Paolo Bartolini - La rivolta che non c'è

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La rivolta che non c’è. Ragioni e passioni per una resistenza creativa al tecno-capitalismo

di Paolo Bartolini

Il nostro è un tempo di paradossi: il precipitare delle crisi innescate dall’insostenibilità del capitalismo spettacolare integrato dovrebbe sollecitare azioni riparative di vasta portata nel breve periodo. L’emergenza climatica, il dissesto ambientale, la tragedia dei migranti e gli effetti rovinosi delle politiche di austerity sulle condizioni di vita di moltissime persone, sono convulsioni che scuotono il corpo febbricitante dell’Occidente denunciando la fine delle vecchie egemonie. Tali questioni offrirebbero seri motivi per rilanciare, senza ulteriori rinvii, un impegno politico collettivo che funga da antidoto contro le derive dell’indifferenza e del nichilismo compiuto. Ma – lo dicono da tempo i commentatori più lucidi del presente – l’intreccio di tali eventi macroscopici raramente produce delle risposte degne di rilievo. I ceti subalterni, che avrebbero tutte le ragioni per insorgere mettendo in discussione l’attuale assetto dei rapporti di potere, sembrano ipnotizzati, svuotati e impotenti. Il fenomeno francese della Nuit Debout è un primo segnale in controtendenza, positivo nel suo emergere, ma pur sempre aurorale. Il paradosso cui facevamo cenno è, dunque, quello di un’epoca estrema (si parla, per noi occidentali, dell’imminente “fine di un mondo”) che non può affatto contare su dei soggetti capaci di agire in modo sensato e liberante perché, a monte, manca un’analisi accurata delle situazioni concrete in cui le dinamiche di dominio del sistema tecno-capitalista 1 si riproducono ed articolano. Dovremmo forse metterci a studiare proprio mentre l’imbarcazione nella quale siamo stipati sembra dirigersi, a folle velocità, verso un naufragio certo? La risposta (anch’essa paradossale, ce ne rendiamo conto) è decisamente affermativa, purché sia chiaro: i saperi di cui necessitiamo per orientarci nel mare grosso che ci avvolge sono saperi pratici, maturati nel confronto con i contesti di vita quotidiani, con gli “oggetti culturali attivi” 2 che determinano la nostra fragile presenza al mondo alle soglie del terzo millennio. Nessuna passione per una teoria fine a se stessa, dunque, quanto piuttosto la consapevolezza che non si dia alcuna resistenza creativa al capitalismo senza aver colto le caratteristiche dell’ambiente naturale/culturale che ci plasma e con il quale co-evolviamo nel nostro divenire storico. Questo ambiente, piaccia o meno, è il capitalismo stesso, inteso qui non solo come insieme dei rapporti di produzione prevalenti in una data cultura, ma come motore simbolico dell’immaginario collettivo, ideologia che infiltra potentemente ogni sfera della vita associata e ogni piega della psiche individuale. Il nostro mondo, di fatto, coincide oggi 1 2

Cfr. L. Demichelis, La religione tecno-capitalista. Suddividere, connettere, competere, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Questa locuzione è stata impiegata in più circostanze dall’etnopsichiatra Piero Coppo.

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con la “civiltà dell’accumulazione economica”. 3 Il passaggio, anticipato a suo tempo da Marx, dalla sussunzione formale a quella reale, serve a ricordarci che il capitale ha ormai assorbito la vita umana nelle sue diverse dimensioni, riducendo al minimo la percezione di “altri mondi possibili”, di alternative reali al culto del denaro, del consumo e dell’innovazione tecnologica. Perché non ci si ribelli, perché la rivolta democratica stenti a contagiare larghe fasce della popolazione, sono domande vitali che si pongono da alcuni lustri gli intellettuali non conformi e gli attivisti dei movimenti. Una risposta a questo interrogativo va pur data, pena il moltiplicarsi di lamentazioni sulle sorti del mondo prive di un reale spessore critico. Lo sbilanciamento evidente dei rapporti di forza, sempre utile per spiegare i fallimenti nel processo di democratizzazione della società richiede – a nostro avviso – un esame attento dei vettori che, negli ultimi trent’anni, stanno direzionando un inedito mutamento antropologico. A questo esame dedicheremo le righe che seguono, chiarendo fin d’ora “da dove veniamo” ovvero da quale angolazione abbiamo deciso di guardare al problema. Lo sguardo che ci contraddistingue origina da discipline diverse e complementari, su tutte la filosofia, l’antropologia, l’epistemologia e le psicologie del profondo. Nonostante l’inevitabile parzialità delle nostre chiavi di lettura, coltiviamo una piccola ambizione: evitare le secche della semplificazione e del riduzionismo per approdare a una lettura delle dinamiche attuali che mantenga una sua “coerenza complessa”.

Ibridi e passioni tristi La prima riflessione riguarda l’indebolimento della capacità di agire di milioni di individui, nonché il senso di fatica e di impotenza che li avvince privandoli del coraggio e del desiderio necessari per trasformare l’esistente. L’impressione è quella di assistere, su larga scala, a un drastico impoverimento delle qualità umane più importanti (fiducia, dedizione, altruismo, spirito critico, creatività, non-conformismo, passione, senso della giustizia, temperanza), rimpiazzate da poche caratteristiche funzionali alla riproduzione del sistema: competitività, egoismo, insoddisfazione cronica, frenesia, opportunismo, durezza, utilitarismo. Siamo dinnanzi, insomma, a uno scadimento complessivo delle energie fisiche e morali di una parte dell’umanità, e al ripiegamento del soggetto contemporaneo sul proprio utile, misurato necessariamente attraverso i parametri ristretti dell’io. L’ampiezza e la trasversalità di questa epidemia, che travolge classi sociali differenti accomunate da un disagio esistenziale pervasivo e strisciante, non autorizza spiegazioni “classiche” giocate sul registro delle dicotomie concettuali proposte dall’economia politica negli ultimi due secoli: struttura/sovrastruttura, destra/sinistra, borghesi/proletari, riformismo/rivoluzionarismo. La deriva antidemocratica a cui assistiamo, e che sappiamo essere il frutto avvelenato del neoliberismo, può essere riconosciuta e forse arrestata solo interrogandoci sugli enti – umani e non umani – che co-creano il nostro mondo e sulle logiche (spesso antitetiche) 3

Ha coniato questa definizione il filosofo e psicoanalista Romano Màdera. Si veda, in particolare, il suo La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina, Milano, 2012.

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che guidano il loro modo di essere. Per illustrare questo tema centrale abbiamo scelto di avvalerci delle intuizioni di un antropologo francese, meglio noto al pubblico come sociologo della scienza, e di un filosofo psicoanalista argentino impegnato da sempre nel campo della critica sociale e della lotta politica. Stiamo parlando di Bruno Latour e di Miguel Benasayag. Al primo dobbiamo un concetto estremamente interessante, quello di “fatticcio”.4 Secondo Latour tutti i gruppi umani, di qualsiasi epoca e latitudine geografica, farebbero parte di collettivi ibridi ovvero di comunità culturali che includono umani e nonumani, entità visibili e invisibili, che cooperano, nonostante la presenza di profonde linee di tensione, al mantenimento di una presenza storica dotata di senso e coerenza. Oltre l’opposizione tra fatti e feticci, sanando la ferita prodotta dalla scissione moderna tra soggetti e oggetti, è possibile accedere a un pensiero critico adeguato alle sfide che abbiamo davanti. Scrive Piero Coppo: Il sociologo Bruno Latour ha […] aperto una via molto feconda mettendo in discussione la dicotomia sulla quale si fonda buona parte del pensiero occidentale e della scienza (almeno prima che lo scossone determinato dalla fisica quantistica ponesse al centro la questione della relazione e della prospettiva) tra soggetto e oggetto: uno attivo, l’altro passivo. […] Nel greco antico c’era una terza forma verbale, la media. Né attiva né passiva, prevedeva la reciprocità dell’azione tra il soggetto e il suo oggetto, nel senso che ambedue comunque fanno fare all’altro. Latour propone di riprendere quel modo di pensare (che chiama il pensiero dei fatticci) […] Anche se sembra a prima vista una questione molto astratta, in realtà si traduce nella proposta di un modo di vedere che consente nel concreto un guadagno di conoscenza.5

Adottare questa prospettiva permette di prendere consapevolezza della natura dei legami che costituiscono il nostro essere-al-mondo ai tempi del tecno-capitalismo. Superando gli estremi del realismo ingenuo e del costruttivismo radicale possiamo finalmente riconoscere quanto dipende direttamente dagli uomini e quanto sfugge al loro controllo esercitando su di essi un’influenza che mette in forma le loro abitudini e stili di vita. Seguiamo ancora Coppo prima di interrogarci sulle caratteristiche salienti dei vari modi di essere: Siamo quindi liberi o legati? Pensarci immersi in un mondo di oggetti, materiali e immateriali, con i quali siamo in una reciproca relazione di far-fare, ci consente di uscire da questa opposizione […] Certo, sto controllando (ma solo in parte!) le funzioni del computer che uso; ma altrettanto certamente il computer mi determina, mi impone una posizione, seleziona parti del mio corpo necessarie per una serie di azioni, e addirittura, purtroppo, insinua nel mio pensiero una logica binaria alla quale mi impone di abituarmi.6

Nel suo ultimo libro7 Miguel Benasayag, percorrendo altre traiettorie, si lancia in considerazioni affini pur di riuscire a comprendere a fondo i fenomeni della tecnologia 4

Cfr. B. Latour, Il culto moderno dei fatticci, Meltemi editore, Roma, 2015; P. Coppo, Le ragioni degli altri. Etnopsichiatria, etnopsicoterapie, Raffaello Cortina, Milano, 2013, pp. 43-52. 5 P. Coppo, op. cit. pp. 44-45. 6 Ivi, p. 46. 7 M. Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Erickson, Trento, 2016.

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digitale e della macroeconomia. L’autore discute circa l’esistenza di tre differenti modi di essere. Il primo è quello degli aggregati (oggetti inanimati, artefatti umani…): «un aggregato è il modo di essere che deve la sua unità al mantenimento delle sue parti estensive». 8 Un martello, un televisore, un’automobile sono artefatti la cui “identità” è determinata dalla presenza di componenti diverse assemblate tra loro. Se l’auto che abbiamo portato dal meccanico ci venisse restituita con un nuovo telaio, un altro motore e degli interni diversi non potremmo certo sostenere che quella è ancora “la nostra macchina”. Ciò che è importante, quando si parla di aggregati, è il fatto che il loro processo costitutivo implichi sempre e comunque la giustapposizione di parti separate, messe insieme secondo una logica bottom/up. Un artefatto, dunque, rimane incomprensibile se non viene pensato come aggregato di parti semplici. Altrimenti vanno le cose con il secondo modo di essere, quello degli organismi. [Mentre] per un aggregato (artefatto, pietra, automobile, ecc.), essere lo stesso, la stessità e l’identità, si basa sul fatto di poter custodire, conservare le sue parti estensive, al contrario, per un organismo, la stessità e l’identità potranno essere conservate solo a condizione di perdere le proprie parti e produrne altre. Questo costituisce una differenza di essenza molto importante fra oggetti tecnologici ed esseri viventi. […] Senza dubbio, però, vi è un’altra differenza fra gli organismi e gli aggregati […] Un organismo è al tempo stesso un modo di organizzazione della materia la cui propria unità interna include un infinito. Ciò significa che un organismo reca in sé un livello tale di complessità che contiene quel che chiamiamo «infinito intensivo», integrato e articolato. […] Quando guardo la mosca che sta davanti alla finestra nella stanza in cui scrivo, so che questa mosca, poiché è viva, possiede la «vita». Vale a dire che la vita si trova in ciascuna delle forme in cui si riattualizza e si trasmette.9

Gli organismi sono autopoietici, chiusi sul piano dell’organizzazione interna ma continuamente aperti per quanto riguarda lo scambio di energia, materia e informazione con l’esterno, sono sistemi dinamici capaci di riprodursi e di adattarsi creativamente all’ambiente instaurando con esso un “accoppiamento strutturale” che evolve nel tempo. Se nel caso degli aggregati possiamo parlare di una mera somma delle parti, dinnanzi a un organismo […] possiamo evocare il concetto filosofico di «singolarità»: una singolarità è in un certo modo il comune in atto. Vale a dire che qui il comune in senso filosofico è un «tutto», sostanza, materia, dinamica, mondo. Allo stesso modo, allora, possiamo dire che il comune è la singolarità in potenza. Vediamo che, secondo tale definizione, un organismo è una singolarità mentre un aggregato o un artefatto non lo è mai. Che qualcosa funzioni come singolarità vuol dire, fra le altre cose, che è il suo proprio fine, che è un tutto articolato ad altri tutti.10

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Ivi, p. 98. Ivi, pp. 99-100. 10 Ivi, p. 101. 9

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E così giungiamo finalmente al terzo modo di essere, quello dei “misti”: Un misto è qualcosa che funziona come un organismo, con un ordine interno e propri comportamenti caratteristici, il suo allontanamento dall’equilibrio, la sua cattura di parti estensive che esso trasforma, ma al tempo stesso non è un organismo perché non può riprodursi in maniera autonoma. Detto altrimenti, un organismo è autopoietico mentre un misto dipende dagli organismi che con esso si articolano per poter esistere.11

I misti che qui ci interessano sono degli ibridi che legano il proprio destino a quello degli esseri umani mediante cattura e partecipazione. Ognuno di noi, ad esempio, è catturato dalla propria lingua madre e ad essa partecipa “facendola parlare”, ma soprattutto ciascuno di noi viene catturato dalla tecnologia, dall’urbanesimo, dalla logica di mercato, dai sistemi religiosi, dagli apparati di potere, e li fa funzionare permettendo che si riproducano. Senza di noi – non dimentichiamolo mai – questi misti/ibridi non avrebbero le energie per continuare ad esistere e a moltiplicare i loro effetti. All’interfaccia tra gli umani e queste macrostrutture autoorganizzate troviamo tensioni potenti: «possiamo dire che dai due lati esiste una reciproca tendenza a colonizzarsi». 12 Tuttavia alcuni misti, in particolare il capitalismo e le tecnologie digitali, sono decisamente restii a una riforma radicale dei loro meccanismi. La tecnologia non è semplicemente una serie di utensili al servizio dell’essere umano, ma veramente una serie di potenze che si sviluppano in modo sufficientemente autonomo da poter dire che ha una coevoluzione con l’essere umano e l’insieme del vivente, per il momento senza che a sua volta si lasci scolpire dal biologico e dal culturale.13

Come spiegheremo in seguito, la pervasività delle logiche di accumulazione economica e quantitativa, penetrate nell’animo delle persone colonizzando le dimensioni più intime della personalità, tendono ad appiattire la vita organica (che è immersa in dinamiche di adattamento creative, imprevedibili e “stocastiche”) sul funzionamento elementare degli aggregati/artefatti. In altre parole, l’organismo, che si caratterizza per l’interazione continua e circolare tra processi bottom/up e top/down (pensiamo al rapporto non riduzionistico tra psiche e soma, tra gli aspetti fisico-chimici e quelli biologici-psicologici-spirituali della persona), una volta catturato nell’ingranaggio del misto/ibrido del tecno-capitalismo viene immaginato e considerato come un banale aggregato di parti (brutale sommatoria di bisogni, pulsioni e preferenze ricondotti a profili di consumo statisticamente rilevanti). Quale utilità, si starà chiedendo il lettore, può avere un’analisi siffatta per chi desidera fuoriuscire dal dominio impersonale della megamacchina che ci cattura il cuore, il corpo e la mente? Ebbene, un primo passo da fare sarebbe quello di comprendere che non si può “uscire” immediatamente da qualcosa che ci appartiene e alla quale apparteniamo. La forza del tecno-capitalismo è quella di convincerci che esistano solo due alternative: subire la realtà attuale e abbandonare qualsiasi pretesa di modificarla in profondità o sognare una soluzione globale che comporti la sconfitta planetaria del capitalismo 11

Ivi, p. 104. Ivi, p. 105. 13 Ivi, pp. 105-106. 12

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finanziario. Entrambe le “possibilità” ci condannano all’impotenza, alla passività e a un paradossale godimento masochistico.14 L’esodo dalla società di mercato e dai diktat della competizione generalizzata comincerà ad avere un senso solo quando prenderà la forma di un processo di riunificazione delle “parti” separate che ci compongono e che, come abbiamo visto, sono da sempre in relazione costitutiva. Sentirci e pensarci come “inter-essere” 15 invece di credere all’illusione che ci descrive come esseri separati, autosufficienti, che lotterebbero per conquistare le scarse risorse messe a disposizione da una Natura avara e matrigna. La ribellione al tecno-capitalismo e alla sua violenza non può, quindi, che esprimersi a partire da ciascun essere umano, richiedendo una svolta che è tanto etica quanto spirituale. Senza una nuova percezione “ecologica” del nostro essere-al-mondo sarà vana qualunque pretesa di sovvertire il presente per via politica. Solo comprendendo che siamo fatti dei nostri legami con il mondo, e accettando di riconoscere la qualità dei nessi attuali che ci tengono in vita, potremo ripensare il concetto stesso di “emancipazione”. Se in termini tanto economici quanto psicopatologici l’ingiunzione a essere se stessi è diventata la cifra che pervade la nostra società, per sottrarsi a questo imperativo è imprescindibile sobbarcarsi il lavoro, altrettanto faticoso, del partire da sé. Nella distanza tra l’ “essere se stessi” ed il “partire da sé” si gioca ben più di un artificio linguistico: è in ballo il modo di concepire il soggetto, le sue patologie e le conflittualità di cui è portatore. Partire da sé, in termini tanto terapeutici quanto politici, vuol dire acquisire consapevolezza del proprio posizionamento, del proprio essere situati. Parliamo di un sé non rinchiuso dentro la gabbia ideologica dell’identità, non l’individuo metafisico dell’egoismo capitalistico, ma una soggettività fatta di relazioni e di contaminazioni, di conflitti. Partire da sé, dunque, vuol dire capire cosa ci lega agli altri, cosa abbiamo in comune.16

Circoli viziosi Le strategie con le quali il misto/ibrido del tecno-capitalismo riesce ad asservire gli umani e a spegnere facilmente il loro desiderio di rivolta e di giustizia sono diverse. Possiamo riassumerle in due azioni concomitanti e convergenti: a) desocializzare i soggetti e renderli “individui” facilmente catturabili dalla rete del consumo, dello spettacolo e della produzione; b) piegare il molteplice all’Uno mediante una finta unificazione, che in realtà assembla vite separate e impedisce alla loro potenza di connettersi e agire.

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«Non si può mai lottare globalmente contro il capitalismo poiché la sua forza sta proprio nel fatto di non occupare una posizione centrale ma di essere in ogni situazione. L’interrogativo della nostra epoca è questo: che cosa significa giustizia sociale nelle nostre situazioni ? […] Sta a noi, nelle situazioni in cui siamo, trovare azioni che ci conducano all’universale. Le azioni che hanno la pretesa di superare l’azione ristretta ci condannano sempre all’impotenza o al totalitarismo. Non ci sono vie d’uscita. […] Azione ristretta non significa effetti ristretti. L’azione ristretta pretende di occuparsi dell’universale ma solo dell’universale che non sia un’illusione distruttrice, l’universale concreto», M. Benasayag, Contro il niente. ABC dell’impegno, Feltrinelli, 2005, p. 31. 15 Concetto ideato dal monaco zen vietnamita Thich Nhat Hanh. 16 S. Cavaleri, “La fatica di essere creativi”, in S. Cavaleri, C. Lo Piccolo, G. Ruvolo (a cura di), L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine, 2016, p. 52.

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In un volume ricco di intuizioni penetranti 17 Lelio Demichelis descrive questi processi di cattura sintetizzando in modo mirabile i nodi della questione: […] la religione tecno-capitalista sembra asociale e non prosociale, in realtà produce isolamento (asocialità apparente) perché cresca la totalizzazione dell’apparato e l’integrazione/identificazione nell’apparato (prosocialità di fatto, meglio: pro-apparato e la socializzazione di ciascuno nell’apparato), invocando incessantemente il mantra della condivisione. Perché questa asocialità apparente e questo egoismo/solipsismo […] produce in realtà grande utilità tecnica e capitalistica, un’altra forma, tutta economica e tecnica, di collaborazione […].18

Alcune pagine dopo l’autore rivela il nesso che stringe il godimento coatto promosso dalla società dello spettacolo all’organizzazione gerarchica delle relazioni umane riprodotta, ogni giorno, sul luogo di lavoro, nella rete e in quasi tutti i contesti della vita associata: Seduzione sociale per seduzione/attrazione sessuale. Personalizzazione e falsa individualizzazione, apparente moltiplicazione delle possibilità e insieme loro riduzione all’Uno del sistema e di ciò che il sistema permette di fare per far fare ciò che deve essere fatto. La macchina del desiderio e dell’erotismo lavora ininterrottamente per il tecno-capitalismo (è il tecnocapitalismo). […] Obiettivo del tecno-capitalismo: ricomporre ogni due e ogni pluralità e diversità nell’Uno totale e totalitario del gregge e della religione. Perché è vero che il tecno-capitalismo produce innovazione, alterazione, modificazione, moltiplicazione, eccitazione, caos e distruzione creatrice. Ma in realtà, più della moltiplicazione e dell’alterazione e perfino dell’innovazione prevale l’omologazione, l’unificazione delle differenze, la standardizzazione (che segue ad ogni innovazione distruttrice del precedente apparato) e soprattutto l’integrazione.19

Sedotti, abbandonati e incatenati da un biopotere che scinde e frammenta i nostri corpi per poi costringerci, in un secondo momento, ad accontentarci di un fittizio senso di unità e integrazione. Il tecno-capitalismo, insomma, crea il problema e offre la soluzione, attivando cicli di feedback simmetrici che rendono difficilissimo liberarci dalle nostre catene, proprio perché non possediamo le conoscenze e non attraversiamo le esperienze necessarie a riconoscerle come tali. La sovrastimolazione sensoriale e l’attivazione ripetuta dei circuiti cerebrali di “ricompensa” (deputati al rilascio di dopamina, neurotrasmettitore coinvolto nelle sensazioni piacevoli e in molte dipendenze patologiche) sono metodi assai efficaci per ricondurre il piacere al suo grado zero (basato sull’iterazione degli schemi fisiologici di stimolo-risposta), impedendo al desiderio di emergere e di produrre, sul piano personale e collettivo, trasformazioni della realtà che siano veramente liberatorie e soggettivanti. In altre parole, schiacciati come siamo sull’immediato del godimento consumistico (che esiste solo come maschera sul volto sfigurato di una frustrazione inevitabile e programmata) scordiamo che «il desiderio riguarda l’autoaffermazione dell’essere attraverso ciascuno di noi e non quella dell’individuo». 20

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L. Demichelis, op. cit. Ivi, pp. 69-70. 19 Ivi, pp. 87-88. 20 M. Benasayag, Contro il niente. ABC dell’impegno, cit. p. 60. 18

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Facendoci dimenticare che la vita ci attraversa e che il massimo della potenza umana si dà quando non coincidiamo con il nostro «io ripetitivamente e cronicamente desiderante»,21 il sistema di cattura del capitalismo spettacolare integrato indebolisce radicalmente i legami intersoggettivi e culturali che comunque ci fondano, obbligandoci a un movimento centripeto che riporta sempre, e senza sorprese, all’ego e al culto rassicurante “dell’io e del mio”. Alla domanda cruciale “come può il sistema puntualmente assorbire e neutralizzare ogni forma di critica e di ribellione?” Stefania Consigliere e Simona Paravagna hanno potuto dunque rispondere: [Ciò accade mediante] l’articolazione efficace di due momenti: la conversione di ogni movimento in plusvalore e l’investitura ufficiale di ciascuno a sovrano del proprio asservimento. […] L’ideologia […] dell’individuo che si autodetermina in completa libertà e sganciato da ogni legame, trionfa nel momento stesso in cui ogni strumento collettivo di indipendenza individuale (dal salario alle pensioni, dalla sanità gratuita allo spazio pubblico) viene depotenziato e in cui gli individui vengono immessi sul mercato alla stregua di monadi irrelate, flessibili e infinitamente sostituibili. L’autismo è eletto a paradigma dell’individuo – come se il fatto stesso di essere soggetti non comportasse l’essere ontologicamente in relazione con altro […] Questa atomizzazione degli individui sarebbe intollerabile, letale per la stessa sopravvivenza, se non ne venisse continuamente estratto un plusvalore che rifluisce in parte, sotto forma di autoaffermazione – professionale, sessuale, intellettuale e morale: in ogni caso sempre separata – verso gli stessi atomi sociali. Il principio di funzionamento è quello dei videogiochi o della tossicodipendenza: a una parte separata dell’individuo frammentato in funzioni fisiologiche autonome (i lobi frontali, gli organi sessuali, la funzione stimolo-risposta) viene assegnato un godimento spasmodico e facilmente ripetibile, che nella sua intensità meccanica fa perdere di vista l’intero e la sua potenza. 22

Assistiamo così, sul piano psicosociale, a due avvenimenti guidati da una medesima logica di controllo, tutta interna ai criteri di razionalità strumentale adottati dal capitalismo e dalla tecnoscienza ad esso associata. Da un lato il senso di precarietà ed estraneità crescente, la concorrenza continua e la paura della solitudine fanno sì che i soggetti accettino una ricomposizione al ribasso effettuata all’interno della rete del consumo e dei social networks presenti in Internet (raggruppamenti virtuali di atomi/individui alle prese con l’obbligo snervante di “apparire per esistere”); 23 dall’altro, sul versante psichico, la percezione di un’insicurezza pervasiva e l’angoscia per la natura labile e insoddisfacente 21

R. Màdera, op. cit. p. 260. S. Consigliere, S. Paravagna, “Da dentro: relazioni con il possibile”, in P. Coppo. S. Consigliere, S. Paravagna, Il disagio dell’inciviltà. Forme contemporanee del dominio, Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 2008. 23 «L’esperienza clinica mostra che il fatto concreto di “essere solo” non rimanda necessariamente a una separazione. Questa si fonda su una rottura con ciò che ci fonda. Una persona può essere fisicamente sola rimanendo al contempo pienamente in relazione, come un artigiano, un artista, uno che legge con passione o che ascolta la musica, tutti solitari e tuttavia in relazione. Il legame implica il contatto con gli strati profondi che strutturano il nostro essere come quello degli altri.. Al contrario, la ricerca di intersoggettività a ogni costo ci fa stare per la maggior parte del tempo in una condizione di “separazione condivisa”. Con l’ossessione di superare la solitudine senza porsi la questione della separazione, i nostri contemporanei rimangono abbagliati dalle possibilità di contatto attraverso Internet e i social network. Certo si formano perfino delle coppie in questo modo. Ma finché dura la separazione da se stessi, l’intersoggettività non fa che riunire dei separati in quanto separati.», M. Bensayag, Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 15. 22

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dei legami reali, porta il soggetto a identificarsi senza scarto con l’io, che nell’ordine della psiche è solo un complesso, certo importante ma in nessun modo coincidente con l’Intero. L’ipertrofia dell’ego descrive la tendenza delle parti e dei singoli a scambiarsi per il Tutto, coerentemente, d’altronde, con le esigenze di autovalorizzazione dettate dal tecno-capitalismo e dalla corrispondente imprenditorializzazione della vita. Solo cogliendo la doppia articolazione del meccanismo che stiamo illustrando è possibile capire l’inseparabilità – teorizzata a suo tempo da Michel Foucault – tra la dimensione macro-sociale (istituzioni politiche, sistemi sociali ed economici, governamentalità, ecc.) e quella del microcosmo della personalità umana (emozioni, immagini di sé, funzioni cognitive, desideri inconsci, equilibri dinamici tra complessi psichici diversi). Quanto scritto finora rende risibili le pretese rivoluzionarie di chi pensa di poter “capovolgere il sistema” rimanendo sul piano – largamente precluso – dello scontro politico. Senza minimizzare l’importanza della politica parlamentare e delle battaglie che si giocano a livello nazionale e transnazionale, dobbiamo chiederci che tipo di azione trasformativa collettiva possa svilupparsi nelle concrete situazioni di vita dei cittadini. Quest’ultimi, infatti, sono finiti nella trappola della società dello spettacolo a causa di un altro circolo vizioso che contraddistingue l’odierna fase neoliberista del capitalismo. Le politiche di privatizzazione dei beni comuni, la colonizzazione dell’immaginario sociale resa possibile dalla pubblicità e dalle tecniche di obsolescenza programmata dei beni di consumo, la distruzione dei luoghi di incontro necessari per la socializzazione, generano risposte paradossali che replicano perfettamente la logica intrinseca degli odierni poteri separativi (mercato capitalistico, sistema dei mass media mainstream, “tecnologiezucchero” votate all’istupidimento di massa mediante i meccanismi tossici delle dipendenze patologiche): […] alla base dell’estrema bulimia del consumo […] c’è la crescente povertà relazionale. Una società che produce gente sempre più sola e più disponibile a considerare il comprare come la soluzione ai problemi, tende a vivere sistematicamente al di sopra delle proprie possibilità qualora le condizioni del mercato del credito glielo consentano.24

E quando ciò non è più possibile, come accaduto dopo l’ultima crisi finanziaria globale del 2007, si impongono ricette drastiche di austerity in trepidante attesa della nuova e annunciata “ripresa”. Al posto di una moltitudine democratica e partecipe troviamo quindi, nella nostra epoca oscura, il dominio incontrastato del Denaro, della Tecnica e della Paura. Funzionali a questo dominio sono tutte le tendenze culturali del nostro tempo che spingono verso: 

una semplificazione permanente e forzata della complessità organica, psicologica e sociale;

la svalutazione delle qualità umane e una loro riduzione al principio unico di Quantità (da qui discendono tanto il mito dell’efficienza quanto la possibilità di

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S. Bartolini, Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli, Roma, 2010, p. 39.

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ridurre la forza lavoro e le capacità soggettive dei lavoratori a “valore” e “capitale umano”); 

una deterritorializzazione permanente che si traduce nella crisi trasversale dei quadri di identità, moltiplicando sofferenze psichiche e crisi esistenziali;

un impoverimento delle relazioni umane autentiche, cioè quelle che impegnano il nostro corpo nella sua interezza e lo dispongono al contatto diretto con gli altri;

la diffusione capillare di artefatti tecnologici basati sulla sollecitazione continua di meccanismi di attenzione/distrazione piacevoli nel breve periodo, ma alla lunga pericolosi.25

Una rivoluzione culturale e spirituale che passa per la nostra “sensibilità” Siamo convinti che quanto discusso in precedenza descriva in modo sufficientemente preciso le coordinate del sortilegio tecno-capitalista che ci tiene avvinti. Ora è giunto, però, il momento di interrogare la natura umana come divenire storico reso possibile dalla presenza dei corpi ed esposto, per via della cultura e della plasticità cerebrale della Specie, al richiamo della spiritualità. La presa del sistema sulle nostre vite non sarebbe così profonda se non rispondesse, in modo dia-bolico (appunto “separativo”), all’angoscia primordiale che l’uomo nutre rispetto alla morte. Saperci finiti, ontologicamente limitati, espone alla seduzione del potere, alla tentazione di scaricare sugli altri il fardello del dolore, della miseria e, appunto, della morte. 26 A proposito il filosofo Roberto Mancini – che in quest’ultima parte del percorso sarà nostro prezioso compagno di viaggio – ha potuto affermare che: Il mito del capitalismo, una volta rappresentato graficamente, appare come un quadrilatero. […] Uomo egoista, natura avara, morte sovrana, divinità irraggiungibili: ecco il quadrilatero mitico che il capitalismo ha ereditato dalla tradizione dell’Occidente e che ha svolto a suo modo. La forma di vita possibile entro uno spazio simile è fatalmente sacrificale. […] Il mito fondatore non già direttamente del capitalismo, ma dell’antica mentalità occidentale rappresenta l’uomo come colui che deve sacrificare e sacrificarsi per sopravvivere e stabilire il suo dominio, per quanto può, su un ambiente che gli è ostile.27

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La virtualità promossa dalle tecnologie digitali di largo consumo genera un paradosso che ha risvolti antropologici enormi, difatti – come dimostrano a sufficienza i nostri simili ipnotizzati da uno schermo nel ben mezzo di una cena o di un’altra occasione conviviale – l’utilizzo ripetuto di un qualsiasi strumento multimediale induce nella persona assenza e alienazione rispetto al “qui ed ora” dei concreti contesti di vita proprio mentre le offre una illusoria sincronizzazione cerebrale con altre persone distanti nel tempo e nello spazio, ma “presenti” virtualmente. 26 Benasayag suggerisce che gli sviluppi inarrestabili della tecnoscienza, promettendo all’uomo una vita aumentata, esente da vecchiaia, menomazioni e sofferenza, ricoprano nel presente il ruolo salvifico che fu a lungo delle religioni. Il racconto dell’aldilà e la garanzia di una vita centenaria priva di difetti (biologici e/o psicologici) sarebbero dunque dei tentativi analoghi volti a eliminare lo scandalo della materia, del fatto inaggirabile di avere un corpo e di essere corpo tra i corpi. 27 R. Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 84-85.

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Il tecno-capitalismo, misto/ibrido con pretese assolutistiche non difformi dalle grandi religioni monoteistiche, è il sistema “perfetto” per estendere ovunque (quindi nelle molteplici situazioni concrete e non in un astratto spazio-tempo universale) la logica del sacrificio, dell’estrazione di valore, della violenza e dell’esclusione. Senza una svolta spirituale e culturale è impossibile pensare di sottrarci alla forza gravitazionale di un mito tanto radicato nelle nostre vite. È opportuno, tuttavia, dichiarare apertamente a cosa facciamo riferimento quando parliamo di “spiritualità”, con lo scopo di evitare fraintendimenti pericolosi, il più grande dei quali vedrebbe contrapposti la materia allo spirito, il corpo all’anima. A scanso di equivoci Mancini, parlando di “svolta spirituale”, aggiunge: Con questo aggettivo intendo non ciò che è contrario alla dimensione corporea e fisica, ma quello che riguarda la sensibilità per il valore e per il vero senso di ogni cosa, sensibilità culminante appunto nell’amore liberato dalla violenza, l’amore secondo il bene, irriducibile e vincente rispetto alla potenza del male.28

Riaprire i canali della nostra sensibilità, dunque, per poter trascendere la banalità di un male che si insinua in noi e fra di noi, reclamando la nostra adesione alle sue logiche distruttive e degradanti. La spiritualità nel tempo presente, oltre che laica e inclusiva, deve infatti conciliare l’elevazione e il distacco dai piaceri seriali con il rispetto per la nostra condizione terrestre, la lotta per la giustizia sociale e la difesa dei delicati equilibri della biosfera. Sarebbe allora un grave errore sottovalutare il ruolo emancipativo e trasformativo giocato dalle pratiche terapeutiche, dalla formazione integrale e dalla ricerca spirituale nel ripensamento dell’attuale e insostenibile modello di sviluppo. Questo perché: Bisogna […] tenere conto del fatto che l’essere umano prende forma come persona compiuta a poco a poco, tra mille ostacoli. Finché non raggiunge un certo grado di integrità, la scissione è la sua casa naturale. Scissione tra sentimenti, pensieri, parole e azioni. Scissione tra la dignità che incarniamo e il modo di vivere che ci troviamo a interpretare. Psicologia, psicanalisi e studi di spiritualità hanno approfondito questo auto equivoco ricorrente che consiste nel conformarci a una forma di vita che interiormente ci spezza senza avere la fiducia e il coraggio di cercare una forma più fedele e capace di respiro. Ci attacchiamo alla scissione, la consideriamo essenziale, ne facciamo la nostra dimora da proteggere e cerchiamo di arredarla nel modo migliore. […] Proprio per la facilità con cui siamo esposti all’individualismo, al settarismo, allo scandalo della delusione e alla potenza della scissione, chi trascura la trasformazione interiore e la cura di sé si pone in una posizione del tutto inadeguata rispetto alla sfida che deve affrontare.29

Ora finalmente possiamo tirare le fila del nostro discorso e avvicinarci alle conclusioni, per quanto inevitabilmente provvisorie. I soggetti che possono gettare sabbia negli ingranaggi della megamacchina tecno-capitalista sono quelli che avvertono visceralmente l’ingiustizia del sistema in cui vivono, e la sentono abitando le situazioni concrete di ogni giorno. Una fede/fiducia li guida, un vero e proprio “richiamo” che eccede la sfera dell’io. 28

R. Mancini, La rivolta delle risorse umane. Appunti di viaggio verso un’altra società, Pazzini Editore, Verucchio, fraz. Villa (RN), 2015, p. 115. 29 R. Mancini, Ripensare la sostenibilità. Le conseguenze economiche della democrazia, Franco Angeli, Milano, 2015, p. 110.

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Non c’è nulla di mistico in questo richiamo. Non si tratta di astrarsi dal rumore del mondo per essere in contatto con un puro immaginario. Il richiamo esiste solo nel mondo, nel canto delle sirene. Itaca esiste soltanto grazie al percorso di Ulisse. Ogni comprensione mistica che vorrebbe che il rumore del mondo cessasse per sentire meglio il richiamo è erronea. Gli uomini e le donne con progetti immensi sono soltanto caricature. Il richiamo esiste soltanto nelle singole situazioni e in modo infinitesimale.30

Difatti, Il capitalismo esiste e può essere combattuto soltanto nelle situazioni contingenti. L’inganno del pensiero astratto consiste nel credere che esista come livello autonomo. Prima di attaccare la globalità chiediamoci dove esiste. La resistenza deve avere di mira il processo. Il processo è l’insieme delle espressioni del neoliberismo nella vita concreta della società. La lotta conosce così un’infinità di luoghi di resistenza. Passa attraverso la difesa di ciò che si è ottenuto, attraverso lo sviluppo di una cultura della solidarietà secondo la quale l’uomo non può essere sfruttato, attraverso esperienze di solidarietà concreta come le economie solidali. Sposa tutte le forme di resistenza alla distruzione della vita.31

Per poter anche solo immaginare di mettere in rete, a livello internazionale, alternative durevoli e pratiche di resistenza al capitalismo, è necessario che prima si colgano le occasioni propizie per agire nelle situazioni di vita a cui possiamo prendere parte fisicamente. L’impegno politico, per essere determinante, deve muoversi, come ricordava sopra Salvatore Cavaleri, a “partire da sé” e dal proprio spazio comunitario. La comunità non è solo la famiglia, è la comunità sociale e civile del territorio: la città, il distretto, la regione. È la misura e lo spazio dove il raggio d’azione di ognuno è concreto, è l’ambito di convivenza in cui possiamo intervenire solidalmente. Non parlo della comunità intesa come setta, gruppo chiuso nell’egoismo di clan e nella funesta logica identitaria rappresentata dai partiti localisti e xenofobi. Parlo, al contrario, della comunità che è luogo concreto della fraternità e sororità universale, casa ospitale verso chiunque, soggetto collettivo di servizio all’umanità.32

L’universale concreto che si trova nelle situazioni specifiche, come la vita che negli organismi singolari esprime il comune in atto, definisce il campo reale di battaglia per chi ha deciso di rispondere al richiamo della Giustizia e non pretende, secondo il metro contabile dell’utilitarismo, che il successo delle proprie azioni sia garantito a priori. Infatti: […] il punto cruciale di tutte le imprese (siano conoscitive, esistenziali, estetiche, politiche) sta nel far esistere qualcosa che fino a questo momento e in quelle forme non si è mai dato; e nel correre, in ciò, il rischio del fallimento. Ne va sempre, inscindibilmente, e del mondo e del soggetto: far esistere significa infatti soddisfare ciò che è richiesto per esistere da ciò che si vuole far esistere. […] nel fare si è fatti; nel fare esistere un modo, si esiste secondo quel modo; nel liberare, si è liberati.33

Vogliamo infine concludere questa lunga riflessione con una citazione tratta da un libro fondamentale della filosofa e antropologa Stefania Consigliere. Che possa essere di 30

M. Benasayag, Contro il niente. ABC dell’impegno, cit. p. 155. Ivi, p. 97. 32 R. Mancini, La rivolta delle risorse umane, cit., p. 64. 33 S. Consigliere, Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano, Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 2014, p. 188. 31

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incoraggiamento per tutti coloro che, come noi, hanno avvertito “quel” richiamo e non sanno dove li porterà: […] qualsiasi cosa si riesca a depositare, per quanto piccola e anche se subito sconfitta, vale incomparabilmente più di una lunga lamentazione sulle sorti del mondo. […] Pensiamo dunque che oggi, per noi, sarebbe meglio abbandonare il paradigma neoliberista della concorrenza di tutti contro tutti e dell’imprenditorializzazione cinico-gaudente della vita? Ebbene, non c’è altro da fare se non cominciare a sperimentare relazioni e modi che seguano altre logiche. Riteniamo che il diffondersi della paura (paura dello straniero, della catastrofe, delle malattie, paura della paura stessa) sia una condanna politica ed esistenziale? Non resta che provare a non essere noi stessi relè di passioni tristi. Temiamo il consumismo e l’edonismo d’accatto come mezzi di alienazione? Si può allora tentare un’ascesi non consumistica e approfondire le relazioni – tenendo presente che nessuna azione s’invera senza inverare un collettivo che la renda possibile, e che nessun collettivo esiste prima delle azioni che lo fanno tale. E ancor più importante: pensiamo, o sentiamo, che la chiusura di orizzonte determinata dall’unus mundus neoliberista e dall’assoluta monofasicità delle nostre vite sia una prigione? Non resta allora che cominciare a rispettare i percorsi soggettivi divergenti, le conoscenze che gli altri praticano, le esperienze minoritarie, la storia e i modi dei collettivi compresenti sulla terra col nostro; imparare, dunque, a convivere con quella molteplicità, la cui presenza garantisce che quello che abitiamo non sia un inferno totalitario. Se c’è un margine, anche minimo, di scelta, va sfruttato per costruirsi come soggetti di quelle stesse passioni che vorremmo trovare nel mondo.34

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Ivi, pp. 330-331.

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