massmediale stava assumendo un ruolo decisivo nella vita sociale e pensò di utilizzarne la forza positiva per evangelizzare, arrivando ad equiparare la “predicazione scritta”, svolta attraverso l’uso di mezzi, con la tradizionale forma di annuncio “dal pulpito”. E si rese conto che questa nuova missione necessitava di una specifica spiritualità, perché l’uso dei massmedia non facesse perdere di vista il significato autentico della comunicazione come parte della struttura dialogica/relazionale dell’uomo fatto a immagine di Dio. L’impegno di “inculturare la fede nella comu-

nicazione” appartiene a tutta la Chiesa e si possono elencare numerose riflessioni e iniziative riuscite. Il Concilio Vaticano II con il decreto Inter Mirifica (1963) ha dato una svolta decisiva al modo di considerare i mezzi di comunicazione sociale. Occorre oggi «mettere vino nuovo in otri nuovi» (Mt 9,17), considerando il fenomeno della comunicazione e le sue conseguenze sulla persona, la società, la Chiesa. Punti di riferimento da avere ben presenti in questo percorso personale e comunitario sono le istruzioni pastorali Communio et Progressio (1971), vera magna charta della comunicazione della Chiesa, ed Aetatis Novae (1992), che dà conto del velocissimo progresso tecnologico. Il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali ha fatto intendere che fra non molto sarà preparato un nuovo documento aggiornato alle situazioni attuali, che sono sempre tenute in conto nei messaggi che ogni anno il Pontefice propone in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (quest’anno celebrata il 16 maggio).

* Sacerdote paolino 37


Dossier

Le possibilità legate all’informatica, alla telematica, alla multimedialità e alla crossmedialità operano uno spostamento fondamentale nel processo di comunicazione: non è più colui che invia il messaggio il motore della comunicazione, ma l’utente stesso o comunque si instaura un’interazione non unidirezionale. Grazie alla fusione di informatica, telecomunicazioni e mass media, la comunicazione si personalizza e ogni operatore può scegliere i contenuti e il modo di appropriarsene. La “massa” si frammenta positivamente in situazioni – almeno dal punto di vista ideale – più personalizzanti. In questo contesto comunicativo diventa sempre più difficile conservare un centro di riferimento, un’idea di “maestro” come colui che detiene le chiavi di un sapere da partecipare in un processo a senso unico. Ad esempio, l’esistenza di enormi banche dati di sapere crea una situazione di abbondanza e pluralismo che rende ardua la pretesa di chi vorrebbe essere il detentore di un sapere unico. Ecco allora la necessità di una spiritualità incentrata su Cristo Maestro, così come l’ha pensata il Beato Alberione, da rileggersi soprattutto nella prospettiva della “testimonianza”. «L’uomo contemporaneo – è la famosa affer-

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mazione di Paolo VI in Evangelii Nuntiandi – ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri, è perché sono testimoni» (41). La categoria biblica del “testimone” diventa così un’interpretazione in chiave comunicativa del titolo di “maestro”. Il Beato Alberione, imbevuto della carica apostolica di san Paolo, non può fare a meno – come il grande “convertito” di Tarso – di riferirsi in modo vitale al Cristo totale, fino a poter dire «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Poiché nella visione di don Alberione il Paolino – inteso come religioso consacrato per l’apostolato della comunicazione – è un “secondo maestro” modellato su Cristo Maestro, l’impegno di questa espressione cristologica dice il desiderio di tracciare un profilo aggiornato del Paolino, e in generale dell’“autentico comunicatore cristiano”, come “santo e santificatore”. Prendendo in esame alcune caratteristiche della comunicazione instaurata dalle nuove tecnologie, possiamo riferirle così al trinomio cristologico Via-VeritàVita che esplicita il percorso della spiritualità di don Alberione. La “verità” che nella comunicazione più classica è identificata nella chiusura di un “testo” o di un “discorso”, nella comunicazione informatica è affidata all’apertura dell’“ipertesto”, cioè di un insieme di testi correlati tra loro e provenienti anche da più mezzi (multimedialità, crossmedialità). La verità dell’ipertesto è più legata al tracciato di un percorso in testi successivi che all’importanza di un testo singolo e isolato da tutti gli altri. Un ipertesto è un testo potenzialmente infinito. Lo stile della comunicazione


Dossier ipertestuale apre nuovi orizzonti per la ricerca della verità, anche nella fede. L’inesauribile tesoro della rivelazione nella persona di Cristo si trova in consonanza con l’esigenza di non “incatenare” la Parola di Dio in formule fisse, secondo l’espressione paolina «la parola di Dio non è incatenata!» (2Tm 2,9); l’insondabile mistero di Dio si lascia trovare anche da una continua ricerca di approfondimento. La “via” del processo comunicativo nell’epoca dei mass media è a senso unico; la passività del recettore è soltanto parzialmente modificata da qualche possibilità di risposta verso l’emittente. Nella “via” comunicativa delle nuove tecnologie, del web 2.0, dei blog e

dei social network si va verso una progressiva interattività. Il recettore è anche autore della sua comunicazione, in un dialogo che si effettua in tempo reale. La comunicazione interattiva, a sua volta, si accorda con il percorso di ricerca e la partecipazione del credente, che ha così accesso a conoscenze, modelli di comportamento e progetti di vita tra i quali scegliere. La fede si rivolge alla libertà della persona. Il comunicatore autentico diventa un condottiero nel cammino della storia, un ispiratore di quanti operano anche sul piano politico-culturale, per tutto orientato

alla costruzione del Regno di Dio, al di là di ogni storicismo chiuso e miope. La “vita” possibile nella comunicazione massmediale interessa l’esigenza di informazione, cultura, divertimento della persona e dei gruppi anche se in un’esperienza quasi solo audiovisiva. La “vita” resa possibile dalle nuove tecnologie comunicative si rivolge alla totalità dei sensi della persona: è multimediale, interessa un intrecciarsi continuo di situazioni. Ben presto l’esperienza della realtà virtuale sarà un’immersione globale della persona in un mondo ideale o ipotetico, esistente solo nella memoria di un programma informatico. E di questo processo sono spesso anticipatori i film che prospettano un futuro di compenetrazione tra “reale reale” e “reale virtuale”. La comunicazione multimediale – superata ogni ambiguità di alienazione nell’irreale e nella spersonalizzazione – può favorire la totalità dell’esperienza religiosa soprattutto coinvolgendo l’integralità dei sensi e mantenendo aperto il desiderio della persona e dei gruppi all’immateriale, all’immaginario, ad un aldi-là della realtà sensibile, a maggiori possibilità di percezione e di espressione dello spirituale. Il Cristo Maestro Via-Verità-Vita per la totalità della persona – mente-cuore-volontà – esige una qualità di fede – anche di creatività, e perfino di fantasia e di poesia –, che non sia solo quella dell’epoca dei mass media, ma sia aggiornata ai processi comunicativi che i nuovi strumenti consentono. Nella comunicazione globale e multimediale, che chiede ai Paolini e ai comunicatori cristiani una spiritualità missionaria adeguata, sono necessarie esperienza ed espressività nuove della verità, della via e della vita che solo l’appartenenza piena a Cristo può produrre.

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Dossier

Un cammino di comunicazione di Pierangelo Indolfi * A voler dare retta alle frettolose analisi di alcuni giornalisti o personaggi politici, il rapporto che intercorre tra gli adolescenti e la Rete (e, più in generale, i mezzi tecnologici di comunicazione contemporanei) apparirebbe come la madre di tutti i vizi e di tutte le storture diseducative immaginabili. L’uso delle abbreviazioni finalizzato a contenere gli sms in centosessanta caratteri farebbe disimparare l’uso della lingua italiana scritta, il dialogare in chat esporrebbe i nostri Cappuccetti Rossi all’incontro con maniaci senza scrupoli, il prolungato stazionamento davanti ad uno schermo produrrebbe isolamento, autismo, epilessia, incapacità di distinguere il reale dal virtuale. A mio parere si tratta di campagne che si basano su fondamenti pseudoscientifici e su di un pregiudizio che confonde il mezzo in sé, che è sempre innocente, con l’uso che qualcuno potrebbe fare del mezzo; come se ci mettessimo a parlare male delle autostrade perché su di esse c’è qualcuno che va a centosettanta e qualcun altro che sorpassa gli autotreni in prossimità del dosso. D’altronde la nostra generazione di educatori, che è la stessa degli pseudo sociologi che demonizzano internet traviatrice di giovinette, è stata enormemente esposta al mezzo televisivo, anch’esso innocente in sé, che ben può essere stato efficace nel plasmare o addormentare coscienze a favore del potente di turno. Eppure la TV non fa lo stesso scandalo. Mi

* Docente di Informatica - I.T.I.S. “Panetti” - Bari 40

sono chiesto il perché e mi sono reso conto che, mentre la TV è per sua natura unidirezionale, tranquilla e noiosa come una lezione frontale durante la quale non può succedere nulla di inatteso, a parte che qualcuno sbadiglia, cambia canale, pensa alle vacche, tanto poi vi attendo al varco quando non saprete ripetere parola per parola quello che ho appena detto, il mezzo informatico è interattivo. Non ci si preoccupa tanto di quello che può arrivare dall’esterno ai ragazzi, ma piuttosto che possa essere esternato senza freni e censure quello che i ragazzi portano dentro. Se rifletto sul significato della parola educazione, dovrei comprendere che diseducativo è imbottire le persone, piuttosto che dar loro spazi per esprimersi liberamente. Quanto poco nella scuola concreta si faccia educazione lo si vede quando proviamo a chiedere ad un ragazzo di dirci che cosa pensa e lui risulta sorpreso ed imbarazzato e non si fida, perché non posso chiederti cosa pensi per poi valutarti su questo, cioè giudicarti per quello che pensi, e allora ti dice quello che tu ti aspetti, per compiacerti e magari per questo atto servile, a cui tu l’hai costretto, gli metti anche un buon voto. E’ una brutta matassa intricata la comunicazione, perché posso comunicare davvero soltanto tra diversi ma pari, mentre il rapporto tra docente ed alunno è un rapporto di subordinazione gerarchica. Vorremmo che ognuno potesse sentirsi libero di dire ciò che pensa, ma nell’aria aleggia la minaccia che qualunque cosa direte potrebbe essere usata contro di voi. Stare zitti, adeguarsi, mostrare una maschera gradita ai più, in altre parole mentire o essere reticenti (entrambe violazioni dell’ottavo comandamento, per noi credenti) diventano atteggiamenti obbligati per garantirsi la sopravvivenza in una community


Dossier per modo di dire, all’interno della quale è chiarissimo che a nessuno interessa quello che pensi e quello che provi tu. Per questi motivi risulta almeno singolare che Facebook, il più diffuso dei social network, esordisca con le persone facendo loro una sola terribile domanda: “A cosa stai pensando?”. Ma come, non me lo chiede mai nessuno a cosa sto pensando! Incontro gente e ci si dice “Ciao, come stai?”, ma si capisce subito che è uno stereotipo e che si spera che l’altro risolva tutto con un “Bene, grazie!”, ché non è che ci si può caricare anche dei pesi altrui. Ritengo però che questa banalità di porre una domanda retorica sia una genialata, nella misura in cui sempre più persone, finora costrette a chiudersi, stanno invece prendendo sul serio quella domanda e si stanno esponendo, estrinsecando preziosi indizi del loro essere unici ed irripetibili. Il dialogo, piuttosto che lo scontro finalizzato a far vincere la propria opinione, è attività alla quale siamo pochissimo esercitati e rimane la causa dei principali fallimenti di relazioni importanti, che implodono, sconfitte dal nostro analfabetismo comunicazionale. Se la famiglia e la scuola così poco sono capaci di stimolare la pratica di una sana socialità, ben venga uno strumento laboratoriale come Facebook, in cui

posso esprimere un pensiero, un’emozione o un sentimento, mi espongo al contraddittorio dei commenti, imparo a controargomentare e alla fine mi ritrovo più ricco, perché “se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”. Comunicare è una parola che mette insieme cum e unus: stare cum qualcun altro e intraprendere un percorso per cui gradatamente lui diventa sempre meno “altro” da me, perché la relazione vera trasforma le persone, le addomestica nel senso della volpe del Piccolo Principe. Per questo motivo, se aggiungere un amico può sembrare una parola grossa, in realtà in quell’atto dichiariamo che siamo disponibili ad iniziare un cammino di comunicazione interpersonale, consci che prima o poi ne risulteremo trasformati. E scusate se è poco. Se poi riuscissimo ad esportare questo stile comunicazionale fuori del laboratorio, nella vita reale, quando ci si guarda in faccia e ci si annusa, a casa e a scuola e tra colleghi di lavoro, nei talk show ed in fila alla Posta, allora declineremmo altre parole che hanno la stessa etimologia, come comunità e comunione, da tanti oggi etichettate come buoniste, ma a mio parere le uniche parole che possono dare risposte profonde alle aspettative delle persone.

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Dossier E’ possibile utilizzare Facebook nell’insegnamento della Religione cattolica? di Antonio Calisi *

Il più conosciuto e diffuso social network al momento è Facebook. Con tale espressione si intende una rete sociale, ovvero un insieme di persone connesse tra loro che impiegano internet per mantenere, creare o ampliare il giro delle proprie amicizie. L’obiettivo di tutti i social network è comunicare, non ha importanza se con gli amici di tutti i giorni o con il mondo intero, basta che nella Rete ci sia un po’ di se stessi e della propria quotidianità. Una rapida analisi, questa, da cui si può solo parzialmente intendere la complessità di un fenomeno mondiale, che ha influenzato la vita di tutti i giorni di milioni di esseri umani. In un’indagine sul rapporto che i giovanissimi

italiani instaurano con internet, compiuto dall’associazione Save the Children con la partecipazione del Cremit (Centro di ricerca per l’educazione ai media, all’informazione e alla tecnologia) dell’Università Cattolica di Roma Sacro Cuore, è emerso che l’86% dei ragazzi adopera internet e, nello specifico, il 28% partecipa a forum, blog e social network. I membri dei social network si associano creando gruppi in funzione dei propri interessi (siano essi di passatempo o professionali). Non è raro trovare gruppi di confronto di avvocati, gruppi sulla sicurezza sul lavoro, medici, promotori finanziari e quant’altro, infatti, i social network oggi possono costituire delle piattaforme tecniche più adeguate per la costituzione delle cosiddette “comunità di pratica” di cui parla anche M. McLuhan1. Ed è proprio con la partecipazione alle “comunità di pratica” che può manifestarsi nell’individuo e nel gruppo la consapevolezza di ruolo professionale. La psicologia ci insegna tra l’altro che il “gruppo dei pari” è sempre un luogo privilegiato di costruzione di identità. La Rete storicamente nasceva come un progetto di condivisio-

1 Herbert Marshall McLuhan (Edmonton, 21 luglio 1911 – Toronto, 31 dicembre 1980) è stato un sociologo canadese. La fama di Marshall McLuhan è legata alla sua interpretazione visionaria degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso sia sui comportamenti dei singoli. La sua riflessione ruota intorno all’ipotesi secondo cui il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull'immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione di volta in volta veicolata. Di qui, la sua celebre tesi secondo cui “il mezzo è il messaggio”.

* Docente di Religione cattolica - Licei Scientifici “G. Salvemini” e “D. Cirillo” - Bari 42


Dossier ne delle risorse informatiche fino agli anni ‘80 e successivamente si è trasformata in una condivisione delle risorse culturali e delle informazioni. La Chiesa cattolica cosciente che gli strumenti di comunicazione sociale non sono dei semplici mezzi, ma segnano il modo di comportarsi e di pensare delle persone, incidendo sugli stili di vita, ha manifestato sempre più interesse verso queste forme comunicative. Diversi documenti (Inter mirifica, Etica in Internet, La Chiesa e Internet, Direttorio sulle comunicazioni sociali...) hanno dato indicazioni fondamentali per adoperare in modo consapevole queste nuove tecnologie. Le occasioni per la Chiesa, in questa nuova situazione, sono realmente tante, poiché nel mondo del web 2.0 viene sostenuta la dimensione comunitaria. Questo è noto a diocesi e parrocchie che sono presenti in Rete e ricevono un importante supporto dal Servizio informatico della Cei. La sfida che affronta la Chiesa in Rete oggi, è trasformare il semplice contatto in una forma autentica di partecipazione sociale. Il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha sottolineato in modo generico in un suo contributo, che «l’azione ecclesiale non deve tanto essere attenta all’utilizzo di “potenti mezzi”, ma deve ripartire dall’inculturazione del Vangelo in un ambiente ormai plasmato dai media e al quale essi forniscono le informazioni e le chiavi di lettura della realtà»2. Rispondere alla sfida educativa oggi diventa improrogabile, ciò è evidenziato anche dal progetto culturale della Cei. La soluzione non può essere unicamente tecnica, non basta saper usare i nuovi mezzi di comunicazione, ma è necessario adoperarli in modo critico. Giovani e adulti, in un’era in cui vige un analfabetismo comunicativo, si rendono conto della possibilità di realizzare uno spazio comune, per agire cristianamente anche nel nuovo contesto mediatico. Premesso che fare formazione significa innanzitutto condividere le proprie conoscenze, tra questo e internet esiste un relazione strettissi-

ma. Sicuramente Facebook è un valido strumento per formare e incidere nei processi di insegnamento/apprendimento, un canale comunicativo immediato anche per insegnare Religione cattolica. Perciò ho creato delle aule virtuali (un gruppo di Facebook per ogni classe) dedicate all’insegnamento della Religione cattolica dove gli studenti si sentono stimolati a una parteci-

pazione attiva. Tutti accedono al gruppo con una certa frequenza tenendosi informati sull’andamento delle attività didattiche. Questa esperienza è nata dall’esigenza degli studenti che mi contattavano per chiedere spiegazioni sugli argomenti delle lezioni. Sul gruppo di Facebook gli studenti trovano materiale didattico che completa la lezione frontale compiuta in classe. Spesso un’ora di lezione settimanale non permette di approfondire gli argomenti, di porre domande, inoltre l’eventuale utilizzo di mezzi audiovisivi sottrarrebbe tempo all’interazione con gli studenti. A questo punto le slides e i filmati possono vederseli a casa, scaricandoli da internet oppure trovarli sul gruppo di Facebook, opportunamente selezionati dall’insegnante. Nel gruppo gli studenti hanno un’area di discussione per dialogare tra loro su un argomento proposto dall’insegnante. L’insegnante ha la possibilità di postare sul

Dal discorso pronunciato il 2 ottobre 2008 in occasione della plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, tenutasi in Ungheria nella diocesi di Esztergom-Budapest.

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Dossier gruppo foto di classe che ritraggono momenti della vita scolastica (gite, manifestazioni culturali, ecc…). Inoltre, recentemente ho creato un gruppo chiamato “Ora di Religione Cattolica – Prof. Antonio Calisi”, nel quale si ritrovano i miei studenti, gli ex con i quali continua una relazione didattica e insegnanti di Religione cattolica provenienti da tutta Italia che raccolgono del materiale didattico per arricchire le proprie lezioni. Questo è diventato un riferimento per docenti di altre discipline che trovano spunti di riflessione e materiale per il loro insegnamento. Cosa ancor più significativa è che a tale gruppo partecipano attivamente anche i genitori degli studenti. Per me il social network non è uno strumento freddo e virtuale come spesso viene definito da chi non lo conosce e non lo utilizza. Premesso che i giovani sono «nativi digitali» e con naturalezza utilizzano questi mezzi, è interessante notare come si relazionano con l’insegnante. Poiché Facebook accorcia le distante relazionali, facendo sentire gli studenti parte di un gruppo di pari, essi mostrano meno resistenze e più familiarità con l’insegnante. Ciò è evidente nel fatto che al mattino a scuola ti salutano “Buongiorno professore” mentre sul web ti contattano con la faccina di uno smile scrivendoti “Ciao prof!”. In tale contesto il professore, pur rimanendo tale, diviene per i ragazzi un riferimento significativo per confidare le proprie paure, incertezze e difficoltà ed essere sostenuti e accompagnati nella propria crescita. I genitori consapevoli del ruolo significativo che il docente ha

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nei confronti dei propri figli, spesso nei colloqui scolastici, chiedono collaborazione e sostegno nei momenti di vita difficili. Il grande pedagogista Giovanni Modugno sosteneva che compito della scuola è educare la personalità degli studenti e favorire in loro il processo di autoeducazione, per acquisire l’attitudine a giudicare rettamente le proprie azioni e quelle altrui, considerandone gli effetti con parametri di giustizia e responsabilità. Modugno comprese che una scuola fatta di puro nozionismo non lascia spazio alla formazione morale della persona, del cittadino che è poi il vero rimedio alla crisi italiana del tempo e di oggi. Inoltre egli ha sempre rifiutato il pensiero del ministro Gentile sostenitore di una scuola in cui forte è il dualismo maestroalunno e la cui organizzazione funge da barriera sociale e sostiene un’istituzione scolastica libera dall’influenza di una qualsivoglia istituzione governativa, altrimenti generatrice di ribelli o servi. Il web è ormai divenuto il medium attraverso il quale la vita si è riversata, chiaramente se utilizzato bene, può creare relazioni buone, senza però dimenticare il mondo, la vita, la carne. Il cristianesimo, infatti, non è una religione virtuale, ma la fede del Dio incarnato.


Dossier

Saper dire no! di Mina Signorile *

C’è ancora un confine tra realtà e virtualità? Fino a che punto la tecnologia sub-entra nel nostro quotidiano e nella gestione della nostra vita? Sono mamma di due bambini che frequentano uno la Scuola dell’Infanzia e l’altro la Scuola Primaria e vivo questi tempi altamente “tecnologici” con attenzione e interesse perché ritengo riguardino non solo un valido supporto a risolvere piccole quotidiane problematiche, ma interessano in maniera più generale il modo di intendere argomenti generali e fondamentali tra cui la gestione e lo sviluppo dei rapporti interpersonali fin dai tempi

dell’infanzia. Sarà giunto anche per voi come per me il giorno in cui vostro figlio vi ha chiesto: “Mamma, mi compri il Nintendo? Sai? ce l’hanno tutti i miei amici”. Immagino che conosciate anche voi il Nintendo e la categoria dei videogiochi, giochi interattivi, giochi virtuali. Detto fra noi non amo molto vedere questi bambini de-responsabilizzati nella loro essenza di bambini, bloccati, imbambolati, inchiodati, davanti (direi meglio dentro) un videogioco che è a puntate. Sapete? Non si esaurisce facilmente. Ci sono diversi livelli, poi diversi avversari, poi un gruppo da battere; e man mano che si risale la china verso la vittoria, ecco che spunta un nuovo gruppo più forte da battere e ci sono giochi che durano mesi. Mio figlio, con la sua richiesta, appagava un’esigenza tipica di noi esseri umani: sentirsi simili ai propri simili. I miei coetanei si riconoscono in un gioco, lo devo fare anch’io. Rifletto: riconoscersi simili ai propri simili perché si è parte di una community che intende il gioco nello stesso modo! ... Un po’ come succede sui social network, su Facebook, sui vari protocolli di comunicazione. Ragazzini, tante volte adolescenti, ma purtroppo molte altre poco più che bambini, che vivono i rapporti interpersonali attraverso la mediazione di un PC. Il rapporto di conoscenza che era regolato ai “miei tempi” dai cinque sensi, oggi è bypassato dai cinque sensi ma attraverso uno schermo che come in una bolla di sapone dà la forma che si vuole a ciò che si vede. Allora come mediare? Come intervenire da educatori nel rispetto dei nostri tempi e di questi ragazzi?

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Dossier Come lasciare che la personalità del bambino possa crescere attraverso l’uso di un videogioco se diventa uno strumento di appartenenza ... per intenderci come erano per noi le figurine da scambiare? I nostri bambini dialogano delle strategie di gioco, dei vari livelli conquistati, dei personaggi catturati (parlo della mia esperienza di mamma di figli maschietti) come noi parlavamo delle figurine collezionate piuttosto che della collezione di Barbie. Allora, in famiglia abbiamo dedicato molto tempo al dialogo, all’interiorizzazione. Innanzitutto, la richiesta è stata accolta, compatibilmente alle esigenze economiche familiari ... e poi in effetti mio figlio era davvero la mosca bianca senza Nintendo! Poi abbiamo comunque dialogato sulla natura delle esigenze. Essere simili non significa essere uguali. Ciascuno è unico. Quindi innanzitutto capisco se ciò che mi viene proposto dal gruppo è ciò che va bene per me. Poi se proprio scopro di aderire alla proposta, in questo caso aderire al gruppo Nintendo gioco dei Bakugan, il modo in cui mi approccio al gioco è personale. Io e mio marito abbiamo imparato a giocare con nostro figlio a questo gioco sul Nintendo perché in questo modo non l’abbiamo lasciato solo. Inoltre ci è stato possibile commentare con lui che le strategie di gioco sono sempre le stesse e quindi il gioco ha perso un po’ di “lustro”. E poi, se anche qualche volta sarebbe davvero utile, non usiamo mai il Nintendo come baby sitter gratis! Lui rispetta il “tempo del videogioco”, che non è tutto il suo tempo libero. E’ una parentesi. E non ha una cadenza stabilita, ma si adatta

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alle esigenze della giornata. Il che significa che noi genitori siamo chiamati a dire “No” quando non è il momento del gioco, oppure quando il gioco diventa così “interessante” che il bambino ha difficoltà a mangiare, a parlare, a relazionarsi con gli altri. A questo proposito, con altri genitori amici, abbiamo abolito l’uso dei videogiochi durante le gite, nei viaggi in pullman, durante le feste di compleanno, durante il pomeriggio a casa con l’amichetto/a. La nostra battaglia quotidiana affinché i nostri bambini possano vivere la loro infanzia con quelle caratteristiche di vivacità, vitalità, freschezza tipiche della loro età e possano crescere sviluppando senso critico e personalità viva pur inseriti e integrati nella società del loro tempo. Ho dedicato queste mie riflessioni al Nintendo, ma ovviamente sono estendibili a tutta la categoria videogiochi, tv, computer... Molto dipende dal nostro lavoro e da come e da quanto siamo convinti che non tutto ciò che ci “passano” media e interlocutori “vari” va preso come “verità”. Valorizzare anche il tempo del dialogo-ascoltoconoscenza con i nostri figli ci servirebbe per concludere che molte volte sopperiscono le nostre assenze con un compagno virtuale che dice sempre “Sì”.


Dossier

I social network e i genitori di Nicola Vavalle e Giuliana Chirico * La prima volta che abbiamo visto in TV lo spot pubblicitario riguardo “internet” avevamo circa 15-20 anni e la “vecchia” scuola non aveva alcun mezzo per affrontarne lo studio. Nell’arco di un buon ventennio abbiamo assistito ad un notevole infittirsi di questa Rete, ad uno studio appropriato e alla presenza di strumenti e docenti abilitati. La diffusione di questa tecnologia parte da buoni propositi, sicuramente per rendere la vita più semplice, sbrigativa, immediata. Ma, se per qualsiasi motivo, dovesse verificarsi un “black out”? La nostra vita non sarebbe affatto semplice, sbrigativa, immediata. Oggi, l’uso del web è anche motivo di approfondimento dello studio e di una socializzazione globale. Infatti, gli ultimi nati sono i social network, di cui il più diffuso in Europa, tra i giovani e i giovanissimi, è Facebook. E come ogni innovazione ha i suoi pro e i suoi contro. Con i social network ci si può conoscere, ritrovare, scambiare notizie, utilizzare le lingue straniere, condividere amici, testi, musiche, filmati e tutto in una frazione di secondo ed anche con chi è lontanissimo. In questa maniera i giovani trovano un arricchimento della loro crescita, perché affiancano agli amici di comitiva, di scuola, di famiglia, che frequentano da vicino, altri amici lontani e lontanissimi. Però, devono stare attenti a non vivere esclusivamente al computer, rischiando di impoverirsi in un’individualità reale o in una dipen-

denza maniacale, e maggiormente i più piccoli a non cadere nelle mani di truffatori o malintenzionati o pubblicitari di false promesse. Come i nostri “padri” e le nostre “madri” hanno dovuto fare i conti con l’uso dei massmedia, anche noi adulti di quest’epoca dobbiamo rispondere alle moderne esigenze. Abbiamo il dovere di educare i giovani ad un utilizzo sobrio e proficuo del network, mediare tra reale e virtuale, dedicare tempo al dialogo per essere noi degli autentici “antivirus”. Abbiamo il diritto di tutelare la privacy, di migliorare la vita pratica, di vivere una globalizzazione sincera e la libertà di associarci o dissociarci quando si desidera. A questo punto non ci resta che augurare buona fortuna a tutti, in particolare a noi, genitori di figli adolescenti.

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I social network e gli adolescenti di Stefania Vavalle * Ho tredici anni, mi chiamo Stefania, frequento la terza classe della Scuola Secondaria di 1° Grado e uso spesso alcuni dei social network più conosciuti, ad esempio MSN e Facebook. Tutti i miei amici comunicano con questi mezzi ed è molto diffuso tra i giovani di tutto il mondo. Io accendo il computer massimo per un paio d’ore al giorno, ma non tutti i giorni, perché ho poco tempo libero. Con internet si può studiare e contattare tutto del mondo, subito! Questo è bellissimo: è avere letteralmente il mondo nelle proprie mani. A me dei social network piace molto il fatto che posso organizzarmi e confrontarmi con i miei amici, cioè persone che conosco a fondo. Ma tutto questo diventa negativo nel momento in cui la gente passa intere giornate davanti al computer per chattare con persone totalmente sconosciute, di cui non sa niente: estranei; possono essere chiunque, anche un maniaco o magari, ancora peggio, una persona che abita accanto a te e ti sembra antipatica, ma che, conoscendola sulla chat, può persino piacerti: che assurdità! Questo mi impaurisce, perché così si perde il contatto con se stessi e soprattutto con gli altri. Per fare nuove conoscenze non bisogna solo guardare una piccola foto e scrivere stupidaggini come se davvero t’importasse un giorno di incontrare la persona con cui chatti, ma è fondamentale parlarci davvero, fissandola negli occhi; stiamo perdendo il contatto “a pelle” con la gente. Io accetto totalmente questo tipo di comunicazione, quando si parla con una persona che si conosce e che è molto lontana e si sente la sua mancanza, un parente lontano o un fidanzato in un altro posto. Conosco persone che si sono molto affezionate (stupidamente) a persone sconosciu-

te che dicono di conoscere benissimo solo perché ci hanno chattato per mesi: è pazzesco! Le persone sono impazzite per queste cose, ed eccolo qui l’errore, quello che scatena tutti i problemi: il fatto che alla gente piaccia così tanto da abusarne, esagerano perché trovano meno divertente fare cose normali, come lavorare o divertirsi concretamente rispetto a conoscere persone dall’altra parte del globo. E’ normale, anch’io subisco tale fascino, ma c’è tempo per ogni cosa. Se ci mettessimo tutti al computer a chattare con la testa china sulla tastiera e di spalle al mondo, alla realtà, che cosa ne sarebbe di tutto ciò che è vero, reale e non virtuale, come la natura, gli affetti e la vita in generale? Qui ognuno può dare la sua risposta, la mia è niente, non ne sarebbe più nulla del resto, tutto sarebbe ignorato e messo in secondo piano. Per non parlare dei rischi e dei pericoli che i social network comportano: pedofilia, abusi sui minori o truffe con la vendita on-line. Quindi, secondo me, l’importante è utilizzarli con moderazione e attenzione. La verità sta sempre nel mezzo: conoscerli, per utilizzarli al meglio; usarli e non abusarne.

* Alunna - Scuola Secondaria di Primo Grado “G. Verga” - Bari 48


Dossier

Costruire … nella vita reale di Emanuela Moccia * Per gli adulti di oggi non risulta facile comprendere appieno il rapporto che la mia generazione ha con internet e i social network, poiché sono parte di una realtà (quella virtuale) a loro estranea. Il concetto è tuttavia molto semplice: nella nostra vita di attuali adolescenti questi “hanno un peso”. Mentre per gli adulti internet in generale ha un’importanza marginale, per noi ha il valore, in quanto sistema irreale, di “integratore” della realtà. Il rapporto che la mia generazione ha con internet è paragonabile a quello che la precedente aveva con i libri: un modo per evadere dal concreto, costruire un mondo tutto nostro. Infatti mentre nella vita reale ognuno di noi ha un ruolo prestabilito da mantenere dignitosamente, in quella idealmente ad essa parallela il ruolo social-virtuale non è definito né tanto meno imposto e pertanto tutti possono essere “tutto”. Il motivo per cui noi ragazzi siamo attirati dal mondo dei social network è proprio questa falsa libertà assoluta, realmente inconcepibile. Il poter fare di sé ciò che si preferisce è stato il primo aspetto che credo abbia colpito e attratto ogni ragazzo alle prime armi su internet ed io non ne sono stata estranea. Ho cominciato ad utilizzare Messenger (programma di messaggistica istantanea) a tredici anni (relativamente molto tardi) ed il costruirmi una personalità alternativa è stato uno dei miei primi passi. Passavo molte ore seduta al

computer per questo e mi divertivo ad accettare qualsiasi invito (messaggio di richiesta per entrare a far parte dei contatti Messenger), anche se non riconoscevo il mittente. Le persone con cui fingevo, tuttavia, erano paradossalmente quelle con le quali avevo realmente contatti a scuola! Al contrario condividevo i pensieri e le emozioni più reali con “lo sconosciuto di turno”. Col passare del tempo ho imparato a distinguere la realtà dal virtuale ed a prendere le dovute distanze da determinate situazioni. Ora utilizzo i social network (è il caso di Facebook) solo per comunicare con i miei compagni di classe o eventualmente vecchi amici e questo non accade che la sera, nell’arco di un’ora o poco più. I programmi che mi permettono il contatto con altre persone hanno comunque più peso nella mia vita rispetto a quanto ne avessero due anni fa, in quanto influiscono direttamente sul mio quotidiano. I social network sono oggettivamente un’invenzione utilissima, poiché offrono un’occasione immediata di svago e contatto con altre persone; tuttavia, come accade con qualsiasi invenzione, la sua positività dipende dalla modalità di utilizzo. Il motivo del mio cambiamento è l’acquisita consapevolezza di dover costruire qualcosa nella mia vita reale e non in quella virtuale. Penso che la dipendenza di alcuni ragazzi dai social network dipenda dalla loro scarsa partecipazione al loro stesso futuro.

* Studentessa - Liceo Scientifico “D. Cirillo” - Bari 49


Dossier

Social network e giovani... evoluzione o regresso? di Giulio Navarra * Dov’è finita la cara e vecchia lettera, quella che ha accompagnato la storia dell’uomo fin dai tempi antichissimi? Lo stile epistolare è scomparso, oggi si comunica mediante i social network, reti sociali che permettono il “dialogo” tra persone che hanno tra loro legami che vanno dalla conoscenza casuale ai rapporti di lavoro. Tra i “social network” più utilizzati c’è Facebook, punto di incontro soprattutto per i giovani, che, secondo una media nazionale, passano anche quattro ore davanti al computer per rimanere in contatto con gli “amici”. E’ andato via il tempo in cui si aspettava con ansia la risposta alla propria lettera inviata ad

un conoscente o ad un parente: ora basta accendere il computer, entrare su Facebook ed ecco che l’attesa non dura neanche due secondi: la persona risponde e noi siamo più tranquilli. In questo modo si è ridotto il tempo di attesa e l’ansia della risposta. Ma siamo sicuri che sentirsi tramite una rete informatica, lasciando il computer acceso per * Studente - Liceo Classico “Socrate” - Bari 50

ore al nostro fianco mentre si cerca di risolvere disperatamente un esercizio di matematica con una tentazione così grande vicino, sia una cosa giusta? Siamo consapevoli che il dialogo umano è relegato alla sola via informatica? In questo modo si “vive” la persona che si ha di fronte? O si può parlare di realtà parallela? Le reti sociali (questo il significato di “social network”) sono la forma più evoluta di comunicazione umana, ma anche la più pericolosa se si contano le amicizie fatte senza essersi visti una sola volta. Cambia con questa “evoluzione umana” anche uno dei valori più profondi dell’uomo, quello dell’amicizia. Questa parola, oggetto di tante discussioni nel corso dei secoli, la cui importanza è ben nota all’uomo, perde tutta la sua essenza che si è spesso tentato di definire, senza però mai arrivarci. In tal caso più di progresso si può parlare di regresso umano. Torna, quindi, la questione sul rapporto tra scienza e consapevolezza umana, su vantaggi e svantaggi che la prima porta all’uomo e se questo ne sia consapevole. La crescita tecnologica e scientifica dell’uomo moderno è strettamente legata alla perdita del suo potenziale umano: la scienza si sostituisce all’uomo nel voler migliorare la sua vita. L’esempio più semplice è quello della calcolatrice: da quando l’uomo ha inventato questa macchina che semplifica, o per meglio dire, annulla l’elaborazione umana, siamo sempre meno portati a fare calcoli mentali e utilizziamo la


Dossier calcolatrice, perché siamo pigri. Ora non si parla più di elaborazioni mentali di calcolo, bensì di dialogo tra uomini e la questione si fa più seria. Siamo giunti all’eccesso dell’uso tecnologico, l’uomo è diventato “tecno -dipendente” e la sua vita, in particolare di coloro che ricevono per primi i cambiamenti della società, cioè dei giovani, è legata alla tecnologia e agli utilizzi poco idonei di questa. In questo processo di crescita scientifica e tecnica è venuto meno l’equilibrio da parte dell’uomo: innumerevoli i miglioramenti portati dalla tecnologia all’umanità, consistenti però anche i pericoli. La questione è da ricondurre alla necessità di porre limiti all’applicazione e all’uso delle tecnologie, perché per natura i ragazzi tendono a non avere limiti. E’ compito della società e, in particolar modo, dei genitori educare i ragazzi all’uso consapevole di queste reti sociali. La figura del genitore è, infatti, una figura fondamentale nel micro-cosmo che è la famiglia, soprattutto nei momenti in cui l’ambiente socio -culturale non è dei migliori, come quello odierno. Non neghiamo, però, che queste grandi reti sociali, che connettono milioni di persone, possono essere di aiuto soprattutto per i malati ricoverati da tempo negli ospedali, per i quali vivere può essere faticoso e il social network è un modo per rimanere in contatto con il mondo esterno. Purtroppo non tutti i nostri ospedali offrono una tale possibilità, presente solo in alcuni reparti ospedalieri del nord Italia. Le reti sociali sono un ulteriore passo di quel mondo virtuale che affianca la società moder-

na. A dare inizio alla creazione di questo mondo virtuale è stata l’invenzione degli sms, i messaggi di testo che si possono inviare tramite cellulare, ancora oggi di grande utilizzo. La società ha scoperto poi internet, oggetto di tante discussioni ancora oggi. Internet ha migliorato la comunicazione, la ricerca e lo sviluppo, ma, dal momento in cui come mezzo abbraccia quasi tutti i campi possibili che interessano l’uomo, il suo utilizzo non è sempre dei migliori. Ultimamente si è tornati a discutere sul perché la sua influenza è notevole e lo si può notare dalle censure imposte dal governo comunista di Pechino. La grande influenza di internet interessa soprattutto i giovani, nel quale vedono l’immagine riflessa della società. Porre limiti all’applicazione tecnologica è diventato essenziale se non si vuole vedere la società scendere sempre più verso il basso. Sono interessate, purtroppo, tutte le fasce di età dell’adolescenza e in particolar modo i ragazzi della Secondaria di Primo Grado che aprono profili su un social network senza la consapevolezza che ci va di mezzo la persona e la sua privacy. E’ evidente la necessità dell’uomo di comunicare (non ha caso è stato definito un animale sociale), ma anche il bisogno di una svolta radicale dell’etica contemporanea che si distacca sempre più dalla morale cristiana. Tornare a scrivere una lettera di tanto in tanto può essere un modo per tornare a comunicare in modo sano e per allontanarci da quel mondo virtuale che tutti i giorni influenza la nostra società.

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E non chiamiamola amicizia di Antonio Curci * «Il suo slancio di misericordia si v o l g e anche alle necessità temporali del suo prossimo ed alle numerose sofferenze che sopporta. Lo vede, infatti, sopportare la fame, la sete, il freddo, la nudità, la malattia, la povertà, il disprezzo, i mille pesi imposti ai poveri, la tristezza causata dalla perdita dei parenti, degli amici, dei beni terreni, dell’onore, della tranquillità, tutto il peso, infine, che schiaccia la natura umana, oltre misura […]. C’è di che muovere a compassione un cuore buono e spingerlo a benevolenza verso tutti […]. Questa compassione ed amore, esteso a tutti, vince e scaccia il terzo peccato capitale che è l’odio e l’invidia; poiché la compassione è una ferita del cuore che fa amare indistintamente tutti gli uomini e che non può guarire fintanto che vedrà qualche sofferenza …» (Giovanni Ruysbroek, L’ornamento delle nozze spirituali). Mi piace iniziare questa riflessione col pensiero di un grande mistico del XIV secolo, Giovanni Ruysbroek. L’amicizia è dono di sé, è compassione autentica, è attenzione del cuore ai concreti vissuti dell’altro. L’essere persona in un rapporto io-tu passa, secondo Ruysbroek, attraverso la prospettiva del dono, dell’impegno alla relazione e alla mutua comprensione. Quella comprensione del “tu” che diventa amorevole e che genera il senso di responsabilità nei confronti dell’amico: cum-prendersi è incarnare nel proprio vissuto l’esperienza

dell’altro che si fa prossimo e facendosi carico dei suoi bisogni. Si può parlare di vera amicizia quando le nostre biografie diventano paragrafi perfettamente integrati nel grande libro della Vita. Montaigne contrapponeva amore e amicizia sulla base del desiderio: un fuoco cieco, volubile e forse innato nell’amore, un calore generale, calmo e costante nell’amicizia. Ma la possibilità di esplorare quel calore generale è connessa al vivere insieme. L’amicizia non è un sentimento privato, ma un’attività che coinvolge gli individui, un modo di vita in cui il carattere viene reciprocamente coltivato e ammirato. Ma al giorno d’oggi, l’amicizia è ancora da intendersi in questo modo? Cosa sarebbe questo nostro mondo se tutti fossimo amici al modo di Ruysbroek? Probabilmente un posto in cui vivere sarebbe meraviglioso. E invece a leggere le cronache, ma anche analizzando le nostre esperienze, i nostri vissuti, forse, per amicizia oggi si intende altro. Cos’altro? Un luogo in cui si parla di amicizia è sicuramente un social forum come Facebook. Proviamo a fare insieme un semplice esercizio, mentre stiamo davanti al nostro PC, proviamo a guardarci come se fossimo in uno specchio: siamo soli davanti ad un monitor, sguardo fisso e concentrato, nell’anonimato più totale. Come per incanto ci sentiamo al sicuro, padroni del mondo, ipertrofici, quasi onnipotenti; con un click possiamo “fare tutto” anche “richiedere” un’amicizia. La richiesta o l’accettazione di un’amicizia su Facebook rappresentano le primissime e fondamentali operazioni per entrare in questo mondo e restarci. Un tempo per diventare amici bisognava frequentarsi, parlarsi, guardarsi negli occhi, com-

* Docente di Informatica - I.T.I.S. “Panetti” e “G. Marconi” - Bari 52


Dossier patirsi, compenetrarsi, cum-prendersi. Di sicuro c’è che ci voleva del tempo. Un tempo, a volte anche molto lungo, per scoprirsi amici. Un amico, merce rara, era un’esperienza travolgente, meravigliosa. “Chi trova un amico trova un tesoro”. Anche i proverbi confermavano questa straordinarietà. Oggi basta un click e si diventa “amici”: si può parlare, discutere, scambiarsi messaggi, anche con persone mai viste, ognuno nella solitudine della propria cameretta. Insieme-da soli. Sembra un ossimoro, ma invece è proprio il paradosso di Facebook. L’aspetto più sociologicamente interessante è che un’intera generazione di ragazzini sta crescendo con questo concetto di “amicizia”. Non più cum-prensione ma sensationem cioè la modificazione del nostro sentire a seguito delle sollecitazioni esterne. Dalla compassione amorevole dell’io-tu di Giovanni Ruysbroek, siamo oggi all’io-onnipotente e tronfio, ma tristemente solo, all’interno di buie caverne elettroniche. Altro che dono per gli altri! Altro che relazione! L’obiettivo di questa mia riflessione, però, non è quello di screditare i social forum. Questi, infatti, hanno valenze positive, soprattutto dal punto di vista della comunicazione. Cito per esempio l’esercizio della libertà d’espressione, la partecipazione democratica alla vita civile e sociale, il confronto schietto ed appassionato sui grandi temi della morale, della politica, la denuncia di problemi, di soprusi, l’esercizio della solidarietà collettiva e perché no, anche un luogo ricreativo e di aggregazione. Il cuore della mia riflessione, invece, è incentrato sul significato e i rischi delle amicizie virtuali. Su Facebook c’è chi controlla le sue amicizie e non accetta richieste da persone sconosciute. C’è chi non si fa alcun problema sulla questione “amici”. E c’è chi, invece, sembra partecipare a una gara (non dichiarata ed estenuante) per arrivare ad avere più “amici” degli altri. Sono specialmente i più giovani a farsi coinvolgere in questo campionato virtuale delle “amicizie”. Il punto in questione è che questa rubrica di nomi con cui si condivide il

proprio profilo è composto spesso da persone con le quali, in realtà, non ci sono affinità né veri sentimenti d’amicizia, eppure ne condividiamo pensieri, fotografie, video, spaccati del nostro vissuto personale in nome di un esibizionismo esasperato da un lato e di un voyeurismo desolante dall’altro. E non è un caso che il successo dei social network sia arrivato immediatamente dopo il successo dei reality show: siamo tutti diventati membri di un enorme reality che conta oltre centosettanta milioni di partecipanti. Facebook è forse la vera ed immensa casa del Grande Fratello. E’ facile percepire i tanti rischi che questa enorme comunità virtuale può inevitabilmente comportare. E allora cosa fare? Disperarsi? Sarebbe inutile visto che l’intera comunità mondiale è ormai virtualmente interconnessa. E’ quanto mai necessario, invece, educarsi ed educare all’uso corretto dello strumento social forum, conoscerne i punti di forza e soprattutto quelli di debolezza. Facebook è un fenomeno che va cum-preso, così come va capito e recuperato il vero significato della parola amicizia. E’ necessario ritornare al senso della cum-prensione degli amici, quelli veri, in carne ed ossa, quelli con cui è bello stare insieme, condividerne il cammino e pervaderne le storie. E l’amicizia su Facebook? Per cortesia chiamiamola come ci pare, ma non chiamiamola amicizia.

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Chiesa e mezzi di comunicazione ... recensione a cura di mons. Vito Angiuli *

Affermare che la nostra è una civiltà massmediale significa dire una verità che è sotto gli occhi di tutti e che si giustifica da sé per la sua ovvietà. Meno scontato è cercare di comprendere il significato di questa affermazione dal momento che la complessità della situazione odierna, in seguito alle nuove possibilità della tecnologia e ai nuovi linguaggi comunicativi in rapida trasformazione ed evoluzione, richiede un supplemento di indagine e una lettura non superficiale dei cambiamenti in atto. Tanto più, se si pensa che le innovazioni tecniche hanno ricadute sul piano sociale perché costituiscono il presupposto per il cambiamento dei parametri di valutazione della realtà e delle relazioni interpersonali. Da qui, la necessità di studiare il fenomeno della comunicazione sociale. Sotto questo profilo il libro di Ruggiero Doronzo, che riprende e approfondisce i temi sviluppati nella tesi di laurea triennale in Scienze della Comunicazione all’Università del Salento, si presenta come un utile strumento per comprendere il rapporto tra Chiesa e mezzi di comunicazione sociale e per verificarne il loro utilizzo in ambito ecclesiale. Va dato atto all’Autore di aver com* Provicario generale - Arcidiocesi di Bari-Bitonto 54

piuto un’accurata indagine dei numerosi pronunciamenti della Chiesa, individuando i temi principali che più frequentemente ricorrono nei testi magistrali, elaborati nel corso degli ultimi settant’anni e resi pubblici attraverso encicliche, decreti, istruzioni e messaggi, a partire dalla Vigilanti cura di Pio XI del 1936 fino agli ultimi interventi di Benedetto XVI per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali. Il libro è diviso in due parti. La prima mette in evidenza quattro fattori che si presentano in modo costante nei documenti magisteriali. Si parte dal notare il sostanziale giudizio positivo con il quale il Magistero della Chiesa considera i mezzi di comunicazione. Essi sono ritenuti, direttamente o indirettamente, come “doni di Dio” all’umanità perché attraverso di essi è possibile che si sviluppi un più stretto vincolo di fraternità e una maggiore interazione tra i popoli. Se utilizzati per scopi nobili, essi sono un potentissimo mezzo per accorciare le distanze tra le nazioni e mettere in relazione culture diverse. Come si può notare, si tratta di una visione estremamente positiva, ma non ingenua. La Chiesa, infatti, non dimentica i gravi danni che può produrre un uso distorto di queste nuove forme di comunicazione di massa. Questo inconveniente, però, è dovuto all’impiego che ne fa l’uomo e non alla specifica natura di questi mezzi. Essi, di per sé, sono neutri e, pertanto, hanno una loro intrinseca possibilità di concorrere al bene della persona e alla pacifica convivenza nella società. Nei più recenti interventi di Benedetto XVI, però, si nota un’evoluzione di pensiero. Si va facendo strada, infatti, l’idea secondo la quale la forte capacità dei mezzi di comunicazione sociale di determinare profondi mutamenti nel modo di


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percepire e conoscere la realtà richieda un’attenta riflessione sulla loro influenza soprattutto in riferimento alla dimensione eticoculturale della globalizzazione e dello sviluppo dei popoli. Per questo motivo si comprende l’urgenza di affrontare la questione della moralizzazione di tutto il processo comunicativo. Bisogna, infatti, domandarsi realmente se la comunicazione promuove una cultura del rispetto, del dialogo, della verità e della libertà; se si muove secondo criteri etici e non per fini di potere. In questo secondo caso, essa finisce per non tenere in considerazione la centralità e la dignità della persona, la sua aspirazione al bene, il suo desiderio di fraternità e di giustizia. Questo possibile uso distorto dei mezzi di comunicazione sociale non mette in ombra le notevoli potenzialità di cui essi dispongono per la diffusione del Vangelo. Non si deve, infatti, dimenticare che il cristianesimo, per sua natura, è una religione del dialogo e dell’annuncio della buona notizia e che Gesù stesso è il rivelatore e il comunicatore del mistero del Padre. Vi è, dunque, una consonanza di fondo tra lo

strumento tecnico della comunicazione e il fine stesso della presenza della Chiesa nel mondo. Entrambi tendono a veicolare un messaggio per il bene della persona umana e il progresso della società. La seconda parte del libro prende in considerazione alcuni problemi legati allo sviluppo dei media non ancora esplicitamente o sufficientemente trattati in ambito ecclesiale, ma che si impongono all’attenzione dello studioso per la rilevanza delle domande che sollevano soprattutto in riferimento alla “questione antropologica”, dal momento che il sistema dei media rende sempre più labile il confine tra comunicatori e consumatori di informazione, tra sfera pubblica e sfera privata e possiede un forte impatto sulle forme della soggettività umana. D’altra parte, bisogna chiedersi in che modo è possibile accogliere la riflessione sulla “gnosi tecnologica” alla quale fa cenno McLuhan nei suoi studi e in che senso la teologia evoluzionistica di Teilhard de Chardin possa trovare udienza nel pensiero della Chiesa. Si tratta di questioni aperte. Il libro di Doronzo ha il merito di porre queste questioni e di leggere con grande acume i testi magisteriali facendone un’esegesi puntuale e incisiva e individuando con grande accortezza i punti problematici di un tema che rimane affascinante per la molteplicità di implicazioni che comporta per la vita della Chiesa e il progresso integrale dell’uomo e della società.

R. DORONZO, Chiesa e mezzi di comunicazione: un rapporto da approfondire, Ed. Insieme, Terlizzi (BA) 2009, pp. 204 55


“Educazione in cerca d’autore”. Seminario sull’educazione dell’affettività e della sessualità del Forum delle associazioni familiari di Ludovica Carli *

La Famiglia protagonista. Anche per l’educazione dell’affettività e della sessualità. Questo il senso ultimo dell’affollato Seminario di studi svoltosi a Bari, nell’auditorium dell’ITCS “V. LENOCI”, su iniziativa del Forum delle associazioni familiari. Suggestivo il tema del seminario: “Educazione in cerca d’autore: persona, affettività, sessualità. Per una alleanza fra Famiglia Scuola ed Istituzioni”. “Un modo, crediamo garbato e speriamo efficace, per dire alle istituzioni ed in particolare alla Regione Puglia, che i genitori ci sono e pretendono di essere ascoltati, anche in tema di educazione dell’affettività e della sessualità”, ha esordito il prof. Passiatore, coordinatore della Commissione Educazione del Forum regionale.

Spunto per il Seminario era stata l’esclusione delle Associazioni dei Genitori (anche se riconosciute dal MIUR), dal tavolo istituzionale predisposto dalla Regione per l’elaborazione e la verifica dei percorsi formativi in tema di sessualità da proporre ai ragazzi nelle scuole ed il monitoraggio delle attività consultoriali. Ma il Convegno ha messo in evidenza anche l’inadeguatezza dei contenuti che attualmente vengono presentati agli adolescenti, per lo più da operatori consultoriali, cui attualmente è delegato questo delicato compito; in particolare, una ricerca realizzata per studiare le esperienze di educazione sessuale in atto in alcune Scuole Secondarie pugliesi e presentata per l’occasione, ha fatto rilevare la discrepanza fra i bisogni avvertiti dai ragazzi e quelli percepiti da chi dovrebbe educarli. Ne derivano percorsi per lo più moralistici o informativo-tecnicistici, entrambi evidentemente inefficaci perché incapaci di intercettare le domande autentiche dei nostri giovani sull’affettività e la sessualità e di individuare delle ipotesi di risposte. Né si può pensare di rispondere alla emergen-

* Ginecologa - Presidente del Forum regionale delle associazioni familiari 56


za interruzione di gravidanza, di cui la nostra Regione detiene tristi primati fra le adolescenti, semplicemente con presidi farmacologici come la contraccezione orale o la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, come previsto in Puglia. Paradossalmente, infatti, le statistiche mostrano che all’aumentare dell’uso della contraccezione non corrisponde affatto una diminuzione dell’interruzione volontaria della gravidanza, anzi si verifica esattamente il contrario: le regioni italiane e le nazioni europee in cui più diffusa è la pratica della contraccezione, e più semplice la fruibilità della pillola del giorno dopo, sono quelle in cui vi è anche un più alto tasso di gravidanze indesiderate e di abortività: è da supporre a causa di una deresponsabilizzazione e della banalizzazione del sesso! E’ l’esperienza di nazioni come Francia, Inghilterra, Svezia, ove programmi di educazione sessuale nelle scuole basati sulle informazioni sulle tecniche contraccettive o sulla diretta somministrazione di esse si accompagnano a gravidanze sempre più numerose fra le teenager, seguite, in almeno il 50% dei casi dall’interruzione volontaria di gravidanza. E’ evidente che il loro numero debba comunque essere stimato ancora maggiore, se consideriamo i casi in cui il meccanismo d’azione della pillola del giorno dopo si esplicita in termini anti-nidatori, cosa possibile se il farmaco è assunto in fase periovulatoria. E’ evidente che tali esperienze minino la salute sessuale e riproduttiva dei nostri giovani, in una società in cui il tasso di coppie infertili arriva a sfiorare il 30% e le malattie a trasmissione sessuale conoscono un rapido incremento. Ma faremmo torto alla centralità di questo argomento se, anche noi, ne riducessimo l’approccio che non può quindi essere tecnicosanitario (lo dicono i nostri ragazzi!), ma evidentemente antropologico. La sessualità, infatti, è dimensione costitutiva della persona, e la sua educazione non può essere scissa dall’educazione dell’affettività; per essere affrontata in modo adeguato ha bisogno di legarsi alle grandi questioni di significato riguardanti la relazione interpersonale e la nostra stessa identità; altrimenti il moralismo

ostacola il sesso, la tecnica distrugge il desiderio, l’industria del lattice o del farmaco “inquina” le giovani donne e il sesso, che smette di essere relazione e si concentra su un corpo ridotto ad oggetto e mercificato, su piacere egocentrico, egoistico e dunque piccolo piccolo. E’ diritto e dovere della famiglia, quindi, essere presente nell’elaborazione e nella verifica di questi percorsi, riguardanti la sfera più intima e personale dei propri figli: è in gioco la libertà di educazione dei genitori! Essi non di rado sono consapevoli di una certa loro inadeguatezza a questo compito; ma proprio allora essi non possono cedere alla logica della delega all’esperto o sparire dalla scena ed essere sostituiti. Uscire dalla solitudine, aggregarsi in nuclei associativi a livello scolastico, realizzare percorsi di empowerment delle proprie responsabilità educative: è stata questa una delle proposte concrete avanzate dal Seminario del Forum, così come l’affiancarsi delle associazioni dei genitori ai consultori familiari, per una maggiore efficacia della specifica azione, sia sul piano elaborativo che attuativo e di verifica degli interventi predisposti con i giovani, con le donne e con le coppie. E’ stata questa la riflessione del prof. Fiore, assessore regionale alle Politiche della Salute, che ha sottolineato la necessità di un pensare insieme, istituzioni ed associazioni, la fisionomia di servizi ed interventi. E’ il caso di Forlì, dove enti territoriali e mondo associativo hanno costituito una rete, con una vera e propria cabina di regia, grazie alla quale in un periodo di osservazione di sedici mesi, il 10% delle donne che si erano rivolte ai consultori, supportati da ll’a ssocia z ionismo, ha rinuncia to all’interruzione volontaria della gravidanza. La necessità di una logica di alleanza e di sussidiarietà è stata messa in evidenza anche dalla prof.ssa Stellacci, Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale, che ha rilevato l’opportunità di alleanze educative fra istituzioni e mondo associativo, così come proposto dal Seminario, in primis fra scuola e famiglia.

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L’angolo della spiritualità a cura di don Valentino Campanella Il prete non è prete per sé, lo è per voi!

Dalla Lettera di indizione dell’anno sacerdotale di S.S. Benedetto XVI Il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: «Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina». Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: «Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...». E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se

quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo». Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: «Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi».

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Media del territorio

a cura di Vincenzo Legrottaglie

La rubrica vuole esplorare i mass media presenti sul nostro territorio regionale, conoscerne le origini, la diffusione, la gente che vi lavora, il modo in cui parlano all’uomo dell’uomo e della sua vita, il loro interesse (se c’è) nei confronti dell’educazione in generale, del mondo della scuola in particolare.

Intervista a don Giuseppe Di Mauro Quando nasce Il faro palese? E’ presente nella cittadina di Palo del Colle da trentanove anni un giornale locale che fin dagli inizi è stato chiamato Il faro palese. Certo, sarebbe stato più consono chiamare questo giornale con tale nome se Palo del Colle fosse lambito dal mare, ma è altrettanto vero che questa cittadina è a pochi passi dal mare. Il faro palese nasce nel dicembre del 1971. Ero da pochi anni parroco della parrocchia S. Vito in Palo: l’idea di creare un foglio di comunicazione nell’ambito della parrocchia la stavo accarezzando da diverso tempo: se devo dire tutta intera la verità, l’idea mi frugava nella mente già negli anni di Teologia presso il Pontificio Seminario Regionale di Molfetta: nel programma del mio sacerdozio futuro, qualunque fosse stato il compito che il Vescovo mi avrebbe assegnato, intendevo servirmi del mezzo della stampa nel campo del mio apostolato sacerdotale. Come venne accolta l’iniziativa editoriale dall’arcivescovo dell’epoca, mons. E. Nicodemo? L’occasione si presentò, come dicevo sopra, nel momento in cui dall’arcivescovo mons. E. Nicodemo fui nominato parroco di S. Vito in Palo del Colle. Non aveva questo foglio nessuna pretesa: volevo solamente comunicare ai parrocchiani i diversi appuntamenti pastorali. L’iniziativa fu bene accolta, anche perché nel primissimo nu-

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mero portava la benedizione dell’arcivescovo Nicodemo, al quale precedentemente avevo esposto la mia idea. Incontrandomi con mons. Cacucci e parlando del giornale di Palo ho sottolineato che la lunga vita de Il faro palese – sono circa quarant’anni – è dovuta alla benedizione che mons. Nicodemo a suo tempo dette a questa iniziativa. Quale fu l’evento/momento in cui si decise di passare da un foglio di comunicazione parrocchiale a un periodico vero e proprio? Man mano che il tempo passava il foglio cominciò a farsi conoscere oltre i confini parrocchiali, forse era arrivato il momento che Il faro palese diventasse il giornale di tutta Palo. Consultai gli amici collaboratori perché esprimessero il loro parere: furono d’accordo, come erano stati d’accordo qualche tempo prima perché quel foglio parrocchiale fosse chiamato Il faro palese. Comincia così una nuova avventura per questo foglio, sia dal punto di vista dei contenuti sia dal punto di vista del formato e delle dimensioni. Il passaparola tra gli abitanti di Palo servì a far conoscere la realtà del giornale locale tra i nostri concittadini residenti in Italia e all’estero. Il desiderio di conoscerlo venne spontaneo e venne interpretato come mezzo per annodare i vincoli con il paese natio. Tanti avevano lasciato Palo con l’amarezza nel cuore, in cerca di lavoro, giacché il proprio paese era stato avaro con loro. Fu a questo punto che dovetti fare un’amara constatazione: i palesi si erano spinti, in cerca di lavoro, in paesi lontanissimi. I palesi li potevi trovare in Europa come in Germania, in Francia, in Belgio, in Olanda, ma anche in gran numero negli Stati Uniti, in Canada, in Vene-


zuela fino alla lontana Australia. Il faro palese era riuscito una volta al mese, così, a raggiungere quasi tutti i nostri concittadini con il duplice scopo di farli sentire meno soli in questi paesi stranieri e far rivivere loro le usanze e le tradizioni del paese natio di cui sentivano ancora tanta nostalgia. In Germania, a Bebesheim, viveva e vive ancora una grossa comunità di concittadini; tra questo paese non molto lontano da Francoforte e Palo si è creato un gemellaggio molti anni addietro con lo scopo di rafforzare sempre più i vincoli di amicizia e possibilmente creare rapporti a livello commerciale. Quanto Il faro è figlio dei documenti sulla comunicazione sociale emanati dal Concilio Vaticano II? Il faro palese, è inutile nasconderlo, è un giornale cattolico, anche perché il direttore responsabile è il sottoscritto. Quanto spazio occupa l’informazione religiosa? L’informazione religiosa è garantita, fermo restando che per una serie di motivi non può ritornare ad essere un bollettino parrocchiale. Il faro ha una rubrica intitolata “Finestra sulla scuola”. Di cosa si occupa specificamente e chi la cura? Il faro palese ha aperto da molti anni una riuscita rubrica, “Finestra sulla scuola”, curata da un insegnante da poco in pensione. Le Scuole Primarie e Secondarie di Primo Grado di Palo trovano nel Faro larga ospitalità e il giornale di Palo diventa così una grande palestra per le loro attività e iniziative varie.

Dopo aver espletato gli studi filosofici e quelli di Teologia presso il Pontificio Seminario Regionale di Molfetta vengo ordinato sacerdote in Santeramo in Colle, mio paese natio, il 18 luglio 1954, da mons. Enrico Nicodemo, arcivescovo di Bari. Il mio primo campo di azione pastorale fu Mola di Bari presso la Chiesa Matrice dove allora era guida sicura mons. Francesco Bitetto, molto preparato dal punto di vista spirituale e culturale. Con mons. Bitetto sono stato sette anni e da lui ho molto imparato. Dopo Mola di Bari l’arcivescovo Nicodemo mi inviò come vice parroco alla parrocchia Immacolata di Lourdes in Gioia del Colle, guidata in quel tempo dal parroco don Giovanni Ingravallo, altro sacerdote molto esemplare. Dopo nemmeno due anni mi venne fatta la proposta di diventare parroco presso la parrocchia S. Vito in Palo del Colle e qui sono stato per vent’anni; non c’era ancora la norma che prescriveva la permanenza in una parrocchia per nove anni. Ho continuato a collaborare con la parrocchia S. Vito anche quando il parroco non ero più io ma don Rocco Di Ciaula di Modugno, nominato parroco dopo di me: celebravo una messa nel territorio parrocchiale in zona Madonna della Stella. In seguito sono stato per molti anni cappellano dell’Ospedale civile di Grumo. Attualmente sono cappellano della Casa di Riposo per gli Anziani a Palo del Colle. Sono stato padre spirituale della Confraternita di S. Rocco, sempre a Palo. Mons. Magrassi mi nominò vice cancelliere arcivescovile della Curia di Bari-Bitonto, incarico che conservo attualmente.

Tutto sommato l’iniziativa presa a suo tempo perché a Palo si desse l’avvio per un giornale locale fu qualcosa di utile e i fatti lo hanno confermato: nessun giornale locale ha raggiunto la vetusta età di quarant’anni di vita. 61


Sullo scaffale a cura di Anna Asimi V. Andreoli, La vita digitale, Rizzoli, Milano 2007, pp. 220, € 10,00 «Il comportamento dell’uomo è la sintesi tra la propria biologia (la macchina) e l’ambiente in cui si trova ad operare. L’esistenza di ciascuno è dunque il risultato dell’incontro del proprio Io con le condizioni in cui vive, legata alle cose e alle persone con cui si stabiliscono legami o anche soltanto rapporti fugaci. Questa affermazione permette di tratteggiare uomini nuovi in ambienti nuovi. Esistenze nuove rispetto al passato, poiché è cambiato l’ambiente in cui l’uomo si è posto». Da qui parte l’Autore per affermare come la tecnologia cambia la vita dell’uomo e presentare un excursus delle invenzioni che hanno “sconvolto” la vita dell’uomo – il bastone, la ruota, l’orologio, la penna, l’automobile – fino ad arrivare al telefonino e alla “digitalizzazione” della vita umana: ormai la funzione principale dell’uomo è muovere, quanto più rapidamente possibile, i polpastrelli delle dita su una tastiera sempre più piccola. In una seconda tappa descrive l’uomo e il suo insaziabile bisogno dell’altro, di appartenenza, di legami; ma anche un uomo fragile, incostante, che consuma e spreca sentimenti. In questa cornice di vita umana si inserisce la vita digitale. E qui Andreoli entra nel vivo del tema che si è proposto di trattare: la relazione uomotelefonino. Sì, perché si tratta di una vera e propria relazione; uomo e telefonino sono, quindi, due soggetti che comunicano, e, se è così, è meglio che si conoscano, dunque l’uomo viene spiegato al telefonino e il telefonino all’uomo. Quale immagine di uomo viene fuori? Un uomo che ama parlare e farsi sentire; un uomo insoddisfatto; un uomo che vorrebbe essere diverso e avere qualcosa in più; un uomo che non si capisce bene; un uomo di superficie, la superficie del suo corpo e della sua bellezza; un uomo che 62

mostra tutta la sua stupidità, che «non è propriamente un difetto. Sarebbe meglio chiamarla superficialità del pensiero, che non esclude una profondità, lasciata al mistero e all’ignoto. [...] La stupidità è ormai una modalità di vedere il mondo in superficie, di fare le cose senza pensarci troppo»; un uomo doppio, diviso: è in rapporto alle circostanze; un uomo infantile; un uomo anfotero: è attratto da tutti, uomini e donne; un uomo che si porta dentro il dramma del tempo che scorre inesorabile; un uomo che ha smarrito il senso di colpa; un uomo vuoto, che ha il bisogno, l’impulso, la compulsione ad agire, a fare, a non fermarsi, a sentirsi vivo... per non scoprire che è morto. Quale immagine di telefonino? «Il telefonino è il personaggio della digital life, lo strumento per un’esistenza digitale centrata non sulla parola, non sulle labbra, ma sui polpastrelli delle dita». E attraverso le operazioni e gli accessori del telefonino e l’utilizzazione che ne fa l’uomo tratteggia ancora l’uomo. Un uomo frammentato. Un uomo incapace di pensiero, di sintesi, di astrazione. Un uomo incapace di silenzio. Dopo la presentazione dell’uomo al telefonino e viceversa l’Autore procede con un’analisi delle tipologie di relazione che si stabiliscono tra i due dividendole in tre gruppi: generali (minimalista, maniacale, strategica, intrusiva, ecc.), di genere (maschile e femminile), d’età. Infine, passa a considerare le malattie della relazione uomo-telefonino: l’autismo digitale, la mente digitale, il telefonino come oggetto di culto. La vita digitale non è un testo pessimistico, è un’analisi chiara, lucida e puntuale dell’uomo di oggi e dell’uomo in relazione al telefonino, fatta da un uomo appassionato dell’uomo, che si interroga sull’uomo, che ne loda la grandezza, ne constata la miseria, ne tocca il dolore. E all’uomo urla che la tecnologia è creatura dell’uomo, ma l’uomo non è creatura dell’uomo. E su questo vale la pena interrogarsi, ancora.


Sullo scaffale

a cura di Anna Asimi

G. Ostinelli, Motivazione e comportamento. Le variabili psicologiche necessarie per raggiungere obiettivi, Erickson, Gardolo (TN) 2005, pp. 340, € 19,80 Cosa ci spinge la mattina ad alzarci e a raggiungere il posto di lavoro o la scuola? Perché compiamo alcune scelte e non altre? Donde nasce il desiderio di esplorare aree sconosciute, di rapportarci a persone nuove? Come mai siamo attratti da alcune situazioni mentre evitiamo o rifuggiamo altre? Domande, tutte, sulla motivazione che soggiace alla base dell’essere e dell’agire dell’uomo; domande che da sempre l’essere umano si pone: dai filosofi greci ad Agostino, da Descartes e Spinoza a Bentham e Stuart Mill a Kant fino a Wundt, con cui lo studio della motivazione abbandona la filosofia e diventa uno degli argomenti portanti della psicologia. Il testo di Ostinelli offre una panoramica completa delle più importanti teorie della motivazione del Novecento. Il volume nasce da un’osservazione: oggi aziende, scuole, società sportive, organizzazioni sono preoccupate della motivazione ideale dei soggetti che le “popolano”, dunque si fanno promotrici di corsi, meeting, consulenze atti a provocare, rinforzare, sostenere la motivazione; intenzione nobilissima e positiva, ma bisogna constatare che spesso gli interventi sono fragili e inadeguati a mantenere un risultato a lungo termine, soprattutto perché si ignorano o si conoscono solo molto superficialmente gli studi prodotti su tale argomento per tutto il Novecento. Di qui la necessità di proporre un testo che presenti tali studi in maniera chiara e comprensibile anche per coloro che non sono specialisti del settore, ma mantenendo un’impostazione rigorosa. L’Autore divide il suo lavoro in otto capitoli: Gli inizi; Il paradigma comportamentista; Bisogni, mente e individuo; Modelli di tipo tematico e motivazione alla riuscita; La motivazione da un punto di vista cognitivista; L’uomo al centro; Una visione

sistemica della motivazione; Motivazione e lavoro. Ogni capitolo propone un quadro dell’argomento trattato, uno sviluppo dello stesso, strumenti d’indagine che il lettore può utilizzare per analizzare e migliorare la motivazione. Infine le Conclusioni, in cui si fa il punto su dove è giunta la ricerca in tema di motivazione e vengono presi in considerazione anche gli studi più recenti, fermo restando l’assunto che la ricerca non ha mai punti di arrivi, ma tappe da cui partire e ripartire per costruire altre teorie motivazionali.

Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto. Con un Messaggio di Benedetto XVI, Cantagalli, Siena 2010, pp. 236, € 15,50 «La questione di Dio è centrale anche per la nostra epoca, nella quale spesso si tende a ridurre l’uomo ad una sola dimensione, quella “orizzontale”, ritenendo irrilevante per la sua vita l’apertura al Trascendente. La relazione con Dio, invece, è essenziale per il cammino dell’umanità e [...] la Chiesa e ogni cristiano hanno proprio il compito di rendere Dio presente in questo mondo, di cercare di aprire agli uomini l’accesso a Dio». Parole di Benedetto XVI in occasione del Convegno Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto, svoltosi a Roma dal 10 al 12 dicembre 2009. Il libro raccoglie le relazioni presentate e le articola in quattro parti corrispondenti alle quattro sessioni plenarie del Convegno: Il Dio della fede e della filosofia; Il Dio della cultura e della bellezza; Dio e le religioni; Dio e le scienze. In apertura il Messaggio di Benedetto XVI e il Saluto del cardinale Angelo Bagnasco; in chiusura le Conclusioni al Convegno stilate da mons. Rino Fisichella.

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Giunti in redazione C. De Grandis, Francais facíle. Corso di francese essenziale, Erickson, Gardolo (TN) 2005, pp. 385, € 23,50 Un corso base di francese indirizzato agli allievi della Secondaria di Primo Grado. Strutturato come un percorso porta il ragazzo, attraverso il metodo dello storytelling, ad una consapevolezza essenziale della lingua francese. Il volume è corredato di CD audio. F. Lasaracina e D. Lunel, Hallo Deutsch! Corso di tedesco essenziale, Erickson, Gardolo (TN) 2008, pp. 335, € 24,50 Destinatari del volume sono i ragazzi della Secondaria di Primo Grado. I principi pedagogici dell’opera sono la centralità dell’alunno e il suo ruolo attivo nella costruzione del proprio sapere. Al volume è allegato un CD audio. E. Scala e L. Losi, Simple English. Corso di inglese essenziale, Erickson, Gardolo (TN) 1998, pp. 347, € 24,90 Il volume è rivolto ai ragazzi della Secondaria di Primo Grado e a quelli del biennio della Secondaria di Secondo Grado. Fornisce le nozioni base della lingua inglese e le presenta in modo graduato. Parte integrante del volume è un CD audio. E. Scala, Simple English Practice. Attività per consolidare l’inglese essenziale, Erickson, Gardolo (TN) 2004, pp. 289, € 20,00 Il volume integra e approfondisce alcuni aspetti del testo Simple English della stessa autrice, ma può esse-

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a cura di Anna Asimi

re considerato anche come sussidio a se stante da utilizzarsi per le attività di recupero o con i ragazzi che presentano difficoltà di apprendimento. E. Scala, Simple English Culture. Unità di apprendimento sulla civiltà anglofona, Erickson, Gardolo (TN) 2005, pp. 304, € 19,50 Il testo propone brani ed esercizi sulla civiltà di sei paesi anglofoni (Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti d’America, Australia, Canada, Nuova Zelanda). Di ogni paese si presentano la posizione geografica, le caratteristiche fisiche, le città più importanti e varie curiosità. E’ rivolto a ragazzi con qualunque livello di competenza linguistica, anche a quelli con difficoltà. C. Cornoldi e B. Caponi, Memoria e metacognizione. Attività didattiche per imparare a ricordare, 2ª ed., Erickson, Gardolo (TN) 1993, pp. 231, € 21,50 Il volume presenta un programma per la promozione di conoscenze metacognitive relative alla memoria. E’ diviso in due parti. La prima mira a sviluppare nel bambino una riflessione sul funzionamento della memoria propria e altrui; la seconda propone riflessioni più articolate su specifici processi di memoria. R. Dynes, Il laboratorio della memoria. Cento giochi per stimolare strategie a breve e lungo termine, Erickson, Gardolo (TN) 2002, pp. 155, € 19,50 Il volume propone più di cento giochi che stimolano le capacità mnemoniche. Si tratta di giochi semplici, che possono essere utilizzati da persone di tutte le età e con obiettivi diversi.


Efrem il Siro Sulla risurrezione Inno II (Tratto da Efrem il Siro, Inni pasquali. Sugli azzimi. Sulla crocifissione. Sulla risurrezione, Introduzione, traduzione e note di Ignazio De Francesco, Letture cristiane del primo millennio 31, Milano, Ed. Paoline, 2001, pp. 342-349 ) a cura di Anna Asimi 1. Un cocchio fu per me la tua Legge che [mi] rivelò il paradiso. E la chiave fu per me la tua croce: fu essa ad aprire il paradiso. Dal giardino di delizie portai, raccolsi e recai dal paradiso rose e fiori eloquenti. Eccoli sparsi durante la tua festa, negli inni, sull’umanità. Benedetto Colui che incorona e fu coronato! 2. Ecco la festa gioiosa che è tutta bocche e lingue. Donne e uomini casti furono in essa come trombe e corni. Bambine e bambini furono in essa come arpe e cetre. Si intrecciarono le voci nelle voci, salirono e giunsero tutte al cielo, diedero gloria al Signore della gloria. Benedetto Colui nel quale i muti hanno tuonato! 3. Ecco, tuonò la terra dal basso e il cielo dall’alto tuonò. Nisan mescolò voci nelle voci, terrestri e celesti. Si mescolarono le voci della santa Chiesa ai tuoni della divinità, e nei bagliori delle lampade il balenare dei lampi è mescolato; alla pioggia le lacrime della passione, e al pascolo il digiuno pasquale.

4. Nell’arca risuonarono similmente tutte le voci da tutte le bocche. Fuori da essa flutti terribili, e dentro di essa voci deliziose. Le lingue, a due a due, modulavano in essa insieme, in purezza, tipo di questa nostra festa ove uomini e donne vergini hanno cantato, in santità, «gloria» al Signore dell’arca. 5. In questa festa ove ciascuno presenta le proprie buone azioni come le sue offerte ho pena di me, Rabbuli, nel vedere quanto poveramente io stia. E’ umettato dalla tua rugiada il mio spirito, per lui è stato un secondo Nisan. I suoi fiori sono stati per me offerte: ecco, corone intrecciate a corone e poste alla porta delle orecchie. Benedetta la nube che mi ha asperso! 6. Chi mai ha visto fiori colti dai libri come dai monti, dai quali le donne caste hanno colmato i grembi spaziosi del loro spirito? Ecco, la voce è come il sole: sulle folle ha sparso fiori. Sono fiori santi: accoglieteli con i vostri sensi come il nostro Signore [accolse] l’unguento di Maria. Benedetto Colui che fu coronato dalle sue ancelle! 65


7. Fiori magnifici ed eloquenti sparsero i bambini davanti al Re. Un puledro ne fu coronato; la strada ne era piena. Sparsero lodi come fiori e inni come gigli. Anche ora, durante la festa, una folla di bambini ha sparso per te, o Signore, alleluia come fiori. Benedetto Colui che è lodato nei fanciulli! 8. Ecco, il nostro udito, come un’insenatura, è riempito dalle voci dei bimbi. E sono pieni i grembi delle nostre orecchie, o Signore, degli inni delle donne caste. Ciascuno raduni tutti i fiori e vi aggiunga i propri, i fiori cresciuti nella sua terra, affinché in questa grande festa una grande corona intrecciamo per lui. Benedetto Colui che ci ha convocati alla sua ghirlanda! 9. Il grande pastore vi intrecci come suoi fiori le sue interpretazioni, i presbiteri le loro buone opere, i diaconi le loro letture, i giovani i loro alleluia, i bimbi i loro salmi, le donne caste i loro inni, i principi le loro gesta, i semplici [fedeli] la loro condotta. Benedetto Colui che ha moltiplicato per noi le buone opere! 10. Invitiamo e convochiamo gli illustri: i martiri, gli apostoli e i profeti, i cui fiori sono come loro: splendenti sono i loro fiori e ricche sono le loro rose, dolce il profumo dei loro gigli. Nel giardino di delizie li raccolgono e fanno giungere la bellezza dei

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fiori alla incoronazione della nostra bella festa. A te la gloria dai beati! 11. Le corone dei re sono immiserite di fronte alla ricchezza della tua corona poiché è intrecciata in essa la purezza, splende in essa la fede, brilla in essa l’umiltà, è intessuta in essa la santità, splende in essa un grande amore. O Re grande dei fiori, ecco, è perfetta la bellezza della tua corona. Benedetto Colui che ci ha dato di intrecciarla! 12. Accetta, nostro Re, la nostra offerta e dacci in cambio la salvezza. Pacifica le terre devastate, edifica le chiese incendiate affinché, quando vi sarà pace grande, una gran corona possiamo intrecciarti di fiori e ghirlande provenienti da ogni parte, perché sia incoronato il Signore della pace. Benedetto Colui che agì e che può agire!


In quarta di copertina

Andy Warhol Christ $9.98, 1985-1986 * di Grazia Ricciardi Dopo gli studi al Carnegie Institute of Technology, Andy Warhol (al secolo Andrew Warhola, Pittsburgh, Pennsylvania 1930 – New York 1987) lavora per tutti gli anni Cinquanta come grafico pubblicitario a New York. All’inizio degli anni Sessanta egli inizia a riprodurre, in maniera ripetitiva, la realtà del suo ambiente: dagli alimenti in scatola come le minestre Campbell’s alle lattine della Coca Cola, dai volti delle star del cinema (Marilyn Monroe, Elvis Presley, Liz Taylor) nelle loro fotografie più note ai personaggi dei fumetti, tutte immagini già ampiamente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa e massicciamente fruite dalla collettività. Il lavoro di Warhol, esposto nei più grandi musei americani ed europei, viene solitamente collegato alla Pop Art nella sua linea di social criticism, di critica alla società dei consumi, degli hamburger, delle auto, dei fumetti, di riflessione sulla condizione e sulle contraddizioni dell’uomo contemporaneo. In questo senso, egli è il primo a scoprire nell’oggetto banale e quotidiano impensati poteri comunicativi ed a vedervi in nuce l’opera d’arte senza intervento alcuno da parte dell’artista se non una spiazzante decontestualizzazione, caratterizzandosi per il suo linguaggio privo di emozioni e di stile personale. L’artista ripropone immagini visibili a tutti per sottrarle all’invisibilità, poiché tutto ciò che viene sovraesposto rischia di sfuggire alla percezione consapevole per sprofondare facilmente nell’anonimato, cadendo nel flusso continuo del “bombardamento iconico” dei mass-media. Ironicamente, l’oggetto-merce viene così “sacralizzato”: ritraendo in maniera ossessiva le icone del mondo dello spettacolo, della scena politica mondiale e dei consumi in modo seriale e meccanico, Warhol si allontana dall’atteggiamento individualistico degli artisti

dell’espressionismo astratto, dei dadaisti e dell’action painting, che rispolveravano l’idea romantica dell’artista-demiurgo. Dal 1962 in poi egli comincia a serigrafare su tela immagini (per lo più fotografie) prese dai mass-media, ritraendo “ciò che si vede ogni giorno”, in particolare tutto ciò che diventa oggetto di “devozione” collettiva e proprio in quest’ottica vanno lette le sue rappresentazioni di personaggi famosi come Marlon Brando, Jackie Kennedy, Mao Tse-tung, Liz Taylor e Marilyn, tutti riprodotti più volte ed in più versioni, con interesse quasi ossessivo, a colori, in bianco e nero, con il metodo del riporto fotografico, ottenendo tra le varie versioni differenziazioni spesso minimali e solo cromatiche, nell’intenzione del massimo appiattimento dei tratti identificativi. Non tutti conoscono il lato spirituale dell’artista, la sua religiosità cattolica, nascosta a tutti tranne che ai familiari e amici intimi. Egli, infatti, frequentava la chiesa, pregava a casa insieme a sua madre e accanto al letto aveva un libro di preghiere. La sua religiosità, però, non era solo un fatto personale ma si è riflessa sulla sua opera. Un paio d’anni prima della morte, Warhol realizzerà, con la tecnica della serigrafia e acrilico su tela, il suo Christ $9.98 (negative and positive), mentre gli U.S.A. erano nel bel mezzo della Guerra Fredda. In questo contesto emergono tre temi nel dipinto: guerra, morte e religione. L’artista era sensibile all’iconografia religiosa, ma nel dittico in questione l’uso del negativo/positivo può essere letto come un’eco del conflitto nell’ambito della Guerra Fredda. Gli anni ‘80, fino alla morte, furono caratterizzati dall’insistenza di Warhol su L’ultima cena di Leonardo, riletta in maniera modernissima sul piano dell’arte, ma soprattutto colta nei suoi valori religiosi.

* Serigrafia e acrilici su tela, 50.80 x 40.60, National Gallery of Scotland, Edimburgo 67



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